giovedì 29 settembre 2016

La deformata memoria incensa il boja Pertini

 Nell'aprile del 1945, gli anglo-americani, che avevano già attraversato il Po, ordinarono ai partigiani, radunati nella festante sede del Comitato di liberazione nazionale Alta Italia, di arrestare Benito  Mussolini e di consegnarlo immediatamente agli amministratori della rinomata e apprezzata (e sopra tutto implacabile) giustizia a stelle e strisce. Una giustizia (tra virgolette) che si era macchiata (e vantata) di un delitto enorme e ributtante quale fu lo sterminio dei nativi d'America.
 Probabilmente gli americani intendevano processare il duce degli italiani per poterlo fucilare in esecuzione hollywoodiani di una sentenza conforme al diritto dei vincitori e alla loro grottesca e sinistra procedura.
 Si rammenta al proposito la tendenza a spettacolarizzare la morte dei vinti, un tempo visibile nel film (poi ritirato dalla circolazione perché controproducente) che mostrava le impiccagioni dei condannati dal tribunale di Norimberga.
 Dal suo canto il compianto Giano Accame ha mostrato agli spettatori della televisione italiana il filmato americano, che rappresenta la fucilazione di un incolpevole fascista (il quale affrontò la morte con una serena dignità, che gli americani ignorano).
 Se non che Sandro Pertini, in combutta con l'agente e boja del Kgb, il criminale Luigi Longo, impose al Cln la decisione di disobbedire all'ordine impartito dai loro democratici mandati e di procedere immediatamente (ovvero senza processo) alla fucilazione di Mussolini, di Claretta  Petacci, dei gerarchi e degli incolpevoli militari al loro seguito.
 I giustiziati (o meglio gli assassinati) furono in seguito deposti (bestialmente gettati) sull'asfalto di piazzale Loreto, dove il furore delle canaglie si esibì nella disgustosa scena dello sputo e del calcio ai cadaveri.
 La sinistra, immonda esibizione di piazzale Loreto fu una impresa del peggior stampo messicano, un disonorante orrore, che consente agli stranieri (ad esempio ai francesi, smemorati eredi dei rivoluzionari, che correvano per le strade di Parigi esibendo le teste ghigliottinate dei reazionari) di speculare sulla ferocia dei progressisti italiani.
 Presidente di una trucida fazione social-comunista, Pertini fu venerato e incensato dalla folla dei giornalisti ubriacati dalla retorica resistenziale o gettonati dal potere o impauriti dal fragore degli applausi scatenati da una minacciosa clacque di fanatici e/o di conformisti, questi ultimi tenuti sotto schiaffo dalla implacabile e incubosa vigilanza esercitata dalle severe guardie della vulgata resistenziale. 
 Il culto incensante (ma oramai grottesco) del boja Pertini è una macchia indelebile sulla storiografia imposta agli italiani dai vincitori della guerra civile.
 Il rispetto che si deve ai caduti della resistenza non può esigere in alcun modo la cecità al cospetto dei crimini orchestrati da Pertini ed eseguiti da comunisti.
 La prossimità del centenario della sconfitta italiana nelle seconda guerra mondiale e del massacro dei vinti (decine di migliaia furono i fascisti assassinati nella radiosa primavera del 1945) induce a credere che sia maturato il tempo di abolire le leggi che negano il diritto di svelare la verità intorno alla guerra civile e al suo tragico epilogo. 
 Tale libertà implica di procedere, al seguito estremo di Renzo De Felice, al getto al vento dei fumi d'incenso sollevati dai turiboli del servilismo intorno alla non limpida figura del Pertini e dei suoi sodali.


Piero Vassallo

mercoledì 28 settembre 2016

La manfrina antifascista

 Oggidì il fascismo non è un pericolo. Mi auguro che non sia necessario rammentare che al presente sono inesistenti e per la maggioranza degli italiani perfino incomprensibili le circostanze storiche, le idee e gli stati d'animo, che hanno suscitato e in qualche modo incoraggiato e giustificato la vincente azione del partito di Benito Mussolini. A cauti passi – peraltro – gli storici che hanno appreso la lezione della realtà avviano la revisione.  
 Il fascismo appartiene interamente al passato e pertanto l'antifascismo oggidì ha tanta attualità quanta ne potrebbe vantare l'attività di un partito ghibellino intitolato (regnante il guelfo mons. Bergoglio) alla germanica cancelliera Angelica Merkel.
 Robustissima e mutante (trans politica) la signora dei tedeschi che (pur avendone i requisiti fisici e mentali) non potrà far ridere (a crepapelle) il trapassato imperatore ghibellino Federico Barbarossa.
 E' pertanto lecito sostenere che sarebbe utile vedere i mutamenti avvenuti nella scena filosofica postmoderna, dunque preservare la politologia dalle ottenebranti suggestioni dell'anacronismo, ossia dalla tentazione di usare, quali parametri dell'attualità spensante intorno alle salme delle ideologie, idee e fatti inattuali, in ultima analisi appartenenti a un passato, che è – per obbligante e categorica definizione - irrevocabile.
 La ventennale storia del fascismo dunque appartiene all'irripetibile passato e come tale va letta sine ira et studio. Di qui l'esigenza di uscire da una lettura polemica e irosa di fatti storici, che la scolastica, generata dal progressismo retroattivo, consegna e affida al partito dei passatisti militanti (a sinistra e al centro liberale).
 La storia del ventennio fascista deve incominciare dall'espulsione della pretesa – strutturalmente irrazionale - di trascinare nel presente idee e fatti appratenti al passato. Si pensi alla polemica antifascista che, sotto l'impulso dell'irrealtà, ha proiettato nel passato – facendone quasi il temibile e agguerrito erede del duce di Predappio – una foglia al vento quale è stato il politicamente (auto) emarginato Gianfranco Fini.
 Dopo le indispensabili messe a punto è forse possibile proporre una lettura storica e non più politica del ventennio di Mussolini, delle sue felici imprese, dei suoi errori e della sua tragica fine.
 Non si può negare seriamente che Mussolini riuscì nell'impresa di trasformare l'Italietta dei liberali in una nazione capace di condurre splendide imprese: la pacificazione nazionale, il concordato con la Chiesa cattolica (non è certo per un caso che la giovane classe dirigente democristiana – Moro e Fanfani, ad esempio - ebbe un passato in camicia nera), la gigantesca impresa della bonifica pontina, l'attivazione di un sistema sociale  (che il regime degli antifascisti non ha osato demolire, prima che su di esso precipitasse, dall'estero, la sciagura del liberalismo assoluto), il rinnovamento della scuola e la sua apertura alle c. d. classi subalterne, l'attivazione di una grandiosa campagna contro le malattie sociali, la civilizzazione della Libia (sulla cui memoria i libici – se potessero conoscere la storia – dovrebbero esercitare le ragioni del loro rimpianto), l'avveniristica progettazione e costruzione di autostrade, e infine la proiezione del mondo di una splendida immagine dell'Italia.
 Errori capitali furono la promulgazione delle leggi razziali, l'abolizione del sistema elettorale (da cui il fascismo avrebbe ottenuto streptiosi consensi) e l'alleanza con gli alieni tedeschi, una decisione contraria per diametrum, ai giudizi beffardi e devastanti che Mussolini aveva espresso su Adolf Hitler, sul suo partito e sul suo popolo (lo ha rammentato, sviluppando un tema di Renzo De Felice, Fabio Andriola autore di un fondamentale saggio su Mussolini nemico di Hitler).
 Ad attenuazione del capitale/fatale errore commesso da Mussolini alleato di Hitler, è doveroso rammentare l'ostilità delle democrazie massoniche e antitaliane, che nell'inseguimento corsaro all'odio (antfascita e anti italiano) superarono (in larga misura) l'Unione Sovietica. 
 Al seguito dello storico (antifascista) De Felice, è ora necessario uscire dalla senteza che, nel fascismo, contempla una malattia morale cioè ristabilire la verità che - nel fascismo - riconosce la dura negazione italiana della mefitica cultura illuministica e della sozza cialtroneria massonica. Negazioni che – caso mai – devono essere iscritte nella colonna dei meriti di Mussolini.


