domenica 21 febbraio 2016

La S. Sindone e le intuizioni mistiche di Maria Valtorta (recensione di Emilio Biagini)

CERRI V. (2015) La S. Sindone e le intuizioni mistiche di Maria Valtorta, con supplemento di Ugo Bertolami, Isola del Liri, CEV (pubbl. la 1a volta 1978 con imprimatur ecclesiastico)

Un’opera che si occupa degli Scritti valtortiani in modo positivo e riceve l’imprimatur ecclesiastico è forse un piccolo segno che qualcosa si muove in direzione di un atteggiamento meno arcigno della gerarchia verso la Valtorta? Probabilmente no, anche perché un singolo vescovo ben disposto non rappresenta una gerarchia sorda e in tutt’altre faccende affacendata. L’imprimatur, poi, è vecchio, e da allora nulla si è più mosso. Anzi, la posizione ufficiale  sembra essere tuttora quella di “permettere” ai fedeli di leggere la Valtorta purché non la ritengano opera ispirata, il che equivale a dire che doveva essere una bugiarda o una pazza, dal momento che lei, nel modo più reciso e solenne, afferma esattamente il contrario.
Neppure è servito che le fossero favorevoli lo stesso papa Pio XII e autorevoli prelati come il grande e santo cardinale Siri. Il 25 ottobre 1948 il Santo Padre aveva consigliato una più sicura approvazione per salvaguardare l’opera da insidie future; era stato interpellato il vescovo di Sora, Costantino Barneschi, Vicario apostolico dello Swaziland, il quale aveva già concesso l’imprimatur ad un opuscoletto dal titolo Parole di vita eterna che presentava un breve stralcio dell’Opera. Non è vero quindi che agli Scritti manchi del tutto l’imprimatur: una parte, sia pur piccola, lo ha ricevuto. Il 29 novembre, quando le rotative stavano per mettersi in moto, il Santo Uffizio fece chiamare il Padre Procuratore Generale dell’Ordine dei Servi di Maria e gli intimò di imporre a Padre Berti e Padre Migliorini di non occuparsi più dell’opera se non volevano essere colpiti dai decreti del Santo Uffizio stesso per aver abusivamente carpito l’approvazione di Monsignor Barneschi, contrariamente alle norme del diritto canonico perché detto Monsignore non è il vescovo della casa editrice né dell’autore “e soprattutto perché è il vescovo degli zulu”.
I nuovi farisei, fra l’altro, confondendo gli swazi con gli zulu, avevano fatto qualcosa come confondere i belgi con i tedeschi. L’invidia (perché sarebbe stata scelta una misera donnàcola e non Io?) e l’orgoglio (come si permette di dire che i suoi Scritti sarebbero dati per sostituire i troppi pulpiti vuoti o male occupati?) davano fuoco alla persecuzione scatenata dai gerarchi, dimentichi dei detti evangelici “chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti” (Marco 10, 43-44) e “ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli” (Matteo 11, 25).
Ed ecco un esempio di sapienti ed intelligenti della gerarchia all’opera. Quando venne proposto di datare la Sindone col metodo del radiocarbonio l’arcivescovo di Torino Anastasio Ballestrero si affidò nel 1988 a tre laboratori di paesi protestanti, massonici e ultralaicisti, a Oxford, Tucson e Ginevra, con i risultati disastrosamente falsi ben documentati da Emanuela Marinelli & Marco Fasol (Luce dal sepolcro, Verone, Fede & Cultura, 2015). Prontamente venne la resa dell’arcivescovo stesso che, contro ogni evidenza, definì la Sindone una semplice “icona”. La teoria dell’icona, formulata in ambienti laicisti, è infatti assolutamente screditata: il Telo non reca tracce di colori, è impresso su un solo lato (mentre nei dipinti il colore penetra arrivando dall’altra parte), ha invece macchie di sangue (precisamente del raro gruppo AB, che è frequente soltanto nel Medio Oriente), le immagini vi si distinguono solo ad almeno tre metri di distanza, e quale artista lavorerebbe ad una così assurda distanza dalla tela?


