domenica 17 marzo 2013

Recensione a UN TRENO NELLA NOTTE FILOSOFANTE (Roberto Dal Bosco)

Quello che è successo al pensiero del XX secolo è mostruoso, a tratti quasi irreferibile.
La dissoluzione e la decadenza si sono impossessate anche della filosofia, contaminandola scientemente con il fine di bacare la mente del mondo, di avvelenare i pozzi a cui la politica e la civiltà devono abbeverarsi. Il risultato, ahimè, è sotto gli occhi di tutti.
Come questo sia avvenuto è davvero difficile da illustrare. Più che un saggio di filosofia, serve un espediente estetico, serve il potere chiarificatore della fiction. Perché le tenebre sono talmente fitte che solo con gli inventi del poeta si può tentare di trovare un senso generale alla catastrofe continuata.
È per questo che chiunque voglia farsi un’idea a quel che è successo alla Cultura italiana del Novecento dal dopoguerra ad oggi dovrebbe passare per la lettura dell’agile romanzo breve orora pubblicato da Solfanelli Un treno nella notte filosofante, di Edoardo Allori, pseudonimo del più grande filosofo cattolico vivente. Un breve racconto che ambienta in colori kafkiani densissime conversazione filosofiche.
Perché la forma narrativa atta a descrivere la disintegrazione socioculturale che viviamo - e che, ci dice il protagonista, è partita da lontano, almeno dal Seicento - assomiglia molto a certi incubi: insensati, paurosi, teatri della nostra impotenza. Viene da pensare all’incipit di un grande, enigmatico film di Ingmar Bergman, Il Silenzio. Un viaggio in treno per un paese sconosciuto, lo spettacolo assurdo della realtà che muta fuori dai finestrini. Città, pioggia, file di carroarmati...
Anche nel libro c’è un treno da prendere, un treno che però non ci porta più a destinazione... il treno viene bloccato a metà del percorso, e dobbiamo smontare perché giovani facinorosi urlano all’emergenza, e ci spingono per indottrinarci a teorie folli e omicide, nel trionfo della decomposizione delle idee, nel sincretismo dello sfascio totale.
La metafora ferroviario-filosofica è puntuale e calzante come poco altro.
La cultura odierna è oramai un mortifero spettacolo bifronte: dal palco, ci narcotizza con idee blasfeme ed assassine. Nel retropalco - e questo è uno dei punti salienti del racconto - vi sono editori che, tra filosofi ed intellettualoidi adoranti, compiono cerimonie di sacrificio umano nel nome dei demòni, sgozzando i loro stessi poveri adepti.
Capiamo quindi che quelli che stiamo vivendo non sono tempi comuni. Il creatore ci ha immessi in un’epoca dove l’umanità desidera estinguere se stessa, e questo è un mistero che va affrontato.
Metabolizzare tutto questo è quasi impossibile, se non si ha la Fede. La Fede che scaccia l’incubo, e riporta sulle cose il chiarore salvifico del Logos.
La Fede che ci porta alla destinazione finale, il Cielo.
Al di là del tremendo messaggio filosofico, il libro va letto come stupendo memoriale di un secolo di vita culturale italica. In ispecie per chiunque si interessi di Cultura di destra, vi troverà gustosi e illuminanti racconti di sessanta anni di storia filosofica ed umana. Nelle memorie del protagonista quando si parla del “bunker”, si fa riferimento all’oramai lontanissimo nella memoria Movimento Sociale Italiano.
