mercoledì 31 dicembre 2014

"La vendetta del mercedario": La misericordia prima che fosse inventato il buonismo

San Pietro Nolasco (1182-1249), nobile della Linguadoca, fondò un istituto religioso, l'ordine dei mercedari,  finalizzato alla liberazione o al riscatto dei cristiani fatti prigionieri e schiavizzati dai corsari maomettani.
 Scrive il padre gesuita Anton Huonder, autore del racconto La vendetta del mercedario,  ricorda che l'ordine era articolato in due comunità, cavalieri e monaci: "ai cavalieri spettava un compito guerresco quello di difendere le coste del Mediterraneo dalle incursioni dei pirati, i monaci andavano nelle terre infedeli in cerca degli schiavi cristiani per aiutarli, incoraggiarli a perseverare nella fede e possibilmente riscattarli dalla prigionia".
 Le imprese di questi eroici monaci vissuti diversi secoli prima della metamorfosi buonista della carità e della giustizia, furono oggetto di un avvincente romanzo breve scritto da padre Huonder. 
 Il pregevole testo fu pubblicato per la prima volta nel 1911 a Friburgo. Tradotto in lingua italiana nel 1934, fu stampato e diffuso dalle edizioni Letture Cattoliche, fondate da San Giovanni Bosco. In questi giorni infine è ristampato e riproposte, con felice scelta, da Amicizia cristiana, casa editrice attiva in Chieti [1].
 Oggetto del romanzo è la vicenda avventurosa di un monaco mercedario, il quale rovescia il desiderio di vendetta nella carità, che lo persuade a recarsi alla corte di un tiranno maomettano nelle cui prigioni sono rinchiusi gli assassini dei suoi familiari.
 L'impresa è molto rischiosa, poiché i seguaci del falso profeta di Medina, nutrono un odio implacabile contro i cristiani che ostacolano la diffusione della loro falsa teologia e dei loro spietato potere.
 Animati dall'odio verso la Verità cristiana, i seguaci del falso profeta hanno organizzato una efficiente e implacabile macchina da guerra e da conquista, di cui sono parte le flotte dei pirati che aggrediscono le comunità cristiane costituite sulle coste del Mediterraneo.
 Padre Huonder, cattolico preconciliare, immune dal daltonismo che produce la falsa, irenistica visione del sistema anticristiano e suggerisce il bacio sul libro della menzogna e  l'incauto abbraccio agli aggressori, usa le tinte forti (che sono sconsigliate e scomunicate dal buonismo scorazzante e galoppante dopo il concilio dei sonnambuli e dopo le viscide adunate di Assisi), per descrivere la società dei fedeli a Maometto e l'orrore concentrazionario in cui vivono i prigionieri cristiani.
 La lettura del testo proposto dai coraggiosi editori di Chieti rammenta che la ferocia anticristiana (oggi in atto nel Medio Oriente, in Pakistan e in Afganistan)  non è frutto di uno spiacevole errore e/o di un abuso ermeneutico contemplata dai buonisti e dagli aggiusta-tutto, ma la conseguenza della falsa teologia islamica, la rigorosa applicazione del delirio teologico del falso profeta Maometto.
  La lettura del racconto di padre Huonder, testo narrativo pregevole, credibile e godibile, è consigliata ai cattolici che usciti dal delirio cattocomunista per estinzione dell'amabile errore sovietico, sono ora indotti a credere nella miracolosa efficacia dei riflettori ecumenici, che gettano la luce abbagliante della bontà buonista  sui testimoni di una fede intrinsecamente feroce.

Piero Vassallo




[1] Il libro di padre Huonder, 96 pagine, è in vendita a 9 euro e può essere ordinato telefonando al numero fisso 0871561806 o al cellulare 3356499393.

martedì 30 dicembre 2014

NON SEMPRE FUSTIGATORE? (di Piero Nicola)

Questa volta sono determinato a trovare quanto di buono e di suo nasce da questa età, e quanto essa di buono preserva e conserva. Non vorrei ancora catoneggiare.
  Do inizio all’esame cominciando da una proprietà caratteristica del presente: la scienza e la tecnica.
  In sé, questi portati del progresso - aventi origine nel passato - sono mezzi disponibili per un fine. Come tali sono soggetti alla volontà che li adopra. Tanto è vero che al loro aumento antecedente non si legò un civile miglioramento. Guerre e crisi stanno lì a darmi ragione. I mezzi accresciuti in ogni senso permisero che fossero criminose.
  Un altro esempio illumina il concetto. Se costruiamo edifici più in breve, e possiamo farli, sotto vari aspetti, migliori, possiamo anche erigerli belli o brutti, possiamo ammassarne molti sciaguratamente o distribuirli in maniera armoniosa ed ecologica sborsando più denaro.
  Ma il progresso tecnologico produce comunque salute fisica e ricchezza, e questa, bene o male distribuita, solleva gran parte d’una nazione progredita da ristrettezze e povertà. In definitiva, osserviamo questo risultato, valutandone i pro e i contro. Le crisi economiche non sono inevitabili e insuperabili. A quanto pare, gli americani riescono a sfangarsela.
  Si ritorna all’uso dei benefici. La vita fisica più sana e più lunga – nonostante i danni arrecati dai mali connessi agli agi e dai relativi incidenti – l’affrancamento da bisogni elementari e, inevitabilmente, disporre del superfluo, che cosa sortiscono?
  La vita agiata – che tuttavia comporta propri affanni e problemi – giova generalmente meno alla sua integrità, in confronto a una vita più sacrificata. Il denaro abbondante conferisce una libertà di azione non augurabile, contrariamente alle apparenze. Esso predispone a seguire impulsi, presunzioni e illusioni egoistiche, disgregatrici della famiglia e della temperanza. Ė un fatto  statistico, soprattutto quando le leggi e i costumi consentano tale andamento o lo assecondino. Il vecchio adagio è sempre valevole: la ricchezza non rende felici. Né si possono dimenticare, per il loro principio, le divine sentenze: La preoccupazione del mondo e l’inganno della ricchezza soffocano la parola [di Dio] ed essa non dà frutto (Mt. 13, 22). In verità vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. Ve lo ripeto: Ė più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel Regno dei cieli (19, 23-24). Ma guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione (Lc. 6, 24).
  Il benessere attuale affranca oggettivamente l’uomo da certe schiavitù del bisogno fondato, e offre a molti il conquibus per ulteriori acquisti, diversi dei quali  nocivi.
  L’uomo non è un animale che, soddisfatto nelle sue necessità, situato nel suo habitat e ben pasciuto, ha raggiunto lo stato ottimo. Questo stato rimane soggetto agli abusi o alla preservazione dagli abusi, dunque alla morale, è soggetto alle soddisfazioni superiori o alle superiori insoddisfazioni, afflizioni, disperazioni.
  Lo star bene, preso in esame, dipende dalla sua stessa fabbrica, che reca un certo tasso di corruzione. Minore importanza hanno le difficoltà oggettive di conciliare le tecniche con la genuinità, insomma le conseguenze dell’immancabile difetto insinuano veleni e triboli.
  La prosperità culturale reca l’impronta delle idee, non può considerarsi avulsa da esse. Persino l’alfabetizzazione soggiace a una scuola che inculca idee.
  Possiamo riassumere. Il vantaggio acquisito con la scienza e la tecnica non è vantaggio che valga da solo per la buona esistenza complessiva. Il riscatto dall’indigenza c’è sempre stato per alcuni, e non ha dato loro la felicità desiderabile. Mentre nella vita dura, financo nelle sofferenze e privazioni del soldato al fronte, hanno potuto nascere i sentimenti felici che le trascendono, le azioni benedette che giovano al prossimo e alla patria. Le testimonianze in tal senso sono tangibili, a disdoro dei molti detrattori edonisti e materialisti. Perciò siamo inevitabilmente ricondotti in alto: allo spirito e alla sua moralità, che sovrastano e determinano tutta l’esistenza, quella agiata e quella disagiata.
  Tolti i disordini provocati della miseria, la sufficienza ha bisogno d’altro. Infatti viene imbottita con ogni sorta di imbonimenti psicologici.
  Passando dal campo dei beni materiali nel campo preminente - chiamiamolo psicologico - che cosa si rinviene nello specifico di questo tempo? Corruttela. E in quale misura, in quale ordine rispetto ai valori? Disgraziatamente compare il sottosopra: i valori risultano sottomessi. Parlo dei valori autentici, delle virtù reali, e non di quelli propagandati e spacciati facendo leva sui nostri punti deboli.
  Ma sembra che il senso della solidarietà, del sovvenire alle disgrazie e alle miserie del prossimo sia tenuto alto. Forse che l’uso della bontà promosso e finanziato dai potenti cambia il mondo da essi determinato? Dalle provvidenze non sorge la redenzione dei costumi diabolici. Ė noto che il diavolo non si rivela, e per insidiare l’uomo diviene benefattore, deve fare quello che fanno i veri benefattori.
  Possiamo astrarre dallo scopo, a patto che non si perda di vista l’insieme. Se nel fare il bene viene a mancare la coerenza, questo bene diventa altro, confonde o seduce. Se coloro cui va la  compassione e l’aiuto, avranno ricevuto soltanto un utilità e cari sentimenti, ma l’esempio edificante sarà sommerso nel complessivo cattivo esempio, non diciamo che il bene vada perduto, ma il principale resta perduto. I beneficati resteranno almeno nel fango in cui si trovino, che è lo stesso in cui i benefattori si trascinano. La bontà può essere feconda quando venga dal fango, quando vi permanga e non tenda a superarlo, quando accanto all’altruismo esprima egoismo, superbia e libidine? No. E che i vizi capitali ci siano, che non restino inattivi e inibiti, lo si vede con la comparsa del buonismo, con l’ingiustizia dell’indulgenza, che infine vuole indulgenza anche per sé, per le sue porcherie.
  Dobbiamo riconoscere l’esistenza di tale corruzione. Una dottrina sballata la coltiva, un’imperante dottrina di libertà.
   La libertà fuori della sua aurea misura sarà conculcata oppure soverchia e corruttrice. Il soverchio informa i presunti valori odierni; per esso, i precedenti sono negletti o disprezzati. Che attualmente la libertà sia distruttiva è fuor di dubbio. I valori che ne discendono sono deformati dalla loro inconsistenza, dal loro errore, dalla loro vanità. Altrimenti gli uomini salirebbero attraverso trasgressioni e egoismi, protesi a una meta solida e beata. Di questo, invece, non si vede l’ombra. La democrazia ha un nero avvenire, viaggiando sulle ruote delle libertà sbagliate. Tutti i suoi ragionamenti e argomenti recano nel midollo questa tara.
  Il caso particolare che svela il panorama: la licenza di sedurre. Essa va dall’offerta che eccita il sesso (vuoi esplicita, vuoi dissimulata), alle proposte dissipatrici voltate in leggi (divorzio, aborto, perversioni legittimate, diritto popolare di giudizio onnicomprensivo, ecc.). Il tutto fondato sulle sabbie mobili della facoltà individuale di decidere resistendo al libero adescamento, o di fare buon uso di comportamenti chiamati leciti, proficui, ristoratori e che sono l’esatto contrario.
  Meschina chimera! Miserabile vaneggiamento di chi, poi, si sbugiarda preoccupandosi della seduzione e temendola moltissimo, tanto da proibirla quando minacci il proprio interesse e il proprio privilegio, tanto da mostrare di non credere per niente alla maturità politica del popolo democratico!
  A buon intenditor…
  Prendendo le mosse dal benessere, ho dovuto passare per le sue tentazioni e per i suoi abusi. Incontrando la solidarietà benefica, ho dovuto altresì valutarne l’accompagnamento. Il bene della libertà, anima del benessere, l’ho ritrovato sul marciapiede della prostituzione, come già sapevo che ci fosse. E mi scuso di non aver saputo desistere dal restare fustigatore.

