martedì 9 febbraio 2016

I diritti “incivili” del Disegno di Legge Cirinnà (di Paolo Pasqualucci)

SOMMARIO : 1. Un uso distorto del concetto di “diritti civili”. 2. Il “diritto” al libero aborto è uno pseudo-diritto, un “diritto incivile”. 3. Le “unioni civili” sono in realtà “incivili”. 4. Le “unioni civili” omosessuali sono doppiamente “incivili”. 5. Il c.d. “orientamento sessuale” omosessuale non esiste in natura. 6. Anche la “transessualità” è un’invenzione. 7. Approvare il ddl Cirinnà significa legittimare l’impostura e tradire l’insegnamento di Cristo.


I vocianti sostenitori dell’infesto ddl proposto dalla senatrice del Partito Democratico (post-comunista) Monica Cirinnà, che vuole riconoscere le coppie di fatto, anche quelle omosessuali, equiparandole in sostanza al matrimonio, presentano sempre la loro posizione come quella di chi si batte “per i diritti civili”. Si sente anche dire che si tratterebbe del riconoscimento di “un diritto umano”, di “eliminare una ingiusta discriminazione” e quindi di “una questione di civiltà”. Negare tali “diritti” sarebbe “roba da terzo mondo”.
Il supposto diritto dei conviventi di fatto anche omosessuali ad esser riconosciuti dalla legge dello Stato come equivalenti alle coppie regolarmente sposate secondo natura, sarebbe dunque un diritto civile. In quanto diritto civile, lo Stato avrebbe allora il dovere di riconoscerlo con le sue leggi. Il “diritto civile”, nell’accezione della quale stiamo parlando, è un diritto che viene prima di quello dello Stato e ad esso superiore. Rappresenta un valore che inerisce all’individuo in quanto tale, attinente alla sfera della sua libertà personale. Oggi si ritiene che lo Stato debba realizzare tutte le pretese di questa libertà, con l’unica limitazione, peraltro teorica, di non danneggiare i terzi. Si ritiene, infatti, che compito essenziale dello Stato sia quello di garantire ai singoli il conseguimento della loro felicità individuale, comunque intesa dai singoli stessi. Idea sbagliatissima, affetta da inguaribile edonismo e cecità intellettuale: il compito dello Stato (e quindi dello Statista e uomo di governo) è quello di realizzare il bene comune. Per ciò che riguarda la felicità individuale, si tratta di trovare il giusto compromesso tra di essa e il bene comune, tra i fini che l’individuo vuole darsi e quelli che lo Stato può riconoscergli come legittimi, in quanto non lesivi del bene comune.
Poiché le pretese degli individui professanti l’esercizio della loro libertà individuale si considerano oggi sacre, il “diritto civile” che le attui viene presentato dunque quale manifestazione di civiltà oltre che di progresso. Pertanto, chi si opponga al suo riconoscimento nel caso specifico, viene dipinto come un nemico della civiltà, un fautore di barbarie.
Si tratta, ovviamente, di pura retorica, tipica dei sostenitori dell’idea estrema di democrazia oggi imperante, la quale non vuole accettare l’idea che la libertà individuale deve esser necessariamente sottoposta a limiti, entro le leggi o le giuste consuetudini, perché una libertà illimitata trapassa sempre nella licenza e nell’anarchia, distruggendo alla fine ogni vivere civile degno di questo nome.
Nel caso dei diritti “civili” rappresentati dal riconoscimento delle coppie di fatto, in particolare di quelle omosessuali, si vede chiaramente che la civiltà non ha qui niente a che fare. Anzi, tale riconoscimento, oltre che immorale e negativo per il bene comune, sarebbe di per sé incivile perché contrario alle norme più elementari della civiltà.

1. Un uso distorto del concetto di “diritti civili

In passato, con “diritti civili” si intendevano in genere quelli connessi all’attività del soggetto titolare dei diritti politici nella comunità, nella civitas. Rientravano tra i diritti del cittadino e concernevano soprattutto la dimensione politica. Ricomprendevano tradizionalmente la libertà d’espressione, di libera associazione, di voto. In un secondo tempo, la cosiddetta contestazione giovanile, femminista, rivoluzionaria si impadronì di questo termine, per indicare le rivendicazioni di minoranze in sé eterogenee ma cui si attribuiva il diritto di strappare al potere costituito per l’appunto una serie di diritti, veri e propri “diritti civili” che lo Stato aveva il dovere di riconoscere. Così nei cortei del Movimento Studentesco degli anni Sessanta e Settanta del XX secolo, risuonava quasi sempre lo slogan che invocava i diritti (civili) “dei giovani, dei Neri, delle donne”. La citazione dei Neri era corretta nel senso che le loro rivendicazioni erano effettivamente quelle di una razza sottoposta ancora a diverse ineguaglianze e discriminazioni formali. Ma la rivendicazione dei diritti “dei giovani” era in realtà la pretesa del Movimento a governare imponendo in qualche modo le sue anarchiche e libertarie ideologie. Quella delle femministe, si concentrava sulla cosiddetta “emancipazione della donna” dai suoi ruoli tradizionali, ossia sulla “rivoluzione sessuale”. Il caposaldo delle richieste femministe, in società nelle quali già si diffondevano gli anticoncezionali, entrati sul mercato nordamericano all’inizio degli anni Sessanta, era rappresentato dall’ottenere il diritto di abortire liberamente, come affermazione di potere assoluta e indipendente, contro Dio, l’uomo, l’istituto del matrimonio e della famiglia; diritto ottenuto come sappiamo in quasi tutto l’Occidente, e presentato appunto come conquista di un “diritto civile” quando ne era invece un’evidente perversione. Alla rivendicazione dei supposti “diritti civili” delle donne in quanto donne, tenuta in piedi soprattutto dalle organizzazioni femministe e dai loro amici, si è aggiunta rapidamente la rivendicazione dei “diritti dei gay”, da intendersi anch’essi come “diritti civili” (l’omosessualità e l’omofilia delle femministe comportava la scesa in campo anche degli omosessuali).