Sono irresistibili le pagine in cui si tratta del «Barone nero, il viaggiatore dadaista la cui audacia ha superato l’idealismo». «Il barone seguiva un ideale guerriero, Guénon pensava (cito a memoria) che la realizzazione consistesse in un perfetto equilibrio tra gli aspetti maschile e femminile, attivo e passivo, tra lo yang e lo yin. Sosteneva che non per nulla lo stato primordiale è simboleggiato dall’androgino. Il barone, nonostante tutto, era contrario alla transessualità. E questo spiega perché la potente editoria iniziatica, ella certamente capisce a quale genere di iniziazione alludo, ha imposto Guénon sul mercato librario ma ha ostacolato la diffusione delle opere del barone». L’analisi della fallacia del pensiero di questo barone è spietata soprattutto con il suo maestro: «Guénon parla di principio illimitato, e per illimitato intende incondizionato dalle determinazioni primordiali, come essenza, sostanza, essere. Nel principio superiore, Guénon, contempla ciò che si oppone all’essere. Il divino, nella sua opera, coincide perfettamente con Shiva, il potere della distruzione, la fomite dell’antivita».
Il lettore avrà capito che il «Barone nero» è in realtà  barone Giulio Cesare Andrea Evola, detto Julius per meriti letterari. il protagonista ricorda di quando da giovane viene ammesso, con una torma di amici entusiasti che piombano a Roma senza dormire per l’eccitazione, al cospetto del barone, che li accoglie nel suo attico umbertino con una impietrita marzialità che riesce ad emanare perfino in sedia a rotelle: «Un mito romano. Alle pareti corde, piccozze e lo stemma del club alpino. Quadri futuristi e dadaisti. La governante ci precedette attraverso una sala ingombrata da scaffali carichi di libri e di polvere (...) Sulla vecchia scrivania quaderni, riviste, e la Reminghton a doppia tastiera, prezioso pezzo di modernariato (...) Due savonarole scomodissime, un’insidiosa poltrona da sonno. Si capiva che la camera era luogo di sedute filosofanti. Alle pareti ritratti di una donna in varie posizioni (...) Una tradizionalista brasiliana dotata di magici poteri. Il nostro amico romano ci aveva avvisato: il maestro usava quella poltrona per mettere i suoi ospiti incauti alla prova del sonno. Sedemmo. Seguì un silenzio duro e spietato. Michele, sulla poltrona, incominciò a soffrire. Il lieve strabismo del barone ci irretiva. Quando fu servita una bevanda al tamarindo il barone incominciò a deplorare l’alto prezzo della carne e a suggerire improbabili picchetti reazionari davanti alle macellerie (...) Dopo che dalla funivia del Monte Rosa un evolomane troppo serioso fece getto delle ceneri del barone, si seppe che egli apparteneva all’esercito dei morti di fame e che la padrona di casa, una matura gentildonna appassionata di tantrismo teorico, ometteva di riscuotere l’affitto». E via così con altre indomabili invettive autobiografiche.
La scrittura è elegante e lucidissima tanto che tutto il libello può essere letto in filigrana come una raccolta di aforismi fulminanti.
Sono sante parole quelle sul gobbo di Recanati: «La sua poesia esprime magnificamente l’odio gnostico contro la vita (...) Una buona scuola dovrebbe educare la gioventù al disprezzo verso Leopardi».
Sono precise, e attualissime, quelle sulla civiltà germanica: «Secondo me il tono fondamentale della cultura tedesca è il sacro lutto. E l’Eros greco è soltanto una maschera funeraria (...) Io ritengo che l’opposizione tedesca alla romanità sia una figura della guerra alla vita. Il mondo romano si esprime attraverso la solarità di San Tommaso e di Giotto. L’universo
germanico ha partorito i pensieri notturni di Lutero, Böhme, Hölderlin».
I tedeschi vivono una catastrofe storica e meta-storica che ha infettato il mondo intero: per i germanici  la guerra, purtroppo, fu «perduta dall'esercito, non dal cattivo genio della Germania. Il loro stemma è la morte: faranno cadere tutte le illusioni illuministiche. Nel 1934 il vescovo di Colonia ha fatto pubblicare un libro nero, che documenta, con rigore, che le fonti della filosofia
