sabato 31 gennaio 2015

PLUTO E L’ONORE (di Piero Nicola)

Anche il nome del bravo cane di Topolino e i suoi fumetti coprono l’idolo infernale. Ma questo tema mi porterebbe lontano.
  Gli antichi veneravano molti dei, buoni e cattivi, uno per ogni problema vitale, certuni propizi ai bisognosi in diverse occorrenze. Ogni temperamento o mestiere aveva un simulacro a cui votarsi. I romani erigevano un’edicola ai penati, protettori del focolare domestico. E chi più ne ha, più ne metta.
  Persino quelli che la società castigava come malfattori, sacrificavano a un loro nume tutelare. I ladri potevano affidarsi a Mercurio; le meretrici avevano dove consacrarsi e mettere la loro professione al riparo dal pubblico ludibrio e dalle ire delle donne per bene.
  Un tempio ospitò tutte le divinità, piccole e grandi, dalle discutibili e particolari, a quelle patrie o universali, cui recavano il loro omaggio i magistrati e coloro che davano lustro alla nazione.
  Una religione così multiforme e anche intimamente contrastata non aveva fibra per durare; e non durò. Fu rovesciata da un Dio. Un solo tempio e una sola legge regolarono l’esistenza comune da cima a fondo. I suoi sacerdoti e paladini vinsero per lunghi secoli quanti volevano portare cambiamenti. Dopo innumerevoli traversie, l’empietà riuscì a infliggere alla Religione colpi durissimi. Finché gli adoratori dei godimenti terreni sono pervenuti a piegarla ai loro voleri.
  Ma il vittorioso non è mai sazio, specie quando ciba e carezza i suoi sensi grevi. Del resto, non si fa a meno di credere e di sperare; occorre sollevarsi da sazietà e fallimenti, che seguono a ogni conquista. Senza contare i denutriti e quelli che stentano a seguire l’andamento creando fastidi.
  L’essersi aggrappati al benessere non ha riportato le genti al paganesimo vero e proprio, politeista. La storia si ripete, però con varianti. La passione per un essere e l’averlo per sé, l’ambizione di raggiungere un traguardo, di primeggiare, e il riuscirvi eventuale, il procurarsi le ebbrezze dionisiache, le loro evasioni, essendo tutte imprese e soluzioni che non bastano a se stesse, ed essendo ormai morti gli dei o la fede in essi, si è riposta la fede nello strumento che procura ogni cosa: il Denaro. Anche gli ultimi credenti, quando non mantengono fattucchiere e santoni, praticano la larva del vecchio culto  per cura psicologica e per scaramanzia.
  Esaurita la vena del superstizioso fidare nelle potenze ultraterrene che rendono perfetti i desideri e i sollazzi, che rendono felice la loro esperienza, almeno in un vario e ininterrotto seguito di grate consumazioni, i contemporanei si sono affidati al potere danaroso con cui – essi ritengono – sarebbero abili a darsi la felicità col carpe diem, cui segue il Nulla a cui è inutile pensare. Se non fosse così, perché l’aspirazione a diventar ricchi, o maggiormente agiati, manifestata dalle lotterie e dal boom dei giochi d’azzardo?
  Si è dunque rimasti nel monoteismo: Pluto è il solo nume credibile. Egli si materializza nelle banconote, nelle monete sonanti. Molti sacrificano se stessi per averlo, molti confidano nel fato che lo distribuisce, e portano l’obolo all’altare del Gioco. La vista dell’abbondanza di Pluto attira al suo possessore bellezze e profferte. Scompare il fatto che nella libera concorrenza si mettono da parte gli scrupoli; scompare la virtù che ripaga, riposta nella disciplina della vita dura. Chi ricorda ormai il vecchio dio dalla cornucopia pendente, accecato da Zeus, nella commedia dello scettico Aristofane? O il mostro dalla “voce chioccia” incontrato da Dante sulla soglia del quarto cerchio infernale degli avari? Non di certo Benigni, che chiosa il Sommo Poeta a modo suo.
  Guadagnare, accumulare proventi rassicura, fortifica, alza il morale. E dopo questa messe opima? Bisogna impiegare i soldi, difendere il capitale. Qualcuno non si preoccupa, va avanti, investe, si ingrandisce, fiuta e inizia nuove attività. Non è però immune da scivoloni. Ad ogni modo, resta chiuso nel suo ciclo. E chi sta digiuno e supplisce con voli immateriali è un incompreso. La scala per salire alle altezze che depurano e ricompensano, alle letizie che non si comprano, è visto in un buio recesso; quando s’intravede la Scala santa, essa assomiglia a un calvario ingrato.
  I ministri e i singoli minuti parlano inutilmente di lavoro, di occupazione, di libertà acquistata con la produzione e i consumi, di tenore di vita che procura la dignità e le egregie realizzazioni delle proprie attitudini. Chiacchiere. Tutta l’economia è foggiata per il conseguimento dei sollievi mitologici ottenuti con la bacchetta magica di Pluto. Ognuno non dubita di saperla adoperare facendo sì che le sue brame approdino alla felicità.
  Essere o avere? Questi corni filosofici, che qualcuno osava ancora agitare oziosamente alcuni decenni addietro, sono svaniti nel culto unanime, disincantato. Avere denaro per gioire. E le delizie effimere, intossicanti, ma avvincenti, che col denaro si afferrerebbero, si distillerebbero e consoliderebbero, vanno in una alterna e complessiva consumazione, vanno in fumo e sterile putredine. Poiché dipendono dal moderno Pluto, esse ne assumono la qualità. Il suo fedele che non riceve la grazia da lui e spera e dispera, magari si compra la dose che lo manda nel paradiso artificiale da cui esce più malconcio di prima; chi invece ottiene la grazia, si rammarica di non averne abbastanza e anela ancora. “Quale gioia resiste con scarsità di pecunia?” il popolo pensa e lì s’infogna. “Senza una congrua entrata, non c’è scampo”. Lo scampo dell’evanescente bene che si compera e si riprende al mercato.
  La vista più ampia della soggezione a Pluto, l’abbiamo avuta con la nostra resa alla legge di Bruxelles: la potestà senza Dio.
  Un capo del governo vendette l’onore e il sangue della Patria in cambio di affari che avrebbero rinsanguato il nostro erario, e di qualche altro pur desiderabile giovamento. Egli negoziò quello che non è negoziabile: una dote spirituale impagabile, come la verginità o la fede dei padri. 
  Non vale la pena di andare in cerca delle nostre colpe e degli errori, per i quali egli stracciò d’un sol tratto una veste ritessuta e consacrata da sudore operaio e sacrificio di soldati su un lembo d’Africa, ormai da tempo restituito a coloro i quali lo possedettero logoro e mencio, in mano ai turchi.
  Qualsiasi azione nazionale – rammentiamolo - contiene nei e tacche, dev’essere valutata nel suo insieme; col trascorrere del tempo il suo prodotto può mutare. Risalendo nel tempo, la Libia fu romana e cristiana, la Palestina fu bizantina e cristiana. Gli ebrei risalirono ai secoli avanti Cristo per stabilire il loro diritto ad avere uno stato in Palestina. Inoltre le conquiste di terre infedeli in nome della civiltà cattolica ebbero, e conserverebbero, una giustificazione superiore, perché l’opera di evangelizzazione è dovuta, e anche chi non lo ammetta, dovrebbe riconoscere il merito di portare la legge naturale nelle contrade che la vilipendono. L’ONU non si attribuisce forse il dovere di ristabilire ovunque i suoi diritti umani? Ne convengono i progressisti, che propugnano l’instaurazione anche forzata di quei presunti diritti nei luoghi in cui alcuni di essi sono rifiutati.
  Non basta. Ministri italiani che sostennero l’intervento della Nato nel Kosovo, provincia serba, sono oggi ritenuti degnissimi di ricoprire le cariche più alte della Repubblica. Ma il diritto all’autodeterminazione delle genti, che si riappropriano delle loro terre, è oggi dagli stessi ministri negato alla maggioranza di etnia russa che vive nelle province dell’Ucraina.
  La libica farina del diavolo è pure andata in crusca. Dopo aver venduto a Gheddafi la patria dignità, si è venduto il patto stretto col lui al suo nemico, raccogliendo un pugno di polvere.
  Gli italiani hanno assistito quasi indifferenti alla cacciata dell’onore nella pattumiera. Tutto ciò per vile interesse preposto all’interesse superiore. Ai sinceri riluttanti di fronte all’alienazione ideale, è toccato l’appellativo di retrogradi. E’ stato l’ultimo atto di un crescendo cominciato con l’abbandono del proprio posto e del campo di battaglia attuato dal sovrano fuggiasco e dai suoi generali, subito dopo la revoca d’una alleanza in guerra con una resa nascosta e unilaterale, cui seguì subito l’alleanza col campo avverso. Di seguito, vennero i trattati di pace vituperosi, le menzogne ufficiali sulla storia appena trascorsa e l’avvilimento della nostra sovranità.
  L’onore non è soggetto al lucro e alla convenienza politica, nemmeno alla preservazione della vita. Esso ne è il lievito soave, è un filo d’oro nella corda che sostenta l’esistenza. La corda, snervata, allentata, cede all’inerzia del suo composto infermo, alla discesa nel deterioramento. L’oblio dell’onore forma un sepolcro orribile, lugubre affatto. L’onore trattiene a sé le sue caste sorelle, le purità bistrattate, derise fonti d’ogni bene. La chiusura sul loro splendore è vendicata dall’infinita emanazione della morte.