2. Il “diritto” al libero aborto è uno pseudo-diritto, un “diritto incivile”

Il diritto ad abortire liberamente per autonoma ed insindacabile scelta della donna (“il corpo è mio e lo gestisco io”), rappresenta chiaramente una perversione del concetto del diritto. La retorica femminista lo vuol considerare un diritto civile e organizzazioni quali Amnesty International (che sarebbe da sciogliere senza indugio) tentano addirittura di presentarlo come un “diritto umano”, categoria che si vuole ancor più ampia di quella dei “diritti civili”. Il diritto ad abortire è invece un classico esempio di “diritto incivile” e quindi sinistra caricatura del diritto, primo passo verso la distruzione dell’intera nostra civiltà.
Infatti, cosa dobbiamo intendere con diritto? Si sta parlando qui del diritto inerente all’individuo, prima ancora del suo riconoscimento da parte del diritto posto dallo Stato. Ora, nell'accezione comune, quando si dice che uno ha diritto di fare una certa cosa si intende che ce l’ha, questo diritto, perché una legge glielo riconosce o perché la cosa da fare è giusta di per sé. Nel primo caso, il diritto ad agire è legittimato dalla norma dello Stato o da quella non scritta della consuetudine. Nel secondo, si legittima da se stesso perché l’azione che si vuol fare è giusta. Lo stesso dicasi per il diritto a non fare una certa cosa, ad omettere un certo comportamente senza dover essere sanzionati, come nel caso dell’obiezione di coscienza, che consiste nel rifiutarsi all’esecuzione di una direttiva manifestamente ingiusta.
E perché è giusta l’azione o l’omissione? Perché la pretesa che in essa si manifesta appare intrinsecamente giusta dal punto di vista del senso comune e della recta ratio. Per esempio: avere la mercede pattuita per il lavoro svolto; esser proprietario dei frutti del proprio lavoro; ottenere dal debitore l’adempimento dell’obbligazione da lui liberamente assunta; rifiutarsi di praticare un aborto volontario o di esserne complice da parte del medico e/o dell’ostetrica. Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Qui abbiamo una serie di diritti inerenti al soggetto (diritti soggettivi) che risultano dalla natura stessa della cosa, prima ancora che da una norma statale che la riconosca.
Secondo la tradizionale definizione di scuola, il diritto soggettivo è un potere riconosciuto al soggetto di perseguire un interesse o uno scopo. Riconosciuto da chi? Dall’ordinamento giuridico, nel nostro caso da quello dello Stato, con le sue leggi e i suoi codici. Ma su quale base l’ordinamento giuridico riconosce al soggetto un “diritto soggettivo” costituito da tutta una serie di poteri di agire; nel modo di esprimersi usuale: da tutta una serie di diritti? Evidentemente sul presupposto che i fini perseguiti dal soggetto (che è suo cittadino) siano in se stessi legittimi e non invece criminali o comunque disonesti; che siano, in altre parole, giusti e in quanto tali meritevoli di tutela.
Se quindi il diritto soggettivo (del soggetto umano in quanto tale, inerente alla sua sfera d’azione) si può rappresentare come la giusta pretesa di un soggetto nei confronti dei terzi ed anche in certi casi dello Stato – soggetti che sono quindi tenuti a soddisfare quella pretesa; giusta, altrimenti l’ordinamento giuridico non la prenderebbe in considerazione o la contemplerebbe solo per punirla; bisogna allora chiedersi: dov’ è la giustizia nella pretesa delle donne di vedersi riconosciuto il “diritto” incondizionato di abortire liberamente, come se tale diritto rientrasse nel nòvero dei “diritti civili” o addirittura di quelli “umani”?
L’aborto del feto si può giustificare – se del caso – solo quando la madre versi in grave pericolo di vita e ci si trovi effettivamene costretti a scegliere tra due vite, madre o figlio; giustificare quindi solo nel caso d’eccezione, oggi piuttosto raro. Altrimenti, esso è e resta la soppressione deliberata di una vita innocente, una forma di omicidio, un reato, sentito sempre nei secoli come tale presso tutti i popoli. È pertanto evidente che trasformare per legge un atto ex sese criminoso in un diritto del soggetto, dell’individuo, rappresenta un traviamento del vero concetto del diritto soggettivo (comunque lo si voglia oggi chiamare, civile o umano); traviamento al quale si adatta perfettamente la dizione inconsueta di diritto i n c i v i l e . Diritto di un ordinamento giuridico di segno capovolto, in realtà un anti-ordinamento, il sistema di un contro-diritto, se così posso dire; espressione di quella che Marcel De Corte chiamava società dai valori capovolti o dissociété.
Il carattere “incivile” di questo supposto “diritto” risulta anche da ulteriori considerazioni. Oltre a travestire da diritto un comportamento che costituisce un male ed un torto in sé , negando così in modo elementare le esigenze della giustizia, tale pseudo-diritto attenta in modo clamoroso al bene comune, provocando il gran numero degli aborti da esso autorizzati il depauperamento ed infine la dissoluzione biologica, etnica del popolo che li subisca. Ed infatti, vediamo tutti nella spaventosa denatalità diffusasi nell’intero Occidente e dovunque l’aborto volontario sia stato e sia legale (e quindi anche nei Paesi dell’Est europeo post-comunista), gli effetti perversi dell’esercizio di questo pseudo-diritto o contro-diritto. E la denatalità dovuta ad una causa del genere, come la vogliamo definire: fenomeno di civiltà o di inciviltà? Di progresso o di decadenza? Se è segno di progresso il lasciar sparire i popoli sotto il peso del libertinaggio più spinto, vera causa dei tanti aborti, allora anche il “diritto” ad abortire è un “diritto civile”.

