sabato 23 gennaio 2016

Un saggio sui riti dell'Italia antica: LO SPAZIO SPIRITUALE

 Nel museo nazionale di Perugia è conservata una pregevole e commovente scultura etrusca, che rappresenta, con straordinario realismo, un morente assistito dalla parca, in attesa di accompagnarlo nel viaggio nell'oltretomba.
 Si è tentati di azzardare che alla suggestione emanata dallo sconosciuto scultore etrusco sia ispirato il saggio, Lo spazio spirituale e i riti della morte nell'Italia antica, frutto della collaborazione dell'archeologa Federica Russo con il sociologo di scuola francofortese Fabio Ivan Spigola.
 Il saggio, edito da Solfanelli in Chieti, è una sagace esplorazione (attuata proseguendo sulla via di ricerca tracciata, a suo tempo, dal geniale etruscologo Massimo Pallottino e da Giano Accame, suo attento lettore) delle dottrine e dei riti officiati dagli antichi popoli d'Italia, nell'intento di propiziare il felice viaggio del defunto nell'aldilà.
 Nell'antichità impropriamente detta pagana, il nichilismo circolava soltanto in ristrette congreghe, filosofanti nei margini delle popolazioni di provata civiltà: “per i romani, come per gli etruschi, la sopravvivenza dell'anima era un'antica credenza, profondamente sedimentata”.
 Gli antichi italiani, infatti, offrivano ai morti un culto speciale, per un verso finalizzato a tramandare la memoria del defunto, per un altro a “recare conforto e perenne rinnovamento di vita alle anime immortali”, le quali, peraltro, godono del refrigerio procurato dalla beatitudine celeste.
 Gli autori del saggio giungono pertanto alla conclusione che “uno dei tratti che accomuna tutti i popoli civili è la sensibilità dei vivi nei confronti del luogo dove riposano i defunti”. E chiariscono che tale sentenza non ha origine soltanto dal legame sentimentale con i defunti, ma dalla fede nella sopravvivenza dell'anima.
 Il Cristianesimo eleva e nobilita il culto dei morti: “Chi resta sulla terra omaggia più il trapasso che il trapassato con una libagione di vino, di rado con una colazione detta agape. Agape che in realtà è la funzione eucaristica consumata nei cimiteri nell'anniversario della morte dei martiri e in altre importanti circostanze”.
 La teologia cristiana eleva il culto dei morti, ispirando una liturgia che, in qualche modo, imita la luce perpetua: “è nell'ombra che l'uomo ha bisogno di luce interiore, e per annullare l'impotenza dinanzi all'ignoto è bene portare appresso parte di quel chiarore che tanta importanza ha avuto nella vita”.
 Avvincente è la riflessione degli autori sul tramonto della civiltà degli etruschi, un popolo di cui “restano, monumentali e indimenticabili, la scia della loro epopea e gli echi della dottrina”. Un popolo che ha aderito a una misteriosa religione, che regolava la vita pubblica e privata.
 Dagli etruschi i romani, quantunque inflessibili nell'intenzione di separare lo spazio dei vivi da quello dei morti, apprendono la dottrina “che conferisce al funerale e alla successiva sepoltura una forte dignità. Anche per loto le celebrazioni durano nove giorni, periodo in cui si dispera, si sacrifica, si banchetta e ci si purifica, tutto per onorare il trapassato”.
 Non condivisibile è invece l'opinione, quasi di stampo rabelesiano, formulata dagli autori sul Cristianesimo, “crisalide del sapere”, che avrebbe ispirato un'arte degenerata, “propaganda in forme grottesche, tutte frontali, insensibili alla natura e orientate solo all'ideale”.


Piero Vassallo

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