Piero Vassallo

martedì 27 settembre 2016

Recensione a UN MESTIERE DEL DIAVOLO (di Emilio Biagini)

Questo libro-intervista al grande economista Ettore Gotti Tedeschi tocca numerosi punti di fondamentale importanza, non solo economica, in quanto pone l’economia nella sua giusta prospettiva di semplice strumento, e quindi destinata a porsi al servizio di fini moralmente sani, quali solo la dottrina cattolica è in grado di offrire. Se ciò non avviene, se l’economia è presa come valore a sé, il disastro sia morale sia economico è alle porte, e ciò lo si vede ogni giorno. Il mondo e il suo principe, il diavolo, non tollerano che all’economia venga dato un indirizzo moralmente sano, così come non tollerano che una grande banca venga diretta da un autentico cristiano, e questo spiega l’ignobile persecuzione contro Ettore Gotti Tedeschi.
Il diavolo, argomenta con arguzia Gotti Tedeschi, è “in pensione” perché il suo lavoro lo fanno altri, anche cattolici. La mentalità cattolica ha ceduto alla mentalità diabolica. Il Cardinale Joseph Ratzinger, in Introduzione al Cristianesimo, scrisse che “la Chiesa è diventata per molti ostacolo alla fede”. Ma Gotti Tedeschi si dice certo che solo la Chiesa potrà salvare l’uomo (p. 24). Osserva Paolo Gambi: “Colpisce la sua fiducia nella Chiesa, il suo amore così spesso dichiarato, nonostante tutto il male che da dentro le è stato inflitto, che è stato permesso e per il quale nessuno si è sognato neppure di scusarsi. Anzi, non mi risulta che qualcuno si sia impegnato a indagare ciò che è successo, nonostante le sue denunce. Per non parlare del fatto che hanno persino disobbedito alla volontà ultima di Papa Benedetto di riabilitarla ufficialmente.” (p. 176).
Tenuto conto anche di ciò, il quadro politico, economico, morale appare, a dir poco, allucinante. È in corso, con successo, il tentativo di distruggere le radici cristiane. L’immigrazione forzata ha come vero obiettivo il “ridimensionamento” (o meglio la distruzione) delle radici cristiane dell’Europa e in particolare dell’Italia, grazie a una classe politica che probabilmente non sa neppure cosa siano tali radici. “È troppo tardi ormai: troppi gnostici, persino inconsapevoli, soggetti al potere e alle proprie debolezze, guidano il mondo. Troppe persone che non sanno dare senso alle proprie azioni, perché mancano del senso della vita, governano le architetture della società. Troppe persone che hanno capacità, visione, senso della vita sono invece rassegnate, impotenti.” (pp. 38-39).
Di conseguenza, inevitabilmente, siamo in una profonda crisi morale che “provoca confusione tra fini e mezzi, la perdita del senso della vita e delle azioni. Fa scindere, separare, fede e opere, idee e comportamenti e, infine, genera un effetto che io definirei ‘cessazione dell’alimentazione integrale dell’uomo’. Quest’ultimo è fatto di corpo, intelletto e anima; per vivere in modo equilibrato deve quindi nutrire il corpo, l’intelletto e l’anima. Se gli viene tolto il nutrimento corporale muore di fame. Se gli viene tolto il nutrimento intellettuale non capisce ciò che fa. Se gli viene tolto il nutrimento spirituale, nella migliore delle ipotesi diventa un razionale consumista materialista. Come è stato negli ultimi tempi.” (pp. 40-41).
L’unico rimedio a tanto male sarebbe la morale cattolica, ma chi la difende si sente tacciare di oscurantista, retrogrado, medievale. Ma la morale cattolica non può sussistere senza la fede, la quale però, di fronte all’arrogante avanzata del laicismo, ha perduto tutte le battaglie, anzitutto quella filosofica, soccombendo al relativismo imposto dalla modernità.


