La guerra è il dramma che è. Al fronte e
nelle retrovie avvengono le uccisioni, alcune assai penose. Le prove da
sopportare sono spesso gravi, a volte estreme a causa d'un nemico criminale. I
civili soffrono e talvolta muoiono a causa del conflitto. La guerra può essere necessaria
e giustificata oppure no. Il soldato degno del suo servizio non la giudica, non
giudica la Patria, che essa abbia dichiarato guerra oppure no, che abbia fatto
bene o meno. Egli potrà dire la sua, a torto o a ragione, tornando civile,
sperando che sia capace di sagge valutazioni e che sia in buona fede.
Così ci sono due specie di militari. Quelli
che vivono male la guerra e in fondo non sono soldati, perché la ritengono
intollerabile, e quelli che l'accettano e possono trarne profitto morale e
spirituale. Ai numerosi casi di personaggi stimati nel mondo ma ingiusti, come
un Heminway (che si permise di giustificare la diserzione), un Remarque, un
Barbusse, fa felice risconto una schiera di combattenti e di eroi indiscutibili,
che testimoniarono il valore e l'accettazione del sacrificio proprio e altrui
(D'annunzio, Giosuè Borsi, Arturo Marpicati, Filippo Corridoni, Paolo
Caccia Dominioni e tanti altri, tra i quali Nino Badano).
Di quest'ultimo, di cui ho parlato in questa
rubrica a proposito della sua attiva fedeltà al Deposito della Fede e contro il
Concilio Vaticano II, sono riuscito a leggere le sue memorie Ritorno in A.O. pubblicate nel 1938, in una edizione del
1994. Si tratta di un ritorno nella memoria, che ripercorre le tappe dell'esperienza
di tenente nella Campagna di Abissinia del 1935-36.
Qualcuno avrà da criticarmi per aver
impostato un articolo con delle conclusioni apodittiche, che avrebbero dovuto
figurare alla fine. Ma ho voluto premettere tali affermazioni, purtroppo
oggetto di contestazione o di dubbi, in quanto superiori ad una individuale,
per quanto eccellente, loro conferma.
Il giornalista Nino Badano era stato
incarcerato e inviato al confino per aver mosso una severa critica al Duce.
Giova riportare un suo breve curriculum da lui stesso redatto: "Avevo 23
anni quando ho cominciato. Dirigevo il settimanale della Gioventù Cattolica
delle diciassette diocesi piemontesi. La prova direttoriale non è durata molto
perché una mia telefonata da casa ad un amico, telefonata nella quale
commentavo troppo vivacemente un'esortazione di Mussolini a 'odiare', mi ha
portato prima in carcere; poi, dopo una traversata in manette dell'Italia tra
due carabinieri, al confino in Calabria. Ero da poco tornato a casa dal confino
quando sono stato richiamato, con tutta la mia classe, come ufficiale per la
guerra di Etiopia. Al ritorno, radiato dall'albo dei giornalisti, non potevo
scrivere che nelle terze pagine di qualche giornale coraggioso, come l'Avvenire d'Italia di Manzini, e sulle
riviste letterarie più tolleranti, a cominciare dal glorioso Frontespizio, dove ho incontrato amici
indimenticabili. come Bargellini, Lisi, Betocchi, Giordani, Fallacara, Bugiani,
La Pira, Occhini, dell'Era, Soffici e altri, a Vita e Pensiero, a Maestrale
di Adriano Grande, a Incontro di
Vallecchi, a Meridiano di Roma, a Gioventù italica, a Pro-Familia, ecc. Poi è venuta l'altra guerra, che ho cominciato da
richiamato sul fronte greco e ho finito nelle baracche di prigionia dei lager
tedeschi. Il giornalismo vero e proprio ho potuto riprenderlo soltanto dopo:
prima a Torino al Popolo Nuovo, poi a
Roma al Quotidiano, che ho diretto
per 14 anni, al Giornale d'Italia che
ho diretto per tre e poi sul Tempo
dove sono stato per oltre venti anni fondista".
In una sua prefazione a Ritorno in A.O., Giano Accame osserva che "il ventisettenne Badano
(1911-1990)" era stato "fondatore e direttore di un fortunato
settimanale cattolico per bambini, Il
Vittorioso, e nel 1935 aveva pubblicato già un libro su Giosué Borsi nella collana dell'A.V.E.
dedicata a figure di cattolici segnalatisi per meriti patriottici: scritto in
Eritrea sotto la tenda, uscì mentre lui entrava ad Adua con il suo reparto di
esploratori". "Scopo della collana era rivendicare i titoli nazionali
dei cattolici in un periodo di rapporti difficili tra la Giac e il regine.