3. Le “unioni civili” sono in realtà “incivili”

Lo stesso dicasi per il riconoscimento delle unioni di fatto come unioni civili, regolate cioè dalla legge dello Stato come fac-simile del matrimonio civile. Anche qui il termine “civile” non viene inteso solo in senso descrittivo, ovvero di istituto regolato da una legge dello Stato e quindi dal Codice Civile. Si proclama, del pari, che si tratta di riconoscere un “diritto civile”, che si è impegnati in una “battaglia civile” contro l’oscurantismo dei retrogradi, chierici o laici che siano, una battaglia per “i diritti civili”, anzi “per diventare finalmente un popolo civile”.
Ma valga il vero. Il diritto invocato per il riconoscimento delle convivenze di fatto non è meno incivile del “diritto” al libero aborto volontario. Lo è poi doppiamente nel caso del programmato riconoscimento delle coppie di fatto omosessuali, di gay e lesbiche, come si dice oggi.
Nel caso delle convivenze di fatto secondo natura, tra un uomo e una donna, si tratta di quelle situazioni che in passato si esprimevano soprattutto nel concetto di “ragazza madre”, dizione oggi caduta in disuso a favore di quella di “madre singola”, che meglio rappresenta le nuove e più ampie dimensioni del fenomeno. Le convivenze di fatto, con i loro figli nati fuori del matrimonio, non dovrebbero esser riconosciute da parte dello Stato, innanzitutto perché contrarie al bene comune.
Il bene comune non consiste solo di un aspetto materiale, c’è anche quello morale, etico. La sopravvivenza fisica del popolo organizzato in società con un determinato tipo di governo, il suo benessere materiale, l’equa distribuzione dei pesi comuni e insomma tutti gli aspetti materiali dell’esistenza nostra, dei quali deve occuparsi una classe dirigente nel governare uno Stato, costituiscono il bene comune nella sua accezione materiale, fisica, sottoposta alle regole della giustizia distributiva, nella quale l’interesse pubblico e il privato devono saggiamente integrarsi.
Ma anche il bene comune nella sua accezione morale o etica rientra pure nei compiti dello Stato. Come diceva Aristotele, il governante non può disinteressarsi della virtù dei cittadini o sudditi, se non vuole che l’intera civitas si corrompa e crolli. Ora, se è vero, com’è vero, che la famiglia è il fondamento della società, compito dello Stato è anche quello di garantire, per quanto spetta ad esso, la moralità necessaria alla crescita sana e virtuosa delle famiglie. Da qui la necessità di un istituto come il matrimonio, riconosciuto e protetto dal legislatore, monogamico presso i popoli civili; tutelato, oltre che negli aspetti patrimoniali e giuridici in senso stretto, anche in quelli morali, p.e. con la punizione dell’adulterio.
La fedeltà, e non solo matrimoniale, è un valore che non può non esser riverito dal vero Legislatore, proprio per il suo significato etico, accanto a quello pratico. L’istituto del matrimonio legalmente riconosciuto permette la certezza della paternità, la protezione della donna come sposa e madre di famiglia, l’assunzione delle proprie responsabilità nello stringere pubblicamente un vincolo di fedeltà ed assistenza reciproca, con il quale si limita volontariamente la propria libertà in funzione del bene superiore della famiglia e dei figli. Tutti questi aspetti hanno una grande importanza etica anche per la vita in comune. Senso di responsabilità, senso del dovere, fedeltà, spirito di sacrificio, disciplina della concupiscenza e in generale delle passioni: virtù indispensabili, che si nutrono anzitutto nella famiglia e concorrono alla prosperità spirituale e materiale della società. Esse valgono anche nella vita pubblica e sono quindi di grande importanza per il corretto e giusto esercizio dei “diritti civili” tradizionali, sopra menzionati.
Il figlio nato fuori del matrimonio godeva pertanto di minori tutele giuridiche anche se non doveva esserne privato del tutto, per spirito di carità cristiana o comunque di umanità.
Ora, si assiste da tempo nelle nostre società ad una messa da parte o reiezione del matrimonio, nonostante l’esistenza del divorzio, istituto peraltro del tutto negativo, che favorisce la dissoluzione delle famiglie e l’immoralità. C’è un discreto numero di coppie di fatto. Vivono assieme ma non vogliono assumersi la responsabilità di formali obblighi reciproci. Vogliono mantenere la propria libertà, anche solo potenziale (quando resta potenziale). Ciò è eticamente negativo e non può avere un effetto benefico sui figli. Rappresenta un movimento retrogrado, verso l’imbarbarimento dei costumi. Come ricordava Salvatore Satta, grande giurista del secolo scorso, citando Vico, le donne fanno i figli come madri, in un regolare matrimonio, non accoppiandosi liberamente come gli animali (la “Venere bestiale” di Vico, cioè quella del puro istinto animale). Invece oggi si accetta come cosa normale che tante donne, senza esser sposate, si facciano mettere in cinta come “madri singole”, restando tali o in una relazione di fatto con un c.d. partner. E che persino si vantino di questo loro comportamento, come se il metter al mondo i figli in questo modo fosse cosa lodevole e degna di imitazione e non l’ appagamento in modo sbagliato dell’istinto materno, sacrificato allo “stile di vita” che privilegia su tutto la ricerca dell’egoistica e materiale felicità individuale, all’insegna dell’indipendenza più assoluta da obblighi e doveri. Uno stile di vita che, ci informano le cronache, viene praticato già dai tempi del Liceo, essendosi diffusa la prassi delle “convivenze” di una notte o del fine settimana tra compagni e compagne di scuola, con la colpevole tolleranza dei genitori.
 Tra gli optionals dei quali si adorna la libertà delle donne “liberate dai tabù”, appare ad un certo punto (quando appare) il desiderio di avere un figlio, restando però nubili: e perché non può esser soddisfatto, in ogni caso non c’è lo Stato assistenziale che vede e provvede? Altrimenti, il debito pubblico che cosa ci sta a fare? E non soddisfarlo, questo desiderio, non vorrebbe dire discriminare?
C’è oggi il terrore (giustificato) di esser accusati di voler discriminare, se non si dà via libera alle istanze di ciascuno. Ma tale principio è usato in modo sbagliato, cioè per trattare allo stesso modo situazioni non solo diverse ma persino insanabilmente irriducibili, quali un matrimonio legittimo e una convivenza, che non è legittima proprio perché non è un matrimonio; o, peggio, il convivere legittimo nel matrimonio di un uomo e una donna e il convivere illegittimo di una coppia omosessuale. La mala applicazione sistematica del principio della discriminazione viola quel principio elementare di giustizia secondo il quale bisogna dare a ciascuno il suo, secondo le sue opere. Questo principio, secondo la Rivelazione, sarà applicato dal Cristo Giudice, quando tornerà sulla terra alla fine dei tempi, per giudicare i vivi e i morti. Quel giorno, non vi saranno né sconti né compensazioni, per nessuno.
Il diffondersi delle convivenze di fatto deriva dunque in primo luogo dal concetto di libertà oggi dominante, del tutto errato perché individualistico all’estremo, insofferente di ogni limite, sia esso posto dalla legge positiva o da quella divina e naturale; contrario pertanto al bene comune e alla morale, in particolare a quella cristiana. E anche le coppie di fatto fanno pochi figli, visto il permanere e anzi l’aggravarsi della denatalità: il loro diffondersi non fa affatto nascere più bambini.
All’interno di questa malsana idea di libertà si può individuare un’istanza utilitaristica. I benefici che in molti Paesi dell’Occidente lo Stato assistenziale offre alla “madri singole” (dai robusti sussidi mensili, all’appartamento gratis, alla macchina, e così via), invogliano molte donne a non sposarsi mai pur facendo qualche figlio, cosa che garantisce loro una comoda esistenza a spese della comunità. La maternità “singola” è in tal modo diventata una forma di parassitismo sociale di nuovo tipo.
Sulla denatalità influisce anche la forma assurda e abnorme assunta dal sistema economico, che impone anche alle donne di lavorare, come se fossero uomini. E se ogni coppia deve lavorare tutto il giorno, ed in più affrontare una situazione economica quasi sempre difficile, dove lo trova il tempo e la voglia di far figli? E quando ci sono, chi se ne prende cura, mentre i genitori lavorano? Gli asili nido, il collettivo rappresentato dalle anonime strutture assistenziali, che in tanti Stati lasciano entrare anche omosessuali e lesbiche! Uno scenario mostruoso, che tuttavia non può nascondere il fatto che la presente decadenza è in primo luogo il risultato di un rovesciamento di valori avvenuto nelle menti, a cominciare da quelle di tante e troppe donne succubi del femminismo, ben prima della presente involuzione del sistema economico in quella sua forma aberrante che è il c.d. “mercato globale” dominato dalla finanza internazionale.