Eppure, mi permetto di notare, il relativismo è segno di sconfitta del “pensiero” anticristiano. Il fallimento delle ricette laiciste e materialiste è palese, per il crollo dell’ateismo di Stato, il dilagare di droga e suicidi tanto maggiore quanto più avanzata è la secolarizzazione della società. È proprio perché non possono dimostrare la superiorità delle loro elucubrazioni, che gli illuministi al lumicino hanno inventato il relativismo. Vogliono persuaderci che se non sono riusciti loro a trovare la verità e a creare il paradiso in terra, vuol dire che nessuno può riuscirvi. Vogliono coinvolgerci nel loro fallimento. E ci riescono per il controllo arrogante dei mezzi di comunicazione e per la timidezza della gerarchia che cerca di andar d’accordo col mondo e trascura gli avvertimenti celesti (Fatima, Tre Fontane, Valtorta, Medjugorje).
Ne consegue la disfatta in tutte le altre battaglie: antropologica (con l’uomo ridotto frutto di evoluzione da un bacillo), scientifica (col cristianesimo sotto accusa solo perché chiede alle scienze di avere un fine), economica (con l’assurda pretesa che i vizi dell’uomo, come avidità, egoismo e indifferenza, siano conseguenze della povertà e non invece le cause della povertà stessa); sociale (col dilagare del neomalthusianesimo ambientalista persino all’interno del pensiero cattolico), sessuale (col vizio contro natura praticamente santificato).
Non trovando oppositori decisi, la filosofia anticristiana si propone di “correggere” i presunti “errori” della creazione. In realtà la natura è “creazione di Dio, perfetta in quanto opera Sua. Ma la natura è un mezzo a disposizione di un’altra creazione di Dio, l’uomo: ecco ciò che gli ambientalistici gnostici non tollerano, che la natura sia sottomessa all’uomo!” (p. 67). È la sfida satanica della gnosi che, “con visione naturalista e panteista, considera l’uomo il cancro della natura, quello che la danneggia con i suoi consumi smodati e la sua indifferenza all’inquinamento prodotto da lui stesso, soprattutto se si sposa (con una donna) e fa figli. E più figli fa più produce danno ambientale. Questa cultura ambientalista è ben accoppiata con la cultura neomalthusiana che negli anni ’75-80 produsse quel sentimento di antinatalità le cui conseguenze oggi sopportiamo.” (pp. 64-65), col risultato che “per non inquinare facendo figli, si è maggiormente inquinato aumentando i consumi per compensare il crollo della natalità.” (p. 65). In tal modo “l’accelerazione del problema ambientale è assimilabile all’accelerazione del problema finanziario, entrambi dovuti alle scellerate scelte neomalthusiane degli anni ’75-80, che hanno fatto crollare la crescita equilibrata della popolazione, bilanciandola con la crescita dei consumi individuali.” (pp. 74-75).
Ma crescita, sviluppo, benessere sociale e ricchezza economica si hanno solo grazie alla famiglia. “Il Pil cresce stabilmente solo se cresce la popolazione, senza questa crescita si può pensare di aumentare le esportazioni, la produttività, ma queste sono illusioni, per molti motivi, che nel mondo globale privilegiano altre aree economiche. Altrimenti il Pil aumenta solo accrescendo i consumi individuali, e ciò a scapito del risparmio trasformato in consumo, attraverso la delocalizzazione produttiva in altri Paesi, al fine di abbassare i prezzi e far crescere il potere di acquisto (per consumare di più). Ma se la popolazione non aumenta, se resta stabile o persino diminuisce, essa invecchia, comportando la crescita dei costi fissi della vecchiaia (pensioni e sanità), che vengono coperti dall’incremento delle tasse. Ed ecco che qui nasce la tentazione dell’eutanasia come presunta liberazione da una vita considerata indegna di esser vissuta (per mancanza di cure e attenzioni). Così si risanerebbero anche i bilanci degli Stati...” (p. 76, corsivo nel testo).
L’eutanasia, prospettata come necessaria dato l’“eccessivo invecchiamento della popolazione, costoso e insostenibile per i bilanci degli Stati”, è un vero capolavoro satanico. Tutto ciò sarà ovviamente presentato in un’aura di buonismo: “Verranno proposte politiche per rendere la vecchiaia meno sopportabile, molto costosa e piena di preoccupazioni per l’anziano, tanto da fargli considerare la vita indegna di esser vissuta; ricorrerà quindi all’eutanasia, cioè al suicidio, e gli inferi dovranno espandersi enormemente”. (p. 114). Ossia, prima il demonio e i suoi lacché annidati a Wall Street e a Washington, hanno promosso la compressione e l’invecchiamento della popolazione, ed ora vogliono assassinare i vecchi.
L’altra tentazione è quella del capitalismo di Stato. Il fallimento delle economie pianificate dei Paesi comunisti non ha insegnato nulla, anche perché l’invidia è un vizio estremamente diffuso, che rende ciechi di fronte alla realtà, per cui “quasi all’unanimità si accusa il capitalismo di aver provocato con i suoi eccessi egoistici la crisi in corso, il degrado ambientale e così via, mentre il capitalismo di Stato viene proposto come alternativa per risolvere i problemi creati dal primo. È facile capire il perché: facendo il capitalista, lo Stato può dettare le regole del mercato, regolando la libertà dell’individuo sempre in modo ingiusto, nella distribuzione della solidarietà forzata. Ma nell’affrontare una crisi come quella attuale – crisi le cui origini non sono affatto capitalistiche, bensì morali e politiche – forse si comincia ad intuire che quando il capitalismo viene deformato dalle scelte istituzionali nasce un qualcosa che non è più né capitalismo né dirigismo, bensì un mostro con più volti, corpi e anime non definibili. Come è facile immaginare, chi è destinato a sopravvivere, cioè lo Stato, attribuirà sempre ad altri la responsabilità degli errori commessi. La colpa normalmente ricade sul privato arido ed egoista, mentre il burocrate-tecnocrate è altruista, disinteressato, e al massimo guadagna troppo...” (pp. 80-81).
La diagnosi di Ettore Gotti Tedeschi è puntuale, perfettamente documentata e argomentata: “A livello globale quello che succede è questo: per venticinque anni (dal 1975 al 2000) ci si è rifiutati di riflettere sulla insostenibilità di una crescita economica consumistica (e sempre più a debito), con crescita della natalità pari a zero, delocalizzazione produttiva, crescita dei costi fissi di invecchiamento della popolazione, assorbiti dalla crescita delle tasse... Dopo il 2001 ci si è rifiutati di pensare che il debito subprime, prodotto per far crescere l’economia Usa al fine di fronteggiare l’aumento delle spese di difesa per contrastare il terrorismo (post 11 settembre) fosse insostenibile.” (p. 84).
A questo punto è bene precisare, per i profani (come il sottoscritto) che prime significa “ottimo, eccellente, della miglior qualità”, così che subprime vuol dire “al di sotto dell’ottimo, subottimale”. Per le banche il prestito subprime è un prestito concesso a un tasso di interesse più alto di quelli stabiliti dal mercato, a un soggetto che, a causa del basso reddito o di insolvenze pregresse, non offre sufficienti garanzie di restituzione del capitale. Insomma, anche un profano si rende conto che si tratta di strozzinaggio e di un pericolosissimo equilibrismo finanziario. E infatti…
Ecco come Ettore Gotti Tedeschi illustra le gravi conseguenze che ne sono derivate: “Quando è scoppiata la bolla finanziaria del debito, a fine 2007, ci si è rifiutati di accettare che bisognava sgonfiarla mettendo intorno ad un tavolo i grandi, cioè i responsabili delle nazioni coinvolte. Sgonfiare un debito così imponente, accumulato in decine di anni per compensare la mancata crescita della popolazione in Occidente con stratagemmi sempre peggiorativi, significava scegliere fra cinque opzioni:
- fare default e non pagare il debito (quel che di fatto fa la Grecia);
- fare inflazione (impossibile, è crollata la domanda);
- fare nuove bolle speculative (per cercare di rivalutare i valori immobiliari e azionari);
- fare austerità (si è tentato con risultati disastrosi);
- fare sviluppo economico (piuttosto difficile nel nostro Paese, in questa Europa).” (pp. 85-86).
Chi prende le decisioni? “(...) le decisioni le prendono alcune persone illuminate che stanno tra New York e Washington – e qualcuna a Berlino. A Bruxelles mandano le conclusioni con su scritto ‘to do’ (compito da fare). A Roma non c’è nessuno.” (p. 89). Ossia, in pratica l’Italia si trova in mano di burattini che prendono gli ordini dal burattinaio di Bruxelles, il quale è a sua volta un burattino di pochi personaggi gnostici e decisamente anticristici. Ad esempio (Sauron)-Soros (di recente smascherato dagli hackers che hanno portato alla luce ben 2500 sue direttive segrete a favore dell’immigrazione forzata e simili attentati all’identità cristiana) e Rockefeller (che proclama la sua ribellione a Dio e al bene esibendo la statua del satanico ribelle Prometeo proprio davanti al Rockefeller Center; e se Nomen Omen, non è forse un caso che Rockefeller significhi “colui che abbatte la Roccia”; ma quella è una Roccia sulla quale si sono sempre infranti e sempre si infrangeranno i nemici).
Nella loro frenesia anticristica, gli illuminati gnostici riescono purtroppo a controllare una gran parte dell’umanità. Infatti non è difficile controllare l’uomo: “basta allontanarlo da Dio, magari confondendolo su cosa gli è necessario per essere felice, soddisfatto – nello specifico facendogli scegliere solo soddisfazioni materiali, confondendo e gestendo quelle intellettuali e privandolo di quelle spirituali. Per controllare l’uomo è sufficiente fargli credere che la sua libertà viene prima di ogni verità di riferimento, soprattutto se questa verità gli viene imposta dalla Chiesa quale autorità morale” (p. 195).
Infatti non è certo difficile diventare seguaci della diabolica gnosi, “quando l’uomo si limita a consumare, comprare, mangiare, guardare la TV, magari anche andare in chiesa, ma per fare due chiacchiere anziché pregare. Questo tipo d’uomo perde il senso soprannaturale della vita e vive ‘animalescamente’ (...), magari pensando soprattutto a farsi un lifting, un tatuaggio, un abbronzante, un abbonamento in palestra, a preparare le vacanze... L’uomo che dice ‘in fondo si vive una volta sola’ è già preda della gnosi, senza saperlo.” (p. 115). Un uomo siffatto non pensa più al Creatore e non lo riconosce: l’interesse della sua vita si materializza, spostando su ciò che è materiale, pragmatico, tangibile, privo di fini. “Ma – ammonisce Gotti Tedeschi – non si creda che questo non abbia conseguenze gravissime sulla stessa vita umana: mi pare che stiamo vedendone i risultati proprio in questi ultimi tempi in cui il relativismo ha trionfato in tutti i campi, convertendosi persino in nichilismo assoluto. Quasi una nuova fede, una fede in nulla, per cui si lavora per nulla, ci si accoppia per nulla, si vive per nulla, si muore per nulla...” (pp. 125-126).
Il lavorio del nemico all’interno della Chiesa mira a far credere che le dubbie innovazioni nella prassi, come ad esempio la spinta alla collegialità (che ha un effetto disgregante), servano a “modernizzare” la Chiesa. Ma in tal modo si riesce “soltanto a relativizzare il comportamento, distaccandolo dai principi cui deve ispirarsi e arrivando pertanto a modificare tali principi dottrinali (...). Questa strategia ‘illuminata’ ha portato non solo alla tiepidezza nella fede individuale, ma anche alla disgregazione dell’unità politica cristiana in Europa, alla confusione sulla credibilità dell’autorità morale della Chiesa, e soprattutto alla convinzione sempre più forte che la Chiesa consenziente debba sottostare alle nuove costituzioni degli Stati sempre più laici, adattando la morale alle loro leggi. È evidente che se tutto è convenzione umana, nessun principio avrà più valore assoluto; anzi, i principi contro le convenzioni umane saranno persino illeciti e punibili. La decisione della Chiesa di secolarizzarsi e proporsi sempre più come esperta di miseria materiale piuttosto che di miseria morale porterà all’umanizzazione del cattolicesimo, all’umanizzazione del divino, alla relativizzazione del soprannaturale, alla fine del naturale (...) o la natura umana è originata dal caos – e quindi tutto è giustificato –, oppure è creata e frutto della volontà del Creatore, in questo secondo caso, se si distacca dal disegno del Creatore muore, in tutti i sensi. Dicono i Papi che è compito primario della Chiesa sostenere questo principio, ma ho perplessità che tutti siano d’accordo a fare ciò. Una della cause di questa mia perplessità è il modo in cui si è tollerato il cambiamento nel sacrificio della santa Messa. Questa è il termometro della fede della Chiesa. Spiega San Paolo che chi mangia il pane eucaristico in modo indegno pecca e si danna.” (pp. 238-239).
Come molti credenti, Ettore Gotti Tedeschi non sembra ritenere che il Novus Ordo Missae del Concilio Vaticano II, mirante a ottenere maggior partecipazione dei fedeli alla Santa Messa, abbia aumentato la devozione, ma dichiara pure: “non sono sicuro che prima la devozione dei sacerdoti fosse così superiore: forse erano solo obbligati a formule rituali (…), così come oggi la celebrazione della Messa, anche senza il rito tridentino, continua ad essere confidata alla santità del sacerdote – che certo non è cambiata con il Concilio, se c’era realmente.” (p. 240).
Il dubbio è lecito di fronte allo scarso zelo di molti consacrati nel combattere le insidie laiciste, una della quali è la bioetica, “definita da Stanley Jaki, benedettino, un’espressione confondente: ci si domanda infatti come possa essere non etico ciò che si riferisce alla vita (bios). Si tratta di un’espressione forzata, quindi, e il perché potrebbe trovarsi nel fatto che l’etica in questione consiste nel manipolare la vita con soddisfazione per l’uomo. Bioetica significa allora soddisfare i bisogni dell’uomo di essere biologicamente diverso, separando chi ha creato da chi ha modificato, e supponendo che chi vuole modificare sia migliore e più capace di chi ha creato? Pazzesco.” (p. 236). (...) se Dio non c’è, non c’è stata creazione, non c’è creatura sacra, ci sono solo cavie di laboratorio per la gnosi; e la cavia preferita è la creatura umana, che deve essere rimodellata e perfezionata.” (p. 237). Se l’uomo è una semplice cavia in mano agli autonominatisi, sedicenti “illuminati”, l’idea di peccato diviene una nozione fuori moda.
Nel suo tentativo di distruggere l’idea di peccato, il demonio ha percorso una lunga strada, prima con le eresie medievali, poi con la funesta “riforma” protestante. “Mentre l’eresia valdese è stata una ribellione anarchica alla Chiesa, quella albigese è stata ben più grave e significativa: potremmo considerarla un’eresia protomalthusiana, con tutti i suoi effetti anche economici sulla crescita. Si è trattato di una dottrina che pretendeva di estinguere l’uomo (la santità vera stava nel suicidio, ma anche lasciarsi morir di fame era apprezzabile), la famiglia e il matrimonio: per riuscirci non ci si doveva accoppiare. (...) queste idee non sono poi così estinte: aborto ed eutanasia, attacco alla famiglia e al matrimonio fra uomo e donna mi dicono qualcosa ancora oggi.” (p. 248).
Ed ecco entrare in scena Martin Lutero. Il peccato per lui “era qualcosa di utile per potersi pentire e rafforzare la fede, confidando in Dio. Il male allora, paradossalmente, diventa bene. In realtà il peccato è ciò che il ‘grande pensionato’ riesce a far amare a chi cerca di corrompere.” (p. 104).
“La Riforma, di fatto, promuove il comportamento affrettato, slegato da considerazioni di carattere morale, per prendere decisioni, fare e decidere, tanto l’uomo è affetto dal peccato originale e la salvezza mediante le opere è (per Lutero) impossibile. In più l’uomo, essendo predestinato, arriva a concepire la ricchezza come un dono di Dio (per Calvino). Weber, in un colpo di genio, ha riconosciuto in questi due elementi la base del capitalismo tedesco, che non si pone problemi morali, lascia peccare e pentirsi: così Dio aiuta il tedesco a diventare ricco. Ora, Weber non aveva sufficiente conoscenza né di economia né di storia, e non immaginava che il capitalismo fosse già nato secoli prima in casa cattolica, né sapeva che le stessi leggi di economia moderna vi erano già state formulate tempo addietro. Ma con Weber si è riusciti a scrivere nella storia che il cattolicesimo non sa combinare nulla, e che per promuovere il progresso c’è voluta la Riforma protestante. È invece vero che il capitalismo egoistico che separa capitale e lavoro (quello che Marx ha condannato) nasce in quel momento, e cambia lo scenario di potere in Europa; ma questo non perché i protestanti fossero più geniali, bensì solo perché avevano deciso di peccare più che potevano, e pentirsi poi.” (pp. 249-250).
“Il modello protestante esportato poi negli Stati Uniti, e tradottosi in mille sette che competevano fra loro, ha concorso a esasperare il pensiero morale-economico americano, liberale, soggettivista, deista. Forse è da questo pensiero che deriva l’attitudine a sganciar bombe e missili, per poi pentirsi istituendo fondazioni dedicate a orfani e vedove. Probabilmente per tale motivo a Wall Street, da un po’ di tempo, si pensa che insider trading, speculazione, bolle, ecc. siano frutto di un cattivo modo di agire legato all’educazione protestante made in Usa. Le sette protestanti americane sono molto varie: i quaccheri sono “ragione e ispirazione” (Dio parla all’anima e l’uomo presta fede); i mormoni sono neorivelazionisti corretti; i metodisti traducono la religione in sentimentalismo naturalistico. Ecco dove nasce il filantropismo americano, quello delle fondazioni per vedove e orfani.” (p. 255).
All’altro estremo del protestantesimo (ma gli estremi si toccano) vi è la teoria eretica che nega l’esistenza del peccato e in particolare di quello originale. La natura umana sarebbe di per sé buona, secondo le farneticazioni di Jean-Jacques Rousseau. “Alcune eresie anticipano (...) vere e proprie rivoluzioni di pensiero e di fede; mal interpretando la Bibbia e scoprendo che Dio è ovunque, si diffonde il panteismo che a poco a poco porta l’uomo a idrolatrare l’ambiente in cui vive.” (p. 247). Peggio, se l’uomo è intrinsecamente buono, il male deriva dall’oppressione di qualcun altro: la porta è così spalancata all’odio di classe. Non per nulla Rousseau con la sua melensa idea di bontà universale ha aperto la strada al livido odio marxista.
Così il demonio, in molti modi e con attacchi da più lati, ha avuto un successo straordinario nel corrompere l’umanità, anzitutto con la superbia e poi con tutti gli altri vizi capitali. “È riuscito persino a convincere gli ambientalisti gnostici di essersi incarnato nella madre terra, sacralizzandola... È stato talmente bravo che ora si è messo persino in pensione, tanto che gli esorcisti non ci sono praticamente più, visto che l’inferno probabilmente non c’è (almeno nella prassi) e il demonio neppure (sempre nella prassi). E poiché l’uomo relativista vive di prassi e non di Dottrina, il “grande pensionato” è disoccupato: non c’è quasi più nessuno da corrompere. Anzi, pare che lo stesso “disoccupato” se ne stia lontano da taluni perché ne è invidioso, teme che gli portino via il posto e la pensione, tanto sono diventati bravi...” (p. 105). Come si vede, Ettore Gotti Tedeschi sa presentare anche i fatti più gravi con levità ironica che rendono così accattivanti e persuasivi i suoi libri.
Tuttavia, che la “disoccupazione” del grande nemico non sia una semplice battuta, lo dimostra l’Apocalisse e l’importante rivelazione privata alla grande veggente Maria Valtorta: il Giuda dei tempi ultimi aprirà il pozzo d’abisso (Apocalisse 9, 1-12). L’Anticristo sarà un astro di una sfera soprannaturale, il quale, cedendo alla lusinga del Nemico, conoscerà la superbia dopo l’umiltà, l’ateismo dopo la fede, la lussuria dopo la castità, la fame dell’oro dopo l’evangelica povertà, la sete degli onori dopo il nascondimento. Sarà “un astro” dell’esercito di Dio: un’espressione che sembra indicare un altissimo prelato della Chiesa.
“A premio della sua abiura, che scrollerà i cieli sotto un brivido di orrore e farà tremare le colonne della mia Chiesa – sono le parole dettate alla Valtorta dal Divino Maestro – nello sgomento che susciterà il suo precipitare, otterrà l’aiuto completo di Satana, il quale darà ad esso le chiavi del pozzo dell’abisso perché lo apra”. Ed ecco come il nemico si ritira “in pensione”.
Anche in questa sua esternazione, Ettore Gotti Tedeschi si rivela non è solo un uomo di vastissima cultura ma un vero sapiente, capace di illuminare le menti e le coscienze sui più cruciali problemi che assillano l’umanità. Tutte le sue opere andrebbero studiate non solo nelle università ma specialmente nei seminari, onde formare meglio i futuri pastori.
Emilio Biagini


