sabato 6 dicembre 2014

L’ELEGANZA Ė INATTUALE (di Piero Nicola)

  Sullo schermo televisivo ove compaiono gli usuali comportamenti e i soliti avvenimenti, in questa finestra aperta su di essi, inserita nell’ambiente domestico, mi è capitato di vedere una sfilata dell’ultimo grido. Indossatrici longilinee e graziose, sebbene alquanto stereotipate e un tantino accigliate, esibivano modelli decorati a fiori. Nulla di più leggiadro, si capisce. Sennonché alcune, a turno, svestite più che vestite, portavano sotto una casacca un indumento simile alle mutandine. Quale altra definizione attribuirgli, se quel brano di stoffa vaporosa lasciava intravedere gli inguini e, lateralmente, lasciava scoperto il sommo delle gambe?
  È stato il vertice del buon gusto cui abbia assistito da parecchi anni a questa parte alla tivù.
  Com’è che l’eleganza sulla persona e della persona è finita da un pezzo nella stravaganza lubrica e sembra incapace di uscirne fuori? Però dice “sembra incapace” un cuor gentile fiducioso, che non si rassegna ai conti che tornano tutti fino all’ultimo… centesimo.
  Chiarisco. La produzione delle arti offre poche varianti d’un suo certo estro che suscita scalpore, e che chiamare mirabile sarebbe adulatorio. Come avviene per tutta la scala delle ideazioni andanti dall’architettura all’artigianato, anche l’abbigliamento dipende dall’animo che lo concepisce e dipendere alquanto dal gradimento dei fruitori. La moda è malata quando si violano i canoni dell’armonia. L’invenzione, l’originalità, l’impronta personale dovrebbero usare un tocco educato, consono a garbatezza, pena la pacchianeria, la chiassosità, la novità per se stessa. Questa piace ai faciloni, alle farfalle femmine e maschi che desiderano essere guardati, piace ai conformisti della voga. Per loro il cambiamento e l’effimera sfornata dei cenci, dei panni, degli accessori più recenti sono il principale. Importa che facciano colpo e che, essendosene appropriati, rendano interessante la pochezza. Apparire è l’ossigeno, è il pane, giacché nessuno vive di solo pane e occorre saziare l’amor proprio.
  In un certo senso, è sempre stato così. Ma nel tempo andato furono piuttosto gli acquirenti a vestire in modo esilarante, senza che il venditore ve l’inducesse.
  Adesso, il gusto deteriore la fa da padrone; la delicatezza armoniosa resta appannaggio di uno sparuto gruppo di sorpassati. Del resto, i più, specie i maschi, di norma non si vestono, si coprono sbrigativamente, secondo un residuo dell’uso casual o da sportivi, come si diceva una volta. Spesso il brutto viene ostentato in segno di un risibile e trito anticonformismo, con quegli americani indumenti da lavoro, qua e là consunti o bucati, che sono i blu jeans.
  La legge di Mammona si impone agli stilisti che non abuserebbero dello Stile, che sarebbero dotati dell’indispensabile modestia e sincerità; talché anche loro si adeguano al mercato, scansando il rischio di servire a un’élite evanescente. È troppo gravoso non andare sul filo della marea. Cercare, inoltre, una maestranza con attitudine alla raffinatezza, addestrarla e mantenerla, potrebbe essere un’impresa titanica.
  Ciò quadra con le svariate forme di velleitaria imitazione del bello. Facendolo prostituire al palato grosso e barocco, coltivato democraticamente, non riuscirà mai a rendere altro che ignobile l’emulazione delle antiche bellezze.
  Restringendoci all’incedere delle indossatrici sulle passerelle, i loro capi di abbigliamento da carnevalata esprimono la necessità di sbalordire, senza di che non avrebbero séguito; rivelano la loro funzione di spettacolo. Donde possiamo spaziare coerentemente sui comuni generi di vestiario arzigogolati: da quelle scarpe dalla punta lunghissima, oppure tozze e pesanti, alle gonne di drappeggio sghembo su donne qualsivoglia. Ora regna il nero, ora un altro colore indelicato. E le fogge e le stoffe: alla stessa stregua. La libertà non porta a svincolarsi scegliendo gli indumenti adatti alla propria figura, per le occasioni o per le pratiche attività quotidiane. Bando alle incertezze: è un continuo, una generale stonatura, in cui la chiara sensibilità brilla per la sua assenza.
  Oh, l’eleganza è un bene raro, così la eccellente educazione, la signorilità che mai si spazientisce essendo di buon animo impassibile. Così è sempre stato. Conveniamone pure di nuovo. Ma l’eleganza si ebbe, si mostrò, penetrò, foggiò persino le maniere del volgo, rendendolo talvolta comico, ma volenteroso; durò finché le popolane guardavano in su attonite, invidiando, accarezzate dalle forme poetiche. Quando non le comprendevano, e magari si facevano venire qualche complesso, erano tuttavia lungi dal discuterle, lungi dal farne un problema. Soltanto in circostanze particolari, l’eleganza rientrava nell’insulto recato dalla ricchezza alla povertà.
  I primi a tradire lo stile furono gli architetti. Poi, piano piano, ci si misero gli altri. Artisti, letterati, canzonettisti, intrattenitori, sarti delle stelle del cinema, disegnatori di carrozzerie videro crescere nelle loro fila uomini insensibili all’aurea misura, involgariti. Piano piano, il loro numero soppiantò la supremazia dei signori per antonomasia. La grazia di costoro è un po’ distante dai modi della santità, tuttavia resta apprezzabile ed è stata a torto disprezzata.
  L’influenza che non viene dal gran garbo genera ineleganza. E sarebbe perfino impossibile riprendere l’ultimo vecchio modello, gli ultimi garbati figurini, quelle riviste linde e graziose, per restaurare la signora Grazia. Trattandosi di arte, foggiata su modelli di un’epoca trascorsa non sarebbe arte, essendo avulsa dal suo tempo.
  L’arte – ne approfitto per estendere il concetto - venne ricreandosi al passo dei tempi, e riuscì sapendo coniugare con il proprio tempo le forme classiche, da cui prendeva ispirazione. Soltanto un fantastico genio dittatoriale potrebbe trasfondere uno stile eternamente bello in una vita scaduta nel cattivo gusto, lo potrebbe cioè, formando uno spirito di bellezza introdotto nelle usanze. Soltanto un’irresistibile persuasione renderebbe le usanze disponibili, plasmabili, materia per l’artefice.
  Al di fuori di simile fantasia, una civiltà decaduta, carente di fede, di etica, di identità largamente condivisa, produce una vacua fisionomia, un vuoto di carattere, del carattere necessario ad uno stile.
  Lo stesso meglio artistico, comparso sporadicamente, esprime stili personali, eterogenei, che vanno dispersi.


Piero Nicola

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