mercoledì 22 marzo 2017

Le menzogne della storia contemporanea

 “Lo scientismo è la credenza assolutamente falsa
che la scienza sia l'unica fonte del sapere”.

Dalla instancabile tipografia veronese della casa editrice Fede & Cultura esce, in questi giorni, un'avvincente e godibile raccolta di scritti d'intonazione revisionistica - “Le storie più brutte”.
Si tratta di un avvincente e piacevole libro, del quale sono illustri autori Emilio e Maria Antonietta Biagini, due dotti coniugi, sagacemente e felicemente impegnati a svelare, confutare e ridicolizzare le solenni frottole e pinzillachere, diffuse dalla blaterante storiografia d'indirizzo laico, democratico ed iniziatico.
La godibile opera dei Biagini, unione strutturale di umorismo graffiante e di profonda conoscenza della storia nascosta dai gestori magici del pensiero unico, sta un'ottava più in alto pur rimanendo in perfetta sintonia con gli scritti degli autori revisionisti.
Il libro costituisce, infatti, una puntuale, godibile antologia, nella quale corre una efficace, persuasiva, graffiante, umoristica confutazione delle impudiche menzogne, che intossicano e intorbidano la storiografia, alterando la verità dei fatti fino ad abbassarla a strumento di una diseducazione calunniosa e sadica, indirizzata dal potere politico contro gli incolpevoli discenti e – sopra tutto - contro la verità cattolica.
La storia del c. d. risorgimento rivela l'intenzione stupida e maligna, nutrita dalla cialtroneria liberale, disgraziatamente alla guida dell'impresa unitaria, di “identificarsi con un'unità nazionale imposta con la forza a scapito di quanto avevano di più prezioso, il Cattolicesimo”.
I Biagini, inoltre, ricostruiscono impietosamente lo storico cammino della scuola nella direzione porno-rivoluzionaria: “Era essenziale, per il regime [sedicente liberale], che la scuola statale laica sostituisse quella privata cattolica. Una volta assunto il controllo della scuola, i massoni imposero un'ossessiva propaganda laicista ossia atea [si pensi al rugiadoso, stucchevole e piagnucoloso ateismo strisciante nel Cuore deamicisiano] prendendo a prestito qualunque cosa per negare l'esistenza di Dio. … La religione doveva diventare una faccenda puramente privata, confinata, imprigionata, repressa in modo da poterla soffocare e cancellare”.
Presupposto del saggio è il trascinamento nel sottosuolo pederastico del tramontato ateismo sovietico. Un impertinente e intrepido lettere dei Biagini potrebbe (dovrebbe) scrivere le cronache di una pedagogia affogata nel vespasiano massonico.
L'ossessione morbosa e tormentosa “che imperversa nel cosiddetto Occidente libero”, infetta i programmi scolastici, falsifica la storia al fine di avviare gli scolari nella foresta del progressismo selvaggio e della pederastia.
Affidato al furore di disturbate, orribili tardone e di furenti megere, il ministero della pubblica istruzione, è scosso dall'epilessia anticristiana, e indotto ad elucubrare le più disoneste, vomitevoli e surreali perversioni. La scuola inquinata dall'apostasia diffonde un infame e delittuoso insegnamento – una furente diseducazione - fin dalla scuola primaria.
Dalla gerarchia bergogliana, tra un sorriso alla cadaverica Emma Bonino e un inchino davanti al comico guru Eugenio Scalfari, soltanto criptici sussurri e cauti sventolamenti di bandiere candide come la purezza perduta dalla nuova e sgangherata teologia.
I Biagini demoliscono, con una prosa elegante e tagliente, lo sconcio massonico, che il potere. instaurato nella scuola demo-urologica, usa quale strumento della elevazione delle menti giovani ai miti della storiografia ultra progressista, finalmente associata ai traffici in corsa nella sotterranea abitazione dei severi vizi contro natura.

Il libro dei Biagini, pertanto, si raccomanda agli italiani irriducibili, ai refrattari che aspirano alla disintossicazione dagli stupefacenti distribuiti a cura di una scolastica demenziale e imperiosa, che aspira a trasformare l'altare della patria in un tempio/vespasiano del radical chic.

Piero Vassallo

SPIGOLATURE IN NERO (di Piero Nicola)

Comincio con un luttuoso avvenimento. Il 20 marzo si è celebrata la Giornata internazionale della Felicità. Naturalmente si sono ricordati i paesi e gli esseri umani più felici, ma soprattutto il diritto ad essere felici, le ricette democratiche e progressiste per godere della maggiore soddisfazione possibile. È stato il più bel funerale che si potesse fare alla Fede, giacché Dio mancava nei festeggiamenti, e se qualcuno l'ha nominato, sarebbe stato meglio che non l'avesse fatto. Infatti al Signore si riserva il posto sovrano, altrimenti lo si nega e lo si insulta degradandolo. Ad ogni modo, non potevano onorarlo senza avergli sottomesso le leggi, il governo civile, i costumi attuali. Non è possibile tributargli il debito riconoscimento, dal momento che si venera il dio benessere, il dio dell'amor proprio e degli appagamenti secondo la falsa morale corrente, il dio della verità secondo l'estro di Pilato. Si è dunque calata la buona vita nella tomba dell'illusione, per l'appunto fondata sui diritti abusivi e sulla vanità.
  Colui che usurpa il posto spettante al Depositario del Bene da largire al genere umano, e che cerca di apparire paladino della giustizia con sermoni demagogici, ha osservato un rispettoso silenzio. Degno d'un anticristo, Bergoglio si presta a tutte le ricorrenze profane e mendaci, che tendono a riempire il calendario scalzando le commemorazioni dei Santi. Or ora, ha di nuovo accettato che San Giuseppe sia diventata la festa del papà per ogni sorta di miscredenti. Colui che affida la morale alla spesso bugiarda coscienza dell'individuo, giustifica tutto con una fiducia superstiziosa, con una benevolenza irresponsabile nonché eretica. Egli condivide gli indirizzi e le celebrazioni proclamate dall'ente multinazionale e politeista, stravagante interprete della natura umana.
  In Calabria si sono commemorate le vittime della mafia, presenti le massime autorità. Le quali hanno vantato progressi statali e civili nella lotta ai mafiosi, e hanno previsto miglioramenti, maturazioni, vittorie risolutive. Anche qui, cattolici del clero e di organizzazioni diverse si sono resi responsabili di questa messa in scena. Sono almeno sessant'anni che simili cerimonie si tengono al Sud - da quando almeno al Nord non imperversava simile organizzazione a delinquere. Via via il cancro si è diffuso in tutta la Penisola e, dopo essersi diramato dovunque, non c'è stato verso di fare regredire la piovra, che piuttosto si espande.
  Questo stato è impotente a debellare la mafia, come è impotente a eliminare la droga, non perché siano fenomeni ineluttabili, ma perché questo stato, di costituzione cagionevole, è divenuto un malato cronico. Pertanto hanno montato l'ennesima fanfaronata che seppellisce la causa per cui esiste il regno mafioso, e hanno seppellito il possibile rimedio: uno Stato non corrotto e virile.
  Non passa giorno che, complici le istituzioni, le navi non sbarchino in Italia migliaia di immigrati senza distinzione. Ogni tanto filtra una notizia che spiega tutto. In Libia ci sono campi di raccolta dove si ammassano gli africani in qualche modo costretti o allettati ad emigrare. Giunge pure attendibile e logica la nuova che i negrieri costringono i malcapitati a imbarcarsi sui gommoni. C'è in Occidente chi paga l'operazione, che provoca stragi e disgrazie. In Italia ci sono organizzazioni finte umanitarie che lucrano sull'ospitalità fornita a quella gente straniera e che collaborano alla tratta via mare. Ogni giorno il governo, responsabile di contribuire a questa infamia, fa appello alla UE e ai suoi membri, ben sapendo che vige tuttora una legge comunitaria per la quale i presunti rifugiati devono restare nel paese in cui arrivano. Chi non ha diritto all'asilo deve essere rimpatriato. Ma, salvo eccezioni particolarmente convenienti per certi interessi, il rimpatrio risulta quasi impossibile. Perciò i personaggi che esecrano i muri, continuano a recitare il de profundis all'onestà.
  E viene la celebrazione del trattato di Roma, che istituì la prima comunità europea. Splendida è l'occasione per sotterrare tutti insieme la Verità. Come? Vantando i meriti dell'Europa diventata unione, spacciando per vera un'unità inesistente e impossibile (ogni paese deve tirare l'acqua al proprio mulino e non potrà mai rinunciare alla sua fisionomia). I poteri europei hanno nondimeno messo il giogo alle nazioni con leggi insostenibili, con la perversa moneta unica e un governo europeo indipendente, dispotico, empio e mondialista. Ed è così autentica la crisi etica ed economica determinata  dalla UE, satellite del motore mondialista, che le proposizioni negazioniste calate dall'alto risultano ferali.
  Si vanta la pace dovuta a questa società europea. Perorazione da pacifisti. Per esempio, la nostra pace di soggetti allo straniero è una pace vergognosa. Il fatto di Sigonella diede una prova tangibile della nostra soggezione, ma ci furono cento altri casi in cui visibilmente dovemmo sottometterci all'ingiustizia straniera, e mille casi nascosti in cui ciò accadde, come sarà in avvenire.
  Intanto Bergoglio, in visita a Milano, per prima cosa incontra maomettani e zingari, detti rom, secondo il nuovo dizionario. Dopo le pratiche religiose di prammatica modernista, va a trovare i carcerati, pranza con loro e fa un riposino a San Vittore. La sua democraticità umanitaria è ben rappresentata dei mezzi d'informazione. E non c'è dubbio che piaccia a colui che ha aumentato assai il tumulo sopra la buca profonda in cui giace il dogma sull'eresia.


Piero Nicola

lunedì 20 marzo 2017

La struttura surreale della legge abortista

Nel 1920 un regista tedesco, il surrealista Robert Wiene, girò un film dell'orrore il cui folle protagonista – il magico dottor Caligari – animava un manichino costruito per compiere delitti progettati dal suo “creatore”.

E' seriamente proibito disprezzare e cestinare la carta in cui è scritta una (pseudo) legge dello stato italiano, la caligariana numero 194, infame cartiglio o grida, che giustifica e addirittura promuove e organizza (a spese dei contribuenti) l'omicidio di persone innocenti e indifese?
E che pensare della maggioranza dei ginecologi che dichiarano l'obiezione di coscienza, ossia il rifiuto di applicare una legge assurda e bestiale, che umilia e capovolge la professione medica?
E' consentito denunciare la labilità criminosa e demenziale di una legge obbediente ai comandi stralunati e stizzosi di ideologi ubriacati e alterati dal vaniloquio, squillante nel dispotico salotto dei nichilisti debragati e/o nel nel vespasiano radical chic?
E' ammesso rifiutare l'ascolto e l'obbedienza del fruscio vano e funereo, che si rovescia in una legge spregevole e vomitevole, contemplante la soppressione di vite umane innocenti?
E' possibile che l'autorità politica non veda il vicolo cieco, in cui è imprigionata una sua legge, nella quale l'orrore è associato al grottesco? E che non sappia (o non possa) dire quale differenza corra tra gli sterminatori totalitari e gli sterminatori democratici e progressivi?
In attesa di ufficiali chiarimenti e giustificazioni governative, l'italiano refrattario ai tragici bagliori del laicismo, sputa sulla sgangherata legge che approva e incoraggia l'omicidio.
Ora un qualificato studioso, Pietro Leone, pubblica per i tipi irriducibili e sulfurei di Marco Solfanelli, un saggio, “Il matrimonio sotto attacco”, in cui si dimostra, fra l'altro, l'insensatezza e l'illogicità dell'opinione affermante (in sintonia con il delirio filosofico urlato dalla crepuscolare modernità) che il feto non è un essere umano, prima di un dato periodo di incubazione.
Per obbedire al delirio giuridico galoppante nella legge abortista, il legislatore statale accoglie e fa proprio la superstizione magica e delirante, che contempla la presenza dell'umanità solo nei feti risparmiati dalla mannaia politicante.
L'Enciclica di Giovanni Paolo II, Evangelium Vitae, opportunamente citata dall'autore, rammenta i chiari segnali emanati dalla realtà e riconosciuti dalla scienza normale e sobria, ed afferma – risolutamente - che “dal momento in cui l'ovulo è fecondato si inaugura una vita che non è quella del padre o della madre, ma di un nuovo essere umano, che si sviluppa per proprio conto”.
Padre Cornelio Fabro afferma, dal suo canto, che “gli innocenti abortiti dalla crudeltà umana, prima e senza poter ricevere il lavacro santo della nascita in Cristo con il Battesimo, vengono certamente rigenerati alla tua grazia e alla tua vita dal loro sangue innocente, perché vittime del peccato altrui, di coloro che avrebbero chiamato papà e mamma”.
Di qui la dimostrazione dell'insostenibilità delle tesi (strutturalmente illogiche e demenziali) elucubrate dagli abortisti, tesi in affannosa e scellerata circolazione intorno all'immaginaria inesistenza della innegabile dignità umana del feto.
Leone dimostra, infatti, che “la complessità dell'embrione insieme con il suo carattere specificamente umano non solo permettono di argomentare contro l'esistenza di un'anima non spirituale, ma al contrario permettono di argomentare a favore dell'esistenza di un'anima spirituale”.
L'opinione erronea sostenuta dai naturalisti del XVII secolo, secondo cui l'anima, prima prima della nascita, era assente nel feto, fu confutata, nel 1679, da papa Innocenzo XI, il quale affermò che l'infusione dell'anima spirituale coincide con il momento del concepimento. D'altra parte è indubitabile l'intenzione omicida degli autori di aborti e assurda l'intenzione di definire anonimo grumo di cellule l'essere umano che si sopprime con il consenso di una legge infame e coatta.
Il saggio di Leone dimostra, in ultima analisi, che la criminogena, sanguinaria, forcaiola legge abortista è figlia dell'unione ipostatica e triadica di ateismo fanatico, irrealismo paranoide e violenta corruzione dei costumi. In altre parole: l'ateismo ultra moderno è assassino perché “concepisce l'uomo sul modello della bestia”.

Il lettore comprende, senza fatica, che il traguardo di una tale corsa è la società obituaria, la necropoli costituita intorno ad un piacere contro natura, approvato, assistito e guardato dal potere di una marmorea e surreale democrazia. L'orizzonte laicista dell'Occidente è un sistema infettato dalla frenesia obituaria e perciò destinato a naufragare miseramente nel mare agitato dalla aggressiva fertilità di stampo islamico.

Piero Vassallo

domenica 19 marzo 2017

Parole chiare sulla vita della Chiesa

 “La questione seria che oggi si pone … per la Chiesa intera … è quella di andare alla radice del male, che non è tanto la questione morale o politica, ma sono gli errati principi gnoseologici, metafisici ed antropologici della teologia della liberazione … la quale ha mantenuto l'impostazione immanentistica, antropocentrica e secolaristica anticristiana”.
Padre Giovanni Cavalcoli o. p.


Parole chiare”, edito in Verona a cura del sagace e instancabile Giovanni Zenone, affronta a viso aperto le fantasticherie che irritano i sacerdoti fedeli alla Tradizione e seducono i teologi dolci di sale.
Immune dalle fumose suggestioni della teologia progressista e dalle collere, che agitano e arroventano i banditori di un tradizionalismo refrattario e ostile all'ordinato sviluppo della teologia ortodossa, l'illustre padre domenicano Giovanni Cavalcoli, autore dell'avvincente saggio ”
L'illustre domenicano confuta (ad esempio) il malsano fascino dell'esoterismo, prodotto sofisticato e avvolgente dell'ateismo post moderno, ossia la pseudo mistica a sfondo magico, che dopo aver archiviato la mitologia scientista, “insegna ad abbandonare la visione realistica delle cose, per la quale io credo che esistano cose reali al di fuori di me e indipendentemente da me, che io abbia una natura che non mi sono data, ma che semplicemente scopro, che io sia sottomesso ad una legge morale che non dipende da me e che io dipenda da un Dio che mi ha creato”.
Di qui le capriole e le vertiginose acrobazie dei teologi non vedenti l'assurdità della corsa intorno al cerchio vizioso tracciato dal pensiero laico e progressivo.
Padre Cavalcoli cita al proposito il circolare e capovolto delirio dei teologi progressisti, secondo i quali “Cristo non è propriamente e immediatamente Dio, ma è meglio dire che Dio è in lui, in quanto Cristo è uomo che diventa Dio o che progressivamente scopre di essere Dio”.
Magistralmente descritta da Eugene Ionesco nel dramma Il re muore, la malattia mortale dell'umanesimo ateo ha intossicato la teologia progressista, seminando tra le avanguardie ecclesiali le umbratili incertezze in circolazione nel paganesimo.
Di qui il perpetuo girotondo del pensiero moderno intorno all'umbratile antropologia dei pagani: “La natura umana non è qualcosa di fisso ed universale, ma risulta essere mutevole e relativa alle varie culture. Non esiste quindi una legge morale naturale oggettiva, universale e immutabile”.
La scena della cultura moderna è infine invasata dal rigurgito del paganesimo, ossia dallo scioglimento dell'umanità dalla legge naturale e dalla fede cristiana, Di qui l'avvio di una forsennata marcia in direzione del puro nulla.
Purtroppo lo sciagurato cammino della modernità contrastato debolmente (quando non approvato) dalla gerarchia cattolica, i cui esponenti “lasciano fare anche i falsi maestri che insegnano il contrario della verità”.
Si spera pertanto nell'insorgenza di una gerarchia capace di stabilire l'obbligo di riconosce il primato della verità, asse portante delle buone opere e fondamento di una misericordia non riconducibile alle manfrine del buonismo.
Il primato della verità si deve affermare risolutamente, quantunque sia causa di conflitto con l'ingente fazione del clero, che nutre l'ostinata convinzione circa la possibilità di accordare la fede cattolica con i contrari pensieri, che intossicano i marciatori sulla via dell'immaginario progresso.