Piero Nicola

venerdì 30 gennaio 2015

Giovanni Pascoli e gli animali da cortile

 Quasi sollecitata dall'intenzione di smentire la sentenza dantesca sulla "circular natura", che "non distingue l'un dall'altro ostello" (Par. VIII, 127 e 129) e perciò impedisce la trasmissione delle virtù da una generazione all'altra — ”esser diverse convien di vostri effetti le radici" —  ecco farsi avanti la giovanissima Maria Cristina Solfanelli, a rappresentare, mediante una dotta e affettuosa lettura della passione animalista di Giovanni Pascoli, la continuità delle virtù familiari oltre i limiti stabiliti dalla genetica dantesca.
 Una inconsueta, imprevedibile irruzione, quella di Maria Cristina, che viola l'antica, collaudata legge contemplante le ineguali attitudini e virtù dei discendenti da un unico ceppo, nel suo caso la profondità della critica letteraria e l'eleganza della scrittura dei Solfanelli, Marino e Marco. 
 Notevoli e sorprendenti le felici qualità della giovanissima, esordiente scrittrice. Maria Cristina è nata nel 1991 ma adulta è la sua passione per il vero, il suo senso del bello, la sua precoce e straordinaria erudizione, la sua (oggi rara) familiarità con il vocabolario e con la sintassi, la limpidezza del suo stile, il calore che rovescia (ad esempio) nelle limpide pagine dedicate agli animali di casa Pascoli.
 Un italiano autentico e armonioso, vibra nelle pagine dell'autrice dell'avvincente saggio Pascoli e gli animali da cortile, edito da Tabula Fati in Chieti. Un'opera di erudizione, che affida a pagine di bella e attraente scrittura le non facili questioni sollevate dalle scortesi dispute di filosofia e letteratura di fine Ottocento. Obiezioni ripetute dalle febbrili e nascostamente settarie allergie, che prudono nei cuori spenti dei cittadini della nuova Babilonia. Ostacoli che Maria Cristina affronta e ridicolizza con autorità sorprendente in una scrittrice giovanissima.
 L'ammirazione di Pascoli, infatti, è sconsigliata dal potere culturale instaurato dal debolismo in circolazione nelle rughe mentali degli scolarchi, menomazioni scavate dal positivismo & dal materialismo, chimere filosofiche, costituzionalmente refrattarie alle emozioni destate dagli incantesimi della vera poesia, specialmente di quella pascoliana, che confina colpevolmente con il mistero, all'ombra del destino ignoto. 
 Scrive Maria Cristina: "Le tematiche che il Positivismo rifiuta di affrontare, e che Pascoli via via elabora nel suo pensiero e nella sua poesia, appartengono alla sfera che ciascuno intuisce oltre la realtà fenomenica, cioè al mondo dell'ignoto e dell'infinito, alla dimensione e al problema dell'angoscia dell'uomo e al sentimento della fine della vita" .
 La sciatteria meccanica e progressiva ha ridimensionato e censurato l'alta parola del poeta, che esaltò la "patria nobilissima su tutte le altre", l'Italia romana, grande proletaria che ha combattuto per conquistare la quarta sponda, sede di un futuro diverso dall'umiliante emigrazione nelle Americhe.
 La solidarietà con il popolo italiano è espressione di alcune scelte di fondo "che Pascoli rivolge soprattutto alla ricerca di ciò che è buono, di ciò che migliora l'individuo e di ciò che ne assicura un reale sviluppo, egli, infatti sogna una società di piccoli possidenti rurali", e perciò apprezza l'intenzione italiana di conquistare le terre che la colpevole neghittosità dei libici consegna all'avanzante deserto.  
 La censura laicista, inoltre, nasconde come una vergogna i versi religiosi del poeta dell'Angelus, dell'Avemaria, della Buona Novella, di Suor Virginia, del Viatico.
 La coscienza dell'oscurità che avvolge l'universo - "nella prona terra troppo è il mistero" - dispone il poeta romagnolo a "dare voce alla sensibilità e all'innocenza infantili, presenti in noi pur quando si diventa adulti".
 Una disposizione che disturba la frotta laicista, caduta in ammirazione, in ossequio al foglio d'ordini scalfariano, del tenebroso nichilismo neognostico, in corsa dalle funeree Operette morali alle colonne del desolato progressismo.
 Il fanciullino, dunque, non è figura di uno squallido tenerume, ma il simbolo dell'invincibile purezza del sentimento che sfida l'impotenza della ragione. 
 Al lettore d'oggi il testo di Maria Cristina consiglia di distinguere l'amore che Pascoli nutre per gli animali dalla suggestione che agita gli animalisti, in corsa sulla pista di un panteismo de noantri, finalizzato allo svilimento della dignità umana.
 Pascoli non essendo vittima di tali stati d'animo diede ali poetiche al suo amore per tutti i viventi: "Nella sua opera di scavo, in cui il mondo animale e quello - più esteso - della natura tratteggiano le segrete corrispondenze con la vicenda esistenziale del poeta, cioè di creatura vivente che in quanto soffre si conosce, giunge a delinearsi pienamente la coscienza delle cose e a tramutarsi, appunto, in contenuto di ricordo". 
 Negli scritti pascoliani, peraltro, gli animali sono spesso associati al lavoro dei campi "e a quel mondo agreste e contadino che rappresenta per il poeta la dimensione alternativa alla società industrializzata e tecnologica dei suoi giorni".
 La simpatia di Pascoli per gli animali non nasconde le differenze strutturali e non naufraga nel delirio egalitario che agita gli ecologisti estremi. La superiorità dell'intelletto umano, la differenza che corre tra il tempo degli uomini e la truce ora dei lupi non è in discussione, e lo ricorda opportunamente l'autrice: "Tutti gli animali ignorano la realtà della Morte, eppure ne hanno paura e la fuggono per istinto. L'uomo, invece, ne ha piena consapevolezza e riconosce quella presenza come incalzante e minacciosa".
 L'animalismo poetico di Pascoli, inoltre, è impastato in quella nostalgia della fede, che lo ispira ad  invocare i fanciulli, che accompagnavano il Viatico ai morenti, affinché si ricordassero di lui nell'ora ultima.
 Tormentato dalle sciagure della famiglia, Pascoli si aggirava nel labirinto in cui la ragione è estenuata dalla ricerca d'una via d'uscita. Se non che il poeta della Romagna solatia non fu cittadino del macchinale, umbratile labirinto progettato dall'ateismo, che fu concepito sotto il pallido, elucubrante cielo di Francia e di Germania. (Al proposito è qui doveroso rammentare il pregevole saggio di Lino Di Stefano sul Pascoli insigne latinista e poeta latino). 
 Acutamente Maria Cristina definisce uno stato d'animo nel quale si è quasi tentati di leggere l'anticipazione dell'insorgenza contadina di Strapaese: "Nella prosa Il settimo giorno, Pascoli giudica la nuova realtà in termini di una regressione che allontana ancor più l'uomo dal mondo animale e naturale e da quel che di buono può venirgli da esso. La metropoli industriale è, a sua parere, luogo sfavorevole al progresso dell'homo sapiens, e i lavoratori cittadini assoggettati ai ritmi e ai rumori delle fabbriche sono equiparati a una mandria ammaestrata di bruti".   
 Corre una incolmabile distanza tra la natura secondo Pascoli e la natura idolatrata dai naturalisti inquadrati nel partito ecologico. Maria Cristina sostiene, con ragione, che la natura, nell'opera di Pascoli, è un'allegoria dell'oblio, misericordioso, nel quale sprofondano le memorie dolenti: "Nella lirica Nebbia, Pascoli chiede aiuto e protezione proprio alla natura. La nebbia, infatti, è invocata affinché nasconda una realtà lontana, come l'infanzia e la giovinezza, per lui fonte di memorie troppo dolorose".
 Il libro di Maria Cristina Solfanelli oltre che una lezione di stile offre ai lettori l'opportunità di conoscere e frequentare il Pascoli poeta italianissimo, censurato dai resistenti alle belle lettere e dai nemici della bella lingua.