 Piero Nicola

Fatima e il miracolo della Russia cristiana

 Le apparizioni e le esortazioni della Santissima Madre di Dio a Fatima, oltre i segni delle certificate guarigioni miracolose, ricevettero un cospicuo, straordinario supplemento di credibilità dalla prodigiosa e terrificante discesa del sole verso la terra, un fenomeno osservato da migliaia di persone, fra le quali  funzionari di governo e giornalisti noti per la loro aperta professione di ateismo.
 La verità delle profezie e la straordinaria potenza del segno del soprannaturale allontanano il qualunque sospetto sull'attendibilità dei fanciulli  veggenti ed eleva la rivelazione di Fatima alla dignità di una rivelazione che esige qualcosa di più del canonico rispetto: il riconoscimento dei fedeli e l'obbedienza del Papa regnante alle richieste della Madonna.
 Purtroppo la tragicità del secolo sterminato, la cautela cui la diplomazia vaticana suggeriva di sottostare e, sopra tutto, la fragile fede della frazione della gerarchia, nella cui mente agiva nascostamente il tarlo modernista, ostacolarono o meglio decolorarono l'obbedienza del papato al comando di consacrare la Russia al Cuore Immacolato di Maria Santissima, richiesta indirizzata al Papa per il tramite dei pastorelli di Fatima.
 Pio XII, che credeva nella rivelazione sull'esistenza dei pericoli incombenti sulla Fede, nel 1942 e nel 1952 consacrò i popoli della Russia ma (forse trattenuto dalle ragioni delle diplomazia in tempo di guerra e di guerra fredda) non secondo le modalità volute dal Cielo.
 La resistenza alle richieste della Madonna di Fatima, che in una prima fase fu animata dal soffio della miscredenza modernista, dopo l'incubazione nelle conventicole si trasformò nel vento contrario in impetuosa uscita dalle larghe fessure aperte dal Concilio Vaticano II.
 Scrive al proposito l'autorevole teologo don Ennio Innocenti in Mosca, Fatima, Roma, Sacra Fraternitas Aurigarum, Roma 2015: "La Madonna ha messo i bambini [di Fatima] davanti alla realtà estrema: gran parte dell'umanità va verso il baratro più atroce. Questa pedagogia estremista non piace a molti preti postconciliari i quali non parlano mai dell'Inferno, facendo perfino venire l'idea che essi non vi credano affatto oppure facciano credere che esso è umoristicamente vuoto. E succede che preti di questo tipo vengano perfino premiati con cappello cardinalizio!" [1]
 Nel 1989 rammentava al proposito don Innocenti: "Sono i popoli della Russia da consacrare, popoli in gran parte ancora cristiani, anche se gementi. Sono popoli religiosamente silenziosi, fino ad oggi quasi senza voce. Chi darà loro una voce religiosa, autenticamente cristiana, garantita dal Cielo e non dagli uomini, per confortarli nello slancio devoto e così salvarli sicché diventino strumenti di salvezza anche per gli altri popoli, invece che strumenti di perdizione, come qualcuno ha preteso e ancora vorrebbe?" 
 La timidezza e la desistenza clericali, tuttavia, non impedirono la miracolosa affermazione del cristianesimo in Russia. Sostiene don Innocenti: "La Russia oggi si può considerare l'ultimo bastione della cristianità di contro a un Occidente fortemente secolarizzato se non addirittura anticristiano".
 E' lecito pensare che la miracolosa conversione della Russia sia avvenuta nonostante le esitazioni della gerarchia cattolica?
 Osserva don Innocenti: "La Chiesa russa ortodossa gode di ottima salute: i 2/3 abbondanti dei russi si dicono cristiani ortodossi. ... E' paradossale che proprio la nazione che aveva diffuso l'ateismo nel mondo sia ora il più radicato nei valori cristiani. ... Possiamo vedere come i Paesi euro-atlantici stanno ripudiando le loro radici, persino le radici cristiane che costituiscono la base della civiltà occidentale. Esse rinnegano i principi morali e tutte le identità tradizionali. ... Stanno applicando direttive che parificano le famiglie a convivenze di persone dello stesso sesso, la fede in dio con la credenza in Satana. La political correctness ha raggiunto tali eccessi che ci sono persone che discutono seriamente di registrare partiti politici che promuovono la pedofilia".
 Un contributo alla soluzione dell'enigma Fatima è offerto dal presidente Vladimir Putin, il quale si è più volte proclamato cristiano, "appartenenza non solo espressa a parole ma anche a gesti. Putin, il 25 novembre 2013, ha incontrato Papa Francesco e gli ha donato una preziosa icona russa raffigurante la Madonna di Vladimir, una delle più venerate del mondo ortodosso. Dopo essersi segnato con segno della croce ha baciato l'icona e l'ha consegnata al Papa".  
 Da Fatima sembra giungere ai cattolici un'indicazione sulla opportunità di considerare l'integrazione con la Russia di Putin quale correzione di un europeismo ormai appiattito sulla nefasta ideologia liberale e sull'obbedienza cieca all'America. 
 Si tratta di un'occasione che potrebbe far uscire dal punto morto dell'occidentalismo la ragione politica dei cristiani europei ancora in possesso della loro identità spirituale e del loro senso storico.

Piero Vassallo



[1]  Il saggio di don Ennio Innocenti può essere richiesto alla Sacra Fraternitas Fraternitas Aurigarum Urbis, Via Capitan Bavastro 136, 00154 Roma, tel. 06.5755119

lunedì 29 dicembre 2014

LA PARIFICAZIONE DI VENERE E DI MARTE (di Piero Nicola)