PieroVassallo

sabato 18 marzo 2017

LA COLPA DELLE MANCATE VACCINAZIONI (di Piero Nicola)

  Non sembra affatto infondato ritenere che la causa del forte calo delle vaccinazioni risieda nei mezzi di informazione televisiva e giornalistica. Nel senso che, se ci sono altri a influenzare l'opinione pubblica facendo astenere molti dai vaccini, tivù e giornali, anziché persuadere a farsi vaccinare, con la loro propaganda ottengono l'effetto contrario.
  I mass media (ben si addice ai loro soggetti questa avvilente definizione anglosassone) sono ormai parecchio screditati, la loro credibilità è malridotta, il sospetto li investe di continuo. Perciò è inevitabile che i loro appelli reiterati facciano la fine di quei forti richiami con cui gli avversari di Trump (la stampa prestigiosa, i beniamini di Hollywood, gli intellettuali sulla cresta dell'onda) contribuirono alla sconfitta della Clinton. Il popolo individuò gli impostori e si vendicò.
  Da noi è difficile dimenticare il sostegno sfacciato, dato dai mass media a Renzi e al suo referendum. Già si capiva che i giornalisti erano considerati dei venduti. Anziché ascoltarli, c'era gusto a fare il contrario di quello che predicavano. Lo stesso movimento grillino nasce da una simile reazione.
  Molti poi, non hanno dimenticato la truffa delle vaccinazioni di qualche hanno fa, quando coi megafoni si fece paura alla gente con un'epidemia di cui non si vide l'ombra.
  Ma ci sono motivi meno evidenti dell'eco fatta alle balle propinate al popolo dai governanti, per indurre al disprezzo delle voci pappagallesche. Il motivo principale è l'ultima rivoluzione dei costumi, ammantata di finta giustizia. Si è azzardato esagerando, al fine ultimo di rimminchionire definitivamente la massa. Essa sarà anche amorfa e passiva, ma certe prese in giro e certe fregature le restano sul gozzo.
  L'unione civile degli omosessuali uguale a quella di uomo e donna, l'adozione di bambini da parte di sodomiti o sodomite (il termine è biblico e dantesco), le porcherie della fecondazione artificiale e della gestazione in affitto, spacciate per cose belle ed eque dai mass (che tacciano di retrogradi quanti vi si oppongono) sono operazioni legali per niente convincenti, che contribuiscono alla diffidenza e al rigetto, che fanno dubitare delle leggi e d'ogni parvenza di autorità.
  Lo stesso dicasi dell'augurata società multietnica, del beneficio delle invasioni e delle diversità accomunate, del cosmopolitismo e del mondialismo che non lederebbero la Patria e il Campanile, della felice amalgama dei turchi e dei cristiani. Il martellamento operato dai mass a tale proposito, non cancella  contraddizione e assurdità degli assunti. L'accanimento dei Mattarella, dei Bergoglio, demolitori di muri, mostra la loro debolezza, li rende poco credibili rematori nella corrente dei populisti accusatori del populismo.
  La scarsa considerazione che i cittadini hanno per la classe politica e dirigente, confermata dalla bassa affluenza alle solite urne e dall'alta affluenza alle urne dello scorso referendum, si riverbera su chiunque faccia lega con i politici, siano essi scienziati o opinionisti. Uno che si presta ad acconsentire al sistema, se non è un venduto, è comunque una persona degna del sistema, poco stimabile.  


Piero Nicola

Necrofilia democratica: La strage degli innocenti

Propagata da un parlamento intossicato e intontito dalla necrofilia liberal-socialista, l'infezione abortista fu subita e sopportata da una pavida e arrendevole fazione sedicente cattolica, la Democrazia cristiana, che si era già arresa alla disonesta e scellerata legge divorzista, pur di conservare la poltrona al capo del governo Mariano Rumor.
Vivente grazie all'ossigeno prestato dai deputati capitolardi, e al sonno di un popolo intontito e narcotizzato dall'urlo del potente politico e dello sfrenato giornalismo progressivo, (potere obbediente alla disonesta, mitologica ciancia intorno alla suprema autorità del voto referendario), la infame e turpe legge abortista incontra, finalmente, la risoluta e intrepida opposizione di ginecologi dotati di sano e refrattario intelletto.
La dottrina democratica afferma l'inviolabilità della qualunque opinione condivisa dal popolo sovrano. Uomini di scienza ritengono che sovrana sia, invece, la legge naturale e degna dell'ossequio che, invece, si deve rifiutare coraggiosamente alla legge positiva inquinata dalle passioni criminogene, circolanti in una maggioranza politica contagiata e ottenebrata dai pensieri tossici, saliti dal sottosuolo iniziatico e dal vespasiano gay.
La coraggiosa, irriducibile resistenza dei ginecologi a una disonesta, inumana e tirannica legge, conferma, infine, le ragioni del rovente disprezzo che i cattolici refrattari hanno per tempo rovesciato sull'impagliato buonismo dei radicali d'acquasantiera, clericali senza bussola e senza cuore, che depongono la loro inutile ma vergognosa astensione ai piedi dei banditori radical chic di una legge infame e assassina, che rende i legislatori meritevoli di un implacabile disprezzo.
Refrattari e imperterriti in mezzo ai giornalisti di servizio e ai vescovi assordati e spaventati dall'incessante rumore della stucchevole celebrazione post conciliare, i ginecologi disobbedienti alla legge assassina rappresentano l'avanguardia alla quale appartiene il futuro, già in cammino sulle rovine delle moderne rivoluzioni e illusioni.
Giuliano Ferrara, uno fra i più lucidi e ostinati difensori del sacro diritto alla vita (specialmente alla vita innocente e indifesa) rivendica i princìpi che i vescovi bergogliani hanno consegnato alla macchina che addolcisce e addomestica i pensieri scomodi e le sfide al potere esercitato dai nichilisti democratici.
In un fulminante articolo pubblicato nel quotidiano anticonformista Il Fatto, Ferrara osa indicare il bersaglio umano, sul quale sono puntati i coltelli affilati dalla della ciancia abortista: “La sanzione della condanna a morte di esseri ancora non nati, piccolissime persone che si possono fotografare, che sentono dolore, che hanno una struttura cromosomico finita e unica al mondo”.
Le indignate parole di Ferrara azzoppano i camminatori avanzanti (progredenti) sugli acrobatici sentieri del dis-umanesimo di stampo porno-laicista.
L'aborto è un delitto infame e maramaldesco, delittuosa e spregevole è la legge che assolve o addirittura incoraggia e finanzia l'omicidio. Indecoroso e capovolto è il potere dello stato che una tale legge concepisce e impone. Orribile è la colpa delle madri snaturate, che ricorrono al servizio mortifero prestato dalla medicina di uno stato sceso in guerra contro la legge naturale.

La disobbedienza degli intrepidi ginecologi per la vita è il segno della albeggiante rivolta contro i mortiferi poteri del progressismo di stampo cainita e/o sodomitico. Uno sputo lanciato sulla faccia deforme e ripugnante della legge contro natura.

Piero Vassallo

venerdì 17 marzo 2017

IL BEATO STATO DI DIRITTO (di Piero Nicola)

  I beati conformisti vagamente prostituiti amano chiamare Stato di Diritto uno stato che si regge sulla legge positiva, emanata da un parlamento di eletti qualsivoglia, molti dei quali sono poverini, aventi appena i requisiti morali e intellettuali del chiacchierone o del facilone sprovvisto di soverchi scrupoli.
  Ma non sono soltanto i politici e i loro collaboratori da telenotiziario a vantare e ricordare l'illibatezza, la dignità, il pregio eccellente e precipuo dello Stato di Diritto, ovviamente democratico; ci sono barbe di professoroni, di esimi studiosi, che hanno plasmato, rifinito, offerto alla venerazione universale il monumento dello Stato di Diritto. Essi hanno dimostrato come sia un'inezia, un fatale neo di poco momento il fatto che lo Stato di Diritto si fondi sull'uguaglianza, morale e delle capacità politiche, attribuita a tutti i cittadini, aventi pertanto una stessa sovranità di elettori. I professori avrebbero posto in non cale il piccolo inconveniente, se uno zotico campagnolo non avesse osservato che gl'ignoranti hanno minima voce in capitolo nelle questioni che contano per la comunità, nessuno di loro è capace di diventare il sindaco del paese, e se il sempliciotto non avesse bensì protestato che le persone oneste bisogna che abbiano un maggior potere civile rispetto ai disonesti, la cui vita disordinata è di pubblico dominio. Insomma allo zotico suonava male che lo Stato di Diritto potesse commettere l'ingiustizia dell'uguaglianza di ciascuno e di chiunque nella sovranità.  
  I soloni in materia istituzionale sorridono comprensivi e dicono: "Trovami tu il sistema per distinguere i migliori e i peggiori fra i cittadini e dare loro una patente di elettore, o di candidato, di prima, seconda e terza classe!" I più intelligenti ti mettono a terra effondendo la parola sublime: la Dignità umana, così cara a Bergoglio e ai suoi predecessori, che non guardarono per il sottile di fronte ad essa. Tutti sono figli di Dio, tutti idonei a svolgere, attraverso la facoltà di voto, le medesime funzioni di giudici sui costumi e sull'intera conduzione della vita pubblica. Tutti anche degni di essere eletti e incaricati dei poteri statali. Il magnifico principio dell'égalité - proclamano i semplici umanitari - ignora la preparazione, che rende, per esempio, certi individui e non altri, capaci di svolgere un mestiere o una professione; l'égalité aborre dal privilegiare gli idonei a ricoprire incarichi di fiducia, rispetto alle care persone cui non si affiderebbero le chiavi di casa. Purtroppo l'intelligenza non arriva a tutto, e quei perspicaci, magari tratti in inganno dalla neochiesa, non sanno che l'uguale dignità delle creature è alla nascita, mentre, in seguito, dipende dalla responsabilità individuale l'essere degni, meno degni o indegni, anche senza aver perduto la facoltà elettorale. Quei saggi stabiliscono che chiunque abbia la fedina penale pulita può scegliere per il meglio il candidato legislatore il quale, a sua volta, approva o disapprova il governo. Esula dalla loro sapienza, in maggiori faccende affaccendata, e pare loro trascurabile che i candidati dei partiti (costituzionali) si contrappongono fieramente, con idee e programmi tra loro incompatibili, e che, per forza di cose, le fazioni curano anzitutto il proprio interesse. La grandezza della primitiva Dignità umana risolve ogni deficienza di conoscenze, di discernimento, e anche di buona condotta.
  Dunque, bando alle fruste obiezioni mosse alla validità e all'onestà democratica. La democrazia ha dimostrato di reggere a lungo con le sue magagne, con i suoi peccatucci giustamente nascosti ai sovrani popolari. L'essere umano è sacro, il sovrano popolare è sacro, sacro il consesso dei deputati, sacre le loro leggi. Perciò, essendo intangibili i decreti d'assemblea costituente o di parlamento, la questione è chiusa. Casomai il presupposto di tale intangibilità venisse meno, coloro che vantano il nostro Stato di Diritto straparlerebbero, anzi ci avrebbero preso per i fondelli.
  Però non finisce qui. Come mai lo Stato di Diritto tollera l'empietà con cui si sfornano leggi che gridano vendetta al cospetto di Dio, violando il Decalogo (libertà di offendere l'Altissimo data alle false dottrine che oltraggiano il Signore, liceità di commettere peccati mortali), e tollera che si violi la legge di natura con la legalizzazione dei delitti contro natura?
  Ma siamo umili, da bravi cattolici rimettiamoci all'autorità religiosa, che si fa mallevadrice dello Stato di Diritto. Potremmo citare centinaia di dichiarazioni dell'ultimo magistero che approvano e sostengono i principi della vigente democrazia, ossia il diritto del laicismo statale. Si chini, ancora una volta, il capo davanti all'autorità che siede sul Trono di Pietro, o dovremmo rigettarla? O una cosa o l'altra. Esiste forse una via di mezzo, una parziale autorità? Ma sì, che la troviamo! Per una volta salviamo capra e cavoli, riconoscendo papa legittimo Bergoglio, e altrettanto i suoi ultimi irenici predecessori, che pure predicarono l'eresia della cosa pubblica indipendente dal Re dei cieli. Così staremo in pace con la nostra coscienza corretta, corretta come si fa zittendo le voci impertinenti che cercano di scombussolare i buoni, i rispettosi delle potestà disposte da Dio, rispettosi degli usi e dei costumi legali, all'ombra del consolante Stato di Diritto. Perché, se lo Stato di Diritto è la legge uguale per tutti, esso deve anche garantire che le leggi siano rispettabili, altrimenti esso è disprezzabile e la sua presunta imparzialità non vale un fico secco. Suvvia, prendiamo esempio dai versipelle vegliardi ecclesiastici, che hanno mostrato in che modo si debba stare al mondo!


Piero Nicola 

Recensione: "Le storie più brutte" di Emilio e Maria Antonietta Biagini

L’animosa coppia letteraria controcorrente ha colpito di nuovo, e questa volta ancor più duro del solito. I Biagini offrono infatti nuda e cruda la verità che gli sfavillanti vincitori del secondo conflitto mondiale hanno voluto accuratamente nascondere.
Infatti, come dice il recente saggio storico “Bombardieri e imbonitori” (www.itrigotti.it) del prof. Biagini, prima bombardarono, poi, a raccontare la storia come garbava ai vincitori, vennero gli imbonitori “alleati”, coadiuvati dai baldi voltagabbana locali,
Usciti vincitori dal conflitto, liberali e marxisti si fingevano nemici tra loro, ma erano entrambi ben tesi ad alimentare il girotondo dei lupanari e la fiera della squisita menzogna mondialista.
Ed ecco quindi i fedeli esecutori del progetto politicamente corretto sfornare libri di testo e insegnanti accuratamente addottrinati, per i quali la Rivoluzione francese ha segnato il trionfo della libertà, dell’uguaglianza, della fraternità e delle democratiche voluttà di cui oggi godiamo.
Ecco pure il “risorgimento”, portatore della felice “unità” d’Italia; ecco sorgere il sole dell’occhiuta repubblica nata dalla “resistenza” e fondata sul “lavoro”.
Contro questa beffa storica si levano i Biagini con un agile libretto, destinato ai bambini, ma leggibilissimo anche per gli adulti, che capovolge le menzogne incancrenite dei libri di testo adottati nelle scuole statali, in modo che i signori della disinformazione sappiano che c’è chi si batte ancora per la Verità, e che la Verità non può essere soppressa per sempre.

