Si è prodotto un evento storico
fenomenale: il discredito del giornalismo. Lo prova il successo dei partiti populisti, privi di tv e di quotidiani.
Se al M5s può aver dato una mano la rete di internet, la Lega è emersa attraverso
i mezzi di comunicazione, loro malgrado. Fino a ieri, le cose stavano come
descritto nel sottostante articolo di Domenico Giuliotti. Per chi nutrisse
qualche dubbio, gli basterebbe osservare il velenoso grido di bestia ferita
uscito dalle viscere di tutto il
giornalismo, di stampa, di tivù e di internet. Perciò vale la pena gustarci
questo pezzo del 1919, mai smentito prima.
Il
Giornale
È la peste, il
recipiente della peste e il veicolo della peste.
È l'opinione pubblica, la sputacchiera dell'opinione pubblica e la
manifattura dell'opinione pubblica.
È, nello stesso tempo, la scuola elementare e l'università
dell'ignominia.
È il punto medio nel quale s'incontrano l'alfabeto elevato fino ai
fastigi della sesta classe e il
frutto marcio universitario che vi cade sopra e vi si spappola.
Tutte le fungosità, le muffe, i veleni, gli scracchi, gli stracci, i
rigurgiti, i cancri, le feci e le schiume della vorticosa babilonia
contemporanea, sfognano nel giornale che rappresenta la caldaia satanica nella
quale fermentano e ribollono e dalla quale traboccano, in eclettiche fiumane di
lordura, sull'ebete grifo del mondo.
Questa vivanda, fatta d'oppio e di cantaridi, è schifata e desiderata,
comprata e masticata, inghiottita e rivomitata dalla moltitudine che avvelena.
Il giornale, dopo aver ripulito ogni mattina l'appestante orifizio anale
della società borghese, incarta il mondo.
I governi hanno bisogno dei giornali, come i giornali dei governi. I
governi influiscono sui giornali, come i giornali sui governi. È un'altalena
sguazzante dal fango al fango. Ora il governo è il padrone del giornale, ora il
giornale è il padrone del governo. Ora governo e giornale sono schiavi l'uno
dell'altro, e la moltitudine di tutti e due.
Da quando i re on discesi sul marciapiede e gli avvocati hanno occupato
la seggiola che ha preso il posto del trono, i governi sono stati sorretti o
abbattuti da un foglio di carta infetta.
Ecco il principale trionfo della democrazia trionfante.
Il giornale è la misteriosa divinità degli analfabeti che oltraggiano
Gesù Cristo. Dicono: "L'ha detto il giornale", e adorano.
Il giornale che, talvolta, si dà l'aria d'un paladino dell'onestà, ha
per illibata sorella la Scuola Laica. Ma di questa clarissa parlerò a parte.
Nel giornale, il lupanare dell'intelligenza comunica col lupanare del
basso ventre. Da porta a porta, è un andirivieni di quadrupedi.
Vi passa l'artista, il professore, il
banchiere, l'onorevole, la diva, il ministro, il prete, l'ebreo, la cocotte, il
poeta, il tenore, l'organizzatore, lo scienziato, l'avvocato, il ruffiano, il
massone, il saltimbanco, l'impresario, il traditore, l'impostore, l'imbecille,
il delinquente, il pazzo.
Odori e fetori, sprigionati dalla confricazione di questa fauna in
caldo, vi si mescolan dentro e vi sgorgano.
Talvolta gli odori puzzan più dei fetori.
Vi aleggiano il muschio della mondanità, il benzoino dello
spiritualismo, il cinnamomo dell'estetismo, la mirra del misticismo, la cipria
della tolleranza, il patchouli dell'eclettismo, l'incenso denaturato del
cristiano dei suoi tempi, il pot-pourri del cattolico liberale e democratico,
l'essenza di rose dell'illuminato conservatore che accetta la rivoluzione
purché si fermi alla prova generale e spari a salve, ecc.
Il "Giornale d'Italia", per esempio, raccoglie in un foglio a
parte tutte queste eiaculazioni profumate e le diffonde, fra mezzo giorno e il
tocco, per la terza Roma che ne fragra.
Quando i giornalisti profumieri si strizzan la vescica dell'Ideale,
bisogna, per neutralizzare l'olezzo, buttarsi a capo fitto in un pozzo nero.
Ancora ho nei buchi del naso tutti i trafiletti
cristiano-patriottici-cattolici che un molto piacevole moscardino spruzzava,
nel 1916, sugli eroici fetori del "grande" Giornale di Piazza
Sciarra.
Se
un uomo intelligente, nel significato etimologico della parola, s'infogna nel
giornalismo, diventa contemporaneamente melmoso e superficiale; e se si tratta,
mettiamo, d'un uomo addirittura di fede, o trasforma il giornale in una
mitragliatrice come il cattolico Veuillot, o diventa, suo malgrado, tollerante,
accomodante e scettico, e, infine, irrimediabilmente, anch'egli, farabutto e
bruto.