Piero Vassallo

giovedì 29 gennaio 2015

Tommaso Romano, intrinsecamente poeta

Solamente un cuore poietico può sfidare il potere che produce e governa il giro vizioso dell'umana fragilità intorno alla giostra degli sfinimenti e delle frustrazioni. Solamente una personalità poietica, passata indenne, quasi per miracolo, attraverso la rumorosa e vergognosa catastrofe della destra politicante, può compromettere la propria collaudata intelligenza associandola all'ardua avventura, che è ostinatamente suggerita dal pensiero forte.
 Tommaso Romano, autore dell'avvincente raccolta di saggi Il sismografo e la cometa, pubblicata in Palermo dall'Isspe, vive con felice ardimento il divorzio della speranza dall'estenuato, esangue e purtroppo imperante parolaio politichese, concerto di eccitazioni effimere e di umilianti manfrine, contro le quali è doveroso affermare il primato del bene comune sul bene della fazione plaudente.
 Il pensiero di Romano accende un'ipoteca sul futuro perché interpreta la cultura della speranza  albeggiante oltre il desolato presente. Una cultura politica che guarda oltre l'inautentico territorio della destra schizoide, comiziante, trafficante e perdente.
 La qualità del ragionamento e della cultura abilita Romano a interpretare autorevolmente l'esigenza di una profonda riflessione critica sul liberalismo, l'ideologia che ha contagiato, avvelenato e disintegrato la classe dirigente della destra italiana prima di trascinarla al ripudio chic della sua ragion d'essere.
 Il primo movimento nella direzione della rinascita nazionale è l'aperta sfida ai feticci venerati nel tempio dell'ateismo postmoderno. Romano si chiede: "E' possibile ancora rifiutare, in nome di un inconcludente relativismo, ogni metafisica come umana speranza di altezze non effimere, ogni educazione fondata su assunti certi e autorevoli, ogni autorità non in preda alle follie cangianti del demos?"
 Nascosta dal fumo delle chiacchiere, trasmesse dalla gang mediatica, la possibilità di un domani migliore appare condizionata "dal ribaltamento delle tendenze perverse che si sono imposte  nel tempo come autentiche egemonie, senza invocare come salvifiche le prediche, ma operando di conseguenza, alieni da paure per l'andare controcorrente e per suscitare un ritorno al reale".
 L'auspicio di Romano è la costituzione di una destra sociale, fedele ai suoi indeclinabili princìpi, che sono strutturalmente irriducibili alla mitologia liberalista.
 La descrizione dell'ideologia professata dagli avversari del bene comune è implacabile: "Dopo l'ubriacatura perversa dell'industrialismo non poteva che dominare la concentrazione in poche mani della ricchezza e lo strapotere (voluto dal nostro sistema statuale, asservito a questa Europa) del potere bancario intrinsecamente usuraio e senza patria e cioè senza legami e radicamenti collegati con gli interessi dei popoli".
 Bruxelles è un tetro paese dei balocchi, allestito per attuare la metamorfosi masochistica e thanatofila dell'aspirazione al bene comune. Di qui l'urgenza di rinegoziare, ossia "riprendere la sovranità nazionale, anche e sopra tutto monetaria, strappata vilmente ma con il consapevole ascarismo delle nostre classi di governo".
 La verità, nascosta dietro la cortina di menzogne alzate dai megafoni del potere iniziatico, manifesta l'impoverimento causato dalla globalizzazione, "che favorisce solo alcuni plutocrati e politici e poche nazioni, le solite peraltro". 
 Di qui la strenua opposizione all'utopia globalista, una sciagura cavalcata dai nemici della tranquillità nell'ordine, i quali hanno attuato "l'apertura delle frontiere senza contrappesi, senza programmati ed efficaci limiti all'immigrazione, che si espande senza prospettive, senza regole e senza controlli, favorendo l'ingresso di integralisti e terroristi. Bisogna anche in questo caso coraggiosamente invertire la rotta".
 Per uscire dal vicolo cieco in cui ci ha sospinti l'europeismo - infelice e stantia elucubrazione dell'utopista anti-italiano Altero Spinelli - occorrono riforme coraggiose "e tuttavia, ci rammenta Romano, la prima vera riforma non può essere che quella morale, interiore di ognuno".
  La politica della destra che (forse) sarà dopo l'obbligata pausa di riflessione in atto, deve anzi tutto fare i conti con il criminoso, ripugnante delirio abortista, "odio per la vita intesa come il generare la continuità della specie, che inesorabilmente si istilla, è l'odio per ciò che significa fedeltà agli Avi, al passato, alla Tradizione".
 La prima pagine della carta d'identità, che qualifica la politica della destra, è la difesa della vita attuata senza compromessi e senza i cedimenti, de quali si sono dimostrati capaci gli esponenti delle frange deboli (ma applaudite) del cattolicesimo castrato.
 Al proposito Romano sfoggia la sua sana intransigenza e scrive: "Il novismo, falsamente misericordioso, il presumere che le piazze piene e il consenso mondano riconducano alla Verità, ad un cosmico Cristo, è una falsa e terribile illusione, intesa al sincretismo. ... Vale il Decalogo, valgono i precetti o tutto si dissolve in un Amore che sa tanto di marmellata New Age".
 La politica combattere lo sterminio avviato dagli abortisti in nome di sinistre elucubrazioni malthusiane. E combatte senza paura dell'accusa che riduce gli avversari dell'aborto a improvvisati giudici, poiché la condanna dell'omicidio sta nel Decalogo e non nell'opinione mutevole degli uomini.
 Poste le solide basi del pensiero politico "bisogna auspicare e lavorare per far sorgere nuove élites dirigenti di servizio, per una aristocrazia aperta e che si rinnova, non mummificata in titoli altisonanti e però vuoti di valore, spirito di carità e di intrapresa al servizio del prossimo".
 Il movimento post-babelico, di cui si avverte la impellente necessità, non può costituirsi senza una preliminare formazione della sua classe dirigente.
 Ora in alcune città d'Italia, Roma, Palermo, Firenze, Napoli, Padova, Milano, Genova ecc., sono attivi ma non coordinati alcuni qualificati centri di formazione culturale. Importante è altresì il contributo prestato dalle case editrici d'area, dai torchi delle quali escono in continuazione testi utili al rinnovamento della cultura della destra.
 Su queste centrali incombe tuttavia il rischio, incombente dal basso soffitto dei mezzi economici oltre che dalle legittime gelosie, della riduzione dei centri vitali ad arcipelago di nobili nicchie non comunicanti a causa dell'assenza di finestre.
 Ci si augura pertanto che alcune personalità, dotate dell'autorità di Tommaso Romano (e di Roberto De Mattei, di Pucci Cipriani, di Roberto Dal Bosco, di Maria Guarini, di Elisabetta Frezza, di Alessandro Gnocchi, di Paolo Deotto ecc.), assumano un'iniziativa finalizzata al coordinamento delle attività propedeutiche alla fondazione di un movimento politico capace di uscire - finalmente - dalle lugubri e appiccicose ceneri della defunta destra.
 In questa prospettiva i saggi politologici di Romano sono da stimare quali preziosi, poietici incentivi al passo avanti che i centri della nuova cultura dovranno decidere in vista della rifondazione della politica.