PIERO VASSALLO


EMILIO & MARIA ANTONIETTA BIAGINI
Le storie più brutte. Come raccontare al nipotino le menzogne della storia contemporanea
Verona 2017, Fede & Cultura, pp. 95, € 12,00. Disponibile anche in ebook.

mercoledì 15 marzo 2017

Una “contro storia” d'Italia

Giampaolo Pansa, autore della voluminosa, talora romanzata e intimista, tuttavia appassionante Contro storia d'Italia, pubblicata in Milano dalla Biblioteca storica del Giornale, si chiede, ora fingendo una fondata ansietà ora riconoscendo l'inesistenza di una destra pericolosa: “Nell'Italia del Duemila può presentarsi l'avventura autoritaria di un nuovo Benito Mussolini?”
La taciuta ma trasparente finalità del saggio, infatti, è avvertire gli svagati e rilassati connazionali del non del tutto remoto pericolo di una ripetizione (in chiave libertaria ovvero sodomitica) della (sognata) rivoluzione social-comunista e della (improbabile) controrivoluzione di sano stampo reazionario. Pericoli remoti, che lo sguardo impietoso di Pansa intravede nelle oscure passioni, che si agitano nei disagi e nei malumori, in atto nelle cantine della giovanile effervescenza.
Pansa legge il futuro, oggi non incombente, nella tesi, secondo cui Mussolini destò – nei c. d. ben pensanti - la convinzione che il fascismo avrebbe allontanato dagli italiani “la paura di finire dentro qualche sparatoria”. Timore, che – in anni segnati dalla sanguinaria ma applaudita rivoluzione sovietica – sembrava ed era non priva di serio fondamento.
L'irragionevole, violenta effervescenza giovanile, oggi in atto nell'area della sinistra non confutata e tanto meno repressa dalla miopia al potere, ci aiuta a capire le lontane (e purtroppo non irripetibili) cause della catastrofica e rigettata insorgenza dei socialisti estremi contro l'Italia, festante a Vittorio Veneto, ma afflitta da una scivolosa crisi politica.
Al proposito Pansa rammenta la spensante/incapacitante miopia dei politicanti socialisti, incapaci di vedere la progettata soluzione totalitaria, in direzione della quale marciavano gli inflessibili e imperterriti comunisti: “Nell'estate del 1919, il Partito socialista ordinò in molte province italiane uno sciopero generale in difesa della Russia sovietica e della Repubblica comunista di Ungheria, quella di Béla Kun, un esperimento assurdo, che stava già tirando le cuoia”.
L'allarme destato dagli ammiratori della rivoluzione russa incrementò il consenso attribuito dai moderati italiani al partito nazionale fascista. Gli italiani che votarono in occasione del plebiscito, che si svolse il 24 marzo del 1929, attribuirono al partito fascista addirittura il 98,4 per cento dei voti. Tale consenso era motivata dal desiderio di vedere stabilita la tranquillità nell'ordine. Pansa fa dire a un personaggio del suo racconto che molti italiani erano convinti che, grazie ai fascisti, “in Italia è tornato un po' di ordine e questo ci aiuterà a vivere senza la paura di finire dentro qualche sparatoria”. (Attesa purtroppo delusa dalla controversa vicenda del fascismo italiano).
Secondo Pansa, nondimeno, la controrivoluzione fascista era un falso e inaccettabile rimedio al male, minacciato (con parole e atti esemplari) dai promotori della rivoluzione comunista. E al proposito l'autore cita (a sostegno della sua opinione) l'affermazione di un immaginario giornalista del quotidiano Il Popolo d'Italia”, il quale confessava di “aver visto da vicino quale nido di vipere fosse il vertice del fascismo”. Vipere (ma questo Pansa stenta a riconoscerlo) generate e nutrite dall'allarme destato dalle notizie sanguinarie, in arrivo dalla Russia sovietica.
Pansa rammenta infine la motivazione del consenso prestato ai fascisti dai meno abbienti e fa dire a un indigente, protagonista del suo romanzo, che, per merito di Mussolini, “in Italia è tornato un po' di ordine e questo ci aiuterà a vivere senza la paura di finire dentro qualche sparatoria”.
Purtroppo il governo fascista, dopo un periodo di incontestabili successi, non poté (o non volle) resistere alla devastante suggestione, emanata dalla surreale destra germanica, intorno al mito del sangue e alla catastrofica fantasticheria di partecipare – vittoriosamente - alla seconda guerra mondiale.
Non si può escludere tuttavia la tesi, non del tutto romanzesca, che contempla la sollecitazione, rivolta a Mussolini dagli anglo-francesi, di intervenire nel conflitto, al fine di condividere (e in ultima analisi di attenuare e frenare) l'allora vincente e furente azione della Germania nazista. Una esortazione azzardata e infelice, che ha esposto l'Italia al vento della guerra catastrofica, causa dell'irreversibile declassamento della nostra nazione e del tramonto del nostro prestigio.


Piero Vassallo

domenica 12 marzo 2017

NON SANNO DONDE VENGONO E DOVE VANNO, MA... (di Piero Nicola)

  Evidentemente costoro che vogliono disporre della propria vita sino a stroncarla sono increduli; se non sono atei, per lo meno, negano il Creatore e la sua Parola. Dunque ignorano l'origine della vita  umana e il suo termine; ignorano il conoscibile necessario e possono solo sostituirvi vane teorie e supposizioni, sopra l'ignoto insondabile.
  Ogni tanto i subdoli ed empi truffatori che insinuano la creazione della vita e dell'uomo provenire da una certa combinazione della materia, propinano alla massa insulsa la sciocchezza per la quale un po' d'acqua e una temperatura confacente possono aver costituito su questo pianeta, o su un'altro corpo celeste, le condizioni sufficienti per il prodursi del principio vitale, principio di organiche evoluzioni. Stupidaggine confermata dal fatto che, ammessa, e ovviamente non concessa, tale possibilità, essi continuerebbero a brancolare nel buio assoluto della provenienza, del cominciamento dell'universo. Con la loro supposizione escludono il Creatore, Colui che, essendo eterno e avendo fatto il mondo dal nulla, ha pure la facoltà di produrre ciò che vuole, le creature e la vita. Viceversa l'intelligenza si rifiuta di ammettere quell'inizio buio, indefinito, rifiuta l'assenza di qualcosa di atemporale, di infinito e perfettissimo, che diede origine all'esistente, l'assenza di un Ente cui si deve tutto. Il quale bisogna che sia Dio, l'Essere dalle incommensurabili facoltà, e fra esse quella di rivelarsi e di rivelare la Legge necessaria all'uomo, creatura morale e spirituale, per sua colpa bisognoso di una legge sancita da Dio. E poiché Egli si è rivelato, ha anche rivelato l'anima immortale e il suo giusto destino ultraterreno. Se ne hanno le prove soprannaturali, basterebbe riconoscerle. Gesù volle che i suoi miracoli servissero alla fede. Dio non ha mai cessato di fare miracoli.
  E allora i presunti padroni di se stessi, presumono di esistere in virtù di se stessi? Niente di più inverosimile. Ma essi dicono: "Se abbiamo ricevuto l'esistenza, che non abbiamo chiesto, quando questa ci fa soffrire e non la sopportiamo, abbiamo diritto di rinunciarvi e di sopprimerci. La vita è bella, è grande, ma quando la sentiamo brutta, indegna di noi, la rigettiamo". Essi parlano di una cosa, di un bene, di un dono che non conoscono. Non ne conoscono il principio, il fine e la fine.
  L'Onnipotente ha spiegato questi fatti agli uomini, nonostante la loro ingratitudine, la loro indegnità. Invece l'individuo morale, dotato del libero arbitrio, si assume la responsabilità della sua superbia, e riduce la sua vita a strumento di piacere, di godimento secondo il proprio genio. Egli rinuncia a riconoscere Dio, a prendere la mano che Dio gli tende. E come gonzo va dietro alle favole dei truffatori. Per distoglierlo dalla retta ragione che può andare incontro alla fede, essi fanno balenare la creazione dell'universo con un big bang scientificamente accertato, esplosione creatrice con cui sembra spiegato l'inizio del tutto. Bambinata venefica, che tuttavia incanta le masse credule, al pari del già detto sorgere spontaneo della vita dalla materia inerte e dell'anima umana dalla vita animale.


Piero Nicola

sabato 11 marzo 2017

I danni causati da una legge demenziale e infame

La decisione della “suprema autorità” di assegnare alle cliniche romane la disgraziata e criminogena attività abortista è turbata e frenata dalla coraggiosa, nobile e maggioritaria obiezione dei medici per la vita, intrepidi oppositori a una democrazia sulla quale incombe la sanguinaria, sfrenata cialtroneria del radical chic.
Contro la vita nascente si è purtroppo levato uno stock (minoritario e perciò applaudito freneticamente dai portavoce dell'oligarchia democratica) di ginecologi, disposti a compiere il delitto di aborto, atto vile e turpe, attuato al fine di compiacere il delirio stregonesco della setta radical chic e di soddisfare l'acefalia e l'abulia dei politicanti generici.
L'aborto di stato è la manifestazione perfetta della demenza filosofante, che è approvata e incrementata da una classe politica capovolta dal bla bla bla dei necrofili progressivi, imbaldanziti dalla fragilità di madri snaturate dal femminismo e applaudite dal delirio delle megere e dagli stregoni di stampo tele-sessantottino. Un mondo pervertito, che non è degno neppure di uno sputo in faccia.,
In attesa che il Santo Padre, Francesco I, faccia sentire la sua alta e autorevole voce, si spera ardentemente che i cattolici. refrattari alla malavitosa, rovinosa e maledetta legge 194, abbandonino (finalmente) il compunto, ossequioso, legalitario e codardo parolaio e si oppongano risolutamente (ossia con parole dure e con sistematici, spietati boicottaggi) ad una politica denatalista, di stampo radical chic, che promette ciecamente (e già promuove) la formazione di vuoti demografici, che attirano le temibili invasioni, pendenti sul capo delle nazioni sterili e intossicate dall'utopia:
a. l'allarmante decremento della natalità (quindi l'impressionante calo della popolazione italiana
causata dal delirio radical chic);
b. la delinquenziale approvazione e promozione degli aborti;
c. l'incremento di un'immigrazione normalmente animata dalla refrattarietà allo stile di vita:
italiano, quando non eccitata dalla ostilità nei confronti della fede cattolica e della tradizione
nazionale.

Ora il rimedio alla sciagurata invasione di alieni (islamici) è (sarebbe, ove al governo salissero uomini non alterati dal falso ecumenismo) una politica intesa a premiare le famiglie feconde e (tanto per cominciare) ad abolire la disonesta, criminogena e maledetta legge 194.
La natalità – attualmente penalizzata dalla cultrura degli autolesionisti – è l'argine che la non violenza può legittimamente elevare contro la violenta intenzione missionaria, che soggiace all'angosciante immigrazione islamica.
Si può affermare di conseguenza che la infame legge abortista (legge intrinsecamente vile e omicida) è causa del vuoto demografico nel quale irrompe festante la folla degli immigrati islamici, che sono mossi dal desiderio di imporre la religione inventata del loro falso profeta.

Di qui la speranza di un risveglio cattolico, che induca a vedere finalmente la debragatio causata dal buonismo, quindi a sventare la minaccia discendente dalla contraffazione modernista della misericordia cristiana, che è autorevolmente applicata a portatori di una religione irriducibile a quella spiritualità cristiana che ha nobilito la nazione italiana.

Piero Vassallo

giovedì 9 marzo 2017

Storia 1: L’8 marzo del 1917 l’inizio della Rivoluzione Russa (di Paolo Pasqualucci)

Sommario:  Nota previa – Il terribile 1917 – Il crollo della Russia zarista – L’ingovernabilità – Il diffondersi dell’estremismo nel secolarizzarsi della società russa – Era inevitabile la Rivoluzione? – Le gigantesche difficoltà create dalla guerra – Le attese rivoluzionarie dei contadini – La decadenza nella classe dirigente – La pseudospiritualità della ‘Pietroburgo mistica’- Il suicidio della Monarchia – Le istituzioni rivoluzionarie, ordinamenti di fatto, si impongono per la forza delle cose e con la violenza – L’abdicazione dello Zar – La dissoluzione inarrestabile – La discesa agli Inferi di tutto un popolo – Lo sterminio della famiglia imperiale, l’orrendo nefas, simbolo della tragedia che fu la Rivoluzione.


* * *

[Nota previa]  Da più parti ci si lamenta della scarsa conoscenza della storia, che sembra non sia più insegnata in modo adeguato. Di quel fatto epocale che è stata la Rivoluzione Russa, che cosa si sa oggi? Che ci fu la presa del potere da parte dei comunisti, che abbatterono lo zarismo retrogrado, nell’ottobre o novembre del 1917. E chi erano costoro? È tanto se si ricordano i nomi di Lenin o Trotskij o Stalin.  Sic transit gloria mundi. Del comunismo è proibito pronunciare persino il nome, mentre movimenti politici nati sotto quell’insegna, mutato nomine, continuano la loro opera disgregatrice, “rivoluzionaria”, contro la società un tempo cristiana e sempre “borghese”.  La rivoluzione, i cui corifei sono ottimamente installati nella società capitalista, opera oggi in campo “umanitario”, promuovendo l’accoglienza indiscriminata e ingiustificata di masse di “migranti economici”, e, parallelamente, in campo etico,  infierendo sui costumi grazie alla Rivoluzione Sessuale.  In quest’ultima, la componente di origine marxista-comunista si intreccia ad altre, più appariscenti.  Ma  la cosiddetta “liberazione della donna”, all’origine della rivoluzione sessuale, rientrava anche nei programmi della rivoluzione che si affermò in Russia nel 1917 e cominciò proprio l’8 marzo, data nella quale si impone oggi la “celebrazione mondiale della donna”: non certo della madre di famiglia ma della donna protagonista della rivoluzione sessuale, quella che sta distruggendo l’Occidente con la guerra globale al maschio, l’accentuata denatalità e ogni sorta di depravazione. L’Unione Sovietica fu il primo Stato a riconoscere alle donne la facoltà di abortire volontariamente, a spese dello Stato, aprendo una piaga purulenta che la Russia di Putin, tornata al rispetto dei valori cristiani, sta cercando di sanare, senza peraltro esservi ancora riuscita.
Un secolo fa, in questo giorno, cominciava la prima fase della Rivoluzione Russa, quella democratica, con la sua aspirazione a fare della Russia una regime parlamentare simile a quello inglese o francese. Ma sin dall’inizio del moto essa dovette fare i conti con l’aspirazione, forse più radicata, ad una rivoluzione intesa a realizzare la democrazia socialista mediante l’instaurazione della dittatura del proletariato. Rivoluzione parlamentare borghese e rivoluzione dei consigli socialista e marxista, unite nell’abbattere l’autocrazia, si avvilupparono sin dall’inizio in una lotta mortale, dalla quale sarebbe uscito vincitore con un atto di forza, otto mesi dopo, un partito ancora relegato in un ruolo secondario, nella settimana che dall’8 al 15 marzo portò alla caduta della monarchia: il partito bolscevico, lo spietato strumento rivoluzionario messo in piedi con ferrea determinazione in tanti anni di lotte e complotti da Lenin.

* * *

[Il terribile 1917] Un anno terribile e fatale, il 1917.  Si iniziava il quarto anno della Prima Guerra Mondiale.  Il 1° febbraio il Kaiser Guglielmo II, nonostante il parere contrario del Cancelliere Bethmann-Holweg, firmava il decreto che dichiarava la guerra sottomarina totale.  Il 3 successivo gli Stati Uniti rompevano le relazioni diplomatiche.  Dopo i primi affondamenti di loro naviglio mercantile, gli Stati Uniti dichiararono guerra alla Germania, il 2 aprile (al Senato, 82 voti a favore, 6 contrari, 6 astenuti). All’Austria-Ungheria, che Wilson, assieme ai britannici, cercò più volte, sino alla primavera del 1918, di indurre ad una pace separata, l’America dichiarò guerra (una dichiarazione quasi simbolica) solo il 7 dicembre del 1917, dopo che gli Italiani erano riusciti a stabilizzare da soli con aspri combattimenti il loro fronte sul Piave e sul Grappa, ultima linea di resistenza dopo lo sfondamento subìto a Caporetto, con due robusti corpi d’armata franco-britannici tenuti in riserva alle loro spalle, in caso di ulteriore sfondamento (11 divisioni, ridotte rapidamente a cinque, che si schierarono in linea solo nella fase di esaurimento della battaglia).

[Il crollo della Russia zarista] Il fatto epocale, dalle enormi e ancora perduranti conseguenze, fu, nella primavera di quell’anno, il crollo della Russia zarista e l’esplodere della Rivoluzione Russa.  La Russia imperiale era stremata dalla guerra. La rivoluzione, della quale c’era stato un sanguinoso anteprima nel 1905, si preannunciava ormai nel caos interno e nella carestia provocati dalla guerra e dal dissolversi sempre più accentuato  dell’esercito, malamente rifornito e demoralizzato per le pesanti sconfitte subìte, soprattutto ad opera dei tedeschi.  Essa scoppiò l’8 marzo (il 25 febbraio, secondo il calendario giuliano ancora in vigore in Russia) con grandi scioperi per il carovita e poi politici contro l’autocrazia e rivolte militari che provocarono l’anarchia e la paralisi dell’apparato del governo centrale, a Pietrogrado, mentre disordini scoppiavano in tutto il paese, alimentate anche dai soldati disertori.  Pietrogrado svolse un ruolo decisivo nella rivoluzione, allo stesso modo di Parigi in quella francese.
Il 15 marzo lo zar Nicola II abdicò e si costituì un governo provvisorio. Ma fu impossibile mantenere la monarchia, negli ultimi anni screditatasi anche agli occhi di molti elementi conservatori.