UN MESTIERE DEL DIAVOLO
Paolo Gambi intervista Ettore Gotti Tedeschi
Prefazione di Mons. Luigi Negri, Arcivescovo di Ferrara-Comacchio e Abate di Pomposa
Editrice Giubilei Regnani, Cesena (2015)






domenica 25 settembre 2016

La minaccia islamica e l'autorevole cecità

 Il pericolo, che incombe sulla Cristianità, sciante sulla nevosa e gaudiosa pista dell'ultra-ecumenismo, non ha origine dall'improbabile fascino emanato dalla fandonia, esportata da cammellieri teologizzanti, ma dalla depressione buonista/sincretista, in moscia circolazione all'interno dei  pensatoi di un Occidente intossicato dal laicismo e disarmato dalla teologia progressista.
 E' l'accecante buonismo, che dal delirio laicista transita all'incauto ecumenismo, la taciuta causa degli omaggi veneranti, che i successori di Pio XII hanno tributato a un libro, il Corano, che mescola il delirio teologico con gli sproloqui dei cammellieri.
 Purtroppo alla furente confusione ecumenica non si sottrae una ingente frazione del mondo cattolico, a cominciare (disgraziatamente) dai teologi buonisti, i quali ispirano il regnante pontefice.
 Papa Francesco, infatti, sconsiglia con energia forse degna di miglior causa, la resistenza all'invasione islamica in atto, e formula sentenze sibilline, fra le righe delle quali si legge il riconoscimento delle presunte verità  circolanti nel rozzo pensiero di Maometto.
 Nelle messaggio indirizzato da papa Bergoglio ai credenti in Cristo, si leggono chiaramente un'incauta adulazione e una spericolata e umiliante apertura ai migranti.
 Papa Francesco loda i promotori della rivoluzione esistenziale, che sarebbe lucidamente proposta dai banditori della superstizione maomettana e addirittura chiede loro “perdonate la chiusura e l'indifferenza delle nostre società, che temono il cambiamento di vita e di mentalità, che la vostra presenza richiede”.
 L'ecumenico papa Francesco sembra suggerire la composizione della fede in Cristo con la fede in Maometto e l'aperta condanna del ragionevole sospetto sulle intenzioni missionarie dei migranti.
 Al seguito della teologia sincretista, insorge una imbarazzante, fulminante e quasi surreale condanna delle obiezioni, che l'inconfutabile ragione dei teologi fedeli alla tradizione, oppone al novismo favorevole e propizio all'incontrollato e ostile flusso dei migranti e dei missionari islamici. 
 In un'ottica buonistica, che disconosce la storia e capovolge il concetto di invasione, papa Bergoglio dichiara addirittura che “respingere i migranti è un atto di guerra”.
 Fondamento di tale apertura all'immigrazione è un ragionamento di papa Bergoglio, in cui si legge il risultato delle acrobatiche e disastrose elucubrazioni formulate dalla teologia modernizzante, scatenata dal Concilio ecumenico Vaticano II: “E' vero che l'idea di conquista appartiene allo spirito dell'islam. Ma si potrebbe interpretare secondo la stessa idea di conquista la fine del Vangelo di Matteo, quando Gesù invia i suoi discepoli a tutte le nazioni”.
  Il curioso accostamento dell'apostolato cristiano alla incursione islamica stupisce il qualunque lettore della storia delle religioni. Di qui il sospetto (che – disperatamente - si spera infondato) di un'incauta apertura del pontefice regnante ai missionari della religione islamica.