Piero Vassallo

mercoledì 28 gennaio 2015

Difesa dall'iconoclastia ritornante

Un antico proverbio popolare rammenta che Dio scrive dritto sulle storte righe degli uomini di chiesa. Le concessioni postconciliari all'ideologia femminista, righe storte squisitamente ecclesiali, hanno causato una precipitosa fuga dai monasteri di clausura, in compenso hanno provocato la provvidenziale reazione di un'intrepida e qualificata scuola teologica e filosofica al femminile.
 Nella nuova scolastica si cimentano, con esiti felicissimi, numerose donne d'alto ingegno, di sicura erudizione e di polso fermo. Sono autrici fedeli alla dottrina di sempre e risolute a proseguire la loro attività senza scendere a compromessi con l'oscura centrale della confusione babelica, in atto - dopo il Concilio Vaticano II - nel mondo cattolico [1].
 La creatività delle donne fedeli alla vera dottrina si traduce in un'ingente produzione di saggi d'alto spessore filosofico e teologico, opere anticonformiste, finalizzate alla difesa dei princìpi indeclinabili del Cattolicesimo.
 Francesca Pannuti, forte di un'ingente conoscenza e assimilazione della filosofia e della teologia di San Tommaso, è, ad esempio, l'autrice di un magnifico saggio La difesa delle immagini, edito da Fede & Cultura in Verona.
 Una donna intrepida osa sfidare l'incensata e spocchiosa banda dei clericali, che sono protagonisti della congiura neomodernista e neo-iconoclastica contro la verità e contro la bellezza.
 Tale congiura incita a disprezzare la fede del popolo e perciò rovescia gli errori della nuova teologia nei progetti, elaborati da cervellotici artisti e da architetti/muratori intesi a quella corruzione/profanazione della bellezza e a quell'alterazione dei simboli della fede che, già nei primi anni del post-concilio, scandalizzava e spaventava il cardinale Giuseppe Siri.
 Pannuti sostiene una campagna per la difesa dell'arte cristiana dalle insidie della sciatteria dei teologi e dei loro artisti. Al fine di prendere le distanze dal puro e vuoto estetismo rammenta  che i pittori di icone, anziché seguire fantasma dell'arte anodina, "attraverso un cammino di preghiera purificano i loro sguardi interiori così da renderli atti a percepire l'invisibile".
 Di seguito ricostruisce puntualmente le fonti teologiche che giustificano l'esercizio dell'arte cristiana, ossia le tesi esposte nel Discorso contro coloro che rifiutano le immagini di San Giovanni Damasceno, dall'Aquinate nelle Summae e ultimamente da Benedetto XVI nel discorso pronunciato durante l'udienza generale del 29 aprile 2009.
 Del Damasceno, Pannuti cita un giudizio indeclinabile: "In altri tempi Dio non era mai stato rappresentato in immagine, essendo incorporeo e senza volto. Ma poiché ora Dio è stato visto nella carne ed è vissuto tra gli uomini, io rappresento ciò che è visibile in Dio. Io non venero la materia, ma il Creatore della materia, che si è fatto materia per me e si è degnato abitare nella materia e operare la mia salvezza attraverso la materia. Io perciò non cesserò di venerare la materia attraverso la quale mi è giunta la salvezza. Ma non la venero assolutamente come Dio! Come potrebbe essere Dio ciò che ha ricevuto l'esistenza a partire dal non essere?"
 Lo sguardo acuto dell'autrice legge nella sapiente valutazione della materia una chiara risposta alla suggestione gnostica, in circolazione disordinata e fumosa fra i teologi, che militano nella sedicente avanguardia, ossia l'affermazione del "collegamento stretto che sussiste tra la corretta posizione del problema del culto delle immagini e l'Incarnazione di Cristo".
 Padre Marcolino Daffara o. p., nel magistrale commento all'affermazione che si legge nella Summa theologiae - "pulchrum respicit vim cognoscitivam: pulchra enim dicuntur quae visa placent [2]  rammentava, infatti, che "San Tommaso pone qui elementi di estetica di valore essenziale. Il bello, come il bene, come il vero, riposano sull'essere della cosa che fonda tutti i rapporti o relazioni con le nostre facoltà. Il rapporto dell'ente ai poteri affettivi come oggetto appetibile costituisce l'ente-bene, che muove come fine. ... Il rapporto dell'ente alle facoltà conoscitive come proporzionato ad esse e causante assimilazione facile e dilettevole e appagamento nel coglierne senza sforzo le perfezioni costituisce l'ente-bello".   
 Di Benedetto XVI Pannuti cita opportunamente un giudizio ispirato dalla dottrina del Damasceno: "Vediamo che, a causa dell'Incarnazione, la materia appare come divinizzata, è vista come abitazione di Dio. Si tratta di una nuova visione del mondo e delle realtà materiali. Dio si è fatto carne e la carne e divenuta realmente abitazione di Dio, la cui glori rifulge nel volto umano di Cristo. ... Giovanni Damasceno resta quindi un testimone privilegiato del culto delle icone, che giungerà ad essere uno degli aspetti più distintivi delle teologia e della spiritualità orientale fino ad oggi. L'insegnamento di San Giovanni Damasceno si inserisce nella tradizione della Chiesa universale la cui dottrina sacramentale prevede che elementi materiali, presi dalla natura possano diventare tramite di grazia in virtù dell'invocazione dell Spirito Santo, accompagnata dalla confessione della vera fede". 
 Opportunamente papa Ratzinger ha rammentato il sostegno che l'imperatore di Bisanzio, Leone III (717-741) prestò agli iconoclasti : "Classico è il riferimento a Esodo 20,4, dove risuona il divieto di Dio a fabbricarsi idoli o immagini di alcunché. Tuttavia gli imperatori iconoclasti, appellandosi a tele principio, tolgono sì la croce dalle monete, ma per sostituirla col loro ritratto!".
 Il giro mentale degli imperatori bizantini fu arrestato in via definitiva dal Concilio di Nicea (787). Intanto San Gregorio Magno, nel 600, aveva sciolto il qualunque dubbio stabilendo che "una cosa è adorare la pittura, un'altra imparare attraverso la storia della pittura che cosa adorare".  
 Alla luce della sagace e puntuale ricerca condotta da Pennuti, è lecito affermare che l'animosità   dell'imperatore iconoclasta Leone III non è diversa dallo stato d'animo dei teologi e dei prelati modernizzanti, i quali giudicano severamente gli atti della pietà popolare indirizzati alle immagini e alle reliquie dei santi, mentre approvano gongolando l'applauso tributato dalla piazza alle loro rumorose e invadenti persone.
 La testimonianza di Pennuti, in definitiva, è un segno della vitalità della ragione cattolica, che resiste animosamente alle illusioni emanate dallo spettro sgangherato della modernità per abbagliare e aggiornare il clero pavido e sprovveduto. 

Piero Vassallo





[1]             Oltre a Francesca Pannuti, sono seriamente attive nella difesa della filosofia tomista e della ortodossia suor Rosa Goglia, Maria Guarini, Luisella Scrosati, Elisabetta Frezza, Patrizia Fermani, Virginia Coda Nunziante, Elisabetta Gianfranceschi, Cristina Siccardi, Patrizia Stella, Carmen Elena Villa, Carla D'Agostino Ungaretti, Francesca Poluzzi, Rosalia Longo ecc.
[2]             Cfr. Summa theol., I, q. 5, a. 4, 

TI DO DEL TU ANCHE SENZA PREAVVISO (di Piero Nicola)

Un bimbetto si rivolge a me come a seconda persona singolare, mi dice “tu”. Che cosa ne può, se l’hanno educato così?
  Una ragazzetta del vicinato che mia moglie ha preso a benvolere e sotto la sua ala (essendo dimezzata l’ala familiare sopra la giovincella) vorrebbe agire con me allo stesso modo, e sembra delusa e quasi offesa, quando metto le mani avanti avvertendola che non mi ci trovo con la confidenza. La compagna della mia vita ci resta male, rimugina un rimprovero diretto a me. Sarei io scortese e scriteriato. Spiacente: si sta al proprio posto oppure no. Non è data una terza situazione.
  I romani davano del tu al divino imperatore. Che altro potevano fare, se non disponevano del voi o del lei? Poi, qualcuno li inventò e si godette questa opportunità. Tuttavia i romani esprimevano la loro deferenza diversamente, rispettavano gerarchie e convenienze sociali.
  Noi possiamo trattare le persone secondo il genere di relazione che abbiamo con loro, preliminarmente con il lei, con il voi, con il tu. Trascurare questo uso e privarsene è insensato. Tolta la base consuetudinaria del debito rispetto, sgorga automaticamente una familiarità inopportuna, si scende a una maniera di stare da pari a pari che contraddice le differenze, e imbarazza chi non sia l’amoroso drudo della democrazia. Se al tu è permesso di invadere l’uso delle debite distanze, allora si abbia il coraggio di abolire il lei.
  Oggi la dea Uguaglianza opera il prodigio di annullare le distanze con reciproca soddisfazione. Su questo punto, i due d’impari condizione s’intendono alla svelta. Il maggiore previene il minore dandogli del tu, anche senza preamboli. Non si atteggia a uomo di larghe vedute. E’ ormai senz’altro un bene stare in dimestichezza. Se ne ha la convenienza, perché si parla come a casa propria, con la veste da camera lisa e le pantofole, magari pronti a emettere un peto, ma, nel contempo, il democratico che ha il coltello dalla parte del manico non ci rimette. Chi sta sopra, grazie alla familiarità, può disporre dell’altro senza complimenti. La confidenza toglie la riverenza? Che fa? Se la riverenza è morta e tuttavia si dispone della minaccia.
  L’altro, il minore, quando gli garbi rompe gli indugi accennando al tu, e arriva ad imporlo come si impone di convenire che siamo antirazzisti e antinazisti. Egli ne approfitta per prendersi delle libertà. Anche lui potrà fare a meno di controllarsi, di frenare i consueti impeti sconvenienti e volgari, di badare alle detestate formalità. Egli è tardo a comprendere che, distrutto il rispetto formale, va a rotoli il rispetto sostanziale, e che, abbassandolo, verrà meno anche il riguardo verso sé stesso. Il restringersi al tu trascina davvero con sé la confidenza che toglie la riverenza.
  Se prendiamo un romanzo francese anteguerra, troviamo i fidanzati che si trattano col voi, in una Francia avvezza ad essere licenziosa. E com’è bello questo riguardo verso l’oggetto di un sentimento così importante qual è l’amore o anche la semplice promessa di matrimonio! Come è giusta la soggezione a un caso cruciale per la vita intera!
  Riassumendo, al solito, chi ha più filo fa più tela. Permane l’ansia di trarre il proprio guadagno, debito o indebito, dalle umane relazioni. Ma il concedersi certe libertà contribuisce a che rimanga incolta la garbata generosità, a che inselvatichisca il compito doveroso e obbiettivo di tenere le cose al loro posto. La qual cosa si addice al selvaggio abbattimento delle regole più sante. 