Non scende la notte prima che nella parabola del giorno sia celebrato il dogma più balzano, progressivo e gravido di contagiose malattie deformanti: l’uguaglianza dei sessi. Freschi adeguamenti, che intrattengono i cervelli e li mantengono desti – ché altrimenti potrebbero tediarsi e avviarsi da soli a un risveglio balsamico e guaritore – giungono tendendo a una piena soddisfazione dell’indefinita, dogmatica richiesta. Completamento via via più ubriacante, inarrestabile come un carro in discesa col freno guasto, su cui si tiene fermo per un credo fanatico.
  Si pone dunque la necessità d’una passione - voluta dai disgregatori professionisti – perché sia oscurata l’evidenza. L’evidenza sarebbe alla portata degli sciocchi, e però tanto i semplici quanto gli smaliziati appaiono talpe che hanno portato la materia grigia all’ammasso, reso in pratica coatto.
  L’evidenza canta e grida che la donna è creatura profondamente differente dall’uomo: nel fisico, nelle sue funzioni, del tutto in quella procreativa, e quindi nelle elaborazioni mentali, in svariate attitudini.
  L’asino può fare quello che fa il cavallo, la mucca lavora e può sostituire il bue. Nondimeno, chi se ne servirebbe indifferentemente, chi li metterebbe in competizione attaccati al calesse o all’aratro? Né sarebbe venuto in mente al molitore far servire alla mancina una mucca o uno stallone. Nessuno adibirebbe alla guardia un cane bassotto, e nemmeno un bracco. Un babbeo metterebbe le giumente nel recinto dei tori.
  Tuttora alle olimpiadi gli atleti gareggiano separatamente dalle atlete. Ma questa distinzione non insegna nulla all’egualitarismo, accecato e dispotico tale quale il razzismo forsennato. I diritti all’uguaglianza immaginaria sono Furie inviolabili e tremende. Le disattenzioni popolari si spiegano. Lo scomodarsi, il timore e la bramosia sono sufficienti a determinarle.
  “Non siamo animali” dicono i modernissimi: gli stessi infatuati della derivazione dell’uomo dalla scimmia… “Badiamo alle capacità intellettive più che al corpo” rispondono, ripetendo la lezione, quelli che mirano all’equivalenza delle proprietà corporee maschili e muliebri, alla confusione degli attributi genitali, e vagheggiano la nascita dei bambini anche dal ventre paterno. Consentono volentieri che nella donna c’è una parte di uomo, e nell’uomo una parte di donna, però non ammettono che si tratti di proporzioni ben contenute per operazioni definite e distinte: pretendono che esse siano mutevoli, mutabili sino alla loro inversione in uno stesso individuo. Ad ogni buon conto, vogliono che la presunta potenzialità femminile in colui che ha la parte attiva nell’amplesso e la potenzialità maschile in colei che vi ha la parte passiva, siano tali per cui entrambi abbiano la stessa idoneità a ricoprire gli stessi ruoli. Anime candide disposte alla perversione, o pervertite senz’altro!
  Che il criterio sia andato sotto terra, sotto la venerazione del sofisma meraviglioso, non crea meraviglia, quando in ogni specialità dell’esercito e nelle polizie è stato arruolato il gentil sesso, per le medesime mansioni e carriere, con una promiscuità inutilmente perturbatrice.
  Da un po’ di tempo ci inculcano che tutti possono scegliere l’orientamento sessuale e persino gli attributi del sesso che più loro aggrada. Pertanto il gender è una scelta, non un destino. Che il genere (maschile, femminile o diverso) abbia un nome inglese la dice lunga sulla nostra indipendenza culturale e non solo.
  Signore e signorine sono ammesse, ricevute con molte scuse per il ritardo, nella pattuglia acrobatica dell’aeronautica. Ci furono signore assi dell’aviazione. Lo sappiamo. Quando la scuola era ancora una cosa seria, vi risonava l’avvertenza per la quale l’eccezione conferma la regola, talché la regola era la normalità, era la norma. E, prima del tetro appiattimento e dell’intercambiabilità sollecitata dal crepuscolo calato su di noi, costituiva una stranezza accertabile con la demoscopia, la propensione di una maschietta a intendersela ugualmente con i giovanotti e con le ragazze.
  Hanno fatto la loro figura statisti femmina, regine con i c… Quante? Generalmente avevano l’aspetto di virago, epiteto molto eloquente. Come può una donna che assomiglia a un uomo rappresentare la femminilità? Come può colei che brilla nelle prerogative del suo sesso avere quelle virili della viragine?
  Un mentecatto vagheggia e auspica che le distinzioni sfumino in un tipo androgino. Per quanto esse si manifestano all’esterno e, per riflesso inevitabile, interiormente, esiste una dissimile capacità di svolgere determinate funzioni e compiti della vita, in cui torna a rifulgere l’eccellenza dell’uno o dell’altro. Soltanto il desiderio di un degenere livellamento può intendere una siffatta convergente assimilazione.
  Il disdegno per il concetto di normalità, l’apprezzato estendersi dell’anomalia, alla normalità fanno un baffo. Essa vendica le offese. Poiché gli spregiatori del normale sono nel contempo democratici che hanno in antipatia l’ordine generale - deridendomi se dico di preferirlo al disordine e di anteporre la pulizia al sudiciume - la Natura infila nella sregolatezza anzitutto mentale di questi individui tanto disordine e schifo, che essi ne escono inebetiti e davvero malconci. Ed è per la forza intrinseca dell’integrità che si può sperare nella vittoria. Essa, alla lunga, prevale. La Storia mostra la vicenda dei popoli decaduti soppiantati da popoli maggiormente sani. Se non ci sono barbari che premono ai confini, la salute dei primi cristiani nati in seno all’Impero pagano debellò i dissoluti prima ancora delle invasioni barbariche.
  La prossima buona nuova sulla sacra parificazione dei sessi verrà dal colle Quirinale con le corazziere.
  Vi sovviene la regola delle quote rosa, serissimamente approvata, oltre che da trepidanti demagoghi, da fior di giuristi? Per questo mondo proprio non c’è futuro! Tradotte in parole povere, le quote rosa riducono a carta igienica i papiri della giustizia che premia il merito, e sfregiano le tavole dei titoli, dei punteggi, degli esami in base ai quali si assegnano i posti e le cariche. Non siete riuscite a piazzarvi con le vostre forze e la vostra perizia? Ciò poco importa rispetto al diritto di rappresentare il vostro sesso in questo o quell’esercizio delle responsabilità.
  Abbasso il nepotismo! A morte i favoritismi largiti dietro un tornaconto! Via questo tarlo insinuato nell’efficienza sociale! Frasi per farsi belli…
  Evviva l’ingiustizia legalizzata, rivolta ad accrescere il proprio elettorato!
  Per lo meno, nepotismo, clientelismo, compera dei voti, debbono avvenire copertamente e con qualche rischio.
  I ragionevoli mi inviterebbero a ragionare. Meschinelli: ignorano che le dosi appropriate ad un impasto, le quantità fissate dalla ricetta entro dati limiti, sono indispensabili a farlo idoneo al suo scopo, e che per ottenere lo scopo, per avere un organismo efficiente è necessario che sia ben dosato. Sarebbe stupido credere che se un corpo ha i muscoli affogati nel tessuto connettivo, e un altro, al contrario, possiede una muscolatura prominente e prevalente su quel tessuto, ciò sia un accidente trascurabile. E come sarebbe possibile che a un organismo congegnato per concepire, partorire, allattare, non corrispondano un adattamento e una consonanza di tutte le altre sue facoltà, dalle più grossolane alle più fini?
  La femminilità forma la donna. Ė proposizione lapalissiana. Nevvero? La femminilità si compone di attitudine alla maternità, che non rampolla soltanto durante la gestazione e il primo allevamento del figlio; si compone di particolari attrattive, di una grazia, bellezza e gentilezza peculiari, che improntano i caratteri umani: grazia, gentilezza e delicatezza dell’intera persona o personalità. Se questa agisce comprimendo le sue virtù, esaltandone altre non proprio sue, non confacenti alle prime, si snatura. Il che avviene ogni qual volta si impone di agire emulando l’essere suo complementare, l’uomo.
  Raccontiamo una balla sostenendo che lei non si snatura imitandolo, per esempio nel lavoro, nella professione, e che, siccome in lei possono convivere diverse nature, ella, seguendo il comportamento mascolino, non compromette quello proprio. Lo sforzo muscolare smodato, l’eccessiva pratica del comando, la troppa applicazione della razionalità, dell’analisi, del raziocinio - a prescindere da una certa inettitudine rispetto al maschio (filosofe, teologhe, pittrici, drammaturghe, compositrici di vaglia sono mosche bianche, anche dopo l’emancipazione e decenni di pari opportunità, mentre ci furono pregevoli scrittrici e poetesse) - sono abusi che rompono un equilibrio con uno sviluppo improprio. Che il cervello femminino funzioni diversamente da quello maschile è pure assodato dalla sperimentazione.
  So di convincere poco i fautori di un’emancipazione inarrestabile. Le passioni ricalcitrano. Le donne dissimulano bene, vittime dell’orgoglio; ammettendo la diversità delle loro attitudini, avrebbero l’impressione di dichiararsi inferiori. Arrivano a mostrarsi attente al calcio e tifose, quantunque vi sarebbero indifferenti. Non dico tutte, ma tante: rendendosi schiave d’un pregiudizio. E questo, benché nessun ragazzo o signore cerchi di segnalarsi nelle attività e manifestazioni in cui alla fanciulla e all’adulta è dato di distinguersi, non preoccupandosi costoro d’essere da meno. Manifestazioni, ben inteso, virtuose: la pazienza, la moderazione, la dedizione, l’abnegazione, una tal quale capacità di sintetizzare intuendo, oltre al ricamo, alle cure e al buon gusto della casa. Ma, essendo in ribasso le virtù come le differenze, sono neglette anche le mirabili disposizioni dell’animo muliebre.
  Le passioni chiariscono a iosa la sforzatura con cui le figlie di Eva fanno gli uomini e rivaleggiano con essi, rinunciando ad essere fedeli a se stesse per l’illusione di poterlo fare partitamente grazie alla loro polivalenza, per l’impressione di non rimetterci, di non rinunciare a nulla. Le promozioni dei prodotti commerciali magnificano la libertà della giovane d’essere quella che desidera, tutte le donne che vuole. La versatilità del bel sesso, unita alla sua vena di atteggiarsi e recitare, trae facilmente in inganno: essa ha confini che non vanno oltrepassati. E mi riferisco a conseguenze nell’indole prima, non ancora alle ricadute morali.
  La spiegazione dello sconfinamento abituale verrebbe troppo facile deducendo che il sesso debole si è snaturato essendosi snaturato quello forte, che ha smesso di tenere alto il suo ruolo. C’è molto altro.
  Mi rifaccio dalle suffragette, dai moventi di chi si cimenta e ambisce ad affermarsi al di là delle sue doti e delle sue forze. Essi sono comuni nel genere umano. La spinta si deve all’amor proprio, a invidia, avarizia, a questi vizi capitali. La velleità sta acquattata e pronta nell’intimo di ciascuno. Insoddisfatti della propria condizione, eccoci preda della vanità, che porta a voler essere maggiori di quello che siamo, per cui rinunciamo ad essere noi stessi. Cedendo al peccato e viziandosi, l’uomo non si contenta, non trova il cibo immateriale al di fuori dei suoi eccessi. Quando il mondo gli porge i dolciumi ben poco immateriali, egli vi si butta sopra voracemente.
  Così, dal momento che alla donna è dato di fare l’uomo, e fare la donna non le basta essendoci riuscita in modo insoddisfacente per difetto di virtù e di condizioni favorevoli, essa si impegna, si accanisce a uguagliare il suo complemento in ciò che egli compie e raggiunge per innata dotazione; sembra persino che lo superi, recando, nella sua costanza, le malizie e le intuizioni che le sono connaturate, che in un mondo effeminato hanno successo.
  Non le è bastato nemmeno essere desiderabile e desiderata. Il progetto d’essere madre, di accasarsi diventando padrona nelle mura domestiche, tra i suoi ninnoli, le sue piante, i gioielli e i generi di abbigliamento, questo disegno dapprima l’impaurisce, vi premette gli eccitanti divertimenti, il lavoro, una vita sessuale quasi maschile. Ma quando ha concretato il progetto, si trova da capo. Ė dura, specialmente con gli specchietti per le allodole che stanno in giro, è durissima riuscire in quell’antica missione, intera o attenuata, spartita con un marito presto e sempre più difettoso. Per farsela andar bene, bisogna spaziare, progredire, evadere, pur tenendosi la conquista conseguita con la casa.
  Quando una non si contenta di quello che ha, non le saranno sufficienti né il poco né il molto. Allora si persuade di poter riuscire in ogni sua inclinazione, ma d’essere impedita specie dall’esterno, defraudata nei suoi diritti; è certa di dover lottare per avere quanto le spetta e dimostrare la sua validità. Strano che per millenni non abbia trovato il vigore con cui imporsi, che soltanto adesso lo esplichi.
  Le cose stanno così: tanto più la donna si conduce da quello che non è, tanto più si dissipa e rovina famiglia e società.
 Intervenendo la seconda legge delle conseguenze, dopo la legge per cui le forzature delle attitudini producono una menomazione intrinseca, si tratta di fuggire le occasioni prossime del peccato. I positivisti dovranno ammettere che la Chiesa non le paventò a sproposito. Vogliamo chiamare il peccato un errore, di noi soggetti a sbagliare? Compaiono gli effetti indesiderabili di sbagli e cedimenti. Siamo influenzabili dalle circostanze, e compaiono le circostanze che inducono a fuorviarci.
  Ora la donna è un boccone molto ghiotto. Un boccone, se così si può dire, suscettibile di voler essere mangiato, addirittura di innamorarsi del mangiatore con cui spartisce ore lavorative, e che avrebbe potuto restare un estraneo. Anch’egli può essere preso d’una data pietanza, che non è il solito pasto. Situazione consueta, inutile nasconderselo. Se i due non stessero lunghe ore insieme, mancherebbero le occasioni. Diversamente, messo il bocconcino tra gli affamati, per virtuoso che esso sia, per onesti che siano loro, le complicazioni non mancheranno. Ne derivano famiglie disfatte, prole inadattabile alla risistemazione.
  Concludendo con l’impegno esterno della donna - che deve operare anche all’interno e provvede ai figli in modo speciale - esso forma un onere gravoso che costringe a trascurare le creature uscite dal suo seno. Invece la filosofia che va per la maggiore sollecita la poverina a mettersi alla prova, a trovare tempo e energie per non lasciarsi sfuggire qualsiasi personale realizzazione.
  Esulando dalla nostra morale religiosa – intendo quella autentica, predicata e in vigore fino a sessant’anni fa – e andando ad attingere altrove, alle filosofie consacrate dell’Oriente, dovremmo dirle altrettanto vane quando parlano della brama, mai sazia e bestiale, che andrebbe distrutta e da cui solo i monaci riescono ad affrancarsi, o quando consigliano di stare attenti a mettersi in grado di agire con la facilità propiziata dalla modestia. Infatti non c’è chi tenga in soda considerazione la saggezza di Budda o di Confucio. La brama si estende ovunque, e nella donna sedotta dalle sue possibilità, da chi le decanta, provoca metamorfosi inconfondibili ed esiti singolarmente gravi. Tra questi va ricordata l’indegna e traumatica manipolazione della funzione procreativa e dei suoi frutti. Sintetizzo così non scendendo nel dettaglio degli espedienti anticoncezionali, abortivi, di concepimento e gestazione, e dei loro rimorsi. Essi dipendono assai dalla cosiddetta facoltà delle interessate di disporre di sé, che, se fosse buona, non violenterebbe la predisposizione a concepire la vita e non l’ucciderebbe.
  Gli uomini si sono indotti a considerare precarie le unioni destinate a durare e a essere preservate dalla lesione dei tradimenti. Porte aperte a uomini e donne. Li tiene vivi sentirsi liberi da un vincolo perenne, l’evenienza d’essere eccitati e messi in condizione di fare esperienze imprevedibili, gustosissime, di imbattersi nella scarpa davvero adatta al loro piede, di potersi levare quella che vada loro stretta. Quand’anche debba dolere nel loro intimo la piaga di tale instabilità, non osano desiderarne l’abolizione e rinunciare al fatidico progresso, che ne verrebbe coinvolto irrimediabilmente.
  Le donne, poi, maggiormente tradiscono, tradendo il loro essere conservatore.
 