4. Le “unioni civili” omosessuali sono doppiamente “incivili”

Doppiamente incivili: perché convivenze di fatto e perché omosessuali, cioè contronatura, perverse.
Chi osa oggi criticare l’omosessualità in quanto tale, viene accusato di essere omofobo, di provare cioè una paura irrazionale nei confronti di gay e lesbiche e, in conseguenza di ciò, addirittura di odiarli come persone. Un’accusa del genere sembra pensata per criminalizzare chi dissente dalla subcultura gay. Il carattere perverso che l’omosessualità ha sempre avuto agli occhi delle persone normali, non esprime né paura nei loro confronti né tantomeno odio bensì la salutare, istintiva avversione che il 95% e passa dell’umanità prova nei confronti di questo comportamento intrinsecamente contronatura, anche dal punto di vista esteriore o estetico. Come ha sottolineato il dr. van den Aardweg, non esiste una “omofobia” nel senso di odio o avversione nei confronti dell’omosessuale in quanto tale, che la mentalità comune considera più che altro un malato; esiste una “avversione” istintiva delle persone normali per il carattere intrinsecamente sozzo e bestiale degli amplessi sessuali omosessuali, maschili o femminili che siano[1].
L’accusa di “omofobia” fabbricata dai gay e colpevolmente accolta dalla sciagurata legislazione di molti Paesi occidentali, è del tutto priva di senso. Oltre a terrorizzare l’opponente, essa mira ad occultare il vero motivo dell’istintiva avversione popolare nei confronti di questa deviazione.