Nonostante ciò, il danno è ormai fatto, perché i laicisti hanno comunque qualcosa a cui attaccarsi. Sugli autori dell’“indagine” piovvero lodi sperticate e finanziamenti di milioni di dollari da parte di ben noti circoli massonici. Cominciarono ad apparire, specie in Gran Bretagna, libercoli schiamazzanti di “mafia della Sindone” e di “divino imbroglio”. La scarsissima attendibilità che spesso accompagna le datazioni al radiocarbonio (a un corno per bere di età vichinga è stata attribuita una data nel futuro, all’inizio del terzo millennio; una chiocciola appena morta è stata datata a cinquemila anni addietro), e il fatto che i risultati dei “carbonisti” fossero in totale contrasto con tutti i risultati delle ricerche precedenti (inclusa la scoperta delle impronte di monete dell’età di Ponzio Pilato e delle tracce della scritta col nome, in greco, del condannato, “Gesù di Nazareth”, vedi Maria Grazia Siliato, Sindone: mistero dell'impronta di duemila anni fa, Casale Monferrato, Piemme, 1997) non venne neppure preso in considerazione dai potenti mass media controllati dalla massoneria. Al pomposo Museo della Scienza di Londra, un’intera vetrina dedicata alla datazione al radiocarbonio porta come unico esempio dei “successi” di tale tecnica, la datazione “medioevale” della Sindone.
Il Cerri pubblicò i risultati della sua pluridecennale ricerca tre anni prima dello scandalo del radiocarbonio e delle importanti ricerche successive, su cui danno conto Marinelli e Fasol, citati sopra. Tuttavia lo studio del venerando sacerdote, morto nel 2011 all’età di novantasette anni, Prelato d’Onore di Sua Santità dal 1979, è tuttora di notevole interesse per le profonde osservazioni che presenta e per essere l’unico studioso a mettere costantemente a confronto la Sindone con gli Scritti valtortiani.
Sulla venerabile reliquia la Valtorta scrive (Quaderni del 1943, dettato del 22 luglio):

Dice Gesù: “Potete voi dire che io non ho amato questa terra dove ho portato le reliquie della mia vita e della mia morte: la casa di Nazaret dove venni concepito in un abbraccio di luminoso ardore tra il Divino Spirito e la Vergine, e la Sindone dove il sudore della mia morte ha impresso il segno del mio dolore, sofferto per l’umanità?”

E più tardi ribadisce (Quaderni del 1943, dettato del 23 ottobre):

Dice Gesù: “O Italia, Italia alla quale tanto ho dato e che mi hai dimenticato e hai dimenticato i miei benefizi! E da quel Piemonte, dove è una testimonianza di Dio non inferiore a quella del Tabernacolo mosaico – perché se in esso erano due tavole scritte dal profeta di Dio, qui vi è la storia della mia Passione scritta con inchiostro di Sangue divino sul lino che la pietà offerse ad avvolgere la mia nudità di Immolato (…)”

Ne L’Evangelo come mi è stato rivelato (609.12) la grande veggente sottolinea:

Il Volto ha già l’aspetto che vediamo nelle fotografie della Sindone, col naso deviato e gonfio da una parte (…)

Il sanguinoso e divino messaggio della Sindone e il Divino Maestro che dettò le Sue pagine sublimi a Maria Valtorta non possono non confermarsi a vicenda. Sono entrambi documenti della Passione, Morte e Risurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo, e come tali a loro volta confermano in pieno il racconto dei Vangeli canonici, i quali sono l’insostituibile pilastro della Verità cristiana e più specialmente cattolica.
All’inizio della Passione, nell’orto del Getsemani Nostro Signore soffrì in modo tanto atroce per l’abbandono del Padre (conseguenza dell’essersi caricato di tutti i nostri peccati, consacrandosi così alla Giustizia come anima vittima) da essere colpito da ematoidrosi: un’intensa vasodilatazione dei capillari cutanei che si rompono a contatto del cul di sacco delle ghiandole sudoripare, inondando la pelle di sangue (dettato del 6 luglio 1944, corsivo nel testo):