[L’ingovernabilità]  Come si era arrivati al crollo del regime?  Di fronte a cataclismi del genere ci si pone sempre la domanda se essi  fossero  davvero inevitabili. Scrisse uno dei protagonisti di quegli eventi, Leone Trotskij:  “La rivoluzione scoppia quando tutti gli antagonismi sociali hanno raggiunto la tensione estrema.  Ma appunto per questo la situazione diventa insopportabile anche per le classi della vecchia società, cioè per le classi condannate a scomparire”[1].  Insopportabile a tal punto che esse, faceva vedere l’autore, si alleano, almeno in parte, con il movimento rivoluzionario per porre fine all’antagonismo, anche se ciò provoca la fine del regime e di loro stesse.  Tuttavia, l’elemento decisivo per il precipitare degli eventi mi sembra sia soprattutto l’ingovernabilità, come si vide già all’epoca della Rivoluzione Francese.  È la “tensione estrema degli antagonismi sociali” a provocare l’ingovernabilità o è quest’ultima a provocare la “tensione estrema”?  Credo sia quest’ultima a provocare quella “tensione estrema”che si risolve alla fine nella violenza liberatrice della sommossa e della rivoluzione: violenza che appare liberatrice in quel momento, poiché dà sfogo a istinti tra loro opposti, il cui conflitto appare ormai insostenibile: quello distruttivo della rivolta (che sembra rivolta solo contro il malgoverno e l’impotenza) e quello costruttivo del ristabilimento di un potere in grado di funzionare, poiché un governo che governi bisogna pur averlo.  E si può dire che l’ingovernabilità sia il risultato ultimo di cause storiche sia profonde che contingenti, confluenti tutte in quel momento nel tempo così tremendo, al quale sembra a volte contribuire persino la natura.  La storia dimostra che l’ingovernabilità diventata radicale si risolve alla fine in tre modi: o con la rivoluzione e l’instaurazione, in genere violenta, di una nuova forma di governo o con la restaurazione parziale o totale della forma in crisi mediante una dittatura, in genere militare, o con l’invasione e l’occupazione straniera, che conduce anch’essa all’estinzione della forma di governo precedente.  Così fu alla caduta dell’Impero Romano in Occidente nell’AD 476, quando Odoacre, capo di milizie barbariche al servizio dell’impero depose l’ormai imbelle imperatore della parte occidentale dell’impero, in preda alle invasioni, alle rivolte militari, all’anarchia, e si fece di fatto Re d’Italia, rimandando le insegne imperiali a Costantinopoli.   

[Il diffondersi dell’estremismo nel secolarizzarsi della società russa] A partire dalla fine dell’Ottocento la Russia aveva conosciuto un notevole sviluppo industriale, grazie anche ad un consistente afflusso di capitali stranieri.  Lo sviluppo aveva messo in moto forze sociali nuove, che cozzavano contro strutture e mentalità da un lato ancora arcaiche e feudali, dall’altro inquinate da una cultura intessuta di pseudoreligiosità ed esoterismo.  Tra questi estremi si inseriva a sua volta l’estremismo rivoluzionario, che si fondava sul culto della scienza, sul mito del progresso, sulla supposta validità assoluta del determinismo storico marxiano. Nella classe intellettuale e dirigente e nelle forze emergenti le nuove esigenze trovavano una rispondenza solo in parte appropriata, nel senso di realistica, costruttiva.  Infatti, da un lato si svicolava dalla realtà rifugiandosi nell’atarassia spirituale, nel fatalismo, il cui alibi era la fede nell’eternità della Russia contadina, patriarcale, imperiale e ortodossa: basti pensare a certi personaggi creati dalla grande letteratura russa dell’Ottocento, quali Oblomov o il Cicikof di Le anime morte.  Dall’altra, si propugnava ardentemente il rinnovamento sociale ma in forme visionarie e messianiche, quali palingenesi che avrebbero dovuto in primo luogo abbattere l’autocrazia e la religione.
 Stupisce ancor oggi vedere con quale entusiasmo la gioventù rivoluzionaria russa dell’Ottocento (uomini e donne) alimentasse, affrontando indomitamente il patibolo e la galera, una infernale tradizione di terrorismo, di omicidio politico mirato,  convinta di compiere in ciò una missione al servizio dell’umanità, oltre che del popolo russo.  Da un lato l’accidia e il fatalismo, dall’altro la mistica della catarsi rivoluzionaria, l’elogio e la pratica della violenza e del terrorismo, il disprezzo per la vita umana, anche della propria, concepita come un’astrazione di fronte all’Idea[2].

[Era inevitabile la Rivoluzione?] Secondo Solženitsyn, la rivoluzione non era inevitabile.  Gli elementi equilibrati e positivi della borghesia russa in formazione, fedeli alla monarchia, accanto all’ancor giovane proletariato urbano, perirono però in gran numero combattendo come ufficiali nelle grandi e sfortunate battaglie dei primi due anni di guerra[3].  In ogni caso, nel suo bel romanzo Agosto 1914, primo di un ciclo dedicato all’intera rivoluzione, lo scrittore, nel capitolo finale del libro, è costretto a mettere in contrapposizione gli elementi giovani e validi della classe dirigente militare all’ambiente bigotto, decrepito, dello Stato Maggiore Imperiale, comandato dal Granduca Nicola zio dell’imperatore, uomo non privo di capacità che capiva i problemi  ma non era capace di risolverli, sia per mancanza di forza di volontà sia perché osteggiato dalla camarilla di corte, costituitasi attorno alla zarina, che lo detestava.  Il giovane colonnello superstite della disfatta dei Laghi Masuri o di Tannenberg, avvenuta all’inizio della guerra, espone invano gli errori di pianificazione e di comando che avevano portato al disastro (l’annientamento di un’intera armata di 90.000 uomini, dopo una promettente vittoria iniziale) e invano chiede una commissione d’inchiesta.  L’offensiva era stata montata in fretta e in furia per rispondere alle pressanti richieste di aiuto degli alleati francesi, che sembravano sul punto di essere travolti dalla marea tedesca irrompente dal Belgio.  Gli errori e le magagne, però, c’erano tutti.  L’inerzia e l’immobilità quasi ieratica degli ufficiali dello Stato Maggiore Generale, nel cui treno abbondavano le icone e le preghiere; l’atmosfera spenta, immersa nel fatalismo, così ben tratteggiata dallo scrittore: tutto ciò instilla nel lettore la sensazione che la rivoluzione fosse a quel punto ormai inevitabile[4].
Questo mi sembra un punto importante, per una corretta interpretazione di quel dramma che è la storia.  Se è vero, come scrive Trotskij, che la rivoluzione scoppia quando gli antagonismi sociali hanno raggiunto la massima tensione, bisogna tuttavia dire, aggiungo, che questa “tensione massima” la raggiungono solo quando la classe dominante mostra un’incapacità così radicata da non esser più in grado di esercitare le funzioni normali di governo.  E proprio questa era la situazione che si era creata in Russia.  L’incapacità a governare cioè a capire i problemi vitali, dare gli ordini conseguenti, farli eseguire, si rivelava ormai in tutta la sua sinistra e angosciante realtà sia nella sfera civile che in quella militare.  Si diffondeva un senso sempre più acuto di paralisi e di impotenza. Il potere ufficiale, concentrato nello Zar, monarca di diritto divino e Capo supremo delle forze armate, succube di una corte non all’altezza, non riusciva a cavarsi dall’immobilismo e sembrava vivere in un altro mondo rispetto a quello reale.   

[Le gigantesche difficoltà create dalla guerra]La guerra aveva impresso alla Russia un impetuoso sviluppo produttivo, specie nel settore dell’industria pesante.  Secondo i dati riportati dallo storico sovietico Sidorov, rispetto al 1913 la produzione del 1914 aumentò del 101, 2%; nel 1915 toccò il 113, 7% e nel 1916 l’incremento arrivò sino al 121, 5% […].  Per incanalare la crescita verso un miglioramento delle condizioni sociali si imponevano delle riforme strutturali dell’apparato politico-economico statale che Nicola II non fu in grado d’imprimere.  La cattiva gestione delle congiunture favorevoli determinò, sin dagli ultimi mesi del 1916, un’impennata dell’inflazione.  La valuta dell’impero zarista, considerata una delle più sicure nel periodo prebellico per la copertura aurea di cui necessitava per essere emessa [c’erano le abbondanti riserve auree delle miniere siberiane], costituì la base di copertura delle necessità militari. Ma già il 27 luglio 1914  [il giorno prima dello sciagurato ultimatum austriaco alla Serbia] un decreto sospendeva l’obbligo della copertura aurea per l’emissione delle banconote e fu permesso al Tesoro di stampare carta moneta senza la stima della copertura in oro, con una semplice autorizzazione. La continua pioggia di denaro fece crescere a dismisura  l’inflazione che arrivò a toccare il 600% nei primi mesi del 1917”[5].    
Ma questa non fu l’unica disgrazia.  Terribile  fu anche il gelo.
“L’inverno russo del 1917 fu eccezionalmente freddo, facendo registrare una temperatura media di -12°.  Il gelo che ne seguì rese quasi del tutto inutilizzabili le già carenti infrastrutture necessarie al trasferimento dei prodotti agricoli verso le città.  A Pietrogrado e a Mosca, come anche nei comuni più piccoli, si rischiava letteralmente la fame.  Dalle campagne arrivava circa un terzo del necessario, mentre le scorte erano sufficienti solo per pochi giorni.  La situazione si aggravò ulteriormente a causa della mancanza di combustibile, i cui giacimenti erano allocati nelle zone meridionali, orientali e sudorientali della nazione, molto distanti dalle città più popolose.  I mezzi di locomozione non riuscivano a far fronte ai bisogni del trasporto delle merci alimentari e dei carburanti, in quanto le poche locomotive ancora funzionanti erano quasi del tutto impegnate nel soddisfacimento delle esigenze militari.  Gli altri vagoni ferroviari erano fuori uso a causa del sovrautilizzo e della mancanza di manutenzione ordinaria.  Inoltre, il materiale costruito negli Stati Uniti [inviato in aiuto allo sforzo bellico russo] era costretto a giacere nei magazzini portuali degli approdi siberiani a causa della mancanza di infrastrutture in grado di trasportarlo all’interno del paese”[6].
In ogni città e paese della Russia “lunghe code sostavano davanti ai negozi di generi alimentari. La penuria di pane, carne, olio e grassi era assillante.   In molte città le centrali della luce e dell’acqua avevano cessato di funzionare.  In talune comunità pubbliche e private gli stabilimenti dei bagni erano chiusi.  Da ogni località giungevano minacciosi rapporti di ribellione”[7].  I rapporti della Polizia di Stato zarista erano molto precisi ma il governo non si scuoteva dal torpore.
“Il continuo reclutamento di lavoratori e la requisizione dei cavalli avevano sensibilmente scemato le aree di terra coltivata.  La penuria di braccia per i lavori agricoli si ripercosse tragicamente sul raccolto.  Nel gennaio del 1917 il prezzo delle derrate era aumentato a Pietrogrado di sei volte, nella provincia di cinque.  A Mosca i cartelli con la scritta:  “Oggi niente pane e non se ne aspetta” erano diventati cosa di tutti i giorni.  Si registrava anche una preoccupante deficienza di combustibile […] Nei contadini sopravviveva ancora un filo di speranza:  che, dopo la guerra, sarebbe stata loro concessa la terra…”[8].

[Le attese rivoluzionarie dei contadini] Si era diffusa tra i contadini in patria e nell’esercito l’idea pericolosa che avrebbero avuto finalmente la terra, dopo la guerra. Le parole d’ordine di Lenin, quando fece il suo colpo di Stato, furono: Pace, Pane, Terra ai contadini. La pace, gravosissima, la fece subito con i tedeschi. E li si fermò, perché la terra i contadini non l’ebbero mai mentre il programma di Marx da lui applicato rigorosamente all’economia la fece crollare, tant’è vero che egli dovette assai presto reintrodurre in parte il capitalismo appena abolito, ridando spazio all’iniziativa privata (Nuova politica economica o NEP dell’inizio degli anni Venti, poi rinnegata dopo la sua morte, avvenuta nel 1924).

[La decadenza nella classe dirigente] In tutta la Russia era giunto all’apice l’odio nei confronti di Rasputin, il “santone” favorito dalla zarina, il cui ascendente si basava molto sul fatto di riuscire apparentemente a curare l’emofilia dello zarevic Alessio con l’ipnotismo. Il corrotto e libertino Rasputin dominava con la sua torbida camarilla la corte e veniva accusato  (a torto) di tradimento a favore dei tedeschi: in realtà era stato sempre (giustamente) contrario alla guerra.    
“Il governo, dominato da Rasputin e dalle sue marionette, era in disintegrazione.  Mai assemblea più pietosa si trovò a capo del governo russo come durante l’ultimo anno di regno dei Romanov.  L’unica personalità più o meno abile era Protopopov, il ministro dell’Interno, ma anche costui era un eccentrico.  Per scegliere il giorno di riunione della Duma [che veniva convocata ad arbitrio dello zar] consultò il proprio oroscopo e suggerì lo scioglimento dell’assemblea perché l’imperatore del Giappone aveva sciolto ripetutamente il Parlamento senza risultati disastrosi”[9].
L’accenno alle eccentricità a sfondo esoterico del ministro zarista, ci fa toccare con mano la decadenza serpeggiante in quella classe dirigente, nella quale le funzioni di governo da tempo non erano appannaggio degli uomini migliori ma di individui quasi tutti imposti a Nicola II, uomo insicuro e di debole volontà, dall’Amico Rasputin e dalla stessa zarina.  La corte viveva in un’atmosfera spiritualmente abnorme, ingenerata dalla presenza quasi costante di guaritori, veggenti, occultisti, per colpa soprattutto dello pseudomisticismo della sventurata imperatrice Alessandra, per la quale l’autocrazia era un vero e proprio dogma, istituzione da mantenersi in assoluto, senza mai fare concessioni.  L’imperatrice era tedesca come la grande Caterina, donna corrotta di costumi ma notevole cervello politico, al contrario della consorte di Nicola II.