La campagna mediatica che da anni insiste per il riconoscimento del “matrimonio” omosessuale ha diffuso una serie di menzogne sull’omosessualità, speculando sull’ignoranza e la passività del pubblico, nonché sulla sua tendenza al sentimentalismo. La menzogna fondamentale è quella sul supposto carattere innato dell’omosessualità, come se si trattasse di una tendenza naturale, solamente di segno opposto a quella “eterosessuale”, inclinante cioè verso l’altro sesso, come natura comanda (da héteros, che in greco vuol dire altro, mentre homoîos vuol dire simile e stesso). L’errata pretesa, condensata nei noti slogan “sono nato/a così”, “se sono nato/a così, perché non devo potermi ‘sposare’ anch’io?”, afferma ovviamente di fondarsi sull’esistenza di una prova biologica che la scienza avrebbe da tempo trovato. Ma la scienza non ha trovato proprio un bel nulla. Durante gli ultimi cinquant’anni scienziati a loro volta omosessuali hanno cercato di dimostrare in tutti i modi che esiste un “gene gay” o “un cervello gay”: un “cromosoma dell’omosessualità” o comunque una conformazione cerebrale per natura “diversa”, ricavabile dall’analisi del cervello di alcuni gay morti di Aids. Ma gli studi sperimentali fatti da questi ricercatori gay hanno dato sempre risultati negativi, una volta ripetuti da altri scienziati e con diversa metodologia, come richiede la vera scienza. Il fatto è che la ricerca per trovare il “cervello gay” non è scienza ma “attivismo gay mascherato da scienza”, come ha detto giustamente qualcuno.
Persino il British Royal College of Psychiatrists, per quanto succube da anni (al pari di tante altre importanti istituzioni scientifiche e culturali) del temibile politicamente corretto gay, nell’emanare nel 2014 una Presa di posizione ufficiale sul tema, ha dovuto affermare che, allo stato attuale, per quanto riguarda la scienza, “l’omosessualità non è una variante innata della sessualità”. Il che significa, in parole povere, che non esiste in natura un “orientamento sessuale” omosessuale[2]. L’idea sbagliata che l’omosessualità sia una tendenza innata ed immutabile si è poi tradotta nel concetto di “orientamento sessuale”, adottato purtroppo anche da parecchie legislazioni, compresa quella dell’Unione Europea, per vietare le supposte “discriminazioni” dei cosiddetti “diversi”. Secondo tale concetto, in ciascun individuo vi sarebbe un “orientamento sessuale” innato, la cui tendenza, se omo o eterosessuale, sta all’individuo determinare o scoprire.
Va messo in rilievo, innanzitutto, che il concetto di “eterosessuale” contrapposto a “omosessuale”, entrato nel linguaggio scientifico e in quello comune, è tuttavia un’elaborazione della subcultura gay. Si tratta di una contrapposizione del tutto falsa. In natura esiste solo “l’eterosessualità” cioè l’attrazione normale tra il maschio e la femmina, sempre connessa all’esigenza della riproduzione della specie. Ogni altra forma di “sessualità” rappresenta una deviazione dalla norma, una patologia che può aver luogo per le cause più diverse. La contrapposizione “etero” e “omo”, come di due tendenze naturali aventi pari dignità, è del tutto artificiosa e non corrisponde alla natura delle cose.

5. Il c.d. “orientamento sessuale” omosessuale non esiste in natura

La conferma di quanto detto si ha nel fatto che il concetto di “orientamento sessuale”, entrato nell’uso grazie ai media e che si vuol credere come vero e proprio dogma, è in realtà del tutto privo di qualsiasi valore scientifico. Non lo dicono solo la recta ratio e il senso comune: l’ha riaffermato di recente un luminare della scienza, il prof. Paul McHugh, statunitense, emerito di psichiatria della Facoltà di Medicina della Johns Hopkins University. È privo di qualsiasi valore scientifico per il semplice motivo che la scienza non è riuscita e non riesce in alcun modo a darne una definizione valida e coerente. Da tutti gli studi scientifici più seri risulta che il c.d. “orientamento sessuale” non è affatto immutabile bensì fluido e mutevole. Se muta, allora non è nemmeno innato, ragion per cui la tesi gay di un “orientamento omosessuale” innato e immodificabile crolla completamente.
Scrive il prof. McHugh: “l’individualizzabilità necessaria a costituire una classe ben definita richiede come minimo che un gruppo o un tratto sia chiaramente definito. Ciò non è possibile per l’orientamento sessuale. Una rassegna degli studi scientifici sul tema dimostra che non vi è consenso tra gli studiosi su come definire l’orientamento sessuale, sicché le varie definizioni proposte dagli esperti danno in sostanza vita a classi diverse. Mentre la razza e il sesso sono ben definiti e capiti come tali, nonostante la credenza popolare in contrario l’orientamento sessuale rimane una classificazione contestata e indeterminata”. Ragion per cui “checché ne pensi la credenza popolare, non c’è studio confermato che dimostri esser l’orientamento sessuale determinato dalla nascita. Gli studi giungono invece alla conclusione che tale orientamento è influenzato da fattori complessi e imprevedibili”. In conclusione: “gli studiosi non ne sanno abbastanza per stabilire cos’è l’orientamento sessuale, che cosa lo produce e come e perché a volte muti”[3].
E perché non ne sanno abbastanza? Il fatto è che le tre categorie unanimemente accettate come indispensabili per individuare l’orientamento sessuale omosessuale “sembrano raramente presenti in un’unica persona”. Esse sono: “chi pratica un comportamento omosessuale (comportamento); chi ha fantasie erotiche di questo tipo (attrazione); chi si identifica come gay o lesbica (identità)”. Ora, la Chicago Sex Survey, “considerata una delle più serie sul comportamento sessuale degli Americani, stabilisce che, nella porzione della popolazione esibente almeno uno dei tre tratti sopra elencati, solo il 15% delle donne e il 24% degli uomini li mostrava tutti e tre”[4].
 Questa incertezza nell’individuazione della supposta categoria “orientamento sessuale” deriva evidentemente anche dal fatto che tale “orientamento” non può considerarsi in nessun modo immutabile dalla nascita. Infatti, continua la Lettera, diversi studiosi sono giunti alla conclusione che “i fattori genetici hanno un’influenza piccola o del tutto nulla sull’orientamento sessuale”; anzi, “ci sono sostanziali prove indirette sull’influenza di un modello sociale [è il “fattore ambientale” di cui sopra] nei riguardi degli individui coinvolti”, essendo state “rilevate forti correlazioni tra l’orientamento sessuale e fattori esterni quali la situazione familiare, l’ambiente, le condizioni sociali, elementi tutti l’azione dei quali è impossibile a spiegarsi solo con le teorie dell’origine biologica”[5].
La verità è che una molteplicità di studi ha dimostrato che l’orientamento sessuale muta. Infatti, precisa il prof. McHugh, “si nota nella società la presenza di un “bisessualismo” sempre più diffuso. Si è potuto dimostrare che il 50% di appartenenti ad una “minoranza sessuale” come gli omosessuali (che sarebbero il 3.5 % della popolazione statunitense, ma l.8% di loro si considera “bisessuale”), “una volta abbandonata la loro identità eterosessuale, abbiano cambiato l’etichetta della loro identità più di una volta. Tale elasticità si nota soprattutto nelle donne”[6]. Quest’affermazione si basa sui risultati di una ricerca compiuta su un campione di trenta donne di mezz’età, “che avevano speso metà della loro vita come eterosessuali, si erano sposate, avevano avuto figli, per poi darsi al lesbismo una volta raggiunta la mezz’età. Alcune di loro spiegarono il loro lesbismo come risultato di un processo di scoperta di se stesse. Ma un altro gruppo considerava la loro mutazione più che altro come una semplice scelta tra l’esser lesbica o bisessuale, casta o eterosessuale”[7]. Tutto lo stesso, a quanto pare, dal punto di vista della libera scelta!
Tutto questo variegato putridume dimostra comunque l’assenza di una componente “biologica”, innata, nell’omosessualità. Da dove provenivano la c.d. “bisessualità” di tutte queste donne ed anche la loro tardiva “scoperta” del culto di Saffo, se non dal “modello sociale” rappresentato dalla generale corruzione dei costumi ovvero dall’influenza del modo sempre più depravato di vivere (bisogna pur chiamar le cose con il loro nome) che caratterizza ormai da troppo tempo le nostre società, nelle quali sembra essersi completamente smarrito il senso del peccato e si mette tutto sullo stesso piano?