Mi hai chiesto: “Quante sono le agonie del Getsemani che mi dai?”
Oh! tante! Non per piacere di tormentarti. Unicamente per bontà di Maestro e Sposo. Non potrei su te, piccola sposa, abbattere tutto insieme il cumulo di desolazione che mi accasciò quella sera e che nessuno intuì, che nessuno comprese fuorché mia Madre e il mio Angelo. Ne morresti pazza. E allora ti dò adesso un briciolo, domani un altro, di modo da farti gustare tutto il mio cibo e di ottenere dal tuo soffrire il massimo di amore di compassione per il tuo dolente Sposo e di redenzione per i tuoi fratelli. Ecco perché ti dò tante ore di Getsemani. Uniscile e, come il mosaicista unendo le tessere piano piano vede formarsi il quadro completo, tu, riunendo nel tuo pensiero il ricordo delle diverse ore, vedrai l’Agonia vera del tuo Signore.
Rifletti come ti amo. La prima volta ti ho dato soltanto la vista della mia smania fisica. E tu, soltanto per vedermi col Volto stravolto, andare e venire, alzare le braccia, torcermi le mani, piangere e abbattermi, ne hai avuta tanta pena che per poco non mi moristi.
Ti ho presentato quella tortura visibile più e più volte sinché l’hai conosciuta e l’hai potuta sopportare. Poi, volta per volta, ti ho svelato le mie tristezze. Le mie tristezze di uomo. Tutte le passioni dell’uomo si sono drizzate come serpi irritate, fischiando i loro diritti d’essere, ed Io le ho dovute strozzare una per una per esser libero di salire il mio Calvario.
(…)
Ed ero solo. Cioè: ero con Satana.
La prima parte dell’orazione era stata penosa, ma ancora potevo sentire lo sguardo di Dio e sperare nell’amore degli amici. La seconda fu più penosa perché Dio si ritirava e gli amici dormivano. Riconfermavano il sibilo di Satana e la voce della vita’. “Ti sacrifichi per nulla. Gli uomini non ti ameranno per il tuo sacrificio. Gli uomini non comprendono” .
La terza... la terza fu la demenza, fu la disperazione, fu l’agonia, fu la morte. La morte dell’anima mia. Non è risorto soltanto il corpo mio. Anche la mia anima ha dovuto risorgere. Poiché conobbe la Morte.
Non vi paia eresia. Cosa è la morte dello spirito’? La separazione eterna da Dio. Ebbene: Io ero separato da Dio. Il mio spirito era morto. È la vera ora di eternità che Io concedo ai miei prediletti. Quella che tu, piccola sposa, ti sei chiesta che fosse da quando ti hanno detto che tu hai sorte simile a Veronica Giuliani, che al termine della esistenza conobbe questo strazio superiore a tutti gli strazi sovrumani.
Noi conosciamo la morte dello spirito, senza averla meritata, per comprendere l’orrore della dannazione che è tormento dei peccatori impenitenti. La conosciamo per ottenere di salvarli. Lo so. Il cuore si spezza. Lo so. La ragione vacilla. So tutto, anima diletta. L’ho provato prima di te. È l’orrore infernale. Siamo in balia del Demonio poiché siamo separati da Dio.
(…)
“Ho risposto... Maria, ho risposto radunando le forze, bevendo pianto e sangue che colavano dagli occhi e dai pori, ho risposto: ‘Non ho più madre. Non ho più vita. Non ho più divinità. Non ho più missione. Nulla ho più. Fuorché fare la Volontà del Signore mio Dio. Va’ indietro, Satana! L’ho detto la prima e la seconda volta. Lo ridico per la terza: “Padre, se è possibile passi da Me questo calice. Ma però non la mia: la tua Volontà sia fatta’. Va’ indietro, Satana. Io son di Dio!’”
Maria, ho risposto cosi... E il Cuore si è franto nello sforzo. Il sudore è divenuto non più stille, ma rivoli di sangue. (…)