 Purtroppo gli zoccoli del cavallo ecumenico, al galoppo sui furenti sassi della nuova teologia, sollevano il rumore dell'invincibile confusione, che è stata generata dalle avventurose varianti dell'ecumenismo.   

Piero Vassallo

giovedì 22 settembre 2016

La parodia buonista della carità cristiana

Secondo gli ideologi ultra moderni, angelici sono i suggeritori delle paure associate all'incremento della popolazione mondiale e i trombettieri degli appelli angosciosi finalizzati al rovesciamento dell'etica cristiana nei paradossali e fallimentari progetti onusiani.
Vito Emilio Centanaro


Venerata e incensata dai promotori onusiani della perfetta e assoluta democrazia, in pia circolazione nelle algide, stecchite e ultime trincee della modernità, ecco la mostruosa confusione di maschile e femminile, ossia una incandescente/delirante soluzione, esposta in lingua svedese, del problema posto agli europei dal temuto (ma immaginario) sviluppo demografico.
Risultati della flessione demografica, in atto nel paese guida dell'Occidente malthusiano e pederastico, è un continuo calo delle nascite, un deficit compensato dall'applaudito sbarco di masse migratorie, attirate dal vuoto in continua espansione e oscuro progresso.
Ora i pensatori flesciati dalla cultura denatalista sono apprendisti stregoni, incapaci di riconoscere il profilo selvaggio e la teologica aggressività, che caratterizzano quell'ingente frazione dei migranti, che è mossa dall'avversione della natura al vuoto demografico e attirata dal vuoto spirituale e dallo stordimento mentale, stati d'animo che sollecitano i governi dell'Europa a propiziare ed attirare i protagonisti di un conflittuale e rissoso meticciato.
All'inarrestabile massa dei migranti è associata, in larga misura, una inquietante e allarmante presenza di islamici, quasi eredi degli antichi invasori, che, in altri tempi, gli eroi cristiani hanno combattuto e vinto, dopo averne accertato l'irriducibilità e la strutturale empietà.
Incauti buonisti di scuola laica e/o clericale, dimentichi della chiara lezione impartita dalla storia medievale e dai suoi esiti ora felici (gli islamici respinti) ora drammatici (gli islamici invincibili e inamovibili), diffondono, imperterriti, l'illusione intorno alla possibilità di addomesticare, gettare ponti e integrare felicemente la quota giornaliera degli islamici sbarcanti.
Il buonismo di conio pseudo ecumenico – visibile nell'affrettato e incauto viaggio di Jorge Mario Bergoglio a Lampedusa  esercita una pressione talmente forte da indurre le soavi (e distratte) autorità religiose (e al seguito le istituzioni laiche), al rispetto e/o alla baciante venerazione del libro del falso profeta Maometto.
Di qui il rovesciamento della teologia nell'avventizio, ecumenico altruismo, che predica il capovolgimento o l'archiviazione del principio prima caritas incipit a seipso.
L'abbaglio buonista è azzerante a tal punto da esercitare una attrazione capace di persuadere l'autorità cattolica a invitare esponenti islamici alle celebrazioni di Assisi, programmate per onorare la memoria di Francesco, un santo missionario, che ha rischiato la propria vita tentando di ottenere la conversione degli infedeli.
Intanto un'incauta autorità politica, assordata dallo scoppio dei mortaretti buonisti e incoraggiata dall'assenza di un destra decente, comanda alla marina militare di prestare ai migranti un'assistenza assidua, intesa a far risparmiare agli islamici la spesa necessaria all'acquisto di natanti sicuri.


E' in tal modo attinta la conclusione della farsa ideologica e (purtroppo) teologica (bergogliana) finalizzata all'importazione e alla venerante/ubriacante delibazione del delirio islamico, esportato dalle patrie dell'arretratezza spirituale e mentale.

Piero Vassallo

SI VOGLIONO REGGERE SULLA FALSITÀ (di Piero Nicola)

Per negare che si fallisca adoprando il falso, bisognerebbe negare la civile decadenza che progressivamente attanaglia almeno l'Occidente, bisognerebbe disconoscere l'evidenza e che l'Occidente si fondi sulla falsità. La storica rovina dei costumi, quella famosa dissoluzione delle civiltà, quella parabola discendente che nella Storia vide le sconfitte dei popoli rammolliti e il sorgere sopra di essi di nuove ere e di nuove parabole, è cosa innegabile. E quanta parte vi abbia avuto l'illusione e la menzogna è pure dimostrabile. Il vigore nasce e cresce nel coraggio del vero, nell'uso dell'autentico.
  Dopo la Seconda Guerra Mondiale - che per vincerla obbligò i vincitori a raddrizzare la spina dorsale democratica - il seguito delle mistificazioni costituì un andamento costante, un crescendo incredibile. L'abuso della libertà-oppio dei popoli ebbe un ruolo preminente.
  Da noi, si cominciò con artifici ideologici, comunisti, socialisti, liberali: l'uguaglianza umana impossibile, il negato valore del sacrificio. Seguirono il libero mercato, l'autodeterminazione individuale e l'efficienza delle coscienze, l'innocuità delle seduzioni, ecc. Parallelamente si falsificò la storia e la realtà.
  Si è creduto che detenere i mezzi della propaganda mantenesse un potere valevole, che governare un mondo corrotto, un vasto mondo, eliminasse i barbari alle porte e garantisse un equilibrio, esteso nell'ottenimento delle società multietniche e della globalizzazione. Il futuro dirà la fine del disegno. Ma la tendenza della corruzione dice che si finirà di male in peggio, senza un'inversione di rotta.
  Certo è che l'oppio americano ha funzionato. La dissoluzione procede senza intoppi. Si credono le cose più inverosimili. È forse da presumere che un capo di stato ormai sperimentato, impegnato in una guerra nazionale sanguinosa, dalla quale dipendono le proprie sorti e quelle della patria, sia uno stupido che si dà la zappa sui piedi screditandosi, attirandosi la condanna per crimini umanitari, quando il commetterli non è affatto necessario? Nossignori! Simile comportamento è pazzesco, ed è certo che quel capo di stato dai pieni poteri sia sano di mente.
  Eppure da lungo tempo i mezzi d'informazione e presidenti di grandi paesi, alti esponenti delle Nazioni Unite, organizzazioni umanitarie, e chi più me ha più ne metta, denunciano criminali, ripetuti bombardamenti sui civili inermi, sugli ospedali, sui convogli che portano cibo e medicine a una popolazione ferita, stremata dalle privazioni e in procinto di morire di inedia. Il tutto: opera di Assad.
  Oh, si badi, i telegiornali riferiscono che i russi (la difesa del governo siriano vale ormai meno di un fico secco) hanno contestato e protestato. Ma la notizia è presentata in modo tale - priva d'un minimo resoconto degli argomenti e dei fatti addotti da Mosca - che serve a screditare ancor più la sottintesa malintenzionata Grande potenza e il suo protetto.
  Durerà? Non durerà? Un Trump porterà la correzione? In ogni caso, se continua così, è soltanto autodistruzione.