6. Anche la “transessualità” è un’invenzione

Oggi non si parla solo di “diritti” degli omosessuali, di ambo i sessi, cioè gay e lesbiche, ma anche di quelli dei “bisessuali”, per i quali “l’orientamento”, come si è visto, sarebbe – vedi un po’ - indifferentemente secondo natura e contro natura, e senza escludere i c.d. “transessuali”, ultima lettera dell’ormai sinistramente famosa sigla LGBT. I “diritti” garantiti ai primi due si sono estesi, in tutto o in parte, o dovrebbero ovviamente estendersi anche ai secondi due. Credo che la gente comune non riesca a comprendere bene che cosa voglia dire “transessuale”. In effetti si tratta di una mistificazione. Si ha a che fare con persone che dicono di sentirsi psicologicamente non a proprio agio nel sesso nel quale madre natura li ha posti facendoli venire in questo mondo: maschi che si sentono femmine e viceversa. Ragion per cui vogliono cambiare la natura del proprio corpo con l’aiuto della chirurgia e passare nel sesso opposto. Così anche il corpo si adeguerebbe all’immagine che essi hanno di sé. Invece di esser liquidata con qualche urlaccio, tale pazzesca pretesa ha trovato la complicità iniziale di medici non degni di questo nome e oggi il “transessualismo” si è diffuso a macchia d’olio nelle nostre società, soprattutto nell’America del Nord, alimentando, com’era da aspettarsi, un business miliardario. Ma, come ho detto, si tratta dell’ennesima mistificazione: l’individuo transgender non esiste e nessuno può effettivamente cambiare sesso. Il transgenderism è una forma di depravazione a sfondo omosessuale, che dimostra ulteriormente come l’omosessualità non abbia un’origine nella natura umana in quanto tale ma sia il frutto di un sentire malato e/o vizioso.
Lascio ancora la parola alla prosa chiara ed illuminante del prof. Paul McHugh. Oltre che professore universitario per quarant’anni egli è stato per ventisei Primario del reparto psichiatrico dell’Ospedale della Johns Hopkins University, cosa che gli ha permesso di “osservare scientificamente persone che affermavano di essere dei transessuali”. All’inizio erano solo uomini, sia omosessuali che eterosessuali, alcuni dei quali volevano esser operati perché “si eccitavano eroticamente all’immagine di se stessi come donne”. Il fenomeno ha poi cominciato a coinvolgere le donne. Negli ultimi quindici anni “è cresciuto in modo esponenziale” tanto che adolescenti maschi e femmine “hanno cominciato a presentarsi come appartenenti al sesso opposto” rispetto a quello nel quale erano nati. Per questi adolescenti la motivazione non sarebbe erotica; sarebbero al contrario “spinti da una varietà di conflitti e preoccupazioni giovanili di natura psicosociale”[8].
Ha dunque preso piede l’idea bislacca secondo la quale il sesso sarebbe appunto “una scelta”, dipendente dall’individuo, “una disposizione o un modo di sentire più che un fatto naturale [a fact of nature]. In tal modo, lo si concepisce come una realtà fluttuante, che può cambiare ogni momento per qualsivoglia ragione”[9]. Ora, afferma con estrema chiarezza e decisione il prof. McHugh, “l’idea che sia possibile cambiare sesso è del tutto falsa. Gli uomini transessuali non diventano donne né le donne transessuali diventano uomini. Diventano tutti uomini femminizzati [feminized] o donne mascolinizzate [masculinized]. La loro è una contraffazione poiché in realtà essi non fanno altro che imitare il sesso nel quale ‘si identificano’”[10].
In Isvezia, a quanto pare finora il paese più accogliente al mondo per i transessuali, si è scoperto che la percentuale di suicidi fra di essi, in genere tra i dieci-quindici anni dopo la “ristrutturazione chirurgica” del loro corpo, è “superiore di venti volte a quella dei loro coetanei [non transessuali]”[11]. L’unico modo corretto di affrontare questa deviazione, conclude il prof. McHugh, è costituito dalla psicoterapia, anche “di gruppo”, non dalla chirurgia. Bisogna convincere i transessuali, guarirli dal loro grave errore, quello di credere che il sesso non sia un fatto biologico ma solo un modo di sentire individuale, a piacere. “Il transessualismo – o gender dysphoria in termini tecnici – è un fatto psicologico non biologico”. Con gli adolescenti, “il metodo migliore sarebbe quello di una cura nell’ambito della famiglia [family therapy]”[12].
Bisogna lottare contro questo tragico fenomeno, costruitosi su “un’opinione priva di qualsiasi fondamento”, afferma l’illustre e coraggioso accademico, precisando tuttavia che si tratta comunque di un “compito improbo”, richiedente un coraggio prossimo all’eroismo. Per due motivi. Il “transessualismo” è diventato un vero e proprio feticcio che gode ormai di un culto di massa, nutrito dai media e fonte di un pingue business, nell’indifferenza più totale per i gravi danni che provoca a chi ne soffre, a cominciare da adolescenti e famiglie. Inoltre, molti Governi si oppongono a qualsiasi forma di cura di questo disturbo della mente. Particolarmente grave è la situazione negli Stati Uniti, dove singoli Stati e il Governo Federali ostacolano le c.d. conversion therapies[13]. Quest’ultime sono appunto quelle della psicologia, della psichiatria, della psicoanalisi (intesa come scienza non come freudismo più o meno d’accatto), impiegate con successo – annoto – anche dal dr. van den Aardweg nella cura dell’omosessualità. E difatti, dopo che i gruppi di pressione gay sono riusciti a farla togliere dall’elenco ufficiale delle patologie, tante Autorità osteggiano anche la cura dell’omosessualità.