Ho
avuto dei quasi amici non ignobili, che il giornale, in poco tempo, ha
trasformati in qualche cosa di livido, di freddo, d'appiccicoso e di smorto.
Alcuni, passando a sguazzo per il giornale, vi perdono al tempo stesso
l'onestà e la grammatica.
Il giornalista è, in fondo, la parodia della potenza, il servitore
vestito da padrone, il feto dell'intelligenza che non si sviluppa né muore.
Quando questo falso dominatore si vanta di tirare i fili a una infinità
di burattini e di divertirsi al giuoco, è un bugiardo.
Vi sono dei burattini ai quali serve, ai quali s'inchina, ai quali lecca
i piedi e dai quali è fatto ballare e cantare.
Il cenciaiuolo analfabeta di prima della guerra, è già diventato i nuovo
padrone milionario del giornalista del dopo guerra. La lavandaia, sciaguattata
nel rigurgito sociale e promossa a diva del
cinematografo, impone al poeta mancato o al critico accapponato, che si
spollina sul giornale, l'articolo-réclame che dovrà trasportarla
definitivamente dalla conca alla gloria.
La borghesia plutocratica e tutti i suoi istrioni, mettono in moto, come
vogliono, l'istrione giornalista.
Questi non ha più l'istinto della ribellione né la libertà di scelta. Pagato
per difendere, a un dato momento, la causa di qualche bruto che s'addormenta,
dopo un'orgia, sopra un saccone di fogli di banca, ordinariamente (nonostante
lo stipendio, che varia dalle seicento alle mille lire al mese) la sua vera
funzione nel giornale è quella di non far nulla o di fare il furbo e lo scemo.
Tutto gli passa, come una melma grigia, sullo stesso piano; tutto gli
scola indifferentemente dalla penna, che loda tutto ciò che è piatto e
detestabile e finge d'ignorare tutto ciò che è nobile e alto.
Chi non paga, chi non gli è amico e complice, chi non è amico di chi lo
paga, il giornalista lo seppellisce nel silenzio. La mediocrità in corso, i
ciarlatani politici, i vitelli d'oro, i preti apostati, le ninfomani
letterarie, i tenutari di postriboli cinematografici e i maschi e le femmine
che vi fanno la vita, son l'oggetto
dei suoi panegirici, dei suoi inni e delle sue lodi più sperticate e
stomachevoli.
Per questo, è alternativamente accarezzato, temuto e disprezzato da
quello stesso borghese, baston da pollaio, che lo comanda e lo paga e che,
nonostante tutto, talvolta, gli sta perfino al disotto.
Ma se il borghese, in certi momenti, può disprezzare il giornalista, non
può disprezzare in alcun modo né in alcun momento il giornale. Il giornalista è
una cosa, il giornale è un'altra. Per il borghese, il foglio che tiene spiegato
fra le mani, è la divinità impersonale, l'enciclopedia perenne, il pensatoio
universale, l'imbuto che lo riempie, l'atmosfera che respira, l'ipse dixit.
Anche se dice che il giornale è bugiardo, il borghese è convinto del
contrario e, nel momento stesso che lo dice, lo compra.
Non
ho mai visto, per esempio, un considerevole droghiere che sorridesse
ironicamente di ciò che leggeva nel giornale.
Ma se quello stesso droghiere ti vedrà fare pubblicamente il segno della
croce davanti a un'immagine sacra, si sbellicherà dalle risa e ti piglierà per
pazzo.
Viceversa, se leggerà nel giornale che il prof. Demiporcoff ha scientificamente dimostrato che Gesù
Cristo non spirò sulla croce, ma rese l'anima per un subitaneo raffreddore
dovuto a un brusco squilibrio di temperatura, correrà subito a raccontarlo al
ciabattino, al parrucchiere o al tabaccaio di faccia e si feliciteranno insieme
d'esser nati nei tempi della Libertà, del Progresso, della Democrazia e della
Scienza.
Il giornale è come una nebbia pestifera che s'insinua in tutti i pori,
che sconvolge e sfarina tutti i cervelli, che abbassa e deforma tutte le anime,
che abbassa ancor più chi è già basso e che si spande più volte al giorno,
insatirendo o ammoscendo le moltitudini su tutti i punti della terra.
Quand'escono i giornali, tutta la strada è loro. Non è lo strillone che porta
i giornali, ma sono i giornali che portano lo strillone e lo fanno strillare.
Il giornale t'entra in tasca, t'apre la borsa, ti ruba i due soldi, ti
sporca le mani e il resto e scappa.
Nessuno si salva. Nello stesso giorno, t'assalta quattro o cinque volte
e ti sconfigge sempre.
Le tipografie dei giornali puzzano e strepitano sempre.
Le rotative e le linotype, scintillanti e unte, rumoreggianti e sporche,
rimacinan tutta la spazzatura della vita e la ributtan fuori a tonnellate.
