Il Kant che tesse le lodi dei liberi pensatori, di
quanti cioè hanno scosso da sé il giogo
della tutela cattolica, è lo stesso Kant che esige obbedienza cieca nei confronti del sovrano e delle sue
decisioni.
Michele Federico Sciacca
“La metafisica creazionista, l'unica possibile
vittoria sul nulla, ci permette di conoscere
il nostro essere ontologicamente creature teistiche, il nostro essere
creati a Sua immagine e somiglianza.
Maria Adelaide Raschini
Il velenoso
soffio del neomodernismo, intensificato e accresciuto dalle intrepidezze suggerite
da una disarmante interpretazione del Vaticano II, ha fatto uscire dalla
memoria storica le riserve del re di Prussia sul criticismo ed entrare nella
teologia novista la smancerosa/avventurosa convinzione intorno alla possibilità
di avviare un dialogo serio, costruttivo e pio con la fumosa eredità di
Immanuel Kant (1724 - 1804).
I novisti contemplano con legittimo spavento
gli storici orrori della Germania neopagana ma ignorano (o fingono di ignorare)
che l'onesto Kant ha rovesciato le nebbie della foresta teutonica nelle
labirintiche e avvolgenti pagine delle Critiche, preparando e
illuminando gli imperi della nuova criminosa sofistica, tirannie alle quali si
sono seriamente opposti soltanto i cattolici fedeli alle indeclinabili verità
della teologia e della metafisica.
La filosofia kantiana, surreale pistola a
tappi velenosi, è stata, infatti, avversata e contrastata soltanto dalle
puntuali obiezioni formulate da studiosi cattolici d'alto profilo, ultimamente
da Carmelo Ottaviano, Michele Federico Sciacca, Cornelio Fabro, Etienne Gilson,
Maria Adelaide Raschini e Paolo Pasqualucci, gli autori che hanno svelato le
nascoste radici dei tossici paralogismi squillanti nelle venerate Critiche.
Alla confutazione della mitologia intorno al
tramonto - dopo Kant - della metafisica tomista, contribuiscono
recentemente i saggi di due giovani e animosi allievi di Evandro Agazzi:
Sebastian Kunkler (profondo conoscitore della lingua e della letteratura
tedesca) e Maurizio Duce Castellazzo (eminente giusnaturalista), autori dei due
avvincenti saggi raccolti in un volume (“IL PONTE DI REMAGEN. Le ragioni per
ripensare la dottrina kantiana circa la prova cosmologica dell'esistenza di
Dio”) pubblicato in questi giorni dalla romana casa editrice Vertigo.
Nell'introduzione gli autori sostengono
concordemente la necessità di riabilitare la filosofia perenne, “capace, nel
momento fondante e fondamentale in cui ogni persona sceglie se impostare la
propria vita sull'esistenza di un sommo Giudice o sulla tragedia della totale
mancanza di senso, di far pendere la bilancia sulla prima”.
Rammentano, inoltre, che “lo stesso Kant
riconosce che la metafisica risponde ad un'esigenza che non si può sopprimere,
questo dovrebbe già bastare per dichiararne senza esitazione la possibilità, ma
il filosofo di Konigsberg, al contrario, ci ha lasciato tutta una serie di
complicate argomentazioni che, fino ad oggi, in buona sostanza sono state prese
per buone”.
Nel saggio che occupa la prima parte
dell'interessante volume, Kunkler sostiene che una spregiudicata lettura del
testo kantiano attinge e svela la contraddizione che in esso si agita,
inducendo il lettore ad “ammettere che il circolo teoretico
criticista significa cadere nel monismo, in cui il contingente non è che un
modo di esistere non necessario dell'assolutamente necessario”.
L'eredità,
che la filosofia kantiana consegna ai nomadi in circolazione nel deserto
postmoderno, è l'illusione circolare, che attribuisce alla realtà contingente “una
modalità d'essere in se stessa; dunque l'assoluto necessario diventa causa
prima dell'ente contingente in quanto causa dell'energia ontologica (distinta
da esso) del contingente stesso, che diversamente non diverrebbe che un gioco
di maschere proiettate sullo schermo dell'assoluto”.