7. Approvare il ddl Cirinnà significa legittimare l’impostura e tradire l’insegnamento di Cristo

Dalla verità sull’omosessualità inequivocabilmente illustrata dall’autentica scienza, cosa risulta per ciò che riguarda il “disegno di legge Cirinnà”? Una sola cosa, risulta: che deve esser ritirato immediatamente o fatto naufragare in Parlamento, anche a costo di una crisi di governo. È in ballo la sopravvivenza stessa della nostra società, del popolo italiano, dell’intera nostra tradizione e civiltà, già ferite e lesionate in molti modi dalla corruzione dei costumi dilagante, della quale l’omosessualismo sembra diventato la punta di lancia. Approvare quel “disegno”, anche in una forma edulcorata, significherebbe accettare le menzogne sulle quali è costruito, ripetutamente demolite dalla scienza, quella vera, non quella fabbricata dai media e dalla subcultura gay. E favorire l’assalto scatenato dall’attivismo gay contro l’istituzione del matrimonio in quanto tale, che si vuole distruggere. Come ha detto un loro noto attivista nordamericano, di nome Michelangelo Signorile: “Combattere per il matrimonio tra persone dello stesso sesso e per i suoi privilegi e poi, una volta che esso sia stato concesso, ridefinire completamente l’istituzione del matrimonio, rivendicare il diritto di sposarsi non come mezzo per aderire ai codici morali della società bensì per sfatare un mito e alterare radicalmente un’istituzione arcaica”[14].
A chi, poi, si dice cattolico, bisogna ricordare l’insegnamento esplicito di Nostro Signore. Non è vero quello che si sente ripetere da un po’ di tempo, e che costituisce l’ennesima menzogna propalata dai nemici di Cristo e della nostra civiltà, che, nonostante la presente distretta, resta ancora fondata sul cristianesimo: e cioè che il Signore non avrebbe mai parlato dell’omosessualità e pertanto non l’avrebbe mai condannata. La condanna della stessa si troverebbe “solo” nelle Lettere degli Apostoli: Rm 1, 24-32; 1 Cr 6, 9-11; 2 Pt 2, 6-11. Nostro Signore ha fatto esplicito riferimento per ben tre volte in modo diretto alla condanna di Sodoma e Gomorra come condanna esemplare del peccato, che Egli evidentemente condivideva. Nel riferirsi al rigetto del Verbo da Lui predicato, alla mancanza di fede degli Ebrei, egli disse che le città che rifiutavano gli Apostoli e quelle che avevano rifiutato Lui personalmente, il giorno del Giudizio sarebbero state trattate peggio di Sodoma e Gomorra, il che voleva dire: peggio del peggio che si possa immaginare, in quanto a peccato di superbia e ribellione contro Dio e i suoi Comandamenti : Mt 10,15; 11, 21-24; Lc 10, 12-15 luogo parallelo; Lc 17, 26-29: “…compravano e vendevano, piantavano e costruivano, ma il giorno in cui Lot uscì da Sodoma, Dio fece piovere fuoco e zolfo dal cielo e fece perire tutti”.
Nel portare la distruzione delle due disgraziate città ad esempio di un peccato giustamente punito, Egli condannava del pari il peccato per il quale furono punite, se la logica è logica. Presso gli antichi Israeliti, Sodoma rappresentava il tipo stesso della corruzione dei costumi della quale era capace il mondo pagano e la sua improvvisa distruzione un esempio classico di attuazione della divina giustizia, che punì senza remissione la superbia di chi – un’intera società – si compiaceva di “fare ciò ch’è abominevole di fronte a Me, e per questo Io li distrussi” (Ez 16, 48-50). I riferimenti di Nostro Signore a Sodoma sono perfettamente in linea con questa tradizione.
 Dall’insegnamento del Vangelo qui riportato, questo si deduce con assoluta chiarezza: tutti coloro che voteranno a favore del ddl Cirinnà, anche ritoccato, avranno votato per la loro eterna dannazione.