[La pseudospiritualità della ‘Pietroburgo mistica’] In quell’ambiente imperava una pseudospiritualità, a sfondo teosofico, tipica della “Pietroburgo mistica” del tempo, nella quale confluivano anche le esperienze dei circoli intellettuali, soprattutto filosofico-letterari, fortemente influenzati dal Decadentismo e dal Simbolismo francesi, con tutti i loro ben noti addentellati esoterici.  Nella società “bene” di Pietroburgo, lo spiritismo e in generale l’occultismo nelle sue varie forme, spopolavano[10].
Nel dicembre del 1915 l’ambasciatore francese scriveva nel suo diario: “Mi sono recato in visita da Mme S. per il tè piuttosto tardi, questa sera.  In sua compagnia vi erano una dozzina di persone.  La conversazione restava sulle generali ed era molto vivace.  Gli argomenti in discussione erano lo spiritismo, i fantasmi, la chiromanzia, la telepatia, la trasmigrazione delle anime e la stregoneria.  Quasi ogni uomo o donna presenti raccontò alcuni aneddoti o casi personali appresi per testimonianza diretta…”[11].
Tra la società della “Pietroburgo mistica” e la Corte Imperiale, un intermediario fu per vari anni proprio il Granduca Nicola grazie alla moglie e alla cognata, entrambe montenegrine e appassionatamente dedite all’occultismo.  “A loro indirizzavano i loro protetti le persone che speravano di conquistare i favori imperiali grazie alla presenza di qualche particolare “sant’uomo” a corte”.  C’era stata anche una forte e negativa influenza straniera.  “Come gli intellettuali, anche la Corte era attratta dai maestri che la rinascita occulta [della seconda metà dell’Ottocento] aveva generato in altri paesi.  Era naturale che i legami politici con la Francia mettessero in collegamento sia i nobili sia gli intellettuali con le fiorenti organizzazioni di cabalisti, rosacrociani e taumaturghi che si erano installati nel paese.  I due maghi francesi che per un certo tempo esercitarono una grande influenza a Tsarskoije Selo [residenza dello Zar] furono Papus, al secolo Gérard Encausse, morto nel 1916, il più famoso divulgatore delle dottrine ermetiche durante la Belle Epoque, e il suo “maestro spirituale”, conosciuto come Monsieur Philippe”.  Durante una visita nel 1902, “Philippe esercitò una straordinaria influenza sui suoi imperiali protettori”[12].  Questo Monsieur Philippe aveva fama di veggente e guaritore e “venne autorizzato a praticare la medicina su ordine dello Zar”.  A Lione, da dove proveniva, era capitano dei pompieri ma in Russia lo Zar gli diede il grado di generale e Consigliere di Stato.  La coppia imperiale era all’epoca angosciata dalla mancanza di un erede maschio, che sarebbe nato  successivamente, e l’imbonitore si sbilanciò a predirne la nascita:  ciò fu all’origine dell’ascendente che seppe esercitare su di essa.  Egli consigliava anche di non concedere mai una costituzione.  La reazione dei sostenitori sani della monarchia, ancora molto numerosi, costrinse lo Zar e disfarsi della presenza del Philippe, che poi morì nel 1905, in Francia.
“Dopo l’esilio forzato di Philippe, tutti coloro che cercavano di ottenere potere e influenza continuarono a tentare di infiltrare i loro profeti a palazzo.  Per un breve periodo, Nicola nutrì qualche speranza nell’indovina Matronushka la Scalza, che solitamente faceva predizioni per le domestiche di Pietroburgo; ma Matronuschka morì nel 1906”.  Successivamente, ci furono “l’irascibile Pasha Sarovskaja che viveva in un monastero in mezzo alle foreste e si diceva avesse centodieci anni”; il soldato analfabeta del Kuban che girava per tutta la Russia armato di un’enorme croce d’argento, morto poi in una rissa d’ubriachi. Seguìto dalla  “Beata Mitja” (Mitja Kozelskij), che era stata scoperta dai monaci di Optina Pustjn.  I grugniti e le grida inintelligibili di Mitja venivano interpretati ‘grazie ad una speciale illuminazione’ dal sagrestano di Optina”.  È possibile che costei fosse “una creatura dell’archimandrita Teofane, che avrebbe di lì a poco scoperto Rasputin”.  Le due figure che esercitarono la più profonda influenza sulla Corte furono il tibetano Badmaev e Rasputin.   “Come Philippe, Rasputin si fece dei nemici, provenienti soprattutto dalle fila dei sostenitori moderati della monarchia, che vedevano come la loro beneamata istituzione venisse trascinata nel fango”[13].  Spinti dalla disperazione alcuni nobili assassinarono Rasputin mentre c’erano generali che avrebbero voluto far rinchiudere la zarina in convento.   
Nelle conventicole letterarie e filosofiche, si respirava un’aria visionaria e apocalittica, creata anche dall’attesa angosciosa dell’imminente crollo della Vecchia Russia.  La testimonianza è di Berdjaev, che fu anche tentato dall’occultismo pur detestandolo. Fu un’epoca, disse, di forte risveglio ed inquietudine intellettuale, di ricerca originale ed indipendente, di intensa immaginazione poetica.  Tuttavia, vi erano segni di artificiosità ed involuzione in tutto questo sgargiante alitare dello Spirito:  “eravamo in realtà testimoni non di una nuova era ma del collasso di quella vecchia, ed eravamo tormentati da un senso di imminenza del collasso della Vecchia Russia”[14]. Quest’attesa tormentosa della catastrofe di tutto un mondo, auspicata solo dai rivoluzionari più estremisti, che si giustificava tuttavia in base alla percezione ahimé del tutto fondata del deterioramento irreversibile della “Vecchia Russia”, rappresentò forse l’elemento irrazionale, fatalistico, che contribuì a far esplodere le grandi tensioni sociali nell’atto rivoluzionario, l’atto distruttore ed autodistruttore per eccellenza.

 [Il suicidio della Monarchia].  Lo Zar aveva concesso l’istituzione della Duma (Duma imperiale), una costituzione di tipo conservatore e alcuni diritti civili in séguito alla Rivoluzione del 1905, ma poi si era in parte rimangiato le concessioni.  Era un parlamento che lo Zar convocava a suo libito e lo fu solo quattro volte prima della sua dissoluzione finale nel 1917.  Il potere restava sempre concentrato nello Zar, monarca di diritto divino che governava con i suoi ministri, a base di decreti, senza servirsi di un Gabinetto responsabile davanti ad un Parlamento, anche censitario e cosnervatore. I tracolli militari lo costrinsero a riconvocare la Duma.
“Gravi sconfitte sul fronte galiziano costrinsero lo zar a riconvocare la Duma il 19 giugno del 1915.  Ma il 3 settembre l’assemblea fu di nuovo aggiornata.  Queste sessioni saltuarie non migliorarono l’umore dei deputati, che chiesero l’allontanamento di Rasputin dalla corte.  Il cosiddetto ‘blocco progressista’, formatosi nel 1915, cercò di conciliare gli interessi della classe media con quelli della nobiltà e del partito monarchico.  Miliukov, l’organizzatore del blocco, riconobbe che l’iniziativa era partita da taluni ministri zaristi.  Il programma del blocco, che includeva sei gruppi conservatori e liberali della Duma, chiedeva ampie riforme politiche e sociali e la formazione di un governo unito, ma non si spingeva fino al punto di chiedere un Gabinetto responsabile di fronte alla Duma.  Il potere supremo rimaneva sempre allo zar.  Questo eccellente programma, però, non si dimostrò altro che un catalogo di pii desideri.  Nessuna riforma venne infatti decretata”[15].
Tra i vituperati ministri zaristi non vi erano solo “marionette”, evidentemente.  C’era anche chi vedeva lucidamente la situazione. Ma perché le sconfitte militari imponevano un profondo cambiamento nell’azione di governo?  Cos’era successo?
La guerra si era iniziata male per la Russia, con la sconfitta di Tannenberg, in Prussia Orientale (vedi supra).  Ma nella parte Sud del fronte i russi avevano inflitto sonore batoste agli austroungarici, i cui reparti slavi non mostravano troppa voglia di battersi contro di loro.  Dall’autunno del 1914 alla primavera del 1915, il Granduca Nicola è all’offensiva in Galizia, regione che corre lungo i Carpazi tra la Polonia meridionale e la Romania, con  Leopoli come città principale. Riesce a conquistare l’importante piazzaforte di Przemysl, catturando 127.000 prigionieri.  A fine marzo 1915 i russi sono di nuovo sui Carpazi, superandoli in parecchi punti:  al di là si apre la pianura ungherese e solo 200 km li separano da Budapest, seconda capitale della Duplice Monarchia.  Gli austriaci sono in grave crisi ma il Granduca Nicola scarseggia gravemente di fucili, munizioni, autocarri.  Il prezzo delle vittorie in uomini e materiali è stato enorme:  sono sparite trentotto divisioni, tra morti, feriti, dispersi, prigionieri.  L’esercito è in realtà al limite del collasso.
Se arrivassero i rifornimenti dall’Intesa, soprattutto di munizioni, ci si potrebbe riprendere (come accadrà poi nella II guerra mondiale, grazie agli enormi rifornimenti americani di ogni tipo).  Ma il tentativo franco-britannico di conquistare i Dardanelli per aprire una via di comunicazione con la Russia, iniziatosi nella primavera del 1915, naufragò completamente dopo alcuni mesi di aspra lotta contro l’esercito turco, riorganizzato dai tedeschi. A partire dal 2 maggio di quell’anno gli austrotedeschi scatenarono una grande offensiva in Galizia, travolgendo l’intera linea russa sui Carpazi.  Il 14 maggio erano avanzati di 130 km.  Il 3 giugno fu riconquistata Przemysl, il 22 Leopoli.  Il fronte russo era stato spezzato in due tronconi[16].
Fu nell’atmosfera cupa di quelle disfatte che che lo Zar dovette convocare la Duma, il 19 giugno.  Essendo formalmente il Comandante in Capo dell’Esercito, anche se non partecipava direttamente ai lavori dello Stato Maggiore Generale, i disastri della guerra pesavano in primo luogo sulle sue spalle, oltre che su quelle dei generali.  Era necessario coinvolgere le forze politiche non rivoluzionarie, che erano la gran maggioranza e ancora ben disposte a collaborare con la monarchia.  Bisognava creare un governo di unità nazionale, iniziare a fare qualche riforma, anche moderata, pur nel mantenimento del potere sovrano al monarca, nella forma classica del potere di veto.  Invece, nulla accadde.
Per la metà di agosto, i tedeschi avevano occupato l’intera Polonia e fatto 750.000 prigionieri.  La ritirata russa si arrestò solo in autunno:  “ Così, alla fine di settembre, dopo una snervante serie di fughe dai salienti che i tedeschi sistematicamente creavano per poi tentare di isolarli, la ritirata russa si arrestò definitivamente lungo una linea diritta che correva da Riga, sul Baltico, a Czernovitz, sulla frontiera romena. Ma per questa tregua le armi russe avevano pagato un prezzo altissimo…”[17].  La Russia aveva cessato di rappresentare una minaccia per la Germania, anche se sarebbe stata ancora capace di una fiammata offensiva nell’estate del 1916, di nuovo in Galizia, che avrebbe di nuovo procurato agli austroungarici seri problemi, risolti però abbastanza rapidamente con il consueto aiuto tedesco.
Dopo quest’ultimo fallimento era ancor più evidente che la guerra stava conducendo la nazione verso il baratro.
“Nell’ultimo mese della monarchia, lo zar trascorse la maggior parte del suo tempo al quartier generale di Moghilev e la Russia fu di fatto governata dall’imperatrice che nominava e licenziava ministri in nome del marito.  La Duma era impotente ad influire sul corso degli eventi.  Pure, nello scorcio del 1916 [dopo il fallimento disastroso dell’ultima offensiva], i partiti del blocco progressista dovevano compiere un passo decisivo per il potere.  Le condizioni del Paese imponevano un cambiamento drastico.  Per salvare la struttura economica della Russia e l’esercito erano necessarie una nuova guida politica e una nuova autorità. Aleksandr Kuchkov, ex presidente della Duma, predicava un colpo di Stato.  A tale scopo vennero vagliati diversi piani… Il 7 novembre del 1916, il granduca Nicola ebbe un colloquio intimo con il nipote, lo zar, e lo avvertì che il trono stava vacillando.  “Rientra in te, prima che sia troppo tardi, disse, concedi un ministero responsabile”.  Lo zar restò silenzioso…Il 30 dicembre del 1916 alcuni nobili dell’ambiente della corte tentarono di salvare la dinastia assassinando Rasputin…L’eliminazione di Rasputin, però, giunse troppo tardi…La Duma era bombardata da tutti i lati da inviti ad assumere il controllo completo della situazione. Il popolo affamato e irritato; i comandanti militari ridotti alla disperazione dalla incompetente condotta della guerra; gli esponenti della nobiltà, persino alcuni membri della famiglia imperiale, chiedevano alla Duma la formazione d’un governo responsabile.  A coloro che chiedevano che la Duma impugnasse le redini del governo, Michele Rodzianko, il presidente replicò:  ---Le istituzioni legislative non possono prendere l’iniziativa di colpi di Stato.  Io non ho né il potere né il desiderio di sollevare il popolo contro lo zar”[18].
C’erano generali che ormai dichiaravano in privato che l’esercito sarebbe stato favorevole a una rivoluzione di palazzo, che per prima cosa allontanasse l'imperatrice dall’esercizio di fatto del potere.  Rodzianko si recò più volte a rapporto dallo zar, chiedendogli invano di tener la zarina lontana dalla politica e di nominare un primo ministro responsabile, che collaborasse con la Duma e con altre istituzioni pubbliche nella condotta della guerra, paventando la rivoluzione e l’anarchia, se non si fosse formato immediatamente un governo responsabile di fronte alla Camera[19]
Il 27 febbraio 1917 – quand’era ormai troppo tardi - finalmente lo Zar convocò la Duma.  Alessandro Kerenskij, popolare avvocato capo della fazione socialista moderata, uno degli esponenti di spicco della Massoneria da poco ricostituitasi (era stata soppressa nel 1822), fece un discorso dal taglio assai poco moderato.  Disse, ad un certo punto:  “Per prevenire la catastrofe è lo stesso zar che deve essere allontanato e, se non c’è altro mezzo, con la forza”. Cominciavano le dimostrazioni, di operai e studenti, di donne mobilitate “per il pane”, durante le quali si videro ufficiali unirsi agli studenti nei canti rivoluzionari.  Il 6 marzo lo Zar fece sapere che avrebbe nominato finalmente un Gabinetto responsabile e anzi sarebbe venuto in persona alla Duma. Ma poi cambiò improvvisamente idea e partì per il quartier generale.  L’8 cominciò il movimento rivoluzionario:  gli operai iniziarono vasti scioperi contro l’autocrazia. Lo Zar ordinò al presidio della città di reprimerli con la forza. Nelle sue lettere allo Zar, l’imperatrice minimizzava i fatti, spiegando che si trattava solo di canaglia sobillata. L’11 marzo, il presidente della Duma, inviò allo Zar questo telegramma:
“La situazione è seria.  La capitale è in stato di anarchia.  Il governo è paralizzato; i trasporti interrotti; i rifornimenti di cibo e di combustibile completamente disintegrati.  Il malcontento è generale e crescente.  Nelle strade si spara alla cieca e le truppe fanno fuoco le une sulle altre.  È urgente affidare la formazione del nuovo governo a qualcuno che goda della fiducia del Paese.  Non bisogna indugiare…”.  Il giorno successivo egli tornò alla carica ma lo Zar rispose:  “Sciogliete la Duma”.  Rodzianko obbedì e aggiornò l’assemblea all’aprile successivo.  Ma rispose con parole che credo valga la pena di ricordare.
“L’ultimo baluardo dell’ordine è stato soppresso.  Il governo è impotente a contenere i disordini.  Non si può contare sulle truppe della guarnigione.  I battaglioni della riserva dei reggimenti della Guardia sono controllati dai ribelli, gli ufficiali vengono uccisi.  Unitisi alla plebaglia e al popolo in rivolta, stanno marciando sugli uffici del ministero dell’Interno e sulla Duna imperiale.  La guerra civile è incominciata e si va estendendo.  Ordinate immediatamente la formazione di un nuovo governo sulla base del principio espostovi nel mio telegramma di ieri.  Revocate il vostro recente ordine e comandate alle camere legislative di riunirsi nuovamente.  Rendete pubbliche con un proclama queste misure.  Maestà, non indugiate…In nome della Russia, io scongiuro Vostra Maestà di seguire queste raccomandazioni.  L’ora che deciderà del destino vostro e di quello della Russia è giunta.  Domani potrebbe essere troppo tardi”[20].
Ma Nicola, commenta Shub, continuò a seguire i consigli della moglie.  Sciogliendo la Duma, aveva distrutto l’ultima barriera tra se stesso e la rivoluzione[21].
A questo punto di fronte alla rivoluzione montante nelle strade e nelle piazze, e con il potere legittimo che desisteva in pratica da ogni tentativo di trovare una soluzione politica, che cosa avrebbe dovuto fare la Duma?