Se non
che attribuire alla realtà contingente una modalità d'essere in se stessa,
costringe ad ammettere che “l'assoluta necessità diventa causa prima
dell'ente contingente … così il criticismo risulta immediatamente identico
all'idealismo assoluto”.
Nascosto nelle pagine nebbiogene da Kant,
l'assoluto immanente si manifesterà rovesciandosi senza ritegni nella filosofia
di Hegel, divinizzazione degli assolutamente orrorosi atti della rivoluzione assoluta.
In altre parole: “ammettere il circolo
teoretico criticista significa cadere nel monismo o, forse, addirittura in un
monismo panteista, in cui il contingente non è che un modo di esistere non
necessario dell'assolutamente necessario”.
A conclusione di un penetrante esame delle
tesi criticiste, Kunkler afferma che la dimostrazione kantiana
dell'impossibilità di stabilire l'esistenza di Dio ha come luogo di verifica
l'ambito sintetico e metafisico di enti soprasensibili: “Infatti per
definizione gli oggetti metafisici sono appunto soprasensibili e asserirne l'impossibilità
di verifica sulla base del fatto che essi non sono appunto sensibili, non è una
dimostrazione ma un paralogismo”.
r
Dal suo
canto Duce Castellazzo dimostra che Kant stesso riconosce “la naturalità di
quel pensiero che porta dall'esistenza delle cose contingenti alla realtà del
loro Autore” e a conferma della sua tesi cita un brano della Critica
della ragion pura, in cui si ammette che “la prova [dell'esistenza
di Dio] comincia propriamente da un'esperienza, e perciò non è condotta del
tutto a priori, ossia ontologicamente. E poiché l'oggetto di ogni possibile esperienza
si chiama mondo, essa viene chiamata la prova ontologica”.
Duce
Castellazzo sostiene pertanto che “Kant non ha dubbi sul fatto che la
prova parte, propriamente, dall'esperienza: quindi non è condotta interamente a
priori o ontologicamente” e stabilisce altresì che tale ammissione “depone
contro le successive argomentazioni, in cui Kant cercherà di ricondurre
interamente la prova all'argomento ontologico”.
Specialmente
acuta e convincente è la confutazione dell'affermazione mediante la quale Kant
credette di escludere tassativamente la possibilità di rifiutare una serie
infinita di cause date.
Kant credette di aver dimostrato che i
princìpi di ragione non autorizzano tale conclusione neppure nell'esperienza.
Duce Castellazzo dimostra, invece, che è possibile “attribuire a cause del
tutto invisibili per noi, la responsabilità di effetti che, viceversa, si
trovano sotto i nostri occhi”.
Il
suggestivo esempio addotto per confutare e rovesciare il pregiudizio
antimetafisico di Kant contempla “uno scorcio di ferrovia, stiamo a guardare
un treno che stia appena uscendo da una galleria, sospinto da una locomotiva
posta in fondo al convoglio, fuori dalla nostra visuale: per quanto possa
essere lunga la teoria di vagoni, di cui ciascuno spinge il successivo, noi
saremo comunque certi che prima o poi, dovrà apparire, in fondo alla fila,
anche la motrice: una serie infinita di vagoni non assicurerebbe, infatti, la
realtà del movimento osservato – nemmeno se cingesse tutta la superficie
terrestre: avrebbe comunque bisogno, al suo interno, di un elemento che muova
senza essere mosso; la locomotiva, appunto”.
La
incombente mole degli scritti kantiani e lo squillo delle trombe accademiche,
che ne salutavano il trionfo indiscutibile, hanno scoraggiato la qualunque
obiezione al criticismo, abbassandola al livello di una stolta offesa alla
squillante Ragione.
L'avanzamento della ragione cattolica lungo
sentieri non segnati da abbagli kantiani e non interrotti da laiche scomuniche,
ha colpito duramente la filosofia dei luterani, assestando un duro colpo alle
presunte ragioni del sincretismo conciliare. E' pertanto dimostrato che le
avventurose opinioni teologiche, in discesa intrepida dal concilio pastorale
(teutonico) Vaticano II, corrono senza un motore, imitando (fino alla prossima,
inevitabile accoglienza dell'avviso gridato della ragione) i vagoni kantiani,
in movimento senza locomotiva.
Piero Vassallo
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