martedì 24 gennaio 2017

RITORNO IN A. O. (di Piero Nicola)

  La guerra è il dramma che è. Al fronte e nelle retrovie avvengono le uccisioni, alcune assai penose. Le prove da sopportare sono spesso gravi, a volte estreme a causa d'un nemico criminale. I civili soffrono e talvolta muoiono a causa del conflitto. La guerra può essere necessaria e giustificata oppure no. Il soldato degno del suo servizio non la giudica, non giudica la Patria, che essa abbia dichiarato guerra oppure no, che abbia fatto bene o meno. Egli potrà dire la sua, a torto o a ragione, tornando civile, sperando che sia capace di sagge valutazioni e che sia in buona fede.
  Così ci sono due specie di militari. Quelli che vivono male la guerra e in fondo non sono soldati, perché la ritengono intollerabile, e quelli che l'accettano e possono trarne profitto morale e spirituale. Ai numerosi casi di personaggi stimati nel mondo ma ingiusti, come un Heminway (che si permise di giustificare la diserzione), un Remarque, un Barbusse, fa felice risconto una schiera di combattenti e di eroi indiscutibili, che testimoniarono il valore e l'accettazione del sacrificio proprio e altrui (D'annunzio, Giosuè  Borsi,  Arturo Marpicati, Filippo Corridoni, Paolo Caccia Dominioni e tanti altri, tra i quali Nino Badano).
  Di quest'ultimo, di cui ho parlato in questa rubrica a proposito della sua attiva fedeltà al Deposito della Fede e contro il Concilio Vaticano II, sono riuscito a leggere le sue memorie Ritorno in A.O. pubblicate nel 1938, in una edizione del 1994. Si tratta di un ritorno nella memoria, che ripercorre le tappe dell'esperienza di tenente nella Campagna di Abissinia del 1935-36.
  Qualcuno avrà da criticarmi per aver impostato un articolo con delle conclusioni apodittiche, che avrebbero dovuto figurare alla fine. Ma ho voluto premettere tali affermazioni, purtroppo oggetto di contestazione o di dubbi, in quanto superiori ad una individuale, per quanto eccellente, loro conferma.
  Il giornalista Nino Badano era stato incarcerato e inviato al confino per aver mosso una severa critica al Duce. Giova riportare un suo breve curriculum da lui stesso redatto: "Avevo 23 anni quando ho cominciato. Dirigevo il settimanale della Gioventù Cattolica delle diciassette diocesi piemontesi. La prova direttoriale non è durata molto perché una mia telefonata da casa ad un amico, telefonata nella quale commentavo troppo vivacemente un'esortazione di Mussolini a 'odiare', mi ha portato prima in carcere; poi, dopo una traversata in manette dell'Italia tra due carabinieri, al confino in Calabria. Ero da poco tornato a casa dal confino quando sono stato richiamato, con tutta la mia classe, come ufficiale per la guerra di Etiopia. Al ritorno, radiato dall'albo dei giornalisti, non potevo scrivere che nelle terze pagine di qualche giornale coraggioso, come l'Avvenire d'Italia di Manzini, e sulle riviste letterarie più tolleranti, a cominciare dal glorioso Frontespizio, dove ho incontrato amici indimenticabili. come Bargellini, Lisi, Betocchi, Giordani, Fallacara, Bugiani, La Pira, Occhini, dell'Era, Soffici e altri, a Vita e Pensiero, a Maestrale di Adriano Grande, a Incontro di Vallecchi, a Meridiano di Roma, a Gioventù italica, a Pro-Familia, ecc. Poi è venuta l'altra guerra, che ho cominciato da richiamato sul fronte greco e ho finito nelle baracche di prigionia dei lager tedeschi. Il giornalismo vero e proprio ho potuto riprenderlo soltanto dopo: prima a Torino al Popolo Nuovo, poi a Roma al Quotidiano, che ho diretto per 14 anni, al Giornale d'Italia che ho diretto per tre e poi sul Tempo dove sono stato per oltre venti anni fondista".