[Le istituzioni rivoluzionarie, ordinamenti di fatto, si impongono per la forza delle cose e con la violenza]  Una rivoluzione non è tale se non si giunge a una rottura sul piano delle istituzioni.  Devono apparire organi nuovi, autolegittimatisi all’uso del potere di governo o trasformazioni radicali negli organi antichi, tali da contraddire o distruggere la costituzione vigente, scritta od orale che sia.  Un esempio classico, come è noto, si ha nella Rivoluzione Francese. I tre ordini (nobiltà, clero, terzo stato) convocati dal Re negli Stati Generali, secondo la costituzione del Regno, votavano per ordine:  ogni ordine un voto.  Il terzo stato alterò la procedura dichiarando, con l’appoggio di diversi membri degli altri due, che bisognava votare per testa ossia individualmente.  Essendo il più numeroso veniva così ad acquistare la maggioranza.  Il terzo stato si dichiarò Assemblea Nazionale (17 giugno 1789) e poco dopo Assemblea Costituente (9 luglio 1789), il cui compito era evidentemente quello di dare alla Francia una nuova costituzione.  La vecchia costituzione era distrutta, la rivoluzione era cominciata.  Il momento del suo inizio fu quello del mutamento nel sistema di voto, cosa che solo il Re avrebbe potuto concedere, secondo la costituzione vigente.  Se il Re, a questo punto, seguendo un consiglio privato di Talleyrand, avesse fatto sciogliere gli Stati Generali con la forza, avrebbe agito nel suo pieno diritto di monarca legittimo, che non può tollerare una ribellione che vuol addirittura sovvertire la costituzione del Regno[22]
Gli atti rivoluzionari sono a volte preceduti da atti che inconsapevolmente preparano la strada alla rivoluzione nel senso che, senza volerlo, favoriscono oggettivamente la preparazione dello sviluppo rivoluzionario.  Un atto del genere fu l’incauta concessione da parte di Luigi XVI, il 27 dicembre 1788, del raddoppiamento dei numero dei deputati del terzo stato. 
Nel caso della Russia, gli organi che iniziarono il processo rivoluzionario furono due: la Duma e il Soviet di Pietrogrado, entità – quest’ultima – completamente al di fuori della costituzione.  
La Duma non osò disubbidire apertamente all’ordine imperiale di scioglimento. Formò pertanto un governo di fatto:  “fu deciso di obbedire al decreto e di riunirsi subito in una sessione non ufficiale”.  Possiamo dire che tale governo, pur formalmente illegale era tuttavia giustificato dallo stato di necessità e quindi legittimo in base al diritto che lo stato di necessità si crea da se stesso.  Ma lo stesso giorno, 12 marzo, rinacque il Soviet o consiglio degli operai di Pietrogrado, esteso poi ai soldati delle guarnigioni ribelli, quelli che, come fu detto, avevano trasformato una rivolta per il pane in una rivoluzione che aveva abbattuto la monarchia assoluta.  Erano truppe di guarnigione, scadenti, che salvavano la pelle nelle retrovie mentre chi combatteva al fronte doveva vedersela con i tedeschi. Ma tant’è:  erano gli scarti dell’esercito ma i bolscevichi se ne sarebbero comunque serviti per prendere il potere nel novembre successivo. Apparso una prima volta nella rivoluzione del 1905 e poi soppresso, il Soviet rientrava apparentemente nella tradizione russa dei consigli (zemstvo), istituzioni di autogoverno che caratterizzavano soprattutto la Russia rurale: consigli comunali, di distretto, di provincia.  Ma il Soviet rappresentava in realtà un organo nuovo, rivoluzionario. Infatti, non si limitava alla regolamentazione delle necessità degli operai e a richieste di tipo sindacale, ma tendeva a porsi come mente organizzativa e direttiva del processo rivoluzionario, a darsi una finalità soprattutto politica e contro l’ordinamento vigente, che voleva mutare ed anzi abbattere.
Il Soviet di Pietrogrado creò il suo comitato esecutivo elettivo, nel quale c’erano anche i rappresentanti dei partiti politici, compresi ora quelli rivoluzionari (tra di essi la minoranza bolscevica).  Il vicepresidente era Kerenskij. I due organi della rivoluzione in marcia cooperavano in un clima eccitato e difficile, in mezzo a folle esaltate che si rinnovavano di continuo, dentro e fuori gli edifici che  ospitavano le loro riunioni.
“Il Soviet non era un’istituzione parlamentare convenzionale.  Funzionava giorno per giorno, senza regole fisse.  I suoi membri raggiunsero presto il numero di duemila e alla metà di marzo divennero tremila.  Fu al Soviet che Rodzianko chiese il permesso di prendere un treno per recarsi dallo zar; fu il Soviet che pose fine allo sciopero generale, riapr­ì le fabbriche, ripristinò il traffico stradale”[23].
  La forza la deteneva il Soviet.  Con l’approvazione del Soviet, Kerenskij e un altro deputato, “convinsero poi la maggioranza della Duma a eleggere un comitato provvisorio, che prendesse le redini del governo ed entrambi ne divennero membri” mentre si faceva appello all’indizione di elezioni per un’assemblea costituente panrussa.  Il governo provvisorio della democrazia russa venne dunque alla luce sotto la protezione del Soviet di Pietrogrado, in una posizione di debolezza e di potenziale diarchia, che alla fine gli sarebbe stata fatale.  Lenin, che non amava il Soviet, in quanto poteva dar ombra al partito di rivoluzionari di professione da lui diretto con ferrea disciplina, approfittò della maggioranza raggiunta poi dai bolscevichi nel Soviet di Pietrogrado per far approvare il colpo di Stato militare del 7 novembre successivo (25 ottobre), compiuto dalla guarnigione della città e dai marinai della base di Kronstadt, che abbatterono il governo provvisorio e il Parlamento preliminare. L’assemblea costituente panrussa, eletta il 25 novembre, nella quale i bolscevichi avevano solo il 23% dei seggi (168 su 703) mentre la maggioranza assoluta spettava ai socialisti rivoluzionari, fu disciolta con la forza (e la barbara uccisione di due suoi anziani deputati) il 18 gennaio 1918[24].
Che il Soviet fosse un organo rivoluzionario e volesse esser tale, lo si vide subito, dalla sua ordinanza o prikaz n. 1, del 15 marzo, “che dava istruzione alle truppe di non obbedire agli ordini degli ufficiali non convalidati dal Soviet di Pietrogrado e di organizzare dei Soviet in ogni unità dell’esercito.  Queste disposizioni miravano a distruggere il sistema di casta degli ufficiali ed effettivamente infersero un colpo mortale alla disciplina militare”[25].  Non si trattava solo di distruggere il corpo degli ufficiali, cosa indubbiamente esiziale.  La Rivoluzione aveva vinto solo grazie all’appoggio dell’esercito, bisognava che il Soviet, che in quel momento era la rivoluzione che si organizzava dal basso e capillarmente, estendesse e mantenesse il suo controllo sull’esercito in rivolta. Si vede qui all’opera, inoltre, la logica tipica delle moderne organizzazioni di partito, settarie:  esigenza primaria è quella di consolidarsi nelle istituzioni, civili o militari che siano, sovrapponendovi un proprio apparato di potere che le controlli, non tanto quella di consolidare le istituzioni.

[L’abdicazione dello Zar]  In questi drammatici frangenti, il consiglio dei ministri dello Zar “offrì di dimettersi e di incaricare il principe Dgiorg Lvov o Rodzianko di formare un nuovo gabinetto.  Il granduca Michele [fratello dello Zar] telefonò, fuori di sé, al capo di stato maggiore, generale Alekseiev, chiedendogli di rivolgere all’imperatore un ultimo appello affinché concedesse un ministero responsabile. Lo zar rispose di essere grato al fratello del consiglio, ma di non avere alcuna intenzione di adottare la proposta…Rinserrato nel treno imperiale al quartier generale presso Moghilev, Nicola ancora non si rendeva conto di quanto era accaduto.  Pensava che avrebbe dovuto mostrare il pugno di ferro.  Decise di nominare un dittatore per soffocare la rivolta e scelse il generale Ivanov. La notte del 13 marzo, Ivanov partì per la capitale a capo di reparti presumibilmente fedeli”[26].
Nicola decise di andare anche lui verso Pietrogrado, con i due treni del suo convoglio personale. “Alle due del mattino il treno entrò nella stazione di Malaija Vishera, dove un gruppo di persone attendeva ansiosamente sulla banchina.  Era una notte chiara e gelida.  Nicola dormiva profondamente.  Il generale Narishkin [dello Stato Maggiore dell’imperatore], seguito da Mordvinov [aiutante di campo dello Zar], scese dal treno. “Dov’è il maestro delle cerimonie, dov’è il seguito?” vennero bersagliati di domande.  “Dormono tutti”.  “Come? Dormono? Non sapete che Liuban e Tosno sono state occupate dalle truppe rivoluzionarie? Non avete ricevuto il nostro telegramma? Ci hanno ordinato di convogliare il vostro treno direttamente a Pietrogrado dove ha assunto il potere una specie di governo provvisorio”.  Il treno imperiale tornò rapidamente a Pskov, sede del generale Ruzskij, comandante del fronte settentrionale…Nel frattempo l’imperatrice, che si trovava a Tsarskoije-Selo, al capezzale dei figli ammalati di morbillo, gli aveva scritto:  “Le cose vanno male.  Non so quando potrò riunirmi a voi, ma credo fermamente, e la mia fede è incrollabile, che tutto andrà bene…È chiaro che cercano di impedirvi di vedermi prima di farvi firmare qualche carta, una costituzione, credo, o qualche altro orribile atto.  E voi, senza l’appoggio dell’esercito, preso in trappola come un topo, che cosa farete? È una malvagità, una viltà grandissima, inaudita nella storia, esercitare un’azione coercitiva su un imperatore…”.  Anche se Nicola avesse ricevuto in tempo queste righe, non avrebbe potuto far nulla. Ruzskij lo consigliò di inchinarsi alla volontà del comitato provvisorio della Duma”[27]. Dopo più di un’ora di discussione, lo Zar acconsentì alla formazione di un ministero responsabile, capeggiato da Rodzianko. Il generale lo convinse anche ad annullare gli ordini impartiti al generale Ivanov.  
Alle tre e mezzo del mattino Rodzianko fu informato per telefono dal generale Ruzskij: “Quando ricevette le istruzioni dello Zar, Rodzianko andò in bestia.  Non era forse la stessa azione ch’egli aveva propugnato alcune settimane prima, quando era ancora possibile attuarla?  Ormai era troppo tardi.  Il popolo, ora, chiedeva l’abdicazione”[28].
Dopo alcune civili discussioni, durante le quali gli venne confermato lo sfacelo dell’esercito, lo Zar si convinse ad abdicare e lo fece in favore di suo fratello, il granduca Michele.  Pensava che avrebbe potuto conservare il trono per quando lo zarevic Alessio sarebbe stato maggiorenne. L’atto di abdicazione gli fu portato da due deputati della Duma e da lui firmato alle 23.40 del 15 marzo.  Nicola accolse e trattò i due messi di sventura, peraltro assai imbarazzati, in modo sempre cordiale.  Intanto, nella capitale, il comitato della Duma e il comitato esecutivo del Soviet avevano nominato i membri del nuovo governo provvisorio, istituzione che ora consolidava la rivoluzione su mandato dei due organi rivoluzionari:  era la rivoluzione che ora consolidava se stessa.  Ma il Soviet di Pietrogrado, dominato dalla sinistra, si rifiutò di accettare la continuazione della dinastia. In una accanita discussione notturna a casa sua, alcuni membri del neonato governo, tranne uno, consigliarono (in particolare Kerenskij) al granduca di rinunciare al trono, per evitare nuovi gravi disordini.  E così fu.  Il granduca dette l’impressione ad alcuni di non avere la stoffa, richiesta dalla difficilissima situazione[29].

[La dissoluzione inarrestabile] Conclusione di Shub:  “Il Soviet dei deputati degli operai e dei soldati di Pietrogrado era adesso l’istituzione più importante della Russia. Riconobbe l’autorità del governo provvisorio, ma dopo che questo si fu impegnato a osservare otto condizioni basilari, redatte dal comitato provvisorio della Duma e dal comitato esecutivo dei Soviet, che chiedevano:  amnistia immediata e completa per tutti i prigionieri e gli esiliati politici; libertà di parola, di stampa, di riunione e di sciopero; abolizione di tutte le limitazioni di classe, di gruppi e di religione; elezione di un’assemblea costituente per ballottaggio segreto universale; sostituzione della polizia con una milizia nazionale, soggetta alla autorità locali; elezioni democratiche per la nomina dei funzionari dei municipi rurali e cittadini”. I reparti di soldati ribelli dovevano esser lasciati in armi a Pietrogrado e i diritti civili dovevano essere estesi ai soldati soggetti a disciplina militare, durante il compimento del loro dovere[30].
Il vero governo della Russia era dunque nelle mani del Comitato Esecutivo del Soviet, composto da una quarantina di persone.  Esso dissolse esercito e polizia, indebolì notevolmente lo Stato centrale, impedì, in sostanza, lo sviluppo di una vera vita parlamentare, di una normale democrazia rappresentativa, anche con il tener la Duma sotto la minaccia perenne dell’uso della forza da parte dei soldati e marinai ribelli.  Come osservò Solženitsyn, il Comitato Esecutivo era il governo ombra della nazione, i cui membri si vedevano poco ed erano noti solo dai loro nomi di battaglia.    
“La Russia era governata, ma non si sapeva troppo bene da chi. Più tardi si seppe che nel CE c’erano una decina di soldati rincretiniti che facevano mostra di sé, ma non avevano alcun peso reale.  Delle altre tre decine di membri veramente attivi, più della metà erano socialisti ebrei.  C’erano russi, caucasici, lettoni e polacchi, ma i russi costituivano meno di un quarto”[31].  Era la componente dell’ebraismo schieratasi con la rivoluzione e fortemente ostile alla monarchia, ben diversa da quella che si era integrata nella società russa, soprattutto grazie alle attività mercantili, e si riconosceva in partiti come quello dei Cadetti, ovvero nel costituzionalismo dei partiti di centro, certamente non ostili alla monarchia[32]
Affermare che la rivoluzione di febbraio sia stata una rivoluzione ebraica è  del tutto sbagliato.  Lo afferma con forza lo stesso Solženitsyn.
“I numerosi anni del mio periodico lavoro su quest’epoca mi hanno permesso di penetrare il senso intimo della rivoluzione di Febbraio e, di conseguenza, il ruolo svolto dagli ebrei.  Sono giunto alla conclusione, e posso ripetere oggi:  no, la rivoluzione di Febbraio non è stata fatta dagli ebrei per i russi, essa è stata indubbiamente compiuta dai russi stessi, e credo di averlo sufficientemente mostrato ne La ruota rossa.  Siamo stati noi stessi gli autori di questo naufragio:  il nostro zar, l’unto del Signore, gli ambienti della Corte, i generali di alto grado privi di talento, gli amministratori inetti; e, con essi, i loro nemici:  l’élite intellettuale, gli ottobristi, i responsabili dello Zemstvo, i KD [il partito dei Cadetti], i democratico-rivoluzionari, i socialisti e i rivoluzionari; e, ancora con essi, di conserva, gli elementi traviati dei riservisti vergognosamente parcheggiati nelle caserme di Pietrogrado.  Questo ci ha condotto alla rovina.  In seno all’intellighenzia, c’erano naturalmente molti ebrei, ma questo non ci permette assolutamente di dire che la rivoluzione fu ebrea…La rivoluzione russa è stata fatta dalle mani russe a causa di una mancanza di discernimento russo.  Ma, parallelamente alla sua ideologia, un ruolo significativo, determinante, è stato svolto da un’intransigenza assoluta rispetto al potere storico russo, che i russi, a differenza degli ebrei, non avevano il diritto di provare”[33].  
La componente ebraica della rivoluzione era, dunque, una delle componenti, anche se in certi momenti o meglio in certi organi creati dalla rivoluzione, come il citato Comitato Esecutivo del Soviet di Pietrogrado, essa riuscì ad esercitare un peso decisivo nell’indirizzare gli avvenimenti nel senso del dissolvimento dell’esercito e dello Stato.  Ma va precisato che la logica che ispirava i “socialisti ebrei” nel perseguire gli scopi distruttivi della rivoluzione, non aveva di per sé nulla di ebraico:  era la logica del socialismo rivoluzionario, marxista o meno, perseguita indistintamente da tutti i partiti che volevano spingere la rivoluzione sino in fondo, quale che fosse l’etnìa dei loro membri.  Anche se non ci fosse stato alcun “socialista ebreo”, il Comitato Esecutivo del Soviet avrebbe preso le medesime decisioni.                            
 Al pari di molti altri oratori, che esaltavano la supposta “unicità” della rivoluzione russa, perché “così sinceramente nazionale, nel senso più vasto della parola” perché tutti vi avevano preso parte, “operai, soldati, borghesia e persino nobiltà, tutte le forze sociali della terra”, Kerenskij si sdilinquiva nel dichiarare aperta un’epoca nuova, quella della “libertà, uguaglianza, fraternità” tra gli uomini e i popoli, grazie al trionfo della democrazia[34]. L’orgia di retorica libertaria, populista, socialista e democratica era impressionante.  Tuttavia, Kerenskij si lasciava andare anche a significative, per quanto rare, ammissioni:
“All’arrivo di Lenin, la situazione russa era tuttora molto fluida. Con la caduta della monarchia il Paese aveva subito un forte choc psicologico.  L’intera popolazione fu improvvisamente travolta (sono parole di Kerenskij) da un “senso di libertà illimitata, un allentamento dei freni più elementari e più essenziali di ogni società umana”.  Al tempo stesso il popolo fu sopraffatto da una terribile stanchezza, da un estremo esaurimento, dopo la tensione di tre anni di guerra.  La reazione si manifestò con una paralisi generale delle volontà.  Nelle fabbriche, gli operai cessarono il lavoro, al fronte i soldati cessarono di combattere.  “Il popolo perse la facoltà di obbedire.  Le autorità non erano più capaci di dirigere e di comandare…Nelle fabbriche gli operai allontanavano, trascinandoli su carrelli, i direttori e gli ingegneri particolarmente detestati.  In molte località, i contadini si impadronivano della terra senza attendere l’azione del governo [qua e là anche ammazzando i legittimi proprietari].  Al fronte, le diserzioni raggiunsero proporzioni disastrose.  I soldati tenevano comizi dalla mattina alla sera e l’intera categoria degli ufficiali era sospettata.  Il 13 marzo i marinai uccisero a Kronstadt il comandante della flotta baltica e un buon numero di ufficiali venne arrestato e incarcerato. Quando il sistema del governo locale cessò di funzionare, si rovesciò sulle città un’ondata di linciaggi, rapine e illegalità””[35].
Con sforzi notevoli, sottolinea Shub, Soviet e Governo provvisorio riuscirono a ristabilire un qualche ordine nel Paese[36].  Anzi, il Governo provvisorio, nell’estate del 1917 fece uno sforzo supremo e lanciò un’ultima offensiva in Galizia.  Ma si ripetè il consueto schema:  a brillanti successi inziali contro gli austroungarici seguì presto una poderosa controffensiva, condotta soprattutto dai tedeschi, i quali travolsero le linee russe e giunsero ad impossessarsi di Riga, avvicinandosi sempre più a Pietrogrado. Quel fallimento fu l’inizio della fine per il Governo provvisorio:  por fine in qualunque modo alla guerra diventò il cavallo di battaglia della propaganda bolscevica, lo slogan più popolare tra la soldataglia sempre più ribelle.