Titoli a cui Badano [...] contribuì di persona guadagnandosi in Africa
Orientale una proposta di medaglia di bronzo al valor militare".
Il diario di soste, esplorazioni, battaglie,
attraverso traversie d'ogni sorta e pause quasi idilliache dall'Eritrea al
cuore dell'Etiopia, ha un'intonazione nostalgica da capo a fondo, c'è un
rimpianto d'una vita felice, mai venata
di amarezze e recriminazioni. Per giunta egli usa sovente il "noi",
accennando all'armonia che regnava nel reparto, specie tra gli ufficiali; né degli
altri corpi dell'esercito risultano colpe e deficienze, anzi troviamo diversi
apprezzamenti. Soltanto verso i traffici mercantili incontrati durante le
operazioni belliche si nota un certo distacco del narratore.
"Giornate di marcia faticosa, di
avanguardia rischiosa, di combattimento, non sembrano più nostre tanto sono
lontane, e paiono impossibili tanto sono belle!" (pag.25-26). "Prima
notte solenne della nostra avventura; ancora non sapevamo quanto fosse bella:
bisognava vederla finita, passata, come oggi. Allora non avevamo che gioia e
impazienza di vedere, di consumare il tempo" (pag. 32). "Banchetto di
Pasqua! Primo giorno d'Africa e di marcia, indimenticabile giorno della nostra
giocondità!" (pag. 40). I commilitoni: "Sono una folla: una grande folla,
di anonimi, di cari compagni, senza difetti, senza scortesie. Ce me sono in
tutti i paesi visti, in tutti gli ambienti toccati, in tutte le circostanze
vissute" (pag. 42). "Ma ciò che si è dimenticato non importa; è bello
anche così. Bello anzi aver smarrito qualcosa: anche tanto, anche il più. È ciò
che è rimasto soltanto nostro, e sempre per noi!" (pag. 44). "Bastava
un cenno per intendersi, un'occhiata per spiegarsi, perché la nostra vita era
una sola, comune, ed era bella proprio per quella unità" (pag. 55). "Dopo
averla spiata per mesi dalle alture della vecchia Eritrea, dietro il baluardo
pauroso di queste montagne valicate; dopo averla nominata per mezz'anno con il
desiderio nel cuore e con un'ansia lieve nella voce, ecco ora in tre giorni
l'avevamo raggiunta; potevamo uscire dalla tenda a contemplarla. Adua era
nostra e l'avevamo presa noi" (pag, 81). "Non pareva vero di tornare
al fronte. E s'arrivava col volto mascherato di polvere, e cogli abiti coperti
di terra: non si riconosceva né grado, né reggimento. Presentarsi al colonnello
così, per dirgli 'tutto bene' era una soddisfazione; poi a vederlo contento e
compassionevole, si filava via allegri" (pag. 89). "Che cosa importa
aver lo zaino pesante, se la terra che si marcia è tutta conquistata, se le
valli che si percorrono mai nessuno le ha finora vedute, e le bellezze che i
nostri occhi godono, sono vergini e incontaminate dal giorno che il pensiero di
Dio le ha formate?" (pag. 129). "Verso sera quelli del genio
captavano il giornale radio e le lo portavano su a mensa; alla nostra mensa di
pietre, sotto l'acacia grande delle mitraglie nemiche [...] Dall'altra parte
andavano avanti, avanti e nessuno li poteva fermare: noi sempre fermi; si era
metà contenti e metà invidiosi: ma non c'era nulla da fare" (pag. 141). Il
ritorno a guerra finita: "Ripassavamo in un giorno le tappe fatte in
lunghe settimane di marcia. Era la nostra prima delusione, sentire meno vasta
quella terra conquistata" (pag. 151). "Si tornava ad essere soldati
con le giberne vuote, con la canna del fucile da tener lucida, con le scarpe da
tener pulite, con il posto da mantenere in ordine. Eravamo di nuovo soldati del
tempo di pace. Ecco ciò che avevamo perduto in quel furioso ritorno, tutto d'un
colpo, precipitosamente: la nostra bella vita di guerra" (pag. 153).
Piero
Nicola
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