Paolo Pasqualucci (5 febbraio 2016)




[1] Vedi l’ultimo saggio del celebre psicologo Gerard M.J. van den Aardweg, Science says NO. The Gay ‘Marriage’ Deception, Lumen Fidei Press, 2015, cap. 8: Not Homophobia but Homo-Aversion. Si tratta di reazioni normali nei confronti di “atti umani sgradevoli. Essi vengono avvertiti a livello emotivo esattamente come la percezione del sudiciume o della sporcizia e sono pertanto descritti con le stesse parole. Si tratta di riflessi istintivi e appropriati, che hanno la funzione di mettere in guardia contro quanto è impuro e che possono proteggere la gente da comportamenti non igienici o da situazioni che minacciano la loro salute fisica e morale” (op. cit., cap. cit.). A questo proposito ricordo una celebre pagina di Proust, nella quale il protagonista descrive con l’udito il concùbito del corrotto barone di Charlus e del sarto Jupien nella stanza vicina: A la recherche du temps perdu, tome IV, Le coté de Guermantes II – Sodome et Gomorrhe, I, Gallimard, Paris, 1921, p. 262.
[2] Vedi: Gerard M.J. van den Aardweg, op. cit., p. 9. L’Autore così continua: la Presa di posizione ritiene che che l’omosessualità sia causata da “una combinazione di fattori biologici (fisici) e ambientali. Tuttavia essa non indica quali siano tali fattori fisici e ambientali, quindi la spiegazione proposta rimane una vaga intuizione senza fondamento scientifico”. Pur costretto a negare il carattere innato dell’omosessualità, il documento britannico sembra ignorare, sottolinea l’Autore, l’ampia mole di studi che ha dimostrato l’inesistenza di fattori biologici nell’omosessualità mentre abbondano le prove riguardanti “i fattori ambientali” (op. cit., ivi). L’ottantenne dr. van den Aardweg, sposato con sette figli, cattolico di tendenza “conservatrice”, è psicologo di fama internazionale, specializzato nella cura delle “persone omosessuali” con gli strumenti della psicologia, psichiatria, psicoanalisi. Egli ritiene giustamente l’omosessualità soprattutto una deviazione di origine nevrotica e quindi guaribile. In questo suo recente, lucidissimo saggio, argomenta di nuovo e ampiamente la sua tesi con una vasta documentazione. Una condanna recisa della pseudo-scienza che pretende di aver scoperto il “cervello gay”, troviamo anche in tutt’altra personalità scientifica, il celebre neuroscienziato inglese Steven Rose, ebreo ateo dichiarato e militante, di tendenze liberal radicali. Vedi il suo noto testo divulgativo: Lifeline. Life Beyond the Gene, 1997, ediz. inter. riveduta, Vintage, London, 2005, pp. 210-211; pp. 288-290: le ricerche per trovare il “cervello gay” sono solo “congetture”, persino imbarazzanti nella misura in cui rivelano le tendenze morbose di chi le formula. Esse non hanno nulla a che vedere con la scienza. Dagli interventi di questi Autori così diversi si conclude che la verità è una sola: dal punto di vista biologico non v’è differenza alcuna tra il cervello degli omosessuali e delle persone normali, che sono più del 95% della popolazione. Tutti gli scienziati lo sanno bene.
[3] Paul McHugh, Brief Amicus of Dr. Paul McHugh in Support of Respondents, Cockle Law Brief Printing Co., diffusa in rete a cura della American Bar Association www.supremecourtpreview.org. pp. 29; pp. 2-3. Si tratta di una Lettera che, come opinione indipendente di un amicus curiae o “amico del tribunale”, la prassi costituzionale nordamericana permette di indirizzare ai giudici della Corte Suprema degli Stati Uniti per illustrare questioni in discussione che appaiano dubbiose. Tale lettera fu indirizzata dall’eminente psichiatra il 3 aprile 2015 per argomentare a difesa dei “respondents” ossia dei Governatori del Tennessee, del Michigan, del Kentucky, convenuti in giudizio (respondents) dai gay presso la Corte, per via del loro rifiuto a riconoscere il “matrimonio omosessuale” nei loro Stati. Sulla base dei dati scientifici più sicuri e consolidati, il prof. McHugh invitava la Corte a respingere l’istanza della lobby omosessuale. Purtroppo, come è noto, il 26 giugno 2015 la Corte aprì le porte alla barbarie, con 5 voti contro 4, rendendo obbligatorio il riconoscimento del “matrimonio gay” in tutta l’Unione. L’apporto decisivo fu delle tre donne della Corte, che votarono tutte pro-gay: due ebree notoriamente liberal e omofile, e una cattolica progressista, di origine portoricana, rappresentanti di quel sinistro “partito trasversale delle donne” all’opera in tutte le istituzioni dell’Occidente, che ci sta imponendo a tappe forzate il devastante programma femminista e omosessualista, grazie alla colpevole tolleranza di cui gode. I quattro giudici che votarono contro erano tutti cattolici, di taglio “conservatore”.
[4] Op. cit., pp. 9-11. Vedi anche p. 21.
[5] Op. cit., pp. 15-17.
[6] Op. cit., p. 21. Le stime di questi complessi studi statistico-sociologici provengono da un noto Istituto specializzato dell’Università della California (UCLA) e sono frutto della media effettuata su cinque recenti studi sulla popolazione nordamericana (op. cit., p. 26).
[7] Op. cit., p. 27. La “castità” va qui intesa nel senso puramente descrittivo di “smettere di far sesso”, di qualunque tipo.
[8] P. McHugh, Transgenderism: a pathogene meme. Gender dysphoria should be treated with psychotherapy, not surgery, www.mercatornet.com/articles/view/transgenderism-a-pathogenic-meme, 18 giugno 2015, di tre pagine, citazioni a pp. 1-2.
[9] Op. cit., p. 1.
[10] Op. cit., p. 2.
[11] Op. cit., ivi
[12] Op. cit., p. 3.
[13] Op. cit., ivi.
[14] Citato da G. van den Aardweg, op. cit., cap. 5: The Fairy Tale of the Stable, Loving Gay ‘Marriage’.

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