Se si può dimostrare che la
riforma bergogliana della procedura canonica altera il significato del
matrimonio cattolico, allora la dottrina viene intaccata e ci troviamo di
fronte alla possibilità dello “error in fide” manifesto da parte del Papa.
Tale dimostrazione è adombrata,
come possibilità, in una nota reperita su internet, che mi sembra giusto proporre
alla riflessione del lettori.
“Permanere nella verità di
Cristo” – Convegno internazionale in vista del Sinodo sulla famiglia, Roma, 30
settembre 2015.
Il prossimo pomeriggo del 30
settembre si svolgerà a Roma presso l’Angelicum un convegno
internazionale, in preparazione al Sinodo ordinario di ottobre, il cui
programma è illustrato da La nuova bussola quotidiana.
Un sinodo i cui drammatici
effetti sono stati ampiamente anticipati con i due m.p. Mitis et misericors
Jesus e Mitis Iudex Dominus Jesus, firmato lo scorso 15 agosto,
pubblicati l’8 settembre e che entreranno in vigore il prossimo 8 dicembre (qui
la conferenza stampa di presentazione)”.
1. Ed ecco il passo cruciale:
“In questi due documenti, in
maniera discutibile, è la nostra impressione (e speriamo rimanga solo tale e
possa essere smentita), a parte alcune altre criticabili innovazioni che pur
erano state anticipate a vari livelli ed avanzate dallo scorso sinodo
straordinario del 2014, si sia posto un grave vulnus alla teologia
dei sacramenti, degradando – pare di capire – la dignità di sacramento del
matrimonio a quella di…semplice sacramentale. In effetti, nel momento in cui si fa
dipendere [Regole Procedurali, art. 14 § 1], la validità o meno del matrimonio dalla fede
di alcuno dei nubendi (che è cosa ben diversa dalla tradizionale esclusione
della sacramentalità del vincolo), di fatto essa viene a soggiacere alla
santità dei suoi ministri (nel matrimonio i ministri sono i due nubendi!). Il matrimonio, dunque, non è più valido ex
opere operato, bensì ex operae operantis (cfr. CCC n. 1127-1128), ed il suo scioglimento
diventa, di fatto, un vero e proprio divorzio…Ci auguriamo che la nostra
sia solo un’impressione e che giunga un chiarimento adeguato.”
Commento del quisque de populo. Una cosetta da niente: il matrimonio che di
fatto scade da sacramento a contratto o ad accordo tra le parti, se la sua validità
viene a dipendere dalla buona disposizione interiore delle parti, qui
esemplificata dall’avere o meno (le parti) la fede cattolica autentica. Se uno dichiara che questa fede non c’era, nel
momento del sì fatale, allora il matrimonio non è più valido? Non c’è mai stato? Tra l’altro, come si fa a sapere che non c’era,
questa fede? Siamo alla presa in giro. I
“sacramentali” ci dice il CCC, 1667, sono “segni sacri [imposizione delle mani,
segno della croce, aspersione dell’acqua benedetta] per mezzo dei quali, con
una certa imitazione dei sacramenti, sono significati e, per impetrazione della
Chiesa, vengono ottenuti effetti soprattutto spirituali”. Il matrimonio cattolico diventerebbe allora
“una certa imitazione del sacramento” se la sua validita’ venisse a
dipendere dalla fede personale di ciascun contraente. Non sono, invece, “i
frutti” del sacramento che dipendono dalla disposizione personale di chi, in
questo caso, ne è il ministro? I frutti,
non la validità. La sua efficacia, non la sua validità.
2. Il testo sopra riportato
continua riproponendo la giusta dottrina, ribadita da Giovanni Paolo II
nel Discorso alla Sacra Rota del 30 gennaio 2003.
“L’importanza della
sacramentalità del matrimonio, e la necessità della fede per conoscere e vivere
pienamente tale dimensione, potrebbe anche dar luogo ad alcuni equivoci, sia in
sede di ammissione alle nozze che di giudizio sulla loro validità. La Chiesa non rifiuta la celebrazione
delle nozze a chi è bene dispositus, anche se imperfettamente preparato dal
punto di vista soprannaturale, purché abbia la retta intenzione di sposarsi
secondo la realtà naturale della coniugalità.
Non si può infatti configurare, accanto al matrimonio naturale, un altro
modello di matrimonio cristiano con specifici requisiti soprannaturali. Questa
verità non deve esser dimenticata al momento di delimitare l’esclusione della
sacramentalità (cfr. can. 1101 § 2) e l’errore determinante circa la dignità sacramentale
(cfr. can. 1099) come eventuali capi di nullità.