Piero Nicola

martedì 27 gennaio 2015

La globalizzazione, compimento o ostacolo all’universalismo cristiano?

La politica per la globalizzazione promossa dall'Onu e dai poteri forti obbedisce a quella “legge di umana solidarietà e carità, che viene dettata e imposta sia dalla comunanza di origine e dalla eguaglianza della natura razionale in tutti gli uomini, a qualsiasi popolo appartengano, sia dal sacrificio di redenzione offerto da Gesù Cristo sull’ara della Croce[1], o applica principi diversi se non contrari?
 La dottrina cattolica “ci fa contemplare il genere umano nell’unità di una comune origine in Dio”, e perciò approva i progetti seriamente intesi a promuovere lo sviluppo di tutti i popoli della terra, a incrementare gli onesti scambi commerciali e a stabilire la libertà di cercare un’occupazione dignitosa, nei paesi che manifestano un’effettiva necessità di mano d’opera.
 Ove si prefiggessero un tale disegno, i promotori della globalizzazione sarebbero in armonia con il principio cristiano, che afferma l’universale destinazione dei beni creati, l’interdipendenza delle economie e il conseguente dovere di promuovere la solidarietà internazionale.
 Tuttavia Massimo Cacciari, autore di Arcipelago, dall’ideologia globalista trae la giustificazione della deriva anti-identitaria / cosmopolita, che si attua nel villaggio globale, una Babele compatibile con i princìpi della religione cattolica progredita
 Nelle pieghe del pensiero cacciariano, infatti, agisce l'intenzione (di stampo francofortese) di eliminare il cardine del pensiero occidentale, il principio d’identità e non contraddizione e di indebolire la dottrina che contempla la persona umana unica e irrepetibile.
 L’unità del genere umano è attuabile unicamente attraverso il filtro del senso comune, che riconosce la gerarchia delle forme civili e sconsiglia  l'avventuroso tentativo di assimilare soggetti, che professano credenze inclini alla trasgressione oppure all'instaurazione violenta di una tirannia pseudomistica.  
 L’inflessibile rifiuto della cattolica integrazione educatrice, d'altra parte, va incontro, forse involontariamente/inavvertitamente, al principio cardinale del razzismo, “il concetto di doverosità della separazione delle varie razze umane, che vede la sua base teorica in primo luogo in un fondamento metafisico consistente nel riconoscimento dell’irriducibilità ad un modello comune dei diversi Sistemi di Valori, che esse hanno espresso e da cui sono state a loro volta conformate[2]
 Ad uno sguardo realistico è evidente che è doverosa la solidarietà fra i popoli, universalismo nutrito dall'apprezzamento delle oneste tradizioni, che hanno origine dalla verità: “la Chiesa non può pensare né pensa d’intaccare o disistimare le caratteristiche particolari, che ciascuno popolo con gelosa pietà e comprensibile fierezza custodisce e considera qual prezioso patrimonio[3].
 La Chiesa inoltre insegna “che nell’esercizio della carità esiste un ordine stabilito da Dio, secondo il quale bisogna amare più intensamente e beneficare di preferenza coloro che sono a noi uniti con vincoli speciali”.
 Purtroppo i banditori della globalizzazione negano tali princìpi, e per promuovere il villaggio del futuro, postulano l’alterazione e l'appiattimento delle identità nazionali.
 In tal modo la vocazione universalista deraglia in un integrazionismo finalizzato a impoverire l'identità delle nazioni ospitanti e ad attizzare la rivalità degli ospitati. 
 Nel villaggio globale, infatti, la nazione è concepita quale comunità di comunità, ossia quale meccanica ammucchiata di gruppi culturali eterogenei, livellati dall'irrealismo della legge ma non integrati e perciò reciprocamente estranei (e potenzialmente ostili e conflittuali).
 Privo di una cultura unificante, le nazioni associate al villaggio globale si avvicinano alla figura di un serraglio senza sbarre, in cui circolano pericolosamente animali feroci, dei quali si conosce la diversità e la reciproca avversione.
 Simile è la scena allestita nei paesi europei incautamente aperti a un'ideologia incapace di indicare i mezzi necessari a fronteggiare il potenziale invasore travestito da umile immigrante.
 I politici e gli intellettuali europei, scoprirebbe le ragioni della cautela da usare nei confronti dell'ideologia globalizzante se rammentasse la storia della Persia, pacificamente invasa da immigrati che, diventati maggioranza, costrinsero i nativi a convertirsi a una religione non loro,. 
 L'esemplare storia dell'invasione islamica della Persia conferma la fragilità dell’argine costituito dal buonismo e dall'arrendevolezza.
 Il razzismo, che i banditori del villaggio globale proclamano di voler cacciare dalla porta della realtà quotidiana, rientra dalla pia finestra che contempla la mezza luna.
 L’esame realistico dell’ideologia globale svela un'intrinseca  debolezza  cioè un'apertura alla trasformazione dell'immigrazione in colonizzazione selvaggia.
 Tale metamorfosi è facilitata dalla categorica esclusione di valori razionalmente identificabili e indeclinabili, e perciò atti ad integrare gli immigrati oppure a respingere la loro ingiusta pretesa missionaria / egemonica.
 La paradossale conseguenza di tale autolesionistico disconoscimento è la dichiarazione razzista secondo cui “esistono solo gruppi indifferenti o nemici” [4].  
 Questo risultato appare evidente quando si rammenta che, nella prospettiva razzista, l’unica convivenza possibile tra etnie diverse comporta o lo sterminio o lo sviluppo separato vale a dire una “cordiale ghettizzazione” sperimentata dai cristiani residenti nei paesi islamici.
 Non per niente i razzisti - atei o religiosi - disprezzano e odiano implacabilmente la tendenza cattolica ad assimilare/convertire l'errante. Il razzismo dei sedicenti anti-razzisti consiste a sua volta nel riconoscere, “rispettare” e costringere alla convivenza la reciproca irriducibilità dei popoli a differente religione e/o cultura.
  Il mito di fondazione della società razzista è il poligenismo. Per gli intellettuali che ne rivendicano sia pure inconsapevolmente l’eredità, l’essenza dell’ideologia razzista si trova infatti nell’avversione radicale al monoteismo biblico, avversione che si rovescia inevitabilmente in un “antiuniversalismo radicale. 
 Al politeismo è soggiacente un  poligenismo babelico,  che esclude, per partito preso, lo sforzo d’integrazione dei popoli e condanna il qualunque pacifico impegno missionario.
 Per combattere il razzismo, che può immigrare nascosto nelle pieghe di un fanatismo missionario, è dunque conveniente dissipare le suggestioni mondialiste, che, a mal grado delle dichiarazioni d’intenti, sono compatibili con la provocatoria idea degli sviluppi separati (nei ghetti, che pullulano nella Grande Mela democratica e nelle capitali dell'Europa sociale) o, peggio, con i minacciosi progetti di colonizzazione islamica.

