giovedì 31 dicembre 2009

Figure della destra suicida

Una lunga striscia di malintesi, flessioni e oniriche fughe accompagna la storia della destra a doppia identità - et destra et sinistra.
Nella prima pagina della paradossale storia si vede l’inchino “teologico” davanti al mito del progresso inarrestabile, eseguito dal tradizionalista padre Felicité de Lamennais: “Non si è mai vista una società, in cui il movimento progressivo della civiltà spinge incessantemente in avanti, rimontare alle sue sorgenti. Bisogna adattarsi con essa a seguire il corso delle cose che l’avvolge irresistibilmente e sottomettersi di buon grado ad una necessità la quale, anche se fosse deplorevole in sé, non sarebbe per questo meno invincibile. Ma per quel che s’è ora detto, né l’umanità in generale, né il cattolicesimo in particolare devono allarmarsi per questa grande trasformazione sociale, c’è piuttosto da riconoscere l’azione paterna continua di Dio sul genere umano”.
Sull’inginocchiatoio si vede anche Alexis de Tocqueville, rappresentante di una destra innamorata degli uomini di sinistra: “Al fondo delle istituzioni democratiche vi è una tendenza nascosta che fa sovente concorrere gli uomini alla prosperità generale, malgrado i loro vizi o i loro errori, mentre nelle istituzioni aristocratiche si scopre talvolta una segreta tendenza, che, a dispetto dei talenti e delle virtù, li trascina a contribuire alle miserie dei loro simili. E così può capitare che, nei governi aristocratici, gli uomini pubblici facciano il male senza volerlo e che nelle democrazie producano il bene senza saperlo”.
Dall’elenco flessuoso non si può escludere il fondatore del Partito Popolare, don Luigi Sturzo, uomo peraltro colto e integerrimo.
Sturzo, pur essendo capo di un movimento che intendeva ottenere il consenso del popolo tradizionalista, riteneva impossibile attuare una politica coerente con i princìpi della tradizione senza il decisivo contributo dei socialisti, che militavano nel campo dell’anti-tradizione.
Coerente con il pregiudizio a favore dei socialisti, don Sturzo, durante il congresso del Partito Popolare, che si tenne a Bologna nel giugno del 1919, prima fece bocciare la mozione di Olgiati e Gemelli, mozione che sollecitava il partito ad abbandonare l’impostazione aconfessionale e a farsi carico dei problemi della Santa Sede (ossia a promuovere un concordato tra Chiesa e Stato) poi espulse dal partito tutti i militanti della corrente di destra, che puntualmente si rivolsero al partito di Mussolini (al riguardo cfr.: Gerlando Lentini, “Il partito popolare italiano 1919 - 1926”).
Il risultato ottenuto da Sturzo nell’intento di catturare l’amicizia dei socialisti fu catastrofico: una tagliente nota, pubblicata nell’ufficioso ma allora autorevole Osservatore romano, invitava gli osservatori e i commentatori dei fatti della politica a non confondere la tattica del Partito Popolare con i cattolici d’Italia.
Di qui l’inizio del crollo dei popolari e il conseguente successo di Mussolini, che invece dichiarava l’intenzione di promuovere la pace tra Cattolicesimo e Italia.
La gratuita ammirazione per le sinistre non portò fortuna neanche ai democristiani, che furono trascinati dai socialisti in un’avventura politica, che produsse riforme dissennate e stati d’animo alterati, prima di trascinare gli “aperturisti” democristiani nella macchina tritacarne costruita dalla magistratura di sinistra.
Purtroppo il fallimento dei cattolici sinistrorsi non fu previsto da Rauti, il quale, obbedendo alla cultura relativista insegnata da Armandino Plebe e dai suoi caudatari francesi e italiani, commise lo stesso errore che fece fallire popolari e democristiani. Rauti, infatti, inventò una destra di sinistra, che, con lui, avanzò fino alla soglia dell’estinzione.
Quello che sorprende è la scelta del successore di Rauti, Gianfranco Fini, il quale, radunati i rautiani d’ultima e ignara generazione nel pensatoio intitolato “Fare futuro”, sta percorrendo la strada rovinosa che portò il rautismo ad affondare nelle acque del Titanic, al suono degli inni trionfali eseguiti dall’orchestrina neodestra.
Chi ascolta le sconcertanti serenate che Fini canta a squarciagola sotto i balconi del Quirinale (con l’evidente intenzione di alimentare le speranze di una sinistra sgangherata e perdente) non può non concludere che se Fini avesse una cultura sarebbe un piccolo Rauti.
Attendibili sondaggi, infatti, dicono che un eventuale partito di Fini non otterrebbe più del 4% dei voti.
Coraggio, onorevole presidente della camera, ancora un passo a sinistra ed avrà raggiunto la fatidica quota Rauti.