Piero Nicola


sabato 27 dicembre 2014

Confessioni di un nobile italiano: Vanni Teodorani, Quaderno 1945-1946

 La tragica vicenda dei fascisti repubblicani e la parabola dei loro ideali, destinati a cadere nella malinconica baraonda del partito missino, fu narrata senza rancore e con elegante stile dal conte Vanni Teodorani, uno dei più onesti, intelligenti e colti protagonisti dell'ultima, sfortunata  pagina della grande storia italiana.
 Sulla vicenda e sul pensiero di Teodorani era disceso un colpevole silenzio, emanazione della sordità/refrattarietà alla cultura agente in un partito, il Msi degli eredi di Almirante, indirizzato a naufragare nelle acque torbide e infide, sulle quali navigò ultimamente il debole progetto di costituire un'atipica e improbabile destra di conio laico, liberale e americanoide.  
 Silenzio ingiustificato, dal momento che la  personale vicenda di Teodorani appartiene a buon diritto alla nobile storia del fascismo italiano, inteso, nella sua ultima, drammatica ora, al ripensamento di una lontana origine socialista, rettificata e nobilitata dal viaggio nella cultura corporativa del cattolicesimo.
 Teodorani tentò di salvare Mussolini sconsigliando il trasferimento nella improbabile ridotta della Valtellina e cercando di raggiungerlo nella via della fuga senza sbocchi. Nell'esecuzione del disperato piano fu messo al muro dai partigiani e salvato dal miracolo della Madre di Dio. che è rappresentato nel dipinto, riprodotto nella copertina del libro. La sua testimonianza, quantunque scritta a caldo, non poteva rimanere inedita e sconosciuta agli storici che tentano l'onesta ricostruzione della tragedia italiana.  
 I figli di Vanni Teodorani, Anna e Pio Luigi, hanno finalmente provveduto a far uscire dal silenzio e a pubblicare le pagine del diario 1945-1946 del loro padre.
 Si tratta di un'antologia delle idee professate dai fascisti repubblicani e del racconto - doloroso ma non rancoroso - delle drammatiche e feroci giornate nelle quali fu affondato nel sangue dei fascisti (il bilancio ufficiale  contempla oltre quarantamila vittime, per lo più giovani e giovanissimi assassinati senza processo o a seguito di una indegna farsa giuridica) il sogno di elevare la nazione italiana e il progetto della rivoluzione sociale promossa da Benito Mussolini e condivisa e sostenuta dall'ex avversario Nicola Bombacci. 
 Una fine, la morte della Patria, che Teodorani definisce con parole bagnate dalle lacrime: "Noi fummo disfatti con la Patria e le sue ferite furono le nostre piaghe, gli altri vinsero come fazioni o come individui, non dico contro la Patria, ma almeno senza la Patria che lacera e dolente piangeva in un canto lontana dal loro gaudio, così come noi piangevamo". Teodorani rammenta che, nei giorni di quella tragica primavera, a Milano, tutti cantavano una canzone detta dell'insurrezione, "una canzone strana, non un canto di vittoria per la libertà conquistata, ma piuttosto il pianto per Patria disfatta. Si chiamava Perduto amore".  
 Edito in Cesena da Styilgraf, il pregevole volume delle memorie di Vanni Teodorani è presentato da una breve e puntuale nota dei figli, i quali sottolineano l'appartenenza del loro padre "a quella corrente di patrioti che - fin dal Risorgimento - avevano sofferto la separazione fra Italia e Fede, ... protrattasi come una piaga dolente lungo tutto il primo settantennio della nostra storia unitaria. Generazioni di uomini e donne che, l'11 febbraio del 1929, salutarono la Conciliazione come l'avvento di una nuova erra che restituiva tranquillità alle loro coscienze di buoni cattolici, buoni cittadini, buoni italiani".
 Nell'ampia e puntuale introduzione, Giuseppe Parlato approfondisce il tema dell'appartenenza di Teodorani alla corrente dei cattolici nazionali e al proposito ricorda l'ingente contributo della Rivista romana, pubblicata dal 1954 al 1964, alla quale collaborarono autorevoli esponenti del cattolicesimo tradizionale, quali mons. Roberto Ronca e Luigi Gedda: "L'idea di fondo [di Teodorani] era quella conciliatorista, realizzare cioè una sintesi tra spiritualità religiosa e spiritualità della nazione, nella convinzione che i valori tradizionali cristiani e la dottrina sociale della Chiesa potessero essere quelli di un certo fascismo e di un certo corporativismo".
 Purtroppo Giorgio Almirante, paradossale personificazione di una intelligenza in conflitto con gli intelligenti attivi nell'avanguardia nazionale e cattolica, fu caparbiamente ostile a Teodorani e al suo progetto politico. Di qui lo scontro tra le due incompatibili personalità e l'avviamento della politica missina a un perpetuo, insolubile conflitto di correnti e alla irruzione degli estremisti (del calibro intellettuale di Saccucci) nel cammino dei moderati in doppio petto. Una scelta contraddittoria e rovinosa, destinata a vanificare l'ascesa del Msi.
 Infine la contrarietà agli ideali di Teodorani suggerì la promozione almirantiana del fedelissimo asino, che  sproloquierà/raglierà sul fascismo male assoluto - scempiaggine e oltraggio al senso comune, ché al male, menomazione dell'essere creato, non può essere attribuita l'assolutezza che appartiene solo all'Essere increato e perfettissimo - prima di esibirsi nella desolante/umiliante comica finale  intorno all'appartamento di Montecarlo.  