Piero Vassallo




[1]            Pio XII, Enciclica “Summi Pontificatus”, 20 ottobre 1939)
[2]            Cfr. Gianantonio Valli, La razza nel nazionalsocialismo, nella rivista L’uomo libero, n. 50, Milano, novembre 2000.
[3]            “Summi Pontificatus”, cit.
[4]         Gianantonio Valli, articolo citato.

L’Islam per una nuova civiltà tradizionale? (di Gianandrea de Antonellis)

Indubbiamente la strage che ha falcidiato la redazione del settimanale «Charlie Ebdo» del 7 gennaio 2015 si è rivelata una inattesa fonte di pubblicità per il romanzo Sottomissione di Michel Houellebecq, allora appena edito in Francia (Flammarion, Paris 2015) e sul momento di essere pubblicato in Italia (Bompiani, Milano 2015).
La vicenda parla di François, disincantato docente universitario quarantacinquenne, apprezzato studioso di Huysmans che vive di rendita intellettuale per la sua ponderosa tesi di dottorato e che passa la maggior parte del tempo (si reca in università un solo giorno alla settimana) a chiedersi come riempire dal punto di vista sentimentale (eufemismo) la sua vuota esistenza.
Siamo nel maggio 2022, durante le settimane delle elezioni presidenziali: i due candidati che accedono al ballottaggio sono Marine Le Pen, ampiamente prima con il 34% dei voti e Muhammad Ben Abbes, della Fratellanza Musulmana, che si attesta al 22%, superando di misura il candidato socialista. Contro il Fronte Nazionale, naturalmente, si compatta lo schieramento di sinistra, in nome del sempre utile antifascismo. Ad esso aderisce anche il partito di centro-destra, che con i suoi voti (12%) avrebbe potuto permettere l’elezione della Le Pen. Le urne portano all’Eliseo il primo presidente musulmano e il protagonista, che si era allontanato da Parigi per timore di scontri, al proprio ritorno si ritrova forzatamente pensionato (ma con un mensile equivalente allo stipendio).
François vivrà per qualche tempo ai margini della società, fino a che non sarà ripescato per curare una edizione delle opere complete di Huysmans nella prestigiosissima collana della Pléiade delle edizioni Gallimard; quindi gli sarà proposto di riprendere l’insegnamento, in cambio dell’adesione all’Islam. Per François, che ha anche per un momento accarezzato l’idea di seguire il percorso dell’amato Huysmans, finendo i suoi giorni in un convento di trappisti, è più facile passare dal proprio agnosticismo alle comodità dell’islam piuttosto che al rigore del cattolicesimo tradizionale: accetta quindi di diventare musulmano, attratto soprattutto dalla prospettiva di uno stipendio da favola e dei piaceri della poligamia. Non a caso, il romanzo si chiude con la domanda rivolta al nuovo rettore ed eminenza grigia del presidente della repubblica: «Quale sarà il mio stipendio? A quante donne avrò diritto?»[1], che sintetizza mirabilmente le vere ragioni della sua decisione di convertirsi. Non motivazioni spirituali, bensì un calcolo opportunistico basato esclusivamente sul sesso e sul denaro.

L’immarcescibile fronte antifascista

A fianco di questa non esaltante vicenda di un “fallito di successo”, simile per impostazione ad altri romanzi di Houellebecq, anch’essi basati sulla miseria affettiva dell’uomo contemporaneo, vi sono una serie di riflessioni sulla realtà socio-politica del nostro tempo, sulle quali, prima che sulle qualità stilistiche dello scrittore, desideriamo soffermarci.
Intanto lo sfondo è tutt’altro che assurdo: l’avanzata del Fronte Nazionale alle elezioni presidenziali nel 2017 vede coalizzarsi il vetusto fronte “antifascista” per riportare all’Eliseo uno spento Hollande («La stampa internazionale, basita, aveva potuto assistere allo spettacolo vergognoso, ma aritmeticamente ineluttabile, della rielezione di un presidente di sinistra in un paese sempre più dichiaratamente a destra»[2]); cinque anni più tardi lo stesso fronte si ricompatta per permettere l’ascesa del partito islamista, che altrimenti non avrebbe in numeri sufficienti per governare.
Con grande “coerenza”, nei giorni cruciali che precedono il ballottaggio i media francesi riservano poco spazio all’imponente manifestazione del Fronte Nazionale, ma in compenso si affannano a dipingere il candidato islamico come un “moderato” i cui principi sono perfettamente in linea con quelli della Francia tradizionale: «Quanto alla restaurazione della famiglia, della morale tradizionale e, implicitamente, del patriarcato, davanti a lui [Muhammad Ben Abbes] si apriva un’autostrada che né i rappresentanti della destra né tantomeno quelli del Fronte nazionale potevano percorrere senza farsi dare dei conservatori o addirittura dei fascisti dagli ultimi sessantottini, mummie progressiste moribonde, sociologicamente esangui ma rifugiate nelle cittadelle mediatiche che continuavano a dar loro la possibilità di inveire contro i guasti dell’epoca e l’aria mefitica che pervadeva il paese; solo Ben Abbes era al riparo da qualsiasi pericolo. Paralizzata dal suo antirazzismo costitutivo, la sinistra era stata sin dall’inizio incapace di combatterlo e anche solo di menzionarlo»[3].

Un credibile panorama politico

Per giungere ad un’alleanza elettorale, la sinistra ha un solo punto di frizione con gli islamici: la gestione del ministero dell’istruzione, da sempre roccaforte socialista: «Per loro [la Fratellanza Musulmana] l’essenziale è la demografia, e l’istruzione; il sottogruppo demografico che dispone del miglior tasso riproduttivo, e che riesce a trasmettere i propri valori, trionfa; per loro è tutto qua, l’economia e la stessa geopolitica non sono che fumo negli occhi: chi controlla i bambini controlla il futuro, stop. Perciò l’unico punto cruciale, l’unico punto sul quale vogliono assolutamente soddisfazione, è l’istruzione dei bambini»[4].
Invece, paradossalmente, il centro-destra non considera questo punto un reale motivo di scontro: «ciò che divide l’UMP [“Union pour un mouvement populaire”, coalizione di partiti moderati di ispirazione gollista fondata da Sarkozy] dalla Fratellanza musulmana è persino meno di ciò che la separa dal Partito socialista. […] La cosa sarà meno difficile per l’UMP, che è ancor più vicino alla disintegrazione, e che non ha mai dato la minima importanza all’istruzione, concetto che gli è pressoché estraneo»[5].

Houellebecq non risparmia strali ai politici, di centro-destra e di sinistra: per il presidente uscente Hollande si parla apertamente di «due quinquennati catastrofici»[6], mentre per il cattolico progressista François Bayrou si afferma che «la cosa straordinaria di Bayrou, quella che lo rende insostituibile […] è che è perfettamente stupido, il suo progetto politico si è sempre limitato al personale desiderio di accedere con qualsiasi mezzo alla cosiddetta “carica suprema”; non ha mai avuto, e nemmeno finto di avere, la minima idea personale – cosa molto rara di questi tempi. Questo lo rende l’uomo politico ideale per incarnare la nozione di umanesimo, tanto più che si crede Enrico IV[7] e si spaccia per grande pacificatore del dialogo interreligioso; tra l’altro gode di una certa popolarità nell’elettorato cattolico, che si sente rassicurato dalla sua idiozia. È esattamente quello di cui ha bisogno Ben Abbes, che innanzitutto desidera incarnare un nuovo umanesimo, presentare l’islam come forma compiuta di un umanesimo inedito, unificatore, e che d’altronde è perfettamente sincero quando proclama il suo rispetto per le tre religioni del Libro»[8].
Ma anche il centro-destra viene bastonato: molto grave è l’affermazione sulla sua sudditanza politica all’Europa: «Il vero programma dell’UMP, così come quello del Partito socialista, è la scomparsa della Francia, la sua integrazione in un insieme federale europeo. I suoi elettori, chiaramente, non approvano questo obiettivo; ma da anni i dirigenti riescono a evitare di parlarne apertamente»[9].