Piero Nicola

venerdì 16 settembre 2016

Ciampi cordoglio umano, non politico

Il puntuale giudizio dell'onorevole Matteo Salvini su Carlo Azeglio Ciampi - “fu un traditore, ha svenduto la moneta e il futuro dell'Italia” - ha turbato, commosso e sdegnato i politicanti, gli storici, i giornalisti democratici e i loro lettori, che – in altra sede – hanno approvato e applaudito la diffamazione dei defunti, che militarono nel partito dei cattolici e/o nei movimenti della destra moderata. Ferdinando Tambroni e Arturo Michelini, ad esempio.
 Ora il rispetto cristiano che si deve alla laica e bancaria salma di Ciampi non è sufficiente a risolvere le contraddizioni, che incombono sulla storia del presidente non credente di una repubblica nobilitata dalla religione cattolica. E obbliga a prendere le distanze dallo sdegno laico e democratico, suscitato dal duro ma non falso giudizio di Salvini.
 (Non si capisce peraltro l'indignazione per l'offesa ai defunti, passione fiammante nel cuore di politicanti attivi in una repubblica profetizzata dai calci democratici e progressivi, sferrati, a piazzale Loreto, contro le salme di Benito Mussolini e di Claretta Petacci).
 Al proposito di democrazia non si può dimenticare che, nel 1993, la autorevole rivista Famiglia cristiana pubblicò un articolo, in cui si affermava e dimostrava l'appartenenza di Azeglio Ciampi all'infame (e anti-italiana) setta massonica.
 Militante nel disgraziato partito d'azione, Ciampi fu, infatti, discepolo di Guido Calogero, il magister laicista, ostinatamente impegnato nella avversione culturale alla fede cattolica, professata dalla maggioranza degli italiani.
 Il doveroso cordoglio non è sufficiente a nascondere l'infelice profilo politico e culturale di Azeglio Ciampi, profilo che è disegnato in alcuni atti della sua trionfale carriera politica: nell'accettazione della tessera di socio onorario del Pci, che gli fu offerta dall'ossequioso Massimo D'Alema, dal voto di fiducia al disastroso governo di Romano Prodi, dall'entusiastica adesione al progetto di rovesciare la lira nell'infernale macchina dell'euro. La moneta che ha prodotto la povertà degli italiani non protetti dagli scudi della politica politicante.


Piero Vassallo

sabato 10 settembre 2016

Il californiano vento del vizio contro natura

Durante il secolo sterminato, i due sommi protagonisti della rivolta europea contro la fede cattolica e la ragione naturale, il filo nazista Martin Heidegger e il paracomunista Jean Paul Sartre, furono (almeno...) indenni da cedimenti fisici e teoretici al vizio contro natura. 
 Il filo nazista Heidegger intrattenne un rapporto rovente e tempestoso con una giovane allieva ebrea, Hanna Ahrendt, che lo tenne lontano dal problema sodomitico, in allegra circolazione nella Germania, intontita ma non preservata dal suono delle maschie e magiche trombe hitlero-wagneriane.
 Instancabile seduttore, Sartre manifestò, in alcune squillanti pagine dei suoi romanzi e dei suoi racconti brevi, un rovente disprezzo nei confronti dei sodomiti, identificati – addirittura - con i reazionari e i complici degli invasori nazisti. 
 (Per inciso: è lecito immaginare lo sconcerto e la pena procurati alle appassionate lettrici demo-esistenziali, ad esempio all'onorevole Monica Cirinnà, dalla furia antisodomitica in corsa beffarda – quasi fascista en travesti – nelle venerate pagine dal magister della sinistra perpetua, Sartre. Pagine nelle quali l'autorevole e incensato maestro della sinistra eterna e irriducibile, rovescia e schizza l'ombra di un dileggio velenoso su quelle idee libertine, che saranno accolte trionfalmente nel pantheon della setta progressista).
 Autore della tagliente e quasi volgare definizione delle comunelle pederastiche - “massonerie da pisciatoio” - Sartre, nella romanzata trilogia auto incensatoria, Il cammino della libertà, attribuì ai circoli sodomitici la colpevole approvazione e l'aperto sostegno alle idee professate dagli invasori nazisti.
  Quasi obliando la persecuzione e il feroce concentramento nazista degli omosessuali, Sartre spinge la sua avversione al vizio contro natura fino al punto di accostarlo alla morale dell'odiato nemico tedesco.
 Nel racconto Infanzia di un capo, Sartre tenta addirittura di dimostrare che l'atto contro natura è il rito di iniziazione alla cultura della destra. 
 In una squillante pagina della trilogia Il cammino della libertà Sartre sostiene che l'iniziazione dei   francesi alla setta filo nazista avviene in un vespasiano consacrato.
 L'esistenzialismo ateo di Sartre rifiuta e capovolge i princìpi della filosofia perenne e della morale tradizionale, ammette l'aborto e l'eliminazione del nemico fascista (nell'ultimo capitolo della trilogia Le chemin de la liberté, rappresenta se stesso in figura di fuciliere/giustiziere) e tuttavia scende di malavoglia (forse per un taciuto pudore) in quel perfetto odio contro la vita, che l'arcobaleno ateista attinge nella ripugnante notte dei sodomiti.
 Il fatto è che la sinistra disprezzava la sodomia, giudicato (non senza ragione) vizio della borghesia smidollata. Nel settembre del 1949, fu esemplare l'espulsione dal Pci di Pier Paolo Pasolini, accusato di infami atti pederastici.
 La giustificazione filosofica della sodomia è invece entrata in scena nel fatico 1968, promossa da un noto e illustre praticante, l'incensato filosofo francofortese/californiano Herbert Marcuse.
 A monte dei sodomiti filosofanti oltre e perfino contro Sartre, regna l'invincibile delirio marcusiano, secondo cui il principio di non  contraddizione è il fondamento dell'orrido fascismo. Sentenza in cui il fascismo è associato alla calunniata, censurata  e proibita resistenza alla corruzione avanzante sotto l'usbergo della illogicità e della follia propriamente detta.
 Il motore della corsa in direzione di un'anarchia morale sapientemente progettata dai poteri forti ed attuata dai politicanti deboli (ad esempio gli iscritti alla obbediente classe Cirinnà) è l'avversione furente alla religione cristiana.
 Al proposito è doveroso rammentare il giudizio di Sartre, nel quale palpita il cuore dell'Occidente anticristiano: “L'assenza di Dio è più grande e più divina di Dio”.
 Ora è evidente che l'attacco sartriano alla religione cattolica incoraggia e quasi giustifica il disprezzo, che gli islamici nutrono contro la declinante civiltà europea.
 Un delirio scaccia l'altro. Di conseguenza è lecito sostenere che il vizio californiano, figura ultima dell'Occidente laico e progressivo, è lo strumento di un masochismo umanitario, che invoca - provoca –  l'immigrazione islamica, incursione selvaggia di giustizieri tenebrosi e di terroristi implacabili. 



Piero Vassallo

IL MONDO NON PUÒ FARE IL BENE (di Piero Nicola)

  Precisiamolo subito: il mondo come lo intende il Vangelo ("Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia [...] Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi"). Come società di uomini non governata da cattolici osservanti, esso non può mai fare il bene sufficientemente e complessivamente, fa sempre più male che bene, e per questo reca danno nondimeno alle anime; in definitiva è il nemico della Verità e del Signore; salvo che sia costretto a sottostare alla legge naturale e divina.  
  Tale indispensabile osservanza (indipendentemente dal tipo di regime, autoritario o democratico, sebbene quest'ultimo sia generalmente troppo debole) bisogna che sia fissata nella Costituzione dello Stato e garantita dal Governo, oppure si deve alla subordinazione dello Stato cattolico alla Chiesa autentica in materia di costumi e di morale, ovvero dipende da un effettivo ossequio della Potestà civile a Dio e alla suddetta legge imprescindibile.
  Chi non rigetta il dogma sul peccato originale, chi non ammette l'eresia di Pelagio, dovrebbe aver saldamente presente la radicale inettitudine del mondo laico (inclusa un'ipotetica società in cui abbiano il predominio i cosiddetti uomini di buona volontà) a procurare il bene comune; egli dovrebbe premetterla ad ogni valutazione di sistemi costituzionali, di dottrine politiche, di giudizi sulla civiltà trascorsa, presente e ritenuta possibile. Dio ha dettato la premessa. Se ce ne fosse bisogno, la storia attesta la Sua parola.
  Dovremmo credere ai fautori di una ideologia che presuppone il laicismo, ai fiduciosi nelle risorse umane, nel naturale prevalere del vero e del bene? Dovremmo aderire ai credenti nelle scienze, nel loro metodo rigoroso, nella possibilità di un autonomo civile perfezionamento, per non dire del progresso evolutivo? Impossibile. Cristo dichiarò: "Senza di me non potete fare nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca" (Gv. 15, 5-6). La Chiesa stabilì la necessità della Fede e della Grazia per compiere liberamente opere meritevoli.
  Concilio di Trento, Sess. VI, Canoni sulla giustificazione:
  1. Se qualcuno afferma che l'uomo può essere giustificato davanti a Dio dalle sue opere. compiute con le sole forze umane, o con il solo insegnamento della legge, senza la grazia divina meritata da Gesù Cristo: sia anatema.
  2. Se qualcuno afferma che la grazia divina meritata da Gesù Cristo viene data solo perché l'uomo possa più facilmente vivere giustamente e meritare la vita eterna, come se col libero arbitrio, senza la grazia egli possa attuare l'una e l'altra cosa, benché faticosamente e con difficoltà: sia anatema.
Concilio di Cartagine, a. 418, Peccato originale:
Can. 2 [...] Non si può comprendere diversamente quanto dice l'apostolo Paolo: "Per un solo uomo è entrato il peccato nel mondo (e attraverso il peccato la morte) e si estese a tutti gli uomini; tutti in lui hanno peccato" (Rm. 5, 12), se non nel senso in cui la Chiesa cattolica, dovunque diffusa, lo ha inteso. A motivo di questa regola della fede anche i bambini, che non abbiano ancora potuto commettere peccato alcuno in se stessi, tuttavia vengono veracemente battezzati per la remissione dei peccati, affinché mediante la rigenerazione venga in essi purificato quanto essi attraverso la generazione hanno contratto.
Concilio di Cartagine, a. 418, Grazia:
Can. 5. Così pure è stato deciso che chiunque avrà detto, che la grazia della giustificazione ci viene data per il motivo che quanto ci è comandato di fare mediante il libero arbitrio, per mezzo della grazia lo possiamo adempiere più facilmente, come se, non venendo largita la grazia, potessimo tuttavia anche senza di essa, pur con difficoltà, adempiere i comandamenti divini, sia anatema. Dei frutti dei comandamenti infatti parlava il Signore, non dicendo: Senza di me li potete compiere più difficilmente, ma dice: "Senza di me non potete fare nulla".
  Evidentemente non si tratta soltanto di peccati personali, relativi alla salvezza eterna, ma di violazioni della Legge che concernono nondimeno la vita sociale.
  Perciò fanno ridere quei tali che si indignano e si scandalizzano per le leggi liberticide rivolte a proibire e a reprimere, nel consorzio umano, gli atti contrari alla verità (divinamente data) e al potere che la tutela, e non soltanto le azioni ritenute immorali e sovversive dalle comunità libertarie. Come le eresie sono state condannate dalla Chiesa (per esempio nei due Concili sopra citati: contro Lutero e contro Pelagio), essendo fomite di peccato, allo stesso modo lo Stato deve condannare chi propala gli errori che seducono il popolo spacciando il male per bene, e inducono a mal fare.
  Ma, cosa inaudita, Giovanni XXIII cominciò, nelle sue encicliche sociali e mondiali (Mater et Magistra, Pacem in terris), a riabilitare l'eresiarca Pelagio. Predicò ad ogni sorta di genti, si rivolse agli uomini responsabili del mondo, non cattolici e cattolici di dubbia lega, come se fossero in grado di fare la volontà di Dio. Il Concilio Vaticano II completò la sua opera di eresia.
  Inoltre, lo stesso Roncalli prese a considerare superflue le correzioni, sconsigliabili le condanne, sempre sopravvalutando gli uomini contemporanei (larvato evoluzionismo). Mentre nel mondo dare consenso alla licenza divenne rispetto della dignità umana e poi riconoscimento di un diritto, la sana ammonizione e debite proibizioni ecclesiastiche furono ereticamente considerate una menomazione della libertà necessaria alla fede e un'imposizione di essa. La via alle aberrazioni dogmatico-pastorali era stata spianata, e formarono un'empia catena che ancora non cessa di accecare i creduli e i corrotti.