r

 La lettura del Quaderno di Vanni Teodorani è una buona occasione per allontanare la memoria dalla sgradevole vicenda della destra smarrita/svanita nel delirio liberal-numismatico e per riabilitare le buone  intenzioni e gli onesti pensieri che illuminarono la tragedia vissuta dagli ultimi fascisti.
 Teodorani, uomo che comprese la strutturale convergenza della dottrina fascista e dell'istanza del progresso sociale,  formulò un principio che, applicato alla situazione attuale, potrebbe sciogliere il nodo scorsoio che la finanza mondiale/patibolare e l'Europa delle banche affamatrici, hanno stretto intorno alla nazione italiana: "un paese povero, arrivato per ultimo, se deve tendere all'elevazione delle sue masse salvando i criteri della più saggia scienza finanziaria non riuscirà a nulla. I grandi economisti fan proprio ridere con la loro pretesa di far della moneta un feticcio cui sacrificare progresso e benessere. Io penso che l'oro deve servire all'uomo e non l'uomo all'oro".
 Importante è anche la ricostruzione della tragedia consumata alla luce dei malintesi intorno al processo di Verona. Scrive al proposito Teodorani: "Si può dire che tutti furono ingannati. Si ingannò prima di tutto Galeazzo, riparando in Germania, [ossia affidandosi alla proverbiale infedeltà dei tedeschi]; peggio la moglie sollecitando il rimpatrio e poi molta altra gente in buona fede, che credeva che il processo servisse a qualcosa. E più di ogni altro fu ingannato lo stesso Duce, il quale ritenne sino all'ultimo che i fucilabili fossero tutti latitanti e quando volle far macchina indietro non poté più, pressato da quelli che gli dicevano chiaro e forte che con la sua debolezza aveva rovinato l'Italia, primi i tedeschi cui non pareva vero ... di far la pelle a Galeazzo e che a buon conto la mattina dell'esecuzione mandarono a anche un loro plotone che avrebbe fatto fuoco in ogni caso".
 L'autorevole testimonianza di Teodorani costituisce un nuovo e importante contributo alla conquista della verità sulla dibattuta storia del processo di Verona, una tragedia che Mussolini avrebbe evitato se avesse potuto aggirare la volontà implacabile dell'alleato tedesco.
 La puntuale interpretazione di Teodorani coincide peraltro con la nota del diario di Goebbels (citato da Renzo De Felice) in cui si legge il disprezzo dei tedeschi nei confronti del Duce, che non dava segno di desiderare la vendetta a danno dei fascisti autori del  voto contrario nella seduta del Gran Consiglio.
 E' dunque auspicabile che le memorie di Vanni Teodorani diventino oggetto della riflessione dei ricercatori (Giampaolo Pansa, ad esempio) che sono seriamente impegnati a sottrarre la vicenda della Rsi ai falsari che portano acqua al mulino di una storiografia prima antitaliana che antifascista.


Piero Vassallo

venerdì 26 dicembre 2014

Il cattolicesimo liberale, fallace rimedio alla sovversione

Tutto si può concedere all'imperiosa, incontenibile e inesorabile ideologia degli antifascisti, non la condivisione della sentenza, che esclude dal panorama della storia, che è frequentabile senza orrorosi brividi, la riforma corporativa progettata e tentata, con il sostegno di Carlo Costamagna e Ugo Spirito, da Giuseppe Bottai, il geniale organizzatore dell'incontro della modernità italiana e della democrazia classica con la tradizione del cattolicesimo sociale.
 La soluzione corporativa dei conflitti di classe proposta da Bottaie e dagli studiosi da lui radunati nella Normale di Pisa, fu il compimento dei progetti elaborati da Giuseppe Toniolo e da Werner Sombart: un capolavoro architettonico, che testimonia la presenza nella storia  cattolica di un pensiero irriducibile ai convergenti errori propalati dalla sinistra e dalla destra della modernità
 La cultura tradizionale, quantunque calunniata dagli usurai e dai loro spocchiosi valletti e  tradita da una teologia della storia obbediente al giornalismo a stelle e strisce, rappresenta un'ideale alternativa al liberalismo, ostinato relitto di un'era ideologica oggi replicante, al fine di riprodurre nel nuovo secolo l'artificiale carestia del 1929.
 La cabina di comando liberale è infatti indissolubilmente associata alla criminogena specola del pensiero malthusiano: i suoi affiliati lavorano in modo da combinare l'incremento del progresso tecnologico con un rigoroso controllo e a una felice depressione delle nascite.  
 Quando si considerano seriamente le procedure del potere liberale si comprende che la sconfessione del corporativismo da parte dei cattolici è l'umiliante risultato del fuoco appiccato  alla coda di paglia di una cultura incapace di resistere, con illuminata fermezza, agli squillanti, minacciosi ricatti di una propaganda, che non ammette alternative all'ideologia mummificata e tuttavia fonte delle disgrazie moderne, contemporanee e future.
 A dire il vero il liberalismo tollera i predicatori di un'alternativa frusta e patetica: la teologia della liberazione, musichetta che accompagna le illusioni e le manfrine di una gerarchia che fossilizza la tradizione inchiodandola sulla scena anacronistica, allestita nei primi anni Sessanta, dal machiavellismo di Nikita Kruscev e dalle piissime fantasticherie di Giorgio La Pira.     
 Purtroppo nel campo degli oppositori alla teologia della liberazione si esibiscono studiosi d'area dotati di apprezzata intelligenza e sostenuti da robuste letture, ma rapiti dalla manfrina liberal cattolica concepita dal pensatore brasiliano Plinio Correa de Oliveira.
 Al numero dei manfrini appartiene, purtroppo, il dotto storico peruviano Julio Loredo, autore di un voluminoso e documentato saggio, Teologia della Liberazione, edito in questi giorni dall'autorevole casa Cantagalli, editrice in Siena.
 Il curioso fine perseguito da Loredo è dimostrare che il radicale rifiuto del capitalismo è una fobia cattolica, che produce il trasbordo inavvertito cioè l'appiattimento del pensiero cattolico sulle  posizioni della sinistra.
 Un tale stato d'animo gregario, secondo l'opinione della scolastica pliniana, si può contrastare riconoscendo la necessità di un'adesione dei cattolici alla tesi di Michael Novak sul  capitalismo democratico.
 Di qui l'implicita condanna dell'opposizione condotta dal Magistero e da militanti cattolici all'ideologia del capitalismo negli anni Venti e Trenta del xx secolo: "Sia la predilezione per le corporazioni, sia il rifiuto del capitalismo liberale, coincidevano (almeno in apparenza) con le simili disposizioni di parte socialista, suscitando in alcuni ambienti del cattolicesimo sociale una nascente simpatia per le posizioni della sinistra".
 Affermato un tale criterio Loredo si spinge fino al punto di accusare di aperturismo un esponente dell'ala cattolica dell'Action française, il marche René de La Tour du Pin (1834-1924): "Illustrando la sua posizione, egli scriveva nel 1889: Alla luce dei princìpi cui ci hanno condotto i nostri studi è facile affermare che non c'è una dose più preponderante di materialismo nelle rivendicazioni del socialismo rivoluzionario che in quelle dell'economia liberale. ... Lo ribadisco ancora: non ci interessa avere o no dalla nostra parte i conservatori e i loro lamenti moribondi".  
 Rimandare e avvolgere nel sudario della sinistra cattolica la critica del capitalismo elaborata da un illustre pensatore tradizionista quale fu La Tour du Pin è un'operazione spericolata e depistante, che si può compiere quando si dimentica che la condanna delle ingiustizie e degli abusi del capitalismo pronunciata dai vescovi tedeschi ha preceduto di alcuni anni la critica di Marx e quando si censura la formula usata da Pio XI per condannare la rivoluzione comunista: "rimedio peggiore del male [capitalista]". 
 L'oblio della dottrina sociale della Chiesa, causato e alimentato dalla letteratura sovietica intorno al papa di Hitler, è un autoschiaffo, vibrato dalla teologia debole in obbedienza all'urlo antifascista, uscito dalla gola confusionaria/iniziatica del potere usuriero, per entrare nelle indifese e incaute orecchie della destra americanizzata.
 Il pacifico e quasi festoso ricevimento di tale schiaffo è purtroppo condiviso dalla destra e dalla sinistra della ex politica cattolica, inconsapevolmente narcotizzata dal conformismo vibrante nel Vaticano II.
 Una luce nella fitta nebbia è accesa ultimamente dalla salutare catastrofe di quella destra che, al fine di poter bere l'elisir liberale, ha demonizzato il corporativismo e dilapidato l'eredità dei suoi nuovi e coraggiosi interpreti (Ernesto Massi, Vanni Teodorani, Giano Accame, Silvio Vitale, Silverio Bacci, Michele Di Bella, Pino Tosca, Primo Siena, Gaetano Rasi) precipitandoli nella grottesca, illogica definizione "male assoluto".