Per le due figure è decisivo
tener presente che un atteggiamento dei nubendi che non tenga conto della
dimensione soprannaturale nel matrimonio, può renderlo nullo solo se ne intacca
la validità sul piano naturale nel quale è posto lo stesso segno
sacramentale. La Chiesa cattolica ha
sempre riconosciuto i matrimoni tra i non battezzati, che diventano sacramento
cristiano mediante il Battesimo dei coniugi, e non ha dubbi sulla validità del
matrimonio di un cattolico con una persona non battezzata se si celebra con la
dovuta dispensa”.
Commento : È chiaro che, la “riforma” voluta dalla
“misericordia” di Papa Bergoglio segna più ancora che “una ferita al matrimonio
cristiano”, come ha scritto Roberto De Mattei, la fine del matrimonio
cristiano in quanto tale. La fine
perché di fatto si sposta l’accento dal piano oggettivo, quello dell’azione in
sé del Sacramento a quello soggettivo, delle disposizioni interiori dei
soggetti contraenti, finora giustamente limitato all’efficacia dell’azione del
Sacramento nei loro confronti e non esteso alla sua validità (che è appunto ex
opere operato, ossia intrinseca, inerente alla cosa in sé, perché stabilita
in quel modo da Dio).
Lo stesso De Mattei nel suo
articolo sottolinea, molto opportunamente, che al tradizionale e dottrinalmente
ineccepibile favor matrimonii si sostituisce ora un favor nullitatis,
inaccettabile anche dottrinalmente, “che viene a costituire l’elemento primario
del diritto, mentre l’indissolubilità è ridotta a un “ideale” impraticabile (articolo “Una ferita
al matrimonio cattolico”, CR). Infatti,
“l’affermazione teorica dell’indissolubilità del matrimonio si accompagna nella
prassi [d’ora in poi] al diritto alla dichiarazione della nullità di ogni
vincolo fallito. Basterà, in coscienza,
ritenere invalido il proprio matrimonio per farlo riconoscere come nullo dalla
Chiesa. È lo stesso principio per cui
alcuni teologi considerano “morto” un matrimonio in cui a detta di entrambi, o
di uno dei coniugi, “è morto l’amore”” (ivi).
Ma appunto l’introduzione di un
“favor nullitatis” è cosa contraria non solo alla prassi sin qui seguita nei
secoli dalla Chiesa ma anche alla sana dottrina. C’è quindi anche qui, mi
sembra, un risvolto dottrinale da indagare, un sotteso “error in fide”. Che consiste, a prima vista, proprio nel
contrapporre all’indissolubilità, stabilita dalla Prima e dalla Seconda Persona
della S.ma Trinità, il “diritto”dei singoli contraenti alla felicità
individuale, così come da loro intesa. In
sostanza, a far prevalere una pretesa che, nella gran parte dei casi, è frutto del diffuso edonismo oggi dominante. In questo modo, però, l’uomo prevarica nei
confronti di Dio.
3. Nel suo articolo il prof. De Mattei mette
anche opportunamente in rilievo gli effetti devastanti prodotti non solo
dall’abolizione della “doppia sentenza conforme”, già disastrosamente
sperimentata negli USA dal 1971 al 1983, ma anche dall’istituzione del vescovo
diocesano quale giudice unico che può istruire a sua discrezione un “processo
breve” per arrivare rapidamente alla sentenza.
A questo proposito, aggiungo che nella parte introduttiva del suo motu
proprio il Papa giustifica questa nuova attribuzione al vescovo come corretta e
necessaria applicazione dello spirito del Concilio Vaticano II : siamo di fronte all’applicazone della nuova
collegialità introdotta in quel Concilio.
Scrive infatti il Papa in Mitis
Iudex etc.:
a. “È quindi la preoccupazione
della salvezza delle anime, …a spingere il Vescovo di Roma ad offrire ai
Vescovi questo documento di riforma, in quanto essi condividono con lui il
compito della Chiesa, di tutelare cioè l’unità nella fede e nella disciplina
riguardo al matrimonio, cardine e origine della famiglia cristiana”. (Lettera
Apostolica in forma di “motu proprio” etc., “Mitis Iudex Dominus Iesus”,
w2.vaticanva/content/francesco/it/motuproprio etc., p. 2/15). E in questo modo è convinto di “tutelare la
disciplina riguardo al matrimonio”? Comunque
sia: il Papa si presenta qui soprattutto
come capo del Collegio dei Vescovi, vescovo tra i vescovi (vescovo di Roma) più
che capo della Chiesa universale. Per
questo dunque usa sempre il titolo di “vescovo di Roma”? Per far vedere, nello spirito del Concilio,
che egli agisce innanzitutto come capo del collegio dei vescovi, prima ancora
che come Capo della Chiesa universale?