nazista si trovano nella gnosi massonica e nella teosofia dell’India. Le parole di san Gregorio Magno sono sempre attuali: Gog iste Gothus est quem iam videmus exisse de quo promittitur nobis victoria. La guerra riprenderà dopo la fine della Germania nazista. Hitler sta facendo bruciare la parte migliore della gioventù tedesca nella fornace. Quando questa Germania sarà consumata si faranno avanti gli intellettuali, i senza principi, i figli dell’ignavia, quelli che il pesante gergo delle caserme definisce vaselina. La Germania diventerà la capitale della perversione. Sono loro i futuri interpreti del demone giovane di cui ho parlato. Quel giorno la lotta sarà disperata, perché tutti crederanno nella fine del male». Parole profetiche. La scuola di Francoforte, Daniel Cohn-Benedict, Angela Merkel sono il frutto inferiore di milioni di buoni tedeschi sacrificati al nulla. Un frutto che nessuno dovrebbe assaggiare, ma che viene distribuito all’Europa tramite Bruxelles e dai supermercati della grande distribuzione culturale. Buffa eterogenesi dei fini: come da sogno hitleriano, comanda sempre la Germania, ma è una Germania di una razza infima.
L’autore lancia generoso miriadi di altre fulminazioni. Marcione, Heidegger, Frank, Spinoza, Buber, Simone Weil, Benjamin, Scholem, Taubes, Mircea Eliade, Chatwin, Bakunin, Wagner, Bataille. E poi ancora: Wilhelm Reich, Pol-pot, Ernest Jünger...
I più svergognati sono i nostri coevi conterranei, ammantati con nomi di fantasia
Possiamo dare al lettore dei ragguagli: Chiappallarghi potrebbe essere un cattedratico del gruppo De Benedetti condannato per plagio. Il professor Zulo, con probabilità così chiamato per meriti deretanici, è un celebrato estorista. Alain Depastera è un neodestro neopagano. Elio Vaselinas è un articolista di un giornale berlusconianp. Idro Lapo Ceneretti è un autore adephiano homeless-chic.
C’è anche la politica. C’è, ad esempio, Walter Meltroni. C’è il “costruttore d’Affori”, che è Silvio Berlusconi. Mario Collinari (stramba ma densa condensazione anche di Colli-Montinari...), «l’economista ineconomico»,  «l’arnese di Giorgio Salernitano» è con grande probabilità l’orrido ex-premier imposto a questo paese da quello che il libro chiama «culocrazia».
Rosati è il famoso editore di libri a tinte pastello da cui trasudano voglie di cerimonie assassine, che - pare suggerirci il libro - queste liturgie di sangue le vive in prima persona.
Una menzione speciale va dedicata alle pagine in cui si rievocano - tra la tragedia e la poesia esistenziale più sublime - anni pubescenti sconvolti dal sangue delle vendette partigiane. Il prete  di cui si narra è Monsignor Boldrini, intrepido direttore di Renovatio.
Allori è un uomo che non ha avuto paura di guardare negli occhi l’abisso di un secolo intero. Un uomo che, nell’annichilente sconquasso di cui è stato testimone, una certezza ce l’ha: «Io sono convinto che non riusciranno ad affondare la barca di Pietro. La Chiesa non va a fondo, neanche se i marinai fanno buchi nella chiglia (...) Il cardinale Ercole Consalvi ricordò a Napoleone che i preti ci provano da duemila anni ad affondare la barca di Pietro».
Come non cogliere: se a distruggere il Soglio non ci sono riusciti in due millenni i preti che ci stanno dentro, come posso riuscirci la tribù di intellettualoidi pagani che abbiamo innanzi negli ultimi cinquanta anni? Non c’è nemmeno bisogno della filosofia per capirlo: non prevalebunt.