 La rinascita del cattolicesimo politico, pertanto, dovrebbe cominciare dalla tabula rasa degli equivoci prodotti da una destra senza bussola e senza difese immunitarie nonché dalla riabilitazione della corrente sociale marginalizzata dal Msi e calunniata e liquidata dall'innominabile fondatore di An. 

Piero Vassallo

LA DISGRAZIATA MODERAZIONE (di Piero Nicola)

Il saggio ammonimento in medium stat virtus lascia il tempo che trova, è indicato entro un normale status quo, dove buon senso e dirittura vengono onorati e ripagati.
  A Roma repubblicana la massima potestà era commessa ai due consoli; ma quando compariva uno stato di emergenza, si nominava il dittatore. Che c’è da ridire? Il paziente sotto cura (il consorzio civile è metaforicamente tenuto in piedi da una legislazione medica e da sanitari che l’applicano) correndo il rischio di aggravarsi, necessita dello specialista e del ricovero.
  Adesso navighiamo tra gli scogli, sconquassati e traumatizzati. Ci vuol altro che i rimedi pei comuni scompensi di salute!
  Alcuni capi politici si sono resi conto dell’impossibilità di governare efficacemente e del bisogno di riforme costituzionali che assicurino all’esecutivo il sostegno d’una stabile maggioranza parlamentare. Formalmente, si comporrebbe di eletti che approvano l’incarico di Presidente del Consiglio conferito ad un prescelto dal Capo dello Stato, e che lo mantengono per cinque anni (periodo congruo). Si tratta di fare rispettare le leggi e anche di legiferare pro tempore (decreti legge), mentre, in parlamento, la medesima maggioranza legifera. Ne consegue che l’accordo tra deputati e senatori col Capo del governo dovrà essere unanime per svolgere una stessa politica; e così potrà avvenire, essendo il primo ministro, come già succede, il segretario del partito principale, da cui dipende la maggioranza legislatrice. Allora, sarebbe meglio che la Camera e il Senato avessero un’autorevole funzione consultiva e propositiva, anziché attuare, di fatto, una mera esecuzione di disposizioni emanate dal partito.
  I grillini hanno cercato di gridare al colpo di mano autoritario concepito da Renzino e Berlusca. L’allarme è stato assorbito dalla tacita censura cui aderiscono i mezzi d’informazione e, secondariamente, dalle prevenzioni inculcate nella massa. Ha funzionato in questo caso, tra i diversi in cui la realtà alzerebbe la testa, il tirannico meccanismo composto di libertà false e corruttrici, di corruzione controllata per la miseria morale e materiale, di plagio e duro asservimento, cui fa da sponda una religione pervertita.
  In pratica, il sistema progettato da Renzi e Berlusconi - a prescindere dal cattivo uso che ne farebbero - equivarrebbe a una dittatura rinnovabile. Se essa fosse svigorita dalle fazioni partitiche in disaccordo, dall’uso politico della magistratura, da un’interferenza indebita esercitata dal Capo dello Stato, se fosse alla mercé dei poteri forti nazionali e sovranazionali europei, e dei più potenti stranieri, tutto ciò non toglie che si ritiene indispensabile, per uno Stato efficiente, un regime che vale una dittatura.
  Non sono d’accordo specialmente i babbei, gli infrolliti o gli avventurieri, i quali si riempiono la bocca con la democrazia e col dialogo, considerati toccasana. Condizionarsi a vicenda, spartire la potestà, confrontarsi, ascoltare le opposte opinioni, convinzioni, ragioni, sarebbe la panacea, arricchirebbe le menti, aiuterebbe a crescere, a risolvere. Fanfaluche. La giovevole moderazione non è questa.
  Ma fa funzionalità occorrente non basta. Serve sottostare alla riconosciuta vera filosofia.
  Il dialogo, nel migliore dei casi, significa compromesso. Si fanno compromessi accettabili nella rettitudine e condividendone i principi. Con l’iniquità prepotente e la fraudolenza il compromesso non paga. Sicché l’ordine democratico dei poteri che si controllano e limitano l’un l’altro avrebbe qualche possibilità di successo sottostando a una costituzione che esattamente piacesse a Dio, mettendo al bando ogni legge immorale. La meta, nella presente situazione, è affatto chimerica.
  In genere, il dialogo si risolve in una recita da cui gli intervenuti intendono trarre vantaggio. Tuttavia ha la meglio il più forte dei dialoganti; e non ne sortisce ombra di miglioramento, data la risma cui appartiene il più forte. Che essi si parlino e trattino così, mostra le relazioni rispettose fra il meno peggio e il peggio, ovvero l’inganno in cui casca il migliore, che credeva di ricavarne un vero beneficio. Però il migliore resta tale soltanto in rapporto all’iniquo: iniquo anch’egli finché riconosce l’indegno un suo pari, finché gli tributa la stretta di mano. E tale è la scena che si offre ovunque si volga lo sguardo. Per ironia della sorte, gli unici che ogni tanto e in qualche regione del globo rifiutano di dialogare, sono personaggi sforniti di verità e di connesso buon esempio da difendere.
  Il precetto religioso del dialogo – sconosciuto, prima che aprissero bocca gli ultimi signori andati a sedere sulla Cattedra di Pietro – questo comandamento in sostituzione del divieto di trattare coi sordi in quanto al loro errore, propagatori della lebbra eretica, questo nuovo imperativo consacrato, incontrastato, furbamente laicizzato dal mondo e dai preti suoi tirapiedi, denota il deserto di virilità spirituale e di speranza.
  A scanso di equivoci, lo stare in pace dialogante, che ho descritto, non c’entra nemmeno un po’ con la scelta d’un male minore accettato senza compiere un atto intrinsecamente cattivo, e perché altrimenti ne verrebbe un danno maggiore. Oh no, nessuna giusta causa che regga, per l’abiezione da cui siamo circondati e soffocati da oltre cinquant’anni!
  Anche le destre non poco contraddittorie fra di loro, con corto buon senso, con tradimenti del cattolicesimo e concessioni al nemico che iniettano il marcio nell’albero della vita, con le loro soluzioni realistiche, per cui dicono di non voler gettar via il bambino insieme all’acqua del bagnetto, o timorose che il popolo non sia maturo per certe proposte e ripensamenti, queste destre hanno perso la bussola, operano correzioni volatili, danno una mano al liberalismo e al perdurante capovolgimento.
  Qualsiasi composizione di strutture che trascuri la chiave della volta, il vertice unico dei riferimenti, sparge concime nel selvaticume e tra le piante allucinogene. La stella polare è una e una sola: il predominio incontrastato dello spirito veridico. Il buon intenditore può capirne anzitutto l’utilità, quella delle cose integre, degli strumenti idonei, ben temprati. Egli individuerà nella Chiesa tradizionale il fondamento, e nel clero aggiornato la dissoluzione. Gli altri, condotti ad aderire alla decisiva efficienza instaurata, fatta passare in una forma democratica in barba ai contestatori, ai liberi denigratori e ai poteri ostili, finirebbero per accogliere l’alta mira del risanamento, come sta un poco accadendo in Russia, in Ungheria, e come forse domani avverrà in Francia.
  Il disegno non sarebbe troppo campato in aria, se nei primi partiti italiani entrassero delle brave teste intelligenti e non emergessero dei Pierini.
  