Piero Nicola

venerdì 9 settembre 2016

SULLA DEFINIZIONE DEL “NEMICO”, NEL RAPPORTO “AMICO-NEMICO” – CRITICA DELLA “DISCUSSIONE” (DEL “DIALOGO”) QUALE UNICA FORMA VALIDA DI AZIONE POLITICA (E RELIGIOSA). Carl Schmitt, Donoso Cortés e il Vaticano II. (di Paolo Pasqualucci)

Riprendo un passo da Il concetto del Politico, del 1932, un’opera fondamentale della filosofia politica contemporanea.  Ciò va detto anche se, allo stesso modo del sottoscritto, non si condivide il concetto (solo) decisionista  della sovranità elaborato dallo Schmitt (“Sovrano è chi decide dello stato d’eccezione”), delucidando questo concetto solo un aspetto del potere sovrano.  Ma Schmitt ha indubbiamente colto un elemento essenziale della realtà politica nel rapporto di “amico-nemico”, ricco di complesse articolazioni nonostante la sua struttura dualistica, e comunque concetto che libera il campo da molte ambiguità.

“I concetti di amico e nemico devono essere presi nel loro significato concreto, esistenziale, non come metafore o simboli; essi non devono essere mescolati e affievoliti da concezioni economiche, morali e di altro tipo, e meno che mai vanno intesi in senso individualistico-privato, come espressione psicologica di sentimenti e tendenze private.  Non sono contrapposizioni normative o “puramente spirituali”.  Il liberalismo ha cercato di risolvere, in un dilemma per esso tipico […] di spirito ed economia, il nemico in concorrente, dal punto di vista commerciale, e in un avversario di discussione, dal punto di vista spirituale.  In campo economico non vi sono nemici, ma solo concorrenti; in un mondo completamente moralizzato ed eticizzato solo avversari di discussione. 
Qui non viene assolutamente in questione il problema se si ritenga riprovevole oppure no o se si consideri un retaggio atavico di tempi barbarici il fatto che i popoli continuano a raggrupparsi in base al criterio di amico e nemico, né rileva che si speri che tale distinzione possa un giorno essere abolita dalla terra, oppure che si pensi che sia buono e giusto fingere, per scopi pedagogici, che non vi sono più nemici.  Qui non si tratta di finzioni e di normatività ma solo della plausibilità e della possibilità reale della nostra distinzione.  Si può condividere o meno quelle speranze e quelle tendenze pedagogiche; non si può comunque ragionevolmente negare che i popoli si raggruppano in base alla contrapposizione di amico e nemico e che quest’ultima ancor oggi sussiste realmente come possibilità concreta per ogni popolo dotato di esistenza politica”[1].
Va messa in rilievo la critica a quest’aspetto del liberalismo.  Forte della sua concezione ottimistica dell’uomo, il liberalismo non vuol vedere nemici nell’ambito commerciale ma solo concorrenti, anche se talvolta “i concorrenti” si comportano come nemici spietati tra di loro.  E crede il liberalismo classico nella possibilità di limitare l’ostilità derivante dallo scontro delle idee e degli interessi mediante il rispetto dell’avversario e la discussione razionale dalla quale la verità dovrebbe sempre emergere (come se fossimo in un dialogo platonico, con Socrate sempre maieuta del vero metafisico).
Osservo che non si deve accusare tale concezione di ipocrisia quanto piuttosto di utopismo, derivante dall’errata convinzione che nell’essere umano non vi siano tendenze al male, passioni e istinti indomabili, che troppo spesso prevaricano sulle pur esistenti sue tendenze al bene (il dogma del peccato originale postula un indebolimento grave della natura umana non una sua totale corruzione).  La convinzione che i “nemici” si debba tentare di trasformarli in “concorrenti” sul piano economico o in “controparte di una più ampia discussione” su quello spirituale (e quindi sia politico che religioso), corrisponde indubbiamente ad una nobile esigenza, quella di civilizzare al massimo i rapporti tra gli uomini, cercando di disciplinarne gli istinti in primo luogo mediante una elaborazione razionale e condivisa dei principi che devono regolare i loro contrasti, sì da sottrarli per quanto possibile all’uso della forza.      
Tuttavia, se l’eliminazione della categoria del “nemico” è entro ristretti limiti possibile in campo economico e culturale, non lo è più quando si viene alla politica e alla stessa economia in senso stretto e, vorrei dire, forte. E tantomeno lo è quando si viene alla religione.
L’astrattezza dell’impostazione liberale in relazione all’effettiva realtà politica, Schmitt la coglie utilizzando una penetrante affermazione di Donoso Cortés sui limiti della classe borghese.
Lodando la capacità di intuizione di Donoso “nelle materie spirituali”, Schmitt ricorda “la sua [di Donoso] definizione della borghesia come “clasa discutidora” e la consapevolezza che la sua religione consiste nella libertà di parola e di stampa.  Non voglio prendere ciò come l’ultima parola sull’intera questione, ma solo l’aperçu piú incisivo sul liberalismo occidentale.  Davanti al sistema di un Condorcet, ad esempio […] si può ancora realmente credere che l’ideale della vita politica consista nel fatto che non solo la corporazione legislativa ma l’intera popolazione discuta, che la società umana si trasforma in un immenso club e che in tal modo la verità sorga da sé sola, attraverso la votazione.  Per Donoso ciò rappresenta solo un metodo per sottrarsi alla responsabilità e attribuire alla libertà di parola e di stampa un’importanza gonfiata al di là di ogni misura, per modo che, alla fine, non vi sia più bisogno di decidere.  Come il liberalismo, in ogni occasione politica, discute e transige, così esso potrebbe risolvere in una discussione anche la verità metafisica.  La sua essenza consiste nel trattare, cioè in una irresolutezza fondata sull’attesa, con la speranza che la contrapposizione definitiva, la sanguinosa battaglia decisiva possa essere trasformata in un dibattito parlamentare e possa cosí venir sospesa per mezzo di una discussione eterna”[2].
I diplomatici sogliono dire, empiricamente: “finché si negozia, non ci si spara addosso”.  Giusto.  La guerra dovrebbe essere sempre l’ultima ratio.  Ma quando ti sparano addosso e non vogliono discutere con te, che fai?  Continui a “discutere”, a “dialogare”, come se i proiettili fossero confetti?  I terroristi musulmani ci minacciano di continuo e ci ammazzano appena possono, vogliono piegarci con il terrore e noi gli rispondiamo invitandoli a discutere, negoziare, a praticare il (supposto) “vero islam”, che sarebbe una “religione di pace”?  E quando popoli interi ti invadono in modo sempre più massiccio, sbattendoti in faccia che è un loro diritto [?] venir qui a stabilirsi, e a spese nostre [!], anche qui ci mettiamo a discutere e a negoziare?  Veramente, le nostre autorità non discutono affatto, senza fiatare se li prendono in carico e li traghettano a migliaia la settimana nel nostro disgraziato Paese.  Qui siamo oltre l’utopia liberale del “dialogo”, siamo alla pura e semplice resa senza condizioni.