[La discesa negli Inferi di tutto un popolo] Ma la pausa nel disordine fu per l’appunto solo una pausa, forse fisiologica, se così posso dire, nel tumultuoso e perverso fluire del processo rivoluzionario, la cui sotterranea logica è in realtà ferrea.  Una volta messa in moto, la rivoluzione vede sempre una fase iniziale entusiastica ma più moderata nei suoi obiettivi immediati, cui segue una meno entusiastica ma nello stesso tempo assai meno moderata nei suoi obiettivi, la fase che vuole realizzare il principio della rivoluzione sino alle sue estreme conseguenze, con assoluta conseguenzialità settaria.  In questa seconda e decisiva fase, si creano divisioni profonde nello schieramento rivoluzionario e comincia la guerra civile, sia contro i sostenitori del vecchio regime, spesso sorretti da potenze straniere, sia tra le varie fazioni della rivoluzione, che si combattono tra loro pur combattendo il nemico comune.  
Questa seconda fase si materializzò presto, in Russia, il 16 aprile 1917, quando alla stazione della capitale detta di Finlandia, arrivò il treno che, dopo dieci anni di esilio, riportava Lenin in patria, dalla Svizzera. Il piccolo convoglio aveva traversato la Germania nemica con l’autorizzazione dello Stato Maggiore Tedesco. La minoranza bolscevica, poco amata dagli altri partiti a causa del noto settarismo di Lenin, contava pochissimo e fino a quel momento aveva collaborato con gli altri partiti nel Soviet e, alle condizioni viste, con il Governo provvisorio.  Lenin era sempre stato convinto, come altri, tra i quali Mussolini, che una guerra europea di quelle proporzioni avrebbe distrutto il vecchio mondo: nulla sarebbe stato come prima, una rivoluzione generale sarebbe stata possibile.  Nel 1913 aveva scritto a Maksim Gorkij, il celebre scrittore, suo amico: “La guerra tra l’Austria e la Russia sarà utilissima alla causa della rivoluzione nell’Europa occidentale.  Ma è difficile credere che Francesco Giuseppe e Nicola ci rendano questo servigio”.  Ma un anno dopo i due sovrani lo esaudirono”[37].    Fin dall’inizio della guerra, egli sosteneva che l’obiettivo dei rivoluzionari di professione doveva essere quello di mutare la guerra imperialista in guerra civile, in modo da farla diventare (dopo la proletaria presa del potere) guerra capace di esportare la rivoluzione in tutto il mondo. Per diventare guerra civile, la “guerra imperialista” doveva essere sabotata dall’interno (idea che ovviamente destava il massimo interesse nello Stato Maggiore Tedesco, ansioso di far crollare definitivamente la Russia e liberare truppe per tentare di vincere la guerra anche a Ovest). Dopo lo scoppio della rivoluzione in Russia, Lenin disse che il compito della Rivoluzione mondiale spettava ora al proletariato russo:  portare a conclusione la rivoluzione democratica borghese al fine di provocare in séguito una rivoluzione socialista nell’intera Europa, che avrebbe potuto estendersi anche all’Asia[38].
Con queste idee, per lui veri e propri dogmi di fede, l’ancora poco conosciuto dalle masse capo indiscusso del combattivo partito bolscevico, tornò in patria.  Altro che collaborare con tutti gli elementi della Rivoluzione per rimediare alla situazione terribile di un Paese che nel conflitto aveva già avuto circa due milioni di morti, per tacere della carestia e del crollo dell’economia!  Nessuna pacificazione nazionale, nessuna collaborazione, di nessun tipo:  lotta di classe, il potere al proletariato, al Soviet, anche a costo della guerra civile. Solo il proletariato al potere (grazie alla sua avanguardia, cioè al partito bolscevico) poteva por fine alla guerra, la democrazia borghese era già superata, essa era controrivoluzionaria, impediva alle masse di raggiungere i loro veri obiettivi.  Lenin espose idee simili già subito al suo arrivo alla Stazione di Finlandia, in un violento discorso che suscitò scandalo anche tra i bolscevichi presenti, e pochi giorni dopo sulla Pravda, giornale del suo partito, nelle famose Tesi di Aprile.  La Ruota  Rossa si era messa in movimento, enorme sull’orizzonte, sinistra e fiammeggiante: cominciava la vera discesa nell’Inferno della Rivoluzione.

[Lo sterminio della famiglia imperiale, l’orrendo nefas, simbolo della tragedia che fu la Rivoluzione]  Non si può chiudere questa breve rievocazione senza soffermarsi su questo infame crimine del potere bolscevico.  Nonostante la tragica fine dei Romanov, l’obiettività e il retto giudizio impongono di mantenere severe critiche alle manchevolezze dello Zar e dell’imperatrice, rivelatisi entrambi disastrosamente inferiori alle esigenze del difficile momento storico (anche se inferiori alle attese, non furono per la verità solo loro).  Ma la giusta critica è una cosa, il dileggio, spesso dettato dalle passioni del momento o da pregiudizio ideologico, un’altra.
Nicola II è stato spesso rappresentato come uno sciocco, la cui mitezza di carattere era quella del babbeo; una marionetta nelle mani della moglie, teutonicamente dotata di ferrea volontà e determinazione ma politicamente del tutto ottusa, per non parlare delle sue manie di mistica da salotto.  Credo che il giudizio più obiettivo su Nicola lo abbia dato a suo tempo il conte Witte, suo primo ministro di taglio liberale moderato, che approntò uno schema di riforme durante la grave crisi rivoluzionaria del 1905, riforme osteggiate e  sabotate dalla camarilla di Corte.
“Provo un senso di pietà per lo Zar e la Russia.  È un monarca infelice e sventurato.  Cosa ha ereditato e cosa lascerà? È manifestamente un uomo buono e piuttosto intelligente ma non ha forza di volontà.  È da questa lacuna del suo carattere che sono derivate le carenze del suo governo; vale a dire, le sue carenze di governante, in particolar modo di reggitore autocratico e assoluto”[39].      
Si è visto che Nicola II dava effettivamente l’impressione di non rendersi conto della gravità della situazione.  Indubbiamente, avrebbe dovuto mutar decisamente rotta subito dopo la grave crisi militare dell’estate del 1915.  Tuttavia, sarà vero che non si rendeva per nulla conto di come stessero effettivamente le cose?  Personalmente, non lo credo.  Avrà sottovalutato qualche aspetto ma ritengo che una percezione veritiera dei fatti ce l’avesse.  L’ostacolo alla giusta azione da intraprendere non veniva dall’intelletto bensì, come annotò il conte Witte, che lo conosceva bene, dalla debolezza della volontà:  l’indecisione lo possedeva in modo quasi morboso.  Se la moglie, che tanto influiva su di lui, avesse avuto una diversa personalità, le cose sarebbero sicuramente andate in altro modo.
Con questi rilievi, non si vuol riscrivere la storia post festum con i se e i ma.  Il problema concettuale che qui si pone è più complesso.  Nel tracollo dei regimi e degli Stati, si nota sempre quella che appare una mancanza di comprensione nel reggitore o nei governanti destinati a cadere, tale da impedir loro di attuare certe indispensabili iniziative politiche.  Ma è mancanza di comprensione o debolezza della volontà, costretta a rompere contro pregiudizi ed interessi consolidati, per poter riformare?   La risposta non è sempre facile.  Sarebbe bello trovarla, una risposta che valga per tutti i casi di questo genere.  Sarebbe utile anche per la nostra prassi politica.
Dico nostra perché nell’Italia repubblicana e democratica da decenni ormai non si riesce ad attuare una vitale riforma costituzionale, in grado cioè di por rimedio all’impossibilità di governare e alla conseguente anarchia che sta rovinando il Paese.  Lo ripetono da decenni politici, saggisti, studiosi di varie tendenze:  il Parlamento dalla proporzionale pura e dall’esecutivo debole, ostaggio perpetuo di governi di coalizione e di labili maggioranze, ricorda da vicino la situazione di caos e di anarchia nella quale era rapidamente sprofondata la IV Repubblica francese, afflitta da un parlamentarismo simile al nostro.  La situazione fu risolta alla fine degli anni Cinquanta dall’intervento del generale De Gaulle, che convinse la maggioranza della necessità di una riforma in senso presidenziale della costituzione, unica vera garanzia di un esecutivo stabile.  Ma da noi, dovendo essere in tanti a decidere cosa fare, e privi di una personalità “carismatica”come quella del generale, l’impossibilità di uscire dal grave impasse sembra derivare da un intrecciarsi finora inestricabile di ottusità da un lato e di mancanza di volontà dall’altro.  
Tornando alla Rivoluzione Russa.  Non fu forse cieco lo Zar sino alla fine quando nell’ultima settimana continuò a voler risolvere la crisi con l’uso della forza?
Trotskij, sicuramente un esperto in materia, nel suo saggio sulla Rivoluzione del 1905 (cito a memoria) scrisse che in tempi di rivoluzione il Potere non deve mai fare concessioni poiché ogni concessione viene interpretata come un segno di debolezza che incoraggia ulteriori richieste da parte dei rivoluzionari. Non resta che battersi.  Le giuste concessioni, annoto, lo Zar avrebbe dovuto farle molti mesi prima, prima che la rivoluzione cominciasse, quando potevano effettivamente servire perlomeno a contenere la situazione.  Nelle ultime due settimane era troppo tardi, non restava altro che il pugno di ferro, sperando in qualche reggimento rimasto fedele.  La decisione in questo senso dello Zar fu quindi, a mio avviso, corretta.  Il fatto è che “il pugno” non c’era più:  la rivoluzione, non anticipata a suo tempo, l’aveva di colpo disarticolato.

Ma come si arrivò all’uccisione scellerata dei Romanov? 
Nonostante l’autocontrollo eccezionale di Nicola II, l’abdicazione fu comunque un evento di intensa commozione per i pochi, tre generali, che vi assistettero.  Lo Zar godeva di un’aura di sacralità, era l’unto del Signore, la sua dinastia governava la Russia da 304 anni. Di fronte allo sfacelo sempre più accentuato, al crollo dell’esercito, al parere favorevole all’abdicazione di tutti o quasi i comandanti dei fronti, Nicola si chiese giustamente, ad alta voce, se questa fosse la volontà di tutta la Russia.  Ma il generale Ruzskij gli replicò che, data la situazione, “il minimo indugio sarebbe stato pericoloso.  Trascorse un momento di silenzio.  “Ho deciso – affermò l’imperatore -  abdico”.  E si segnò.  I generali lo imitarono”.  Poi scrisse a mano, su moduli telegrafici, due brevi messaggi, uno all’autorità civile e uno a quella militare, nei quali indicava le motivazioni del suo gesto:  “Non vi è sacrificio che non sarei lieto di compiere per il benessere e la salvezza della madre Russia.  Sono pronto ad abdicare…Per la felicità e la salvezza della nostra amata Russia, sono pronto ad abdicare..”[40].
Lo Zar fu riunito ai familiari, tutti in stato d’arresto o comunque di confino, a Tsarskoije-Selo. Nel luglio del 1917 il governo provvisorio (cioè Kerenskij) li aveva trasferiti in una zona meno esposta, nella città di Tobolsk, in Siberia.  Dopo il colpo di stato bolscevico del 7 novembre, una guerra civile su larga scala era scoppiata in tutta la Russia.  Nella zona, si insediarono i bolscevichi, i quali trasferirono la famigia imperiale a Yekaterinburg.  Qui avvenne l’esecuzione, il 16 giugno 1918.  Il 19 luglio 1918 le Izvestia ne diedero l’annuncio ufficiale, mentendo spudoratamente con l’affermare che “la moglie e il figlio di Nicola Romanov erano stati inviati in luogo sicuro”[41].
Il regime nascose sempre l’effettivo svolgimento dei fatti, lasciando credere che si fosse trattato di un’iniziativa del Soviet locale, in mano ai comunisti, della quale il governo centrale era venuto a conoscenza a cose fatte, quasi iniziativa crudele sì ma in qualche modo giustificata con la difficile situazione militare, con i Bianchi che si stavano apprestando ad irrompere nella zona.  Che questa non fosse la verità, già lo si capiva da un passo dal Diario di Trotskij in esilio, pubblicato a New York nel 1963.  Trotskij aveva dibattuto anteriormente con altri capi cosa fare del deposto Zar e si era ventilata la possibilità di una sua esecuzione ma dopo un regolare processo o comunque un dibattito pubblico. Tutti pensavano ai precedenti storici della rivoluzione inglese e di quella francese.  Poi all’improvviso si venne a sapere, dal “commissario” Jacob Sverdlov, come per caso, durante una seduta del Governo bolscevico (Soviet dei commissari del popolo), dell’avvenuta esecuzione del sovrano mentre la famiglia era stata posta in salvo “in un posto sicuro”. Nessuno fiatò.  Sulla famiglia Sverdlov mentiva, ovviamente.  Ma Trotskij, che era all’oscuro della cosa, chiese a Sverdlov, in una posteriore conversazione, quando Yecaterinburg fu ripresa ai Bianchi che l’avevano occupata poco dopo l’eccidio della famiglia imperiale, che fine avessero fatto lo zar e la sua famiglia. Saputo che erano stati eliminati tutti, chiese chi fosse stato a dare l’ordine,  ottenendo la risposta:  “È stato deciso qui, Ilijch [Vladimir Ilijch Ulianov cioè Lenin] pensava che non avremmo dovuto lasciare ai Bianchi un vessillo attorno al quale raccogliersi…[42].
La documentazione d’archivio consultata dal generale Volkogonov, il quale riporta anche le affermazioni di Trotskij, conferma che non si trattò affatto di un’iniziativa autonoma del Soviet locale. La strage era stata accuratamente predisposta dall’alto.  Lo si deduce da troppi indizi, compresi quelli contenuti nelle molteplici dichiarazioni e brevi memorie dei comandanti la squadra di lettoni che si macchiò del misfatto: esse mostrano chiaramente come i sicari avessero agito su ordini provenienti dal centro del potere bolscevico, da Lenin e Sverdlov.  Figurarsi se una squadra di oscuri tagliagole bolscevichi poteva prendere un’iniziativa del genere senza ordini dall’alto!  In verità,  Lenin stava attuando una politica di sterminio nei confronti di tutta la famiglia imperiale, intesa in senso largo.  Quasi simultaneamente, infatti, furono uccisi a cento miglia da Yekaterinburg, nella cittadina di Alapaevsk, un granduca, una granduchessa, tre principi e un conte, tutti imparentati in qualche modo con i Romanov.  Il granduca Michele, fratello dello Zar, che aveva aderito alla fine alla rivoluzione “democratica”, fu fucilato assieme al suo segretario  inglese, mr. Johnson, la notte dell’11 giugno 1918 da una squadra di bolscevichi, senza processo, ovviamente[43].   
I processi erano, evidentemente, orpelli della giustizia borghese, dei quali si poteva fare a meno. Del resto, in che modo i comunisti intendessero il processo penale, lo si sarebbe visto all’epoca del Grande Terrore staliniano, ai processi-farsa che portarono all’eliminazione della vecchia guardia bolscevica. L’esistenza di una feroce guerra civile, provocata del resto dagli stessi bolscevichi con il loro colpo di Stato e auspicata dallo stesso Lenin, non giustificava per niente un simile modo di fare. 
L’esecuzione della famiglia imperiale fu particolarmente efferata ed effettuata con metodi delinquenziali, da gangsters:  senza processo, a tradimento, perché si erano fatti svegliare i prigionieri dicendo loro che ci si doveva trasferire in fretta, sparando sulle sorpresissime vittime a bruciapelo e poi infierendo finché non fossero sicuramente morte, smembrando i cadaveri per seppellirli in una palude lì vicina, in modo che nessuno potesse mai ritrovarli.  Oltre alla coppia imperiale, al figlio tredicenne e alle quattro giovani figlie, furono massacrate anche le quattro persone del séguito.  Gli assassini, non nuovi a crimini del genere, nei loro resoconti si vantarono dell’atto, che giustificavano in tutti i modi come necessario, affermando persino che fosse stato “umanitario” nell’esecuzione ![44]
La barbarie dimostrata dallo sterminio della famiglia imperiale “è il simbolo della grande tragedia di una grande nazione precipitatasi nell’odio di classe e nel fratricidio”.  Questo particolare episodio, inoltre, “sintetizzò l’ipocrisia della propaganda bolscevica, la crudeltà del regime e la duplicità dei suoi leaders. Gli assassinii di Yekaterinburg misero in rilievo l’incapacità dei bolscevichi di affrontare i problemi senza dover usare una violenza senza limiti o il terrore di Stato”[45].
  In questa tragica vicenda, oltre alla sanguinaria ragion di Stato comunista e alla logica disumana della guerra civile, c’è però da considerare anche un altro aspetto.  Il fratello maggiore di Lenin, Alessandro Ulianov, brillante studente universitario, era entrato in un complotto per uccidere lo Zar.  Scoperto, assieme agli altri fu processato e condannato a morte, eseguita mediante impiccagione.  La madre mosse invano le sue conoscenze per cercare di fargli ottenere la commutazione alla pena del carcere.  Con ogni evidenza, il suo più giovane fratello, Vladimiro, fu traumatizzato dalla vicenda.  Alla fine, però, si prese la sua brava vendetta personale, riuscendo a far sterminare l’intera famiglia imperiale.