Piero Nicola 

martedì 23 dicembre 2014

LA SPORTIVITÀ (di Piero Nicola)

L’origine della parola sport, l’alba di questo concetto e della sua pratica, è cosa ormai lontana nel tempo, ottocentesca. Prima di allora esistettero i giochi, le gare. Il salubre esercizio fisico dei devoti a Igea e l’addestramento militare erano già stati introdotti da medici e uomini d’armi fin dall’antichità. Ma si era trattato di idee, esercizi e categorie di persone differenti.
  Nel Secolo Ventesimo vennero gli anni in cui la qualifica di sportivo conferiva un titolo di merito e di rispetto, al di qua dell’ossessione sportiva di stampo anglosassone. Questa veniva generalmente eclissata da una certa esterofilia, che faceva ammirare l’impegno nel modo atletico e salutistico d’impiegare le ore di libertà, di ricreazione e le vacanze.
  Si perde nella memoria maggiormente istruita la frenesia dei cimenti fisici, propria degli inglesi, spesso congiunta alle esplorazioni turistiche, debitamente commiserata e derisa da emeriti letterati, cultori degli incanti della natura come Knut Hamsun. A quell’epoca, anche in Italia si prese a rimpiangere i viaggiatori colti, contemplativi, sostituiti da comitive frettolose, parsimoniose, abbigliate in modo sommario, marcianti e assillate dal rispetto di una tabella oraria delle visite a paesaggi, monumenti e musei.
  Da noi lo sport non costituiva ancora un dovere. A scuola si faceva ginnastica; l’educazione fisica non era sport. A poco a poco, l’essere sportivi autorizzò a screditare quanti non dimostravano di esserlo. Non bastava tenersi in esercizio, avendo cura dell’efficienza corporea in omaggio al detto mens sana in corpore sano. Essere meno che sportivi nell’accezione più larga, divenne una macchia sulla persona e sulla coscienza.
  I tifosi si chiamarono sportivi, e dicevano “abbiamo vinto” o “abbiamo pareggiato”, “abbiamo perso per colpa dell’arbitro”, facendo corpo coi giocatori della loro squadra. Amare gli sport, parteggiare per un campione del pedale, del ring, delle corse automobilistiche, significava stare in regola. La tenuta sportiva, contrapposta all’abito usuale, immetteva in un anticonformismo che oggi fa sorridere per la sua impeccabilità. Uomini e ragazzi, indossando blusa o pullover sulla bella camicia, pantaloni di gabardine e scarpe bicolore, erano pronti per il fisico diporto, sciolti dall’universale tenuta in giacca e cravatta. Una ragazza sportiva era quella che non si dava troppa pena del proprio buon nome. Adesso, in quell’atteggiamento di emancipazione femminile farebbe la figura di un’educanda appena svagata.
  Intanto, l’aura di nobiltà spettante all’atletica gratuita, a cominciare dai dilettanti degli stadi e delle palestre rionali fino ai partecipanti alle olimpiadi, e che aveva riguardato anche i professionisti poco rimunerati e aderenti a un certo codice cavalleresco, quel decoro andava sfaldandosi. Il puro dilettantismo scomparve, ucciso dagli interessi, dalla pubblicità. Ovunque ci fosse competizione o prestazione che desse spettacolo, lì, da ogni lato, intervenne il denaro. I pronostici a premi e le lotterie abbinate alle competizioni sportive prosperarono, salirono le vincite. Vincere in un modo o nell’altro contò soprattutto! Il culto dei muscoli gonfiati ad ogni costo, diede ombra alle atletiche perfezioni immortalate nelle statue greche e latine come in un David di Michelangelo. La palestra mostruosamente attrezzata divenne luogo di ritrovo, di esibizionismo e, qua e là, di spaccio e di consumo.
  Quando Coppi e Bartali furoreggiavano, c’erano corridori rosi dall’invidia che prendevano la bomba, una droga che permetteva loro di arrivare primi. Ma era poco conveniente, specie nelle corse a tappe: il giorno dopo il finto vincitore, spossato, se non era costretto al ritiro poco ci mancava.
  Il povero barone de Coubertin è morto e sepolto. Chi ancora lo cita decantando la partecipazione e l’onore dello sconfitto, ripete ipocritamente o scherzosamente la larva d’una fede.
  Da un bel po’ la televisione annuncia con sollievo che una squadra di calcio italiana è stata favorita dal sorteggio per la disputa d’un torneo internazionale, dovendo battersi, al prossimo turno, contro le squadre meno temibili. Bella sportività, quella che si rallegra perché la propria squadra dovrà competere con una formazione straniera che sarà più facile sconfiggere!
  

Piero Nicola

domenica 21 dicembre 2014

Abc di filosofia della politica: Il tomismo per sfuggire alla chimera anarchica

Don Curzio Nitoglia appartiene al ristretto numero dei cattolici ancora capaci di comprendere e amare la filosofia di San Tommaso e di usarla, con legittima intransigenza, per contrastare lo scrosciante vaniloquio libertino e thanatofilo, che è diffuso dall'emittente ultima - francofortese e californiana - della rivoluzione anticristiana.
 Edito in Milano dall'animoso centro studi Jeanne d'Arc, jda@liberitalia.net, il breve incisivo trattato di filosofia politica scritto da don Nitoglia espone, con rigore ed esemplare chiarezza, i princìpi ai quali l'attività dei politici deve conformarsi, pena, in caso di renitenza, il capovolgimento delle leggi e la degenerazione della vita sociale, disgrazia ben visibile nelle società avvelenate dai pensieri di matrice illuministica.
 La esposizione dei princìpi indeclinabili della politica è arricchita da una puntuale contestazione delle tesi avventurose sulla dignità umana, formulate negli anni Trenta da Jacques Maritain e da Emanuel Mounier e recepita acriticamente dalla teologia postconciliare, tesi dalle quali discende l'infondata opinione secondo cui "la persona umana ha una dignità assoluta, non relativa alla natura in cui sussiste".
 Per confutare l'errore in rovinosa circolazione nella teologia modernizzante, nella filosofia aperturista e nel conformismo democristiano, don Nitoglia rammenta che la dignità si divide in radicale ontologica, che è radicata su una natura umana razionale e in totale morale o pratica, che è attribuita alla persona dai suoi atti buoni. 
 Pertanto "vi è dignità totale-morale solo se la persona conosce il vero ed ama il bene, mentre se aderisce all'errore ed ama il male, perde la dignità totale-morale, anche se radicalmente conserva la natura umana e razionale e quindi la dignità radicale/ontologica".
 L'ovvia conseguenza di tale principio è l'inesistenza del diritto a professare l'errore ed a fare il male, "perché la persona agendo male smarrisce la dignità totale, che sola fonda il diritto ad agire, anche se mantiene la dignità radicale, che riguarda l'essere e non le azioni".
 La diversa opinione di Maritain e Mounier induce a credere che la persona umana abbia una dignità assoluta non relativa alla natura in cui sussiste. Di qui l'opinione aberrante "che la dignità della persona fondi il diritto al diritto di esprimere pubblicamente qualsiasi pensiero". Teoria fallace, che è stata duramente smentita da Pio XII, il quale ha stabilito che "ciò che non risponde a verità non ha oggettivamente nessun diritto né all'esistenza, né alla propaganda, né all'azione".
  Purtroppo un'opinione contraria si è insinuata di soppiatto nei documenti del Concilio Vaticano II e nei saggi dei teologi conformisti, testi dai quali l'avventurosa teologia oggi prevalente trae la temeraria convinzione che attribuisce all'errore uno speciale diritto.
 Il saggio di don Nitoglia costituisce pertanto una preziosa indicazione per i militanti cattolici, che lavorano alla conservazione dei princìpi dai quali trarrà forza la decisione di uscire dalla cattività modernista e sui quali dovrà organizzarsi la rinascita della politica italiana. 