La congiura del silenzio contro il Fronte Nazionale

E che dire del Fronte Nazionale? Nonostante l’ampio seguito è messo in disparte dai media e ghettizzato nella provincia (tra parentesi: la provincialità della cultura francese – e la spocchia di quella parigina in particolare – è evidenziata da una frase del protagonista: «Conoscevo poco la Francia, in generale. Dopo un’infanzia e un’adolescenza trascorse a Maisons-Laffitte, periferia borghese per eccellenza, mi ero trasferito a Parigi, e non me n’ero più andato; non avevo mai realmente visitato quel paese del quale ero, in maniera un po’ teorica, cittadino»[10]) nella letteratura come nella realtà: colpisce ancora il rifiuto opposto dai “democratici” alla leader Marine Le Pen di sfilare nella manifestazione parigina dell’11 gennaio. Per la “cultura” che conta, quella dei salotti mediatici e delle stanze del potere, un Francese su quattro (uno su tre nel 2022) semplicemente non esiste.
E, tornando al romanzo, poiché il Fronte Nazionale viene cancellato dai media, dopo la vittoria l’opposizione è appannaggio, più che della sinistra, degli estremisti salafiti, che pretendono l’introduzione della sharia[11]. Dal canto suo, il governo musulmano riconosce la bontà del distributivismo cattolico, paradossalmente riprendendo le teorie di due oppositori del colloquio tra le religioni come Chesterton e Belloc[12].
E Houllebecq, che en passant ha messo in bocca al suo protagonista un rimpianto per l’epoca in cui il divorzio non esisteva («Adesso Bruno e Annelise avevano sicuramente divorziato, ormai era così che andavano le cose; un secolo prima, all’epoca di Huysmans, sarebbero rimasti insieme, e forse non sarebbero stati così infelici, tutto sommato»[13]) riconosce il valore fondamentale della famiglia: «l’individualismo liberale era tanto destinato a trionfare finché si limitava a dissolvere quelle strutture intermedie che erano le patrie, le corporazioni e le caste, quanto, aggredendo quella struttura ultima che era la famiglia, e quindi la demografia, firmava il suo fallimento finale; a quel punto, logicamente, arrivava il momento dell’islam»[14].

Possibile che non esista una forte opposizione nazionalista? Esiste, ma è divisa. Impietoso il giudizio dell’autore – messo in bocca ad un docente che ne ha fatto parte: «in realtà il Blocco identitario era tutto fuorché un blocco, era diviso in varie fazioni che si capivano male e s’intendevano peggio: cattolici, solidaristi collegati con “Terza via”, realisti, neopagani, laici duri e puri venuti dall’estrema sinistra… Ma tutto è cambiato con la nascita degli Indigeni europei. […] Per riassumere la loro tesi, la trascendenza è un vantaggio selettivo: le coppie che si riconoscono in una delle tre religioni monoteistiche, che hanno preservato i valori patriarcali, hanno più figli rispetto alle coppie atee o agnostiche; le donne sono meno istruite, l’edonismo e l’individualismo meno pregnanti. Tra l’altro la trascendenza è, in grande misura, un carattere geneticamente trasmissibile: le conversioni, o il rifiuto dei valori familiari, hanno una rilevanza molto marginale; nella stragrande maggioranza dei casi, le persone restano fedeli al sistema metafisico nel quale sono state educate. Pertanto l’umanismo ateo, sul quale poggia il “vivere insieme” laico, non resisterà a lungo, la percentuale della popolazione monoteista è destinata ad aumentare rapidamente, specie nel caso della popolazione musulmana – e questo senza tener conto dell’immigrazione, che accentuerà ulteriormente il fenomeno. Per gli identitari europei è assodato in partenza che tra i musulmani e il resto della popolazione debba necessariamente, presto o tardi, scoppiare una guerra civile. La loro conclusione è che, se vogliono avere una speranza di vincerla, gli conviene che questa guerra scoppi il più presto possibile – in ogni caso prima del 2050, preferibilmente molto prima»[15].

Il riconoscimento (postumo) alla Chiesa: l’applicazione del principio di sussidiarietà

Oltre all’introduzione del distributivismo, il nuovo regime si distingue per la lotta alla criminalità (non si spiega bene come: è lecito immaginare una tensione in precedenza rinfocolata ad arte nelle banlieues? Oppure alla debolezza dei giudici paurosi di punire i colpevoli ed al conseguente timore reverenziale delle forze di polizia nei confronti dei criminali?) e alla disoccupazione, quest’ultima vinta grazie all’uscita delle donne dal mercato del lavoro e dalla «notevole rivalutazione dei sussidi familiari»[16]; abbassato l’obbligo scolastico alle medie inferiori, incoraggiato l’artigianato e lasciato l’insegnamento superiore ai privati secondo il principio di sussidiarietà[17] (citando direttamente il testo dell’enciclica Quadragesimo anno di Pio XI), l’autore immagina una Francia molto meno lontana dall’ideale cattolico di quanto si sarebbe temuto: «Tutte queste riforme miravano a “restituire il suo posto e la sua dignità alla famiglia, cellula di base della nostra società”»[18]. Riconoscimento – va aggiunto – in un certo senso “postumo” perché l’adozione della dottrina sociale della Chiesa non era assolutamente dovuta alla necessità di accattivarsi l’elettorato di matrice cattolica[19].
Certo, con un siffatto finale che descrive una apprezzabile “pax islamica” Houellebecq ha evitato di farsi bollare come anti-islamico e può continuare a girare tranquillo per Parigi. Quello che descrive è una sorta di “catto-islamismo” o meglio di islamismo “ecumenico”, giustificato dal guenonismo imposto da Rediger, l’eminenza grigia del presidente (Rediger è anche un ex nicciano e vale la pena riportare a tal proposito un aforisma di Houellebecq: «Invecchiando, anch’io mi riavvicinavo a Nietzsche, com’è senz’altro inevitabile quando si hanno problemi di idraulica»[20]).

Il nuovo Islam tra Nietzsche e Guénon

Quella dello scrittore francese può essere considerata una provocazione, una provocazione intelligente, peraltro, soprattutto se depurata delle eccessive descrizioni delle avventure “galanti” (altro eufemismo) del protagonista. All’avanzata dell’islamismo non riesce ad opporre resistenza né il mondo della sinistra, né quello della destra, troppo diviso e senza chiari punti di riferimento; l’ex (ma non poi tanto) nicciano passato all’Islam sostiene che il solo fascismo, senza l’apporto cattolico, non può sorreggere il nazionalismo: «Ho sempre considerato i fascismi come un tentativo spettrale, da incubo e fallace di ridar vita a nazioni morte; senza la cristianità, le nazioni europee non erano più che corpi senza anima – zombie»[21], ma si fa musulmano quando si rende conto del suicidio dell’Europa («se la Francia e la Germania, le due nazioni più avanzate, le più civili del mondo, potevano abbandonarsi a quella carneficina insensata, significava che l’Europa era morta»[22], dice a proposito della prima guerra mondiale), suicidio inverato per lui nella chiusura del bar dell’hotel Métropole di Bruxelles «il massimo dell’arredamento Art Nouveau»[23].
D’altro canto, anche il protagonista, pur non essendo un esteta come il rettore Robert Rediger o come Huysmans, percepisce il decadimento, tra l’altro, nell’avanzare della nuova architettura sacra: «La chiesa moderna, costruita nella cinta del monastero, era di sobria bruttezza – richiamava un po’, per l’architettura, il centro commerciale Super-Passy di Rue de l’Annonciation – e le sue vetrate, semplici chiazze astratte e colorate, non meritavano alcuna attenzione; ma tutto ciò non aveva molta importanza ai miei occhi: non ero un esteta, infinitamente meno di Huysmans, e l’uniforme bruttezza dell’arte religiosa contemporanea mi lasciava pressoché indifferente»[24].
François, leggendo alcuni scritti di Rediger, gli perdona il passato nicciano, dato che, in fondo, «nel XX secolo tanti intellettuali avevano sostenuto Stalin, Mao o Pol Pot senza che questo venisse mai loro realmente rimproverato; in Francia l’intellettuale non era tenuto a essere responsabile, non era nella sua natura»[25], ma nota come il suo articolo sia «un plateale ammiccamento ai suoi ex camerati tradizionalisti e identitari. Era tragico, sosteneva con fervore, che un’irragionevole ostilità nei confronti dell’islam impedisse loro di riconoscere un fatto evidente: sulle cose essenziali erano in perfetto accordo con i musulmani. Sul rifiuto dell’ateismo e dell’umanesimo, sulla necessaria sottomissione della donna, sul ritorno al patriarcato: la loro battaglia, da tutti i punti di vista, era esattamente la stessa. Tale battaglia, necessaria per l’instaurazione di una nuova fase organica di civiltà, ormai non poteva più essere condotta in nome del cristianesimo; era l’islam, religione sorella, più recente, più semplice e più vera (perché, infatti, Guénon si era convertito all’islam? Guénon era innanzitutto una mente scientifica, e aveva scelto l’islam da scienziato, per economia di concetti; e altresì per evitare certe marginali credenze irrazionali, come la presenza reale nell’eucaristia), era dunque l’islam, oggi, ad aver preso il testimone. A furia di moine, smancerie e vergognosi strofinamenti dei progressisti, la chiesa cattolica era diventata incapace di opporsi alla decadenza dei costumi. Di rifiutare decisamente ed energicamente il matrimonio omosessuale, il diritto all’aborto e il lavoro delle donne. Bisognava arrendersi all’evidenza: giunta a un livello di decomposizione ripugnante, l’Europa occidentale non era più in grado di salvare se stessa – non più di quanto lo fosse stata la Roma del V secolo della nostra era. Il massiccio arrivo di popolazioni immigrate fedeli a una cultura tradizionale ancora modellata sulle gerarchie naturali, sulla sottomissione della donna e sul rispetto dovuto agli anziani, costituiva un’occasione storica per il riarmo morale e familiare dell’Europa, creava la possibilità di una nuova età dell’oro per il Vecchio Continente. Quelle popolazioni erano in certi casi cristiane; ma più spesso, bisognava riconoscerlo, erano musulmane. Era lui, Rediger, il primo a riconoscere che la cristianità medievale era stata una grande civiltà, i cui risultati artistici sarebbero rimasti eternamente vivi nella memoria degli uomini; ma a poco a poco aveva perso terreno, aveva dovuto venire a patti con il razionalismo, rinunciare ad annettersi il potere temporale, finendo per condannarsi all’insignificanza, e questo perché? In fondo, era un mistero: Dio aveva deciso così»[26].