b. Poco dopo, scrive: “Lo stesso Vescovo è giudice. Affinché sia finalmente tradotto in pratica
l’insegnamento del Concilio Vaticano II in un ambito di grande importanza, si è
stabilito di rendere evidente che il Vescovo stesso nella sua Chiesa, di cui è
costituito pastore e capo, è per ciò stesso giudice tra i fedeli a lui
affidati” (p. 3/15). L’insegnamento del
Concilio doveva esser evidentemente nel senso di conferire maggiori poteri ai
vescovi nelle loro diocesi, oltre che alle Conferenze Epicopali. In tal modo si dà la possibilità, ai vescovi
più aperti alle istanze del Secolo, di fare strame dell’indissolubilità del
matrimonio cristiano.
Come nota De Mattei, nei
tribunali da loro istituiti e diretti da loro, direttamente o per interposta
persona (da una “commissione non necessariamente formata da giuristi” - sic),“il combinato tra il can. 1683 e
l’articolo 14 sulle regole procedurali ha sotto questo aspetto una portata
esplosiva. Sulle decisioni peseranno inevitabilmente considerazioni di natura
sociologica: i divorziati risposati
avranno per ragioni di ‘misericordia’ una corsia preferenziale” (art. cit.).
Che significa qui “portata
esplosiva”? Bisogna chiarire, per capire
tutta la perversità di questa “riforma”.
Il can. 1683 CIC 1983 recitava:
“Se nel grado di appello si adduca un nuovo capo di nullità del
matrimonio, il tribunale lo può ammettere e su di esso giudicare come se fosse
in prima istanza”. Il can. 1683
riformato in funzione del processo più breve davanti al Vescovo recita:
“Allo stesso Vescovo diocesano
compete giudicare la causa di nullità del matrimonio con il processo più breve
ogniqualvolta:
1. la domanda sia proposta da
entrambi i coniugi o da uno di essi, col consenso dell’altro;
2. ricorrano circostanze di fatti
e di persone, sostenute da testimonianze o documenti, che non richiedano una
inchiesta o una istruzione più accurata, e rendano manifesta la nullità”.
Ed ecco il punto: quali sono o possono essere le circostanze
di cui sopra, chi le stabilisce? Sono
indicate, in un elenco provvisorio, proprio dall’art. 14 § 1 delle regole procedurali, l’articolo nel
quale si menziona la citata “mancanza di fede” . Ecco l’elenco non completo delle
“circostanze”:
“Tra le circostanze che possono
consentire la trattazione della causa di nullità del matrimonio per mezzo del
processo più breve secondo i cann. 1683-1687, si annoverano per esempio: quella mancanza di fede che può generare la
simulazione del consenso o l’errore che determina la volontà, la brevità della
convivenza coniugale, l’aborto procurato per impedire la procreazione,
l’ostinata permanenza in una relazione extraconiugale al tempo delle nozze o in
un tempo immediatamente successivo, l’occultamento doloso della sterilità o di
una grave malattia contagiosa o di figli nati da una precedente relazione o di
una carcerazione, la causa del matrimonio del tutto estranea alla vita
coniugale e consistente nella gravidanza imprevista della donna, la violenza
fisica inferta per estorcere il consenso, la mancanza di uso di ragione
comprovata da documenti medici, ecc.”.
Che vuol dire “ecc.”? Che ci troviamo di fronte a un “chi più ne ha
più ne metta”? Tutte queste “circostanze” si riagganciano a quelle
tradizionalmente invocate per la nullità manifesta del vincolo o rappresentano,
almeno in parte, una novità? La
“mancanza di fede” è sicuramente una novità, come si è visto. Ma se l’elenco delle “circostanze” non è
tassativo, ovvero rigorosamente delimitato nell’ambito delle norme del
codice, allora dobbiamo ritenere che la sua ampiezza sia lasciata alla libera
valutazione del vescovo “giudice” o dalla “commissione di esperti” da lui
controllata? In tal modo, allora, il
vescovo-giudice può creare lui il diritto da applicare, fabbricarsi lui la
norma nella forma di “circostanze” sempre nuove per dichiarare la nullità del
matrimonio. Esplosivo dunque il
dispositivo del can. 1638 e dell’art. 14 § 1 delle Regole procedurali, nel
senso che può far indubbiamente “esplodere” il matrimonio cattolico, distruggendolo
completamente.
Paolo Pasqualucci
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