Tanto sangue potrebbe aver bagnato anche la Sindone, ma poi sarebbe stato dilavato dal sudore e assorbito dalla veste durante le successive fasi della Passione.
Nella flagellazione hanno lasciato tracce solo quei colpi di flagrum che hanno prodotto un’escoriazione o una piaga contusa, per cui probabilmente Gesù ricevette molti più colpi di quanto non ne risultino dal sacro Telo, in cui comunque ne appaiono moltissimi. Gesù dovette essere legato in posizione eretta come scrive la Valtorta. In posizione curva su una colonna bassa, i carnefici non avrebbero potuto colpirlo sul davanti come risulta chiaramente dalla Sindone.
Sulla corona di spine si è molto discusso, ma dagli scarsi segni di spine impressi sulla Sindone pare si trattasse di un semplice cordone spinoso ripiegato a cerchio, non di una calotta né di una cuffia o di un fascio. La visione di Maria Valtorta, in pieno accordo con la Sindone e con l’iconografia tradizionale. Gesù portò la corona durante l’ascesa al Calvario: il braccio verticale della croce premeva sulla corona di spine, causando rigagnoletti di sangue nitidamente impressi sul Telo.
Com’era la croce? Non vi era una struttura e una pratica d’impiego unica e immutabile. La croce poteva essere divisa in due travi (verticale o stipes, lasciata in permanenza sul luogo destinato alle esecuzioni, e orizzontale o patibulum, portata dal condannato); o poteva essere intera e completa, a forma di T (commissa) o a croce latina (capitata); o anche ad “X” (croce di Sant’Andrea); a volte il condannato veniva inchiodato al solo palo verticale; una croce più alta del solito poteva essere usata quando si voleva dare maggior rilievo al supplizio, come appunto fu fatto per Gesù. Data la difficile situazione in Palestina appare improbabile che si volesse lasciare le travi verticali continuamente in piena vista, un segno della potenza romana che avrebbero eccitato gli spiriti già ribollenti degli zeloti. Assai più verosimile è quindi che le croci venissero portate intere e infisse in fori appositamente preparati e riempiti di pietre, che venivano tolte quando necessario. Ed è proprio questo che la Valtorta vide e descrisse. Pure in tutti gli altri dettagli, le conoscenze storiche, i Vangeli canonici e le visioni valtortiane sono in pieno accordo. Anche il particolare dello straccio fornito ai condannati per coprire le parti intime è segno di adattamento degli usi romani alla “pudicizia” dei giudei. La Valtorta scrive che la Madonna diede al Figlio il suo velo perché non si cingesse con uno straccio come gli altri condannati.