Roberto Dal Bosco


venerdì 15 marzo 2013

L'uomo qualunque, geniale movimento in un vicolo cieco

Contraddizioni di un liberalismo libertario

L'uomo qualunque, geniale movimento in un vicolo cieco

 Secondo la squalificante/squillante definizione, che si legge nel vocabolario sinistrese, "il qualunquista è un uomo gretto, un egoista che pensa solo al proprio tornaconto, alla difesa dei suoi interessi".
 In realtà il pensiero politico di Guglielmo Giannini, il fondatore del settimanale L'uomo qualunque, discendeva dall'ideologia libertaria professata dal padre, Federico Giannini, uomo di larghe e intrepide vedute ed eccentrico direttore in Napoli del "Giornale del mattino".
 L'attribuzione dell'egoismo borghese al qualunquista è un'assurdità emanata dal tribunale che ripete le sentenze concepite in nome della defunta/funerea mitologia sovietica.
 Autodidatta, brillante giornalista, sapido conversatore, fecondo scrittore di romanzi e di commedie, Guglielmo Giannini covava una familiare ostilità nei confronti dei politicanti e della burocrazia statale, due classi che la sua immaginazione dipingerà come un torchio opprimente e soffocante.
 Nel 1942, quando suo figlio morì in incidente aereo, concepì anche un inestinguibile odio contro lo statalismo fascista. Del figlio Giannini scrisse: "Una meravigliosa creatura d'amore, che cessò di vivere all'età di ventuno anni, undici mesi, ventisette giorni, nel pieno della salute e della bellezza, il 24 aprile 1942. Una versione ufficiale dice che egli cadde nell'adempimento del proprio dovere verso la patria, ma in realtà fu assassinato insieme a milioni di altri innocenti esseri umani da alcuni pazzi criminali che scatenarono la guerra".
 Ora della distanza enorme, che corre tra il pensiero comunista e il generico anarchismo/pacifismo professato da Giannini - autentico motivo del velenoso disprezzo, che la cultura progressista rovescia sul qualunquismo - fu causa la scelta di Giannini di far avanzare lo stato d'animo libertario sul filo del rasoio teso da Benedetto Croce tra il liberalismo (di matrice neo hegeliana) e una fede cattolica attorcigliata intorno al saggio sulle ragioni del "perché non possiamo non dirci cristiani".
 Alla fine del drammatico 1944, risultato di un tale impraticabile percorso fu l'ideologia, il ribellismo emotivo e semplicistico, riversata nel settimanale L'uomo qualunque. Un ircocervo allo sguardo esigente di Croce: la politica antipolitica. Liberal-libertario, a ben vedere, era un ossimoro nascosto da Giannini nelle nebbie sollevate da una vaga assonanza.
 L'equilibrio retorico, su cui si reggeva la scienza politica Giannini ["uno stato che non fosse altro che quel governo del buon ragioniere invocato fin dai primi numeri de "L'Uomo Qualunque"] ebbe la durata dello strepitoso ma effimero successo giornalistico procurato dalla violenta, passionale espressione dell'ostilità al fascismo deteriore, vivente/trionfante nell'antifascismo.
 Il progetto dello stato ragioniere esibì la sua essenza precaria allorché Giannini tentò di rovesciare nella politica italiana il sentimento/risentimento, che animava le pagine catto-liberali (o catto-libertarie) del suo settimanale.
 L'altezzoso Benedetto Croce, maestro venerato, al quale Giannini si rivolse per ottenere un autorevole biglietto d'ingresso nel partito liberale, lo umiliò negandogli la qualunque raccomandazione. Alcide De Gasperi respinse la sua proposta di collaborazione con il partito democristiano. Di qui l'infelice scelta di fondare il partito dell'Uomo qualunque, alternativo ai partiti che respingevano la sua domanda di adesione. Una scelta infelice, a giudizio degli storici Paolo Deotto e Luciano Garibaldi, convincenti autori di una "Vera storia dell'uomo qualunque", pubblicata da Solfanelli, emergente editore in Chieti.
 Deotto e Garibaldi sostengono autorevolmente che Giannini, "di sicuro non era un politico e il suo vero errore fu quello di entrare in un meccanismo che lo stritolò.
 Scritto per confutare i luoghi comuni intorno alla figura di Guglielmo Giannini, implacabile contestatore dello statalismo, i due scrittori apprezzano la genialità del giornalista, mentre riconoscono la debolezza dell'uomo politico.
 L'insuccesso della politica qualunquista fu il risultato dell'assenza di un autentico pensiero: "Un partito deve avere di norma una linea politica e l'estrema vaghezza del messaggio qualunquista fece sì che da subito i vari nuclei sparsi per il Paese esprimessero le posizioni più diverse, ma che tutte comunque potevano trovare un appiglio con quel messaggio di Giannini, che si poteva definire un mix di liberalismo, antifascismo, anticomunismo, antinazionalismo, anarchismo, e altro ancora, il tutto unito dalla comune protesta contro le condizioni generali del Paese e contro la nuova classe politica al potere".
 La conclusione di Deotto e Garibaldi indica con esattezza l'obbligata dipendenza del qualunque partito politico da un chiaro e univoco pensiero.
 Grazie alla pregevcole ricerca condotta da Deotto e Garibaldi, l'infelice esito della polemica giornalistica da Giannini elevata a surrogato del pensiero e del coerente programma, costituisce una lezione che svela le cause del disastro causato dalle chimere destate dalla convinzione che la chiacchiera comiziale, quantunque abile e rumorosa, sostituisca il pensiero politico e il suo coerente programma.

Piero Vassallo

venerdì 8 marzo 2013

Presentazione: UN TRENO NELLA NOTTE FILOSOFANTE (Genova, Venerdì 12 Aprile 2013 ore 17,15)


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L'Associazione Voltar pagina ed il Sindacato Libero Scrittori Italiani
sono lieti d'invitarla alla presentazione dell'opera di Piero Vassallo
"Un treno nella notte filosofante"
Edizioni Solfanelli


Venerdì 12 Aprile 2013 ore 17,15
Salone delle feste
Palazzo Imperiale, secondo piano - ascensore
Piazza Campetto 8a - Genova


Insieme con l'autore interverranno:
Miriam Pastorino, Paolo Mangiante, Emilio Artiglieri




Organizzazione a cura di Beatrice Iasiello  Tel: +39 349 3972906 - Email: beatrice.iasiello@gmail.com