Lo studioso Luca Redig, alcuni
anni fa, in un bell’articolo sul quotidiano ‘Rinascita’ (Roma, I^ maggio 2005),
analizzando il fenomeno futurismo quale ‘esperienza totale’, ha rilevato che
“il Futurismo quale ‘esperienza totale’, che il ‘Futurismo, in nome della
realtà artistica e insieme speculativa dell’attualismo (e il fascismo in
termini politici e insieme istituzionali), dopo aver separato dal materialismo lo
spirito rivoluzionario, si convertiva in una specie di mistica dell’azione;
tensione verso un’azione che era volta per sé, come semplice trasformazione
della realtà”.
Che tutti tali indirizzi di
indagine abbiano preparato il terreno per l’avvento e l’affermazione del
futurismo - visto come pensiero e prassi, come teoresi e come azione, in
definitiva, come arte e vita - è confermato dai critici più eminenti, non
ultimo il filosofo Massimo Cacciari il quale, alla voce ‘Filosofia futurista’
del Catalogo della Mostra di Venezia nel ribadire testualmente, che “molteplici
correnti filosofiche confluiscono nell’’invenzione’ futurista”, ha evidenziato
quanto segue.
Dapprima, ad esempio, che il
Nietzsche futurista è un misero epigono dell’Unico stirneriano” mentre, resta,
al contrario, “profondo, invece, e costitutivo della poetica futurista il
rapporto con Bergson” e, in seguito, asserito che “la generale e violenta
reazione dei futuristi all’estetica crociana ha fatto velo alla comprensione
dell’essenzialissima presenza di motivi idealistici nel futurismo”.
Questo perché, a detta dello
studioso veneziano, sul futurismo non sono mai stati influenti Kant o Croce
quanto piuttosto “i tratti fichtiani (e perciò gentiliani-attualistici)”.
Riconfermato che l’estetica futurista è stata sempre lontana da quella
dell’idealismo storicistico, Massimo Cacciari ha concluso la propria disamina
sul pensiero futurista riconducendola alla filosofia dell’arte gentiliana.
La quale con maggiore pertinenza
di altre estetiche contemporanee rispondeva a quella istanza secondo cui
l’arte, appunto, è ineffabile ed inattuale e, come tale, da cogliere come una
specie di ‘slancio vitale’. Non a caso - sempre a proposito dell’arte - il
padre dell’attualismo affermava dantescamente ed icasticamente che “intender
non la può chi non la prova”.
Il futurismo, in altre parole,
per dirla con James Gregor, fu, certo, “l’espressione letteraria del
nazionalismo spinta all’iperbole”, ma conquistò pure “l’adesione di Giuseppe
Prezzolini e Giovanni Papini, uomini che influirono in maniera notevole sulla
vita e sulle lettere italiane attraverso giornali quali ‘Leonardo’, ‘La Voce’,
e ‘Lacerba’” (L’ideologia del fascismo, Ed. del Borghese, Roma, 1974).
Premesso con Mussolini, che
“senza il futurismo, non vi sarebbe stata rivoluzione fascista” (Taccuini
mussoliniani, a cura di Yvon de Begnac, Il Mulino, Bologna, 1990), bisogna
anche aggiungere che l’attualismo esercitò un influsso decisivo sulle tematiche
del lavoro che Marinetti seppe, di volta in volta, affrontare come segue. E,
cioè, sia quando scrisse che “il valore di ogni proprietà è un prodotto sociale.
Il possesso deve essere legittimato da una sociale utilità. La legittima
proprietà di ogni bene non può spettare che alla collettività; sia quando
ribadì che “il lavoratore non deve passare dal salario del privato a quello
dello Stato (Collettivismo), ma dello Stato deve servirsi per elaborare il
nuovo ordinamento economico che lo libererà dallo sfruttamento” (Per i figli
del domani).
I motivi della concezione
gentiliana del lavoro sono talmente evidenti che opportunamente Luigi Tallarico
non si perita di rilevare che “ci accorgiamo della valenza rivoluzionaria del
futurismo specialmente se congiunto all’intuizione della socializzazione,
manifestata da Marinetti prima che avesse pratica attuazione nel 1944” (Una rivoluzione
fondata sulla vita).
Lino Di Stefano
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