Nel caso di Gesù, doveva trattarsi di una croce “capitata”, altrimenti non si sarebbe potuto inchiodare sopra il capo di Lui la scritta col motivo della sentenza (titulus). A favore della descrizione fornita dalla Valtorta stanno i seguenti fatti: 1) non dice nulla che contraddica il Vangelo; 2) l’espressione di Giovanni “bajulans sibi crucem” contraddice l’ipotesi del Ricci secondo cui avrebbero legato Gesù il solo patibulum; 3) è conforme alla tradizione cristiana che ha sempre visto Gesù carico della croce intera; 4) la croce, per quanto pesante, poteva essere portata da una sola persona perché il braccio verticale posava per terra e veniva più trascinata che portata di peso; 5) le valutazioni dello spessore della croce in base alla piaga che si riscontra su spalla tendono ad essere esagerate perché quell’impronta è costituita verosimilmente da alcune ferite della flagellazione allargate e confuse per sfregamento e non corrisponde al reale spessore della trave; 6) i modi per costringere condannati a portare la croce e crocifiggere erano diversi da luogo a luogo; 7) le tre cadute di Gesù sulla via del Calvario potevano essere causate da debolezza e dal peso della croce intera senza ricorrere alle legature descritte dal Ricci; 8) se Cristo avesse portato il solo patibulum si sarebbero dovute trovare impronte sulla colonna vertebrale che invece non ci sono; 9) la maggior parte dei sindonologi ed esegeti concordano nel ritenere che i piedi di Gesù distassero dal suolo circa un metro, è ciò è conforme all’altezza della croce di Gesù stimata dalla Valtorta in quattro metri.
Come già osservato, l’esecuzione non era un rito immutabile. È assai probabile che gli altri due crocifissi fossero fissati con corde. Durante le tre ore di agonia, sottoposto alla continua tortura dei nervi mediani lesi dai chiodi, Gesù non poté che pronunciare poche parole, quando riusciva a sollevarsi per respirare, sforzandosi sul chiodo dei piedi e su quelli delle mani, mentre gli altri due crocifissi, essendo soltanto legati, poterono parlare liberamente e a lungo. Ecco perché durarono più a lungo, e inoltre erano inebetiti dal beveraggio anestetico di vino e mirra, e anche questo dovette conferire loro maggior resistenza. Fu necessario eseguire su di loro il crucifragium, ossia lo spezzamento delle gambe; tuttavia avrebbero potuto continuare a respirare anche così e il tempo stringeva, dato che mancavano poche ore al sabato, che cominciava al tramonto del venerdì. In quei casi non restava che procedere in modo ancor più energico. La Valtorta dice infatti che dopo lo spezzamento delle gambe furono finiti a colpi di clava sferrati anche al cuore.
Per quanto riguarda la morte di Gesù, varie sono le ipotesi scientifiche in contrasto tra loro: infarto cardiaco, pericardite traumatica, embolia, sincope, crampi tetanici e soffocazione, fame e sete. La Valtorta offre la spiegazione migliore (609.19, corsivo nel testo):