   In una sua prefazione a Ritorno in A.O., Giano Accame osserva che "il ventisettenne Badano (1911-1990)" era stato "fondatore e direttore di un fortunato settimanale cattolico per bambini, Il Vittorioso, e nel 1935 aveva pubblicato già un libro su Giosué Borsi nella collana dell'A.V.E. dedicata a figure di cattolici segnalatisi per meriti patriottici: scritto in Eritrea sotto la tenda, uscì mentre lui entrava ad Adua con il suo reparto di esploratori". "Scopo della collana era rivendicare i titoli nazionali dei cattolici in un periodo di rapporti difficili tra la Giac e il regine. Titoli a cui Badano [...] contribuì di persona guadagnandosi in Africa Orientale una proposta di medaglia di bronzo al valor militare".
  Il diario di soste, esplorazioni, battaglie, attraverso traversie d'ogni sorta e pause quasi idilliache dall'Eritrea al cuore dell'Etiopia, ha un'intonazione nostalgica da capo a fondo, c'è un rimpianto d'una vita felice,  mai venata di amarezze e recriminazioni. Per giunta egli usa sovente il "noi", accennando all'armonia che regnava nel reparto, specie tra gli ufficiali; né degli altri corpi dell'esercito risultano colpe e deficienze, anzi troviamo diversi apprezzamenti. Soltanto verso i traffici mercantili incontrati durante le operazioni belliche si nota un certo distacco del narratore.
  "Giornate di marcia faticosa, di avanguardia rischiosa, di combattimento, non sembrano più nostre tanto sono lontane, e paiono impossibili tanto sono belle!" (pag.25-26). "Prima notte solenne della nostra avventura; ancora non sapevamo quanto fosse bella: bisognava vederla finita, passata, come oggi. Allora non avevamo che gioia e impazienza di vedere, di consumare il tempo" (pag. 32). "Banchetto di Pasqua! Primo giorno d'Africa e di marcia, indimenticabile giorno della nostra giocondità!" (pag. 40). I commilitoni: "Sono una folla: una grande folla, di anonimi, di cari compagni, senza difetti, senza scortesie. Ce me sono in tutti i paesi visti, in tutti gli ambienti toccati, in tutte le circostanze vissute" (pag. 42). "Ma ciò che si è dimenticato non importa; è bello anche così. Bello anzi aver smarrito qualcosa: anche tanto, anche il più. È ciò che è rimasto soltanto nostro, e sempre per noi!" (pag. 44). "Bastava un cenno per intendersi, un'occhiata per spiegarsi, perché la nostra vita era una sola, comune, ed era bella proprio per quella unità" (pag. 55). "Dopo averla spiata per mesi dalle alture della vecchia Eritrea, dietro il baluardo pauroso di queste montagne valicate; dopo averla nominata per mezz'anno con il desiderio nel cuore e con un'ansia lieve nella voce, ecco ora in tre giorni l'avevamo raggiunta; potevamo uscire dalla tenda a contemplarla. Adua era nostra e l'avevamo presa noi" (pag, 81). "Non pareva vero di tornare al fronte. E s'arrivava col volto mascherato di polvere, e cogli abiti coperti di terra: non si riconosceva né grado, né reggimento. Presentarsi al colonnello così, per dirgli 'tutto bene' era una soddisfazione; poi a vederlo contento e compassionevole, si filava via allegri" (pag. 89). "Che cosa importa aver lo zaino pesante, se la terra che si marcia è tutta conquistata, se le valli che si percorrono mai nessuno le ha finora vedute, e le bellezze che i nostri occhi godono, sono vergini e incontaminate dal giorno che il pensiero di Dio le ha formate?" (pag. 129). "Verso sera quelli del genio captavano il giornale radio e le lo portavano su a mensa; alla nostra mensa di pietre, sotto l'acacia grande delle mitraglie nemiche [...] Dall'altra parte andavano avanti, avanti e nessuno li poteva fermare: noi sempre fermi; si era metà contenti e metà invidiosi: ma non c'era nulla da fare" (pag. 141). Il ritorno a guerra finita: "Ripassavamo in un giorno le tappe fatte in lunghe settimane di marcia. Era la nostra prima delusione, sentire meno vasta quella terra conquistata" (pag. 151). "Si tornava ad essere soldati con le giberne vuote, con la canna del fucile da tener lucida, con le scarpe da tener pulite, con il posto da mantenere in ordine. Eravamo di nuovo soldati del tempo di pace. Ecco ciò che avevamo perduto in quel furioso ritorno, tutto d'un colpo, precipitosamente: la nostra bella vita di guerra" (pag. 153).


Piero Nicola

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