Piero Vassallo

mercoledì 16 dicembre 2009

Fini interprete di Pirandello

Non si può penetrare nel Fini – pensiero (ammesso che un pensiero ci sia) senza il preventivo esame del ruggente pirandellismo calato nella biografia di Giorgio Almirante, che di Fini fu inventore, maestro e guida.
Prima di Fini, Almirante ha sofferto la struggente gelosia, rivivendo il dramma ghibellino del pirandelliano Enrico IV.
Due decenni della storia almirantiana, infatti, furono tormentati dall’invidia contro il cattolico Arturo Michelini, suo vincente rivale nel Msi e ovvia personificazione del Gregorio VII di pirandelliana e guelfa memoria.
Almirante, cui lo specchio ripeteva “Sei bello, colto, intelligente, fascinoso, mentre Michelini è brutto, incolto, opaco e sciocco”, soffriva a causa del successo che arrideva al rivale. Di qui un’opposizione livida, ringhiosa, viscerale, implacabile. Ma sempre perdente.
Alla fine Michelini morì di morte naturale e Almirante ottenne (proprio da Michelini!) l’agognata segreteria del Msi.
Salito al potere nel 1968, Almirante capovolse la politica del detestato predecessore inventando due personaggi idonei a rappresentare l’antitesi perfetta della politica di Michelini: Armando Plebe e Gianfranco Fini.
Reclutato nel salotto di un editore chic, Plebe personificò il nulla parlante al vuoto, ovvero la rumorosa antitesi della filosofia professata dai collaboratori di Michelini, Ernesto De Marzio, Nino Tripodi, Pino Romualdi, Giano Accame e Fausto Gianfranceschi.
In esecuzione del piano almirantiano, Plebe liquidò l’ingente e nobile eredità della cultura della destra cattolica. Ignorò o censurò i contributi di Niccolò Giani, Guido Pallotta, Francesco Orestano, Balbino Giuliano, Giorgio Del Vecchio, Carlo Costamagna, Guido Manacorda, Armando Carlini, Attilio Mordini, Vanni Teodorani. Disprezzò gli illustri studiosi che collaboravano con Giovanni Volpe, Ettore Paratore, Augusto Del Noce, Marino Gentile, Ennio Innocenti, Francisco Elias de Tejada, Francesco Grisi ecc. Avversò e isolò i giovani intellettuali cresciuti nelle scuola di formazione fondate da De Marzio: Fausto Gianfranceschi, Primo Siena, Gianfranco Legitimo, Fausto Belfiori, Silvio Vitale, Gianni Allegra, Giuseppe Tricoli, Paolo Caucci ecc. Importò la neodestra francese, preparando il terreno agli intellettuali che oggi costituiscono la corte s-pensante di Fini.
Plebe traghettò la destra sulle sponde del nulla laicista e ghibellino. Almirante inventò e impose alla riluttante base giovanile il suo delfino. Fece avanzare sulla passerella dell’anti-tradizione il qualunquismo mentale di un giovane alto, belloccio, altero e vuoto come il Plebe – pensiero: Gianfranco Fini.
Fini rappresenta la vendetta ghibellina e pirandelliana di Almirante: una pugnalata alla memoria di Michelini - Gregorio VII.
La fortuna di Gianfranco Fini comincia dalla scelta pirandelliana di Almirante e continua con la raccolta dei biglietti della lotteria, seminati dall’autolesionista Martinazzoli e dal (troppo) generoso Berlusconi.
Dove arriverà Fini nessuno può dirlo, neppure lui. Il suo futuro sta in mezzo alle righe dei possibili finali di un Enrico IV classico e/o rivisitato.
Finale pirandelliano:. Enrico IV (alias Fini) abbatte Gregorio VII (Berlusconi): cala la scena, la reggia si trasforma in luogo d’isolamento e di strombatura. L’imperatore immaginario (Fini-Enrico IV) rimane per sempre prigioniero del gesto insensato.
Finale secondo Casini & Rutelli. Enrico IV (Fini) raccoglie la banda degli invidiosi, degli incompiuti e degli improvvisati e scende in campo contro Berlusconi. Finale improbabile, perché Fini ha lingua per parlare ma non carattere per lottare. Sopra tutto non ha un esercito al seguito. Con Bocchino e la Meloni non si va da nessuna parte.
Conclusione probabile dello psicodramma: Fini si rende conto di battere una strada senza sbocchi: accompagnato dalla principessa Matilde (la Prestigiacomo sarebbe un’attrice ideale per tale parte in commedia) si reca a Canossa e, inginocchioni davanti a Gregorio VII – Berlusconi implora e ottiene il perdono.
Cala la tela e il duo Casini – Rutelli … Ma questa sarebbe un’altra commedia pirandelliana: i nani e i pifferi della montagna.

Piero Vassallo

http://artrc.blogspot.com/2009/12/fini-interprete-di-pirandello.html