Nel museo nazionale di Perugia è conservata
una pregevole e commovente scultura etrusca, che rappresenta, con straordinario
realismo, un morente assistito dalla parca, in attesa di accompagnarlo nel
viaggio nell'oltretomba.
Si è tentati di azzardare che alla suggestione
emanata dallo sconosciuto scultore etrusco sia ispirato il saggio, Lo spazio
spirituale e i riti della morte nell'Italia antica, frutto della
collaborazione dell'archeologa Federica Russo con il sociologo di scuola
francofortese Fabio Ivan Spigola.
Il saggio, edito da Solfanelli in Chieti, è
una sagace esplorazione (attuata proseguendo sulla via di ricerca tracciata, a
suo tempo, dal geniale etruscologo Massimo Pallottino e da Giano Accame, suo
attento lettore) delle dottrine e dei riti officiati dagli antichi popoli
d'Italia, nell'intento di propiziare il felice viaggio del defunto nell'aldilà.
Nell'antichità impropriamente detta pagana,
il nichilismo circolava soltanto in ristrette congreghe, filosofanti nei
margini delle popolazioni di provata civiltà: “per i romani, come per gli
etruschi, la sopravvivenza dell'anima era un'antica credenza, profondamente
sedimentata”.
Gli antichi italiani, infatti, offrivano
ai morti un culto speciale, per un verso finalizzato a tramandare la memoria
del defunto, per un altro a “recare conforto e perenne rinnovamento di vita
alle anime immortali”, le quali, peraltro, godono del refrigerio procurato
dalla beatitudine celeste.
Gli autori del saggio giungono pertanto alla
conclusione che “uno dei tratti che accomuna tutti i popoli civili è la
sensibilità dei vivi nei confronti del luogo dove riposano i defunti”. E
chiariscono che tale sentenza non ha origine soltanto dal legame sentimentale
con i defunti, ma dalla fede nella sopravvivenza dell'anima.
Il Cristianesimo eleva e nobilita il culto
dei morti: “Chi resta sulla terra omaggia più il trapasso che il trapassato
con una libagione di vino, di rado con una colazione detta agape. Agape che in
realtà è la funzione eucaristica consumata nei cimiteri nell'anniversario della
morte dei martiri e in altre importanti circostanze”.
La teologia cristiana eleva il culto dei
morti, ispirando una liturgia che, in qualche modo, imita la luce perpetua: “è
nell'ombra che l'uomo ha bisogno di luce interiore, e per annullare l'impotenza
dinanzi all'ignoto è bene portare appresso parte di quel chiarore che tanta
importanza ha avuto nella vita”.
Avvincente è la riflessione degli autori sul
tramonto della civiltà degli etruschi, un popolo di cui “restano,
monumentali e indimenticabili, la scia della loro epopea e gli echi della
dottrina”. Un popolo che ha aderito a una misteriosa religione, che
regolava la vita pubblica e privata.
Dagli etruschi i romani, quantunque
inflessibili nell'intenzione di separare lo spazio dei vivi da quello dei
morti, apprendono la dottrina “che conferisce al funerale e alla successiva
sepoltura una forte dignità. Anche per loto le celebrazioni durano nove giorni,
periodo in cui si dispera, si sacrifica, si banchetta e ci si purifica, tutto
per onorare il trapassato”.
Non condivisibile è invece l'opinione,
quasi di stampo rabelesiano, formulata dagli autori sul Cristianesimo, “crisalide
del sapere”, che avrebbe ispirato un'arte degenerata, “propaganda in
forme grottesche, tutte frontali, insensibili alla natura e orientate solo
all'ideale”.
Piero Vassallo
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