Tornando a Schmitt e alla critica della borghesia “classe che discute” e altro non fa, apparentemente.  Non si limitava certamente a discutere, la borghesia di un tempo, picchiava pure e duramente.  Però è vero che in quell’ideologia di origine borghese che è il liberalismo c’è indubbiamente l’idealizzazione della discussione razionale, la convinzione utopica di riuscire ad addomesticare i rapporti di forza e le passioni mediante una “discussione”, un continuo e aperto dibattito che impedisca alla fine l’esplodere di conflitti sanguinosi. Anche in politica, come se una decisione parlamentare possedesse come tale questa capacità.  Sullo sfondo di questa convinzione alita una fede eccessiva nella ragione umana, l’idea che “la verità sorga da sé sola, attraverso la votazione” ovvero grazie al parere di una maggioranza (in teoria) colta e preparata, che ha sviscerato tutti i problemi in lunghe analisi e discussioni.
Non si tratta di abolire i parlamenti ma di ricondurli ad una dimensione più realistica, tenendo conto dei limiti effettivi della natura umana, dell’esistenza di nemici reali, individui e popoli che vogliono distruggerci o comunque sottometterci.  Nel liberalismo, c’era e c’è questo difetto di impostazione, ben individuato da Donoso e poi da Schmitt, difetto che favorisce un’errata nozione del  v e r o.  Come se per l’appunto la verità si potesse sempre ricavare dalla pubblica discussione su di essa, magari anche per ciò che riguarda le verità metafisiche.  Alla fine la verità verrebbe in tal modo consegnata alla decisione della maggioranza, il che è manifestamente assurdo, anche se non si può escludere a priori che la maggioranza possa arrivarci (per esempio nella politica o nei tribunali, decidendo in modo giusto od equo in relazione al caso concreto). 

La cosa grave è che tale concezione della v e r i t à, accettabile solo per ciò che riguarda le verità parziali e limitate  dell’azione politica immediata o di una sentenza; tale concezione è stata in sostanza adottata dalla Gerarchia della Chiesa cattolica, con il Concilio Vaticano II, cosa impensabile al tempo nel quale Schmitt scriveva, per non parlare di Donoso, vissuto all’epoca di Pio IX. 
Infatti, in certi testi del Concilio la verità morale (il cui fondamento è sempre religioso) è presentata come ricerca della coscienza da effettuarsi in comune con tutti gli uomini di buona volontà, quale che sia la loro religione.  Come se, per il cattolico, non esistessero verità rivelate da Dio e insegnate per duemila anni dalla Chiesa, costituenti il fondamento assoluto della religione e della morale, le quali in nessun modo possono risultare da una ricerca “in comune” con tutti gli altri uomini, per quanto di buona volontà, tra l’altro come se i cattolici ancora non le possedessero!  Esse costituiscono l’immutabile Deposito della Fede, vanno messe in pratica nella propria vita e difese dalle credenze professate da tutti gli altri uomini, dai non cristiani, anzi dai non cattolici.  
In tal modo l’utopia liberale, anzi l’errore liberale è penetrato (con la mediazione dell’Esistenzialismo e del suo relativismo etico) nella pastorale della Chiesa, all’interno di un elogio della “coscienza morale” apparentemente ortodosso.  Questo il passo incriminato:  “Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità numerosi problemi morali, che sorgono tanto nella vita privata quanto in quella sociale” (costituzione pastorale Gaudium et Spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, art. 16).   Qui la verità è intesa come “ricerca della verità in comune con tutti gli altri uomini”, ovviamente nel “dialogo”, edizione ammodernata della “discussione” di cui all’ideale liberale criticato da Donoso e da Schmitt. 
Quest’idea della “verità come ricerca” appare anche nell’art. 8 della Dei Verbum, dove si afferma addirittura che “la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio”, come se la Rivelazione, secondo quanto sempre professato nei secoli, non si fosse conclusa con la morte dell’ultimo Apostolo.  Mi chiedo se una frase del genere non possa ritenersi manifestamente eretica.
La Chiesa cattolica attuale, per bocca della sua Gerarchia, “dialoga” con tutti perché è evidentemente immersa nella ricerca della verità, la cui “pienezza” ancora non possederebbe [sic], allo stesso modo dei fedeli tutti, “i cristiani, che si uniscono agli altri uomini per cercare la verità al fine di risolvere secondo verità i problemi morali che si presentano nella prassi”.   Ma come sarà possibile arrivare ad una verità “comune” ed anzi ad una verità che sia veramente tale, servendosi di siffatta “ricerca”? 
Tranquilli, spiega il Vaticano II,  la verità si impone sempre per la sua forza interiore.  E questo è certamente esatto, osservo, dal momento che il v e r o si distingue per la sua intrinseca evidenza.  Però non si impone sempre, a causa di questa stessa evidenza.  L’autoevidenza che la verità pur di per sé possiede non basta affinché essa si imponga come tale a tutti:  si imporrà a qualcuno ma non a tutti ed anzi spesso non si impone affatto.  Se così non fosse, non si capirebbe perché molti fra gli ebrei che al tempo assistettero ai miracoli di Nostro Signore non abbiano voluto credere in Lui.
 Utopistico appare dunque il seguente concetto, espresso dal Concilio a proposito della forza persuasiva della verità:  “E tutti gli esseri umani sono tenuti a cercare la verità, specialmente in ciò che concerne Dio e la sua Chiesa, e sono tenuti ad aderire alla verità man mano che la conoscono e a rimanerle fedeli.  Il sacro Concilio professa pure che questi doveri attingono e vincolano la coscienza degli uomini, e che la verità non si impone che per la forza della verità stessa, la quale si diffonde nelle menti soavemente e insieme con vigore” (Dichiarazione Dignitatis Humanae sulla libertà religiosa, art. 1).
Non dico che il concetto qui affermato sia falso.  Dico che è parziale, insufficiente e con tendenza a sfociare nell’utopia.  È vero che la verità si impone per la sua intrinseca forza ma non solo per questo motivo.  Le verità di fede, ad esempio, con i loro profondi misteri, possiamo crederle senza l’aiuto determinante della Grazia?  No.  E allora non possiamo dire che le verità rivelate si impongano a noi solo per la loro intrinseca evidenza.  Deve subentrare un elemento sovrannaturale, la cui effettiva dinamica necessariamente ci sfugge e cui crediamo  per fede , fede a sua volta basata sulla Rivelazione.     
E come sarà possibile far scaturire una verità che si imponga “soavemente e con vigore” a tutti grazie alla ricerca “in comune” di cui al citato articolo 16 GS?

L’applicazione stessa di questo criterio di ricerca “in comune” del vero, dimostra la falsità del criterio stesso (“Dai loro frutti li conoscerete”, Mt 7, 16).  La verità sul matrimonio, tanto per fare un esempio, “il cristiano” da quale ricerca in comune l’avrà ricavata: da una ricerca con chi ammette le “unioni civili”, il matrimonio solo civile, il divorzio, e adesso anche il “matrimonio” omosessuale; o il ripudio, la poligamia, il matrimonio temporaneo?  E a cosa sono approdati, clero e fedeli, in questa “ricerca della verità” nel “dialogo” con tutto il resto del mondo sui problemi morali (religiosi, filosofici, politici) se non alla dissoluzione della loro stessa verità e fede, come si evince dagli ultimi documenti episcopali e papali sull’istituto del matrimonio, pieni di eresie ed errori nella fede?
Parafrasando Donoso possiamo dire che la Chiesa attuale è afflitta da una “Jerarquía discutidora”, il cui continuo, nefasto, sconnesso “dialogare” sta portando all’ autoannientamento del Cattolicesimo.

Paolo  Pasqualucci




[1] Carl Schmitt, Il concetto di ‘Politico’, in ID.,  Le categorie del ‘Politico’, tr. it. di saggi di teoria politica a cura di G. Miglio e P. Schiera, Il Mulino, Bologna, 1972, pp. 87-183; pp. 110-111.
[2] Op. cit., pp. 82-3.  Si tratta del saggio:  La filosofia dello Stato della Controrivoluzione (De Maistre, Bonald, Donoso Cortés), in ID., Teologia politica, in Le categorie del ‘Politico’, cit., pp. 75-86.