Islam: comunismo del XXI secolo o cristianesimo del nuovo millennio?

C’è chi ha proposto di invertire il detto «il comunismo è l’Islam del XX secolo»[27] aggiornandolo a «l’Islam è il comunismo del XXI secolo»[28], per la sua valenza ideologica (ma c’è anche chi propone il paragone a causa dei milioni di morti provocati nei secoli da questa religione che ci si continua ostinatamente a considerare “essenzialmente pacifica”[29]).
L’Islam, a dispetto di ogni considerazione sul suo passato, viene proposto quindi come nuovo cristianesimo o, meglio, come nuovo propulsore di una futura società come quella cristiana che aveva reso grande l’Europa nel Medioevo? Se Houellebecq può permettersi di non dare una risposta diretta – il suo è un romanzo, non un saggio – sicuramente è palese la mancanza di una presa di posizione netta sui punti fondamentali del diritto naturale, almeno da parte di molti esponenti dell’attuale Chiesa cattolica post-conciliare, troppo preoccupati a “rincorrere il mondo” e a “piacere a tutti” per farsi baluardo dei principi tradizionali.
E, mentre – tornando al romanzo – il Belgio è la seconda nazione ad islamizzarsi («mentre i partiti nazionalisti fiammingo e vallone, di gran lunga le prime formazioni politiche nelle rispettive regioni, non erano mai riusciti a intendersi e nemmeno a instaurare un vero dialogo, i partiti musulmani fiammingo e vallone, sulla base di una religione comune, avevano facilmente raggiunto un accordo di governo»[30]) e si profila l’Eurabia profetizzata da Bat Ye’or[31], conviene concludere ricordando l’esergo dell’ultimo capitolo, certo inserito non a caso: «Se l’islam non è politico, non è niente»[32]. Firmato: Ayatollah Khomeyni.
Perché è vero che esiste un Islam moderato, con il quale è possibile dialogare, come è stato più volte ricordato[33], ma è anche vero che, sia a livello percentuale, sia come forza economico-politica, conta assai poco, succubo com’è dell’estremismo islamista.

Gianandrea de Antonellis




[1] Michel Houellebecq, Sottomissione, Bompiani, Milano 2015, p. 247.
[2] Ivi, p. 46.
[3] Ivi, p. 132.
[4] Ivi, p. 73.
[5] Ivi, p.126.
[6] Ivi, p.101.
[7] L’allusione risulta ancor più sferzante se si pensa che François Bayrou ha scritto una biografia del Re per cui Parigi valeva bene una messa (Henri IV : Le roi libre, Flammarion, Paris 1994).
[8] M. Houellebecq, op. cit., p. 131.
[9] Ivi, p. 125-126.
[10] Ivi, p. 109-110.
[11] Cfr. ivi, p. 172
[12] Cfr. ivi, p. 173.
[13] Ivi, p. 83.
[14] Ivi, p. 229.
[15] Ivi, p. 61-63.
[16] Ivi, p. 171.
[17] Cfr. ivi, p. 180: «Secondo tale principio, nessuna entità (sociale, economica o politica) doveva farsi carico di funzioni affidabili a entità più piccole. Papa Pio XI, nella sua enciclica Quadragesimo anno, dava una definizione di detto principio: “Come è illecito togliere all’individuo e affidare alla comunità ciò che l’impresa privata e l’industria sono in grado di realizzare, così è una grossa ingiustizia, un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine che una maggiore e più alta società si arroghi le funzioni che possono essere svolte con efficacia da comunità minori e inferiori”. Nella fattispecie, Ben Abbes si era appena accorto che la nuova funzione di cui l’attribuzione a un livello troppo alto “sconvolgeva il retto ordine” non era altro che la solidarietà sociale. Cosa c’è di più bello, si era commosso Ben Abbes nel suo ultimo discorso, della solidarietà esercitata nell’ambito caloroso della cellula familiare?… In quella fase, l’“ambito caloroso della cellula familiare” era ancora ampiamente un programma; ma, più in concreto, il nuovo progetto del bilancio statale prevedeva nel triennio una diminuzione dell’85 per cento della spesa sociale del paese».
[18] Ivi, p. 171, il virgolettato è una frase di Ben Abbas.
[19] «In Francia i cattolici erano praticamente scomparsi», ivi, p. 132.
[20] Ivi, p. 231.
[21] Ivi, p. 216.
[22] Ivi, p. 218.
[23] Ivi p. 217.
[24] Ivi, p. 186.
[25] Ivi, p. 229.
[26] Ivi, p. 233-234. Corsivo nostro.
[27] La frase deriva dal titolo di un saggio postumo di Jules Monnerot (1908-1995): L’Islam du xxe siècle (2004), primo volume dell’imponente Sociologie du communisme (prima edizione: Gallimard, Paris 1949).
[28] «Se il comunismo è stato definito l’Islam del XX secolo, per il suo totalitarismo secolarista, l’Islam può essere definito a sua volta il comunismo del XXI secolo per il suo totalitarismo religioso, che unisce Chiesa e Stato, fede e politica».  Roberto de Mattei, Chiesa e Stato: divisione o armonia dei ruoli e delle responsabilità?, in «Radici Cristiane», novembre 2009. Tra gli altri studiosi che hanno più o meno esplicitamente affermato questo concetto vanno ricordati Bat Ye’or, Eurabia. Come l’Europa è diventata anticristiana, antioccidentale, antiamericana, antisemita, Lindau, Torino 2007; Alexandre del Valle, Verdi, rossi, neri. L’alleanza fra l'islamismo radicale e gli opposti estremismi, Lindau, Torino 2009; Robert Spencer, Guida (politicamente scorretta) all'Islam e alle crociate, Lindau, Torino 2008; nonché Ilich Ramirez Sanchez [alias Carlos “lo Sciacallo”], L’Islam révolutionnaire, a cura di Jean-Michel Vernochet, Editions du Rocher, Monaco 2003.
[29] «Sommando tutte queste cifre si giunge alla conclusione che dal settimo secolo a oggi approssimativamente 270 milioni di “infedeli” sono morti per la gloria politica dell’islam: un numero di vittime che probabilmente supera quelle del comunismo, e che fa dell’islam la più grande macchina di oppressione e di sterminio della storia». Guglielmo Piombini, L’islam, una micidiale macchina di oppressione, postfazione a Marco Casetta, Il grande tradimento. Come intellettuali e politici illiberali favoriscono la conquista islamica dell'Europa, Leonardo Facco Editore, Treviglio (Bergamo) 2009 (ebook).
[30] M. Houellebecq, op. cit., p. 236.
[31] La saggista è espressamente citata a p. 136.
[32] Ivi, p. 189.
[33] Per tutti cfr. Alfredo Mantovano, Come affrontare l'emergenza dopo Parigi, in La Nuova Bussola Quotidiana, 10 gennaio 2015: «Va messo da parte il buonismo di chi pensa che nel confronto con i fedeli dell’islam il problema siamo noi e non loro, ma anche il radicalismo di chi afferma che tutti i musulmani sono terroristi. È un’illusione immaginare di sconfiggere il terrorismo senza un collegamento organico con le comunità islamiche presenti in Italia non connotate da tendenze ultrafondamentaliste» [url consultato il 24.01.2015].