   
Pietro Vassallo

Occultamento e rimozione della cultura cattolica

Nell'avvincente sito Il Covile, in data 19 dicembre 2014, Dana Gioia ha elencato puntualmente le condizioni dell'esistenza preconciliare di una apprezzata letteratura cattolica in America: scrittori famosi si dichiaravano apertamente cattolici; il mondo culturale accettava il Cattolicesimo; c'era una letteratura cattolica dinamica e vitale; era presente un'attività critica e accademica  che supportava i migliori scrittori cattolici. L'improvviso venir meno di tali condizioni ha causato il collasso della letteratura cattolica d'America e il suo rinvio alla marginalità.
 La contemporanea ripetizione in diversi altri paesi dell'eclissi che ha oscurato la letteratura  cattolica d'America e la coincidenza della data delle crisi con l'inizio dell'età postconciliare,  induce a risalire alla causa delle cause citate dalla Gioia: la capitolazione dei vescovi e dei teologi cattolici e la loro consegna alla presunta autorità e attualità del pensiero moderno.
 Il vento impetuoso della modernizzazione conciliare, che soffiava nelle menti dei vescovi e dei teologi liberali, si è rovesciato nell'ingente biblioteca del Novecento cattolico e la ha trascinata in una macelleria gestita da esponenti della cultura laica, progressista e iniziatica.
 L'efficacia del suicidio consumato dai cattolici plagiati dalle sirene del macello laicista, si misura contemplando la irragionevole, autolesionistica squalifica e l'insensato ripudio di Giovannino Guareschi, lo scrittore italiano più letto e apprezzato nel mondo contemporaneo.
 Insieme con Guareschi è stata umiliata, calunniata, perseguitata e consegnata al ruggente nulla del laicismo e della trionfale pornografia adelphiana, la totalità della letteratura e della critica del Novecento cattolico: Clemente Rebora, Pietro Mignosi, Giovanni Papini, Ugo Betti, Domenico Giuliotti, Piero Bargellini, Giulio Bevilacqua, Barna Occhini, fra' Ginepro da Pompeiana, Diego Fabbri, Mario Bendiscioli, Adolfo Oxilia, Eugenio Corti, Mario Pomilio, Fulvio Tomizza, Tommaso Romano, Fausto Belfiori, Fausto Gianfranceschi, Alfredo Cattabiani, Dino Del Bo, Ennio Innocenti, Roberto De Mattei, Pino Tosca, Alessandro Gnocchi e tantissimi altri.
 L'autolesionistica devastazione della letteratura cattolica è stata compiuta al riparo delle sentenze anticattoliche di Benedetto Croce e Antonio Gramsci.
 Grazie a Dio, l'inconsistenza dei giudizi a monte delle solenni stroncature si può facilmente stabilire osservando lo scempio della biblioteca filosofica compiuto da un potere culturale in corsa affannosa/rovinosa verso le heideggeriane terre del tramonto.
 I ruggiti di Croce e/o di Gramsci non possono esser chiamati a testimoniare seriamente contro la vitalità della filosofia cattolica, interpretata e attualizzata da autori di superiore statura, quali Reginald Garrigou Lagrange, Cornelio Fabro, Etienne Gilson, Marcelo Sanchez Sorondo, Rosa Goglia, Michele Federico Sciacca, Carmelo Ottaviano, Nicola Petruzzellis, Giovanni Santaniello. Giulio Bonafede, Thomas Tyn, Augusto Del Noce, Marino Gentile, Maria Adelaide Raschini, Pier Paolo Ottonello, Paolo Pasqualucci, Antonio Livi, Andrea Dalle Donne, Elvio Fontana.
 Agli autori insigni militanti nell'area cattolica, la cultura atea può opporre soltanto  i  desolati/spettrali banditori del nichilismo neognostico, elucubrato dai maestri francofortesi e tragicamente vissuto da Simone Weil  e da Hetty Hillesum.
 L'irragionevole aggressione al patrimonio teologico, filosofico, letterario e artistico della Chiesa Cattolica, in definitiva, dimostra che la guerra alla cultura tradizionale è stata dichiarata dall'invidioso e impotente pregiudizio neo-illuministico, autorizzato a far danni dalla desistenza oltre che dallo sbandamento della gerarchia ecclesiastica e dalla indifferenza (onestamente confessata dal compianto Flaminio Piccoli) della classe politica democristiana.
 Sotto la pietra tombale che l'invidia borghese e la fragilità ecclesiastica hanno gettato sopra la cultura cattolica al fine di ridurla all'esangue figura delle società umanitarie di ottocentesca memoria, si notano tuttavia ostinati segnali di vita.
 Censurati e silenziati dalla macchina di un apparato animato da inestinguibili furori, i cattolici refrattari alla suggestione suicidaria dei neomodernisti, lavorano, in ordine sparso ma con indiscussa efficacia, alla ricucitura del tessuto della tradizione, vivente malgrado gli strappi causati dai corni dei rinoceronti al galoppo ora laico, ora esoterico ora clericale.
 Inutilmente vessato, il samidzat cattolico lancia segnali di una vitalità imprevista e insospettata, dunque capace di superare il muro del silenzio orchestrato dalle società di spensiero e di attraversare il vuoto pneumatico prodotto dal conformismo clericale.
 Alla qualificata produzione di saggi filosofici e teologici, intesi alla demistificazione del nichilismo avanzante sotto i proclami della presunta felicità libertina, si aggiunge l'animosa fatica dei poeti e dei narratori d'area.
 Le impavide case editrici, Solfanelli, Cantagalli, Leonardo da Vinci, Effedieffe, Sacra Fraternitas Aurigarum in Urbe, Edivi, Fede & Cultura, Thule, Amicizia Cristiana ecc., condotte da imprenditori miracolosamente scampati alla infetta slavina del modernismo clericale, stanno conquistando i lettori attivi nell'area del dissenso e perciò riescono a valorizzare autori altrimenti destinati a scivolare nel gorgo polifrenico della squillante & nientificante neodestra. 
 Intorno alle case editrici e ai siti internet in continua espansione, si costituiscono cenacoli cattolici in grado di varcare la cortina del silenzio e di mobilitare il disagio dei tradizionisti, ad esempio organizzando la partecipazione di quarantamila fedeli irriducibili alla marcia romana per la vita.
 Se dalla vasta e frastagliata area della cultura vivente nella fede cattolica si affermasse la figura di un capo capace di coordinare le ingenti e nobili fatiche dei singoli studiosi, dei loro editori e del loro lettori, si potrebbe finalmente costituire un laicato cattolico unitario e perciò atto a resistere efficacemente alle slavine mentali prodotte da apostati, eretici e conformisti.


 Piero Vassallo

sabato 20 dicembre 2014

Domenico Giuliotti, la fede prima della modernizzazione

 L'appiccicoso rosolio, distillato dagli ecumenici alambicchi del Vaticano II, mentre intontiva la fede di sempre e rovesciava spruzzi luterani sulla sacra liturgia, ha spalmato un oblio risentito e collerico sugli autori del Novecento cattolico, colpevoli di essere stati testimoni di una fede capace di alzare la voce una ottava più in alto della ronzante/frusciante chiacchiera mondana.
 La censura delle voci maschie e inflessibili degli scrittori fedeli ha messo sul palcoscenico ecclesiale il concerto di una teologia timida e stordita e perciò incline ad applaudire gli squillanti vizi di mente, che accompagnano la   inavvertita decomposizione del mondo moderno.
 Consapevole della putrefazione in atto nel cuore infetto della modernità fu invece lo scrittore  toscano Domenico Giuliotti (1887-1956), cattolico sordo alle vane chiacchiere dei modernisti e perciò immune dagli entusiasmi progressivi, in festa rivoluzionaria già nei primi anni venti del secolo sterminato.
 Giuliotti fu un autore capace di resistere e di reagire con virile fermezza alle seduzioni urlanti nei proclami sovietici, fruscianti nelle favole americane e squillanti nelle pochade degli espressionisti tedeschi.
 Al proposito si affaccia alla memoria la notizia del discredito rovesciato dai novisti sulla fortezza - virtù cardinale screditata e quasi vampirizzata dalla  teologia imbelle, che sbandiera una filologia addomesticata dai disertori dal tomismo.
 Il capolavoro di Giuliotti, L'ora di Barabba, pubblicato nel 1920, è il manifesto incendiario di un cattolicesimo capace di esprimere, in un italiano corretto e scintillante, la refrattarietà e l'irriducibilità della fede alle sirene di mondo moderno, che non ha mai nascosto le sue tare e le sue laide magagne.
 In tutte le opere  di Giuliotti, peraltro, il lettore d'oggi potrebbe trovare e raccogliere i giudizi che producono le difese immunitarie, indispensabili ai fedeli refrattari, in fuga dalla torbida/soffocante slavina, che trasporta la rumorosa farneticazione dei neomodernisti e dei neo-preti.
 In modo speciale è utile e raccomandato ai fedeli turbati e sconcertati dal can-can liturgico oggi in pittoresco atto, l'avvincente, commovente saggio di Giuliotti, Il ponte sul mondo Commento alla Messa, edito dalla benemerita Amicizia Cristiana, stamperia che opera in Chieti per la difesa della indeclinabile tradizione cattolica dalle insidie del clero sincretista.
 Giuliotti, al pari dei suoi coraggiosi editori, incarna la figura del cristiano rigido, cioè refrattario alla molliccia ginnastica del buonismo, il fedele la cui intransigenza dispiace a Francesco I, interprete della dottrina dolcificata/dinoccolata, ultimamente prigioniera delle insipienti chiacchiere venerate da una platea  che identifica la verità evangelica con le flessioni  del tango e le squallide omelie dei comici.
 Nelle pagine di Giuliotti si leggono, infatti, le proibite ragioni di quella fedeltà alla vera liturgia cattolica,  turbamento e scandalo dei pii corridori lanciati sulla pista, che ha per traguardo la mondanizzazione della dottrina antimondana per antonomasia.
 Nel 1932, quasi anticipando la descrizione delle nebbie fatte cadere sulla Santa Messa dalla infelice riforma di Annibale Bugnini (1912-1982), Giuliotti scriveva: "La Messa, per moltissimi, immersi nell'ignoranza religiosa, è come un affresco che altri afferma prezioso, ma che agli occhi annebbiati di chi lo guarda, appare tutto coperto di un fitto strato di polvere. Ho tentato di dissipare quella nebbia e di far vedere il dipinto".
 La Santa Messa non è la commemorazione di un lontano e drammatico evento ma la ripetizione incruenta del sacrificio di Gesù Cristo sulla Croce: "L'altare è la mensa mistica e il Monte Santo, la Tavola del convito umano e divino e l'Ara pel Sacrifizio unicamente accetto al Creatore del mondo. Tutto l'edificio della Chiesa è stato costruito per l'altare; e l'altare a sua volta è stato costruito per la Messa".
 Nella Messa preconciliare, infatti, il sacerdote, invece di avvicinarsi a un anonimo, traballante tavolino, si preparava alla salita dei tre scalini, che lo separavano dall'altare, purificando il proprio intelletto e la propria volontà. I fedeli si univano spiritualmente al sacerdote: "Ogni pensiero profano cancellato, dileguato, annientato. La mente, il cuore, l'anima staccati da tutto, purificati, mondi, concentrati in Dio. Ma ciò unicamente ci sarà possibile con l'aiuto di Cristo".
 In luogo di una preghiera finalizzata all'umiliazione dell'io, la nuova liturgia offre deprimenti canzonette e sbiadite orazioni. I tre scalini che avvicinavano all'altare sono aboliti e ridotti a passi anonimi. L'umiliazione è addolcita a beneficio dei sacerdoti e dei fedeli. In compenso la chiese si svuotano.
 In una recente intervista l'autorevole cardinale Burke, pur lodando lo splendido, avvincente canone della Messa detta di San Pio V, ha ammesso che anche il nuovo canone è valido.

 In nessun modo possiamo respingere il giudizio dell'illustre e coraggioso ecclesiastico. Tuttavia, leggendo il magnifico scritto di Giuliotti, non possiamo negare, nessuno può seriamente nascondere che la sapiente bellezza dell'antico canone è stata diminuita e quasi obnubilata da una riforma indirizzata alla conquista delle congreghe protestanti, affondate nella melma luterana e di tutto bisognose fuorché di concessioni alla loro sgangherata liturgia e alla loro esangue, ateologica teologia.

Pietro Vassallo