Tornano le valanghe di dolore desolato che già l’avevano oppresso nel Getsemani. Tornano le onde dei peccati di tutto il mondo a percuotere il naufrago innocente, a sommergerlo nella loro amaritudine. Torna soprattutto la sensazione, più crocifiggente della croce stessa, più disperante di ogni tortura, che Dio lo ha abbandonato e che la preghiera non sale a Lui…
Ed è il tormento finale. Quello che accelera la morte, perché spreme le ultime gocce di sangue dai pori, perché stritola le superstiti fibre del cuore, perché termina ciò che la prima cognizione di questo abbandono ha iniziato: la morte. Perché di questo per prima cosa è morto il mio Gesù, o Dio, che lo hai colpito per noi! Dopo il tuo abbandono, per il tuo abbandono, che diventa una creatura? O un folle, o un morto. Gesù non poteva divenire folle, perché la sua intelligenza era divina e, spirituale come è l’intelligenza, trionfava sopra il trauma totale del colpito da Dio. Divenne dunque un morto: il Morto, il santissimo Morto, l’innocentissimo Morto. Morto Lui che era la Vita. Ucciso dal tuo abbandono e dai nostri peccati.

Sopravvenuta la morte, e nell’imminenza del sabato, il sacro Corpo fu staccato e deposto dalla croce, e trasportato in posizione orizzontale, così che il sangue dalla vena cava inferiore e dalle vene epatiche non poteva uscire tanto facilmente, per cui la colata trasversale posteriore potrebbe essersi formata nel sepolcro, dato che la rigidità cadaverica in individui robusti morti di morte violenta ritarda alquanto. I coaguli sanguigni intorno alle reni paiono dovuti al lino che cingeva i fianchi di Gesù, mescolandosi a quelli formati delle piaghe della flagellazione riaperte dalla forzata tensione dell’epidermide e dallo sfregamento contro il legno della croce. Come abbiamo visto, la presenza del lino era una concessione romana al “pudore” ebraico, e il lino fu dato dalla stessa Maria Vergine (Cap. 609. 2-3):

Viene dato l’ordine ai condannati di spogliarsi. I due ladroni lo fanno senza nessun pudore. Anzi si divertono a fare atti osceni verso la folla e specie verso il gruppo sacerdotale, tutto candido nelle sue vesti di lino e che è piano piano tornato sulla piazzetta più bassa, usando della sua qualità per insinuarsi lì. Ai sacerdoti si sono uniti due o tre farisei e altri prepotenti personaggi, che l’odio fa amici. (…)
I carnefici offrono tre stracci ai condannati perché se li leghino all’inguine. E i ladroni li pigliano con più orrende bestemmie. Gesù, che si spoglia lentamente per lo spasimo delle ferite, lo ricusa. Forse pensa conservare le corte brache che ha tenute anche nella flagellazione. Ma, quando gli viene detto di levarsi anche le stesse, Egli tende la mano per mendicare lo straccio dei boia a difesa della sua nudità. È proprio l’Annichilito fino a dover chiedere uno straccio ai delinquenti.
Ma Maria ha visto e si è sfilata il lungo e sottile telo bianco, che le vela il capo sotto al manto oscuro e nel quale Ella ha già versato tanto pianto. Se lo leva senza far cadere il manto, lo dà a Giovanni perché lo porga a Longino per il Figlio. Il centurione prende il velo senza fare ostacolo e, quando vede che Gesù sta per denudarsi del tutto, stando voltato non verso la folla ma verso la parte vuota di popolo, mostrando così la sua schiena rigata di lividi e di vesciche, sanguinante di ferite aperte o dalle croste oscure, gli porge il lino materno. E Gesù lo riconosce. Se ne avvolge a più riprese il bacino, assicurandoselo per bene perché non caschi... E sul lino, fino allora solo bagnato di pianto, cadono le prime gocce di sangue, perché molte delle ferite, appena coperte di coagulo, nel chinarsi per levarsi i sandali e deporre le vesti si sono riaperte e il sangue riprende a sgorgare.
Ora Gesù si volge verso la folla. E si vede così che anche il petto, le braccia, le gambe sono tutte state colpite dai flagelli. All’altezza del fegato è un enorme livido, e sotto l’arco costale sinistro vi sono nette sette righe in rilievo, terminate da sette piccole lacerazioni sanguinanti fra un cerchio violaceo... un colpo feroce di flagello in quella zona tanto sensibile del diaframma. I ginocchi, contusi dalle ripetute cadute, iniziate subito dopo la cattura e terminate sul Calvario, sono neri di ematoma e aperti sulla rotula, specie il destro, in una vasta lacerazione sanguinante.
La folla lo schernisce come in coro: “Oh! Bello! Il più bello dei figli degli uomini! Le figlie di Gerusalemme ti adorano...”. E intona, con tono di salmo: “Il mio diletto è candido e rubicondo, distinto fra mille e mille. La sua testa è oro puro, i suoi capelli grappoli di palma, setosi come piuma di corvo. Gli occhi son come due colombe bagnantesi ai ruscelli non d’acqua ma di latte, nel latte della sua orbita. Le sue guance sono aiuole di aromi, le sue labbra porpurei gigli stillanti preziosa mirra. Le sue mani tornite come lavoro d’orafo terminate in rosei giacinti. Il suo tronco è avorio venato di zaffiri. Le sue gambe, perfette colonne di candido marmo su basi d’oro. La sua maestà è come quella del Libano; imponente egli è più dell’alto cedro. La sua lingua è intrisa di dolcezza ed egli è tutto