Paolo  Pasqualucci, mercoledì  8 marzo 2017

Fonte:  Iterpaolopasqualucci.blogspot.ie



[1] Lev Trotskij, Storia della rivoluzione russa, tr. it. e Introduzione di Livio Maitan, Sugar editore, Milano, 1964, p. 96.  La traduzione fu condotta sulle traduzioni inglese e francese.  L’opera, che, nonostante il determinismo storico dell’impostazione e la faziosità di certi giudizi, rivela in Trotskij spessore di vero storico, fu scritta tra il 1929 e il 1932, mentre l’autore si trovava in esilio nell’isola di Prinkipo, in Turchia.
[2] Nel terrorismo, rivolto soprattutto contro gli individui rappresentativi del sistema, si distinguevano i socialisti rivoluzionari, il partito più popolare tra i contadini, perché metteva la questione agraria al primo posto.  Nelle memorie di un loro celebre esponente, Marco Slonim, italianista, critico letterario, agitatore e deputato all’Assemblea Costituente Panrussa, la tradizione terroristica del partito (di una sua frazione) è esaltata senza batter ciglio quale dimostrazione di grande eroismo per la causa:  “Le organizzazioni di battaglia del partito facevano miracoli di coraggio. I suoi membri sapevano non soltanto lanciare bombe e pugnalare ministri, ma anche morire da eroi sulla forca e nei deserti della Siberia. Lo zar Alessandro II, il Granduca Sergio, i ministri Pleve, Sipjaghin ed altri sono caduti per mano dei socialisti rivoluzionari.  L’eroismo, l’intrepidità e la fede rivoluzionaria hanno fatto sì che i socialisti rivoluzionari godessero una grande popolarità…”(Marco Slonim, La Rivoluzione Russa.  Fatti ed impressioni, Zanichelli, Bologna, 1920, pp. 27-28).
[3] Le perdite dei primi dieci sanguinosissimi mesi di guerra, “inghiottirono in gran parte la meravigliosa generazione di quei giovani ufficiali di carriera che erano stati la miglior risorsa dell’esercito e uno dei baluardi del regime contro la rivoluzione.  Il livello tecnico e morale del comando in battaglia andò costantemente declinando e così pure la sua fidatezza da un punto di vista politico”(Edmond Taylor, La caduta delle dinastie: Asburgo-Hohenzollern-Romanov-Ottomani, 1963, tr. it. di Sergio Varini, Dall’Oglio, Milano, 1968, p. 376).
[4] Aleksandr Solženitsyn, Agosto 1914. Nodo primo, tr. it. di Pietro Zveteremich, Mondadori, Milano, 1972, pp. 579-614.
[5] Lucio Tondo, Wilson e la nascita della ‘Nuova Russia’.  Gli americani di fronte alle rivoluzioni di febbraio e di ottobre, in ‘Nuova Storia Contemporanea’, 3/2004, pp. 33-72, p. 41, n. 54.  Le due rivoluzioni avvennero in marzo e novembre, secondo il nostro calendario; in febbraio e ottobre secondo quello giuliano ancora in vigore in Russia, abolito poi dai Bolscevichi il 1° febbraio del 1918.  La differenza era di 12 giorni nel XIX secolo, di 13 nel XX (art. cit.). Nella saggistica e storiografia si usa ancora chiamare le due rivoluzioni “di febbraio” e “d’ottobre”.   L’avvento della Rivoluzione democratica fu accolto con entusiasmo negli Stati Uniti, la cui opinone pubblica detestava l’autocratica monarchia russa.  Wilson diede consistenti aiuti finanziari al nuovo regime “al fine di evitare lo sgretolamento del fronte orientale”.  Fece creare una Russian Railway Commission, costituita da personale tecnico americano altamente specializzato, e l’inviò in Russia con il preciso compito di fornire “effettivo aiuto al sistema di trasporti russo”.  La Commissione doveva curare soprattutto “la manutenzione e la parziale ricostruzione della Transiberiana, di vitale importanza per lo smistamento delle forniture militari alleate verso il fronte orientale” (art. cit.).   Ma non si raggiunse lo scopo, anche perché il governo provvisorio durò solo otto mesi e il caos nei trasporti veniva ora mantenuto anche dai sindacati legati ai bolscevichi. È interessante notare che l’invio di vitali rifornimenti militari e alimentari in Russia  (Unione Sovietica) riuscì invece pienamente durante la Seconda Guerra Mondiale.  Determinante fu in particolare l’invio di decine di migliaia di autocarri, che permisero la completa motorizzazione delle unità d’élite dell’Armata Rossa, permettendole di sfruttare con veloci avanzate in profondità gli ampi sfondamenti effettuati nel 1944-45.
[6] Op.cit., p. 42 n. 61, con le fonti ivi citate.  Pietrogrado prima della Grande Guerra si chiamava San Pietroburgo. Poiché –burgo era parola germanica (Burg) dopo l’inizio della guerra fu mutata nell’equivalente slavo:  -grad.  Negli anni Venti, fu chiamata Leningrado, in onore di Lenin.  Ora, è ritornata ad essere San Pietroburgo. Nel 1941 l’inverno fu di nuovo eccezionalmente rigido ma questa volta a vantaggio dei russi:  le temperature polari letteralmente vetrificarono i carri armati e le fanterie di Hitler davanti a Mosca. Ai reparti scelti e ben equipaggiati siberiani e mongoli sopraggiunti dall’Estremo Oriente, i cui carri si muovevano agevolmente in quel clima e su quel terreno, fu relativamente facile averne ragione. 
[7] David Shub, Lenin, 1948, tr. it. di Maria Celletti aggiornata da Giovanna Rosselli, nuova ediz. ampliata, Longanesi, Milano, 1972, p. 244.  La classica opera di Shub resta sempre valida.  Di grande interesse anche la biografia dello storico militare russo e consigliere per la difesa del Presidente Yeltsin, generale Dimitri Volkogonov, Lenin.  Life and Legacy, tr. ingl. ed edizione a cura di Harold Shukman, HarperCollins, London, 1994, che ha potuto consultare molto materiale inedito negli archivi ex sovietici, al tempo resi da poco accessibili.  Il materiale emerso consente a Volkogonov di approfondire gli aspetti negativi di Lenin, peraltro già messi in rilievo da Shub. Lenin, al secolo Vladimir Ilijch Ulianov, derivò il suo nome di battaglia dal fiume Lena, in Siberia, presso il quale era stato confinato per qualche tempo: quello della Lena.
[8] Op. cit., p. 245.
[9] Op. cit., p. 246.  La Duma era l’ equivalente della camera bassa di un nostro Parlamento.  Il termine indica un’ assemblea di persone che discutono e decidono (Duma  dal verbo dúmat : pensare, considerare, credere, avere l’intenzione).  La Duma di Stato è stata ristabilita in Russia nel 1993, dopo la fine dell’Unione Sovietica.  Mi sembra utile ricordare che i principali partiti all’epoca operanti, erano: i costituzionalisti democratici, detti Cadetti, dalla pronuncia delle prime due sillabe di queste due parole:  Ka-De - formazione detta anche liberale, di centro-destra, la più disposta a collaborare con la monarchia;  i socialisti rivoluzionari, socialisti non marxisti però ostili al regime, che avevano combattuto anche con il terrorismo, i quali aspiravano ad una Russia parlamentare ma “democratica e popolare” e godevano di un ampio appoggio nelle masse; i socialdemocratici, marxisti ortodossi, partito di élite con pochi voti, disperso dopo la rivoluzione del 1905, con i capi in clandestinità o in esilio o al confino in Siberia. I socialdemocratici erano divisi in due fazioni:  i bolscevichi (da ból’scij, più grande, maggiore, comparativo dell’aggettivo bol’sciói, grande; letteralmente:  quelli della maggioranza) di contro ai menscevichi (da mén’scij, più piccolo, minore, comparativo dell’aggettivo mén’sce, piccolo; letteralmente: quelli della minoranza).  Costoro erano fautori di un marxismo più moderato.  C’erano poi formazioni monarchiche e di estrema destra.  
[10] James Webb, Il sistema occulto, 1976, tr. it. di Carlo Donato, SugarcoEdizioni, Milano, 1989, p. 120 ss.  Il libro si occupa  dell’espandersi dell’esoterismo nella cultura europea della prima metà del Novecento.  Tutti i riferimenti all’ambiente russo si trovano nel cap. 3: I Saggi dell’Oriente, pp. 104-148.
[11] Op. cit., p. 120.
[12] Op. cit.., pp. 120-121.
[13] Op. cit., pp. 122-124.  “Per tutta la durata del regno di Nicola e Alessandra, si fecero venire alla Corte guaritori, maghi, invasati, reclutati non solo in tutta la Russia ma anche all’estero.  Allo scopo esistevano dignitari riconosciuti come fornitori, che si riunivano attorno all’oracolo del momento, costituendo presso il monarca una potente Camera Alta.  In quell’ambiente non mancavano vecchie bigotte con il titolo di contesse, né eccellenze ipocondriache in ozio, né finanzieri che affittavano interi ministeri.  Geloso della concorrenza non patentata di ipnotizzatori e stregoni, l’altro clero ortodosso cercava di aprirsi una strada nel santuario dell’intrigo.  Witte chiamava “camarilla lebbrosa”questi circoli dirigenti, che per due volte gli avevano spezzato le reni”(Trotskij, Storia della rivoluzione russa, cit., p. 79).  Il conte Witte fu un capace ministro liberale di Nicola II. Nel 1905-1906 introdusse  riforme nel regime, limitate dall’opposizione della Corte. 
[14] Op. cit., pp. 110-111.
[15] Shub, op. cit., p. 224.
[16] Sul punto:  Franco Bandini, Il Piave mormorava.  Dopo cinquant’anni la verità sulla Grande Guerra, Longanesi, Milano, 1965, p. 44 ss.;  Basil H. Liddell Hart, La prima guerra mondiale. 1914-1918, Rizzoli, BUR, 20135, p. 173; pp. 180-185.
[17] Liddell Hart, op. cit., pp. 184-185.
[18] Shub, op. cit., pp. 247-248.  Il poeta Blok scrisse, a proposito dell’omicidio di Rasputin: “la pallottola che lo finì, colpì direttamente al cuore la dinastia regnante”(Trotskij, op. cit., p. 95).
[19] Op. cit., pp. 249-251.
[20] Op. cit., pp. 254-255.
[21] Op. cit., p. 255.
[22] Luigi XVI fece dire a Talleyrand, che si era rivolto a lui  di notte tramite il conte d’Artois, fratello del re, che lui, Luigi, “era risoluto a cedere piuttosto che a far versare una goccia di sangue” (Memorie di Talleyrand, scelta antologica, tr. it. e scelta di Domenico Bartoli, Rizzoli, Milano, 1942, p. 50).
[23] Shub, op. cit., pp. 260-263; p. 263.
[24] Slonim, op. cit, p. 79; pp. 82-106.
[25] Shub, op. cit., p. 273.
[26] Op. cit., pp. 263-264.
[27] Op. cit., p. 266.
[28] Op. cit., ivi.
[29] Op. cit., pp. 268-271.
[30] Op. cit., pp. 271-272.
[31] Aleksandr Solgenitsin, Due secoli insieme. Vol. II:  Ebrei e Russi durante il periodo rivoluzionario, 2002, tr.it. dall’edizione francese di Giuseppe Giaccio, Controcorrente edizioni, Napoli, 2007, pp. 47-48.
[32] A questo proposito mi ricordo del grande pianista russo Vladimir Horowitz, figlio di ebrei benestanti, ferocemente anticomunista: promettente giovane studente di conservatorio, scoppiò la rivoluzione e le Guardie Rosse invasero la casa dove abitava con la famiglia, saccheggiandola e buttando il pianoforte dalla finestra (una notevole impresa) in odio ai borghesi, come dissero. Horowitz riuscì a stento a fuggire con tutta la famiglia in America, dove poi rimase sino alla morte.  I padri di molti giovani intellettuali ebrei che aderirono con entusiasmo agli ideali rivoluzionari appartenevano spesso alla borghesia benestante e di tendenze conservatrici: ad esempio i genitori del citato Marco Slonim, di Trotskij (Bronstein). I giovani ebrei che sposavano con entusiasmo e fanatismo l’ideale rivoluzionario non facevano altro che seguire l’esempio di tanti loro coetanei russi non ebrei; la giovane generazione ebraica si era ormai secolarizzata e non era più legata alle tradizioni del loro popolo come “gli ebrei ragionevoli del tempo antico, forniti di un’esperienza plurisecolare fatta di pesanti prove, [che] erano a quanto pare frastornati dalla brutale caduta della monarchia e nutrivano oscuri presentimenti”(Solgenitsin, op. cit., p. 43).   
[33] Op. cit., p. 46; pp. 47-48.  La Ruota Rossa è una delle opere del ciclo dedicato alla rivoluzione.
[34] Shub, op. cit., p. 273.
[35] Op. cit., pp. 293-294.
[36] Op. cit., p. 294.
[37] Shub, op. cit., p. 207.
[38] Op. cit., cap. VII: Dalla guerra alla rivoluzione, p. 207 ss.
[39] Citato in Volkogonov, op. cit., p. 217.  Inaccettabile il giudizio di Trotskij, che afferma esser stato Nicola II crudele, perché avrebbe lodato i reparti militari e paramilitari che, nel sanguinoso 1905, repressero con la forza la rivoluzione:  “quest’uomo opaco, calmo e  ‘bene educato’, era crudele…di una crudeltà vile, propria di un rampollo impaurito che si sente condannato”( Trotskij, op. cit., p. 75).  Trotskij dedica molte pagine al ritratto psicologico dello Zar:  pur cogliendo qualche tratto con perspicacia, come l’intima insicurezza del sovrano, tale ritratto appare tuttavia fortemente fazioso, di parte.  Che cosa avrebbe dovuto fare Nicola, di fronte ai sanguinari rivoluzionari che volevano distruggere la monarchia e lo Stato, disconoscere e mettere in galera le forze che difendevano entrambi perché tra di loro apparivano elementi non meno spietati  dei rivoluzionari?
[40] Shub, op.cit., p. 268.
[41] Shub, op. cit., pp. 485-486.
[42] Op. cit., p. 486.
[43] Volkogonov, op. cit., p. 210; p. 212.  Vedi tutto il capitolo dedicato a queste terribili vicende:  op.cit., pp. 206-219.
[44] “Alcuni non morirono subito.  Voglio dire, dovettero essere finiti…Anastasia e un’altra…Dovemmo strappare il cuscino [che l’aveva protetta] alla Davidova e spararle. Sì, il ragazzo era ancora vivo, si torse negli spasimi per diverso tempo, ma alla fine lo sistemammo…Secondo me, il lavoro fu fatto in modo umano…Dico che se fossi stato preso dai Bianchi e questi mi avessero trattato allo stesso modo, ne sarei stato contento…” (Volkogonov, op. cit., p. 215).   
[45] Volkogonov, op. cit., p. 217.