Tutta la città la riassorbe e se ne sfama; e il di più lo esporta.
Nell'ore della partenza dei treni, l'automobili dei giornali (questi dèi
metallici mostruosamente gastro-intestinali), correndo vertiginosamente in ogni
senso, s'apron la strada a correggie e a rutti; e quando la loro peste
tipografica è stata scaricata nel "bello e orribile mostro", questo
la semina, come le budella d'una bestiaccia sventrata, per tutte le stazioni
del percorso, perché da ognuna, con altri treni, con altre automobili, con
superstiti diligenze e, in ultimo, per mezzo di malinconici postumi rurali, sia
trasportata e diffusa nei paesi, nei villaggi, nei casolari e perfino nei campi
e nei boschi.
Alla Verna, sotto il Sasso Spicco, mi ricordo d'aver trovato un pezzo di
"Giornale d'Italia", con una cronaca mondana di Diego Angeli.
Nel più folto della macchia maremmana o nel cuore della Sila, accanto a
un escremento umano, ci sarà infallibilmente un giornale.
Prima, come è noto, i boscaioli e i carbonai, per certe faccende
adopravano un sasso possibilmente rotondeggiante e granuloso; ma oggi,
beneficati anch'essi dalla civiltà onnipenetrante, preferiscon per quella
funzione, e non a torto, l'articolo di Rastignac o la primizia critica di
Benedetto Croce.
Il giornale è un cancro che figlia. Il nucleo velenoso centrale si
allarga, si moltiplica e si suddivide in innumerevoli pustole. La sua natura è
quella di diffondersi attaccando ogni fibra sana dell'organismo. Il grande
quotidiano politico partorisce il settimanale sportivo, letterario, agricolo,
cinematografico, il giornale illustrato della Domenica, il giornale pei
ragazzi, per gl'industriali, pei proprietari, per l'affittacamere, ecc.
In tal modo tutte le porcherie son raccolte, riparate, ricoperte e
involtate in fogli di carta stampata. Ciò che non è ancora putrido, cadendo nel
recipiente che gli viene preparato ed offerto, imputridisce.
Il "Corriere dei piccoli" (per esempio), mostriciattolo
velenoso in gran voga, generato ogni sette giorni dal "Corriere" dei grandi, si tira su a midolline di pane,
strofinate nel tegamaccio borghese, i futuri lettori dell'organo delle gomme
Pirelli ecc.
Il
giornale è, dunque, il cuore stesso dell'attuale civiltà
plutocratico-democratico-laica, e fa circolare il suo sangue infetto in ogni
membro del mostro. Se battesse stentatamente o cessasse di battere, la Bestia
Apocalittica boccheggerebbe e morrebbe.
Se non ci fossero i giornali diminuirebbero gli omicidi, i suicidi, gli
adulteri, la vendita della cocaina, le truffe all'americana, i poeti onanistici
e blenorragici, i romanzieri manipolafetori, i commercianti di patriottismo,
d'umanitarismo, di "films", ecc.
Tutte queste porcherie e questi porci si reggono sulla
"réclame" dei giornali: e tutti i giornali, in apparenza variopinti,
in sostanza verniciati di sudicio, si reggon sull'immondezza e sulle setole di
queste porcherie e di questi porci.
Se sparisse il giornale, la vertigine ritornerebbe moto, la cacofonia
armonia.
Più che dalla forza elettrica e dal carbone gli opifici e l'officine
d'ogni genere, con tutta la brutalità meccanica e proletaria che se ne
sprigiona, sono alimentate dai giornali.
Forse la vita, scomparendo il giornale, ritornerebbe semplice:
cesserebbero di fumare le ciminiere, di strepitare le macchine, di dissolversi
le famiglie, di scardinarsi le nazioni, di delirare le folle.
Cessata la illegittima funzione dei bastardi del pensiero, questa
sarebbe ripresa dei sapienti.
Allora si vedrebbero restaurati i troni, rialzati gli altari,
ricostruito l'edificio sociale, e calcata finalmente sotto il piede della
giustizia, quella bagascia rosso-sporca che i liberti, storcendo il significato
d'una parola divina, chiamano libertà.
Bisogna screditare il giornale, colpire il cuore del mostro, farne
vedere tutta la potenza malefica, tutta la bassezza morale, tutta la miseria
mentale, tutta la mediocrità, tutte le menzogne, tutto il grottesco, tutto il
ridicolo, tutti i pus.
E, soprattutto, non comprarlo.
Questo demoniaco mondo moderno, in apparenza invincibile, si regge,
forse, alla fin fine, sopra un puntello di carta.
Se qualcuno lo spuntellasse, la Torre di Babele cadrebbe.
E l'allegrezza, in alto, sarebbe grande.
Capitolo
estratto da L'ora di Barabba, 1922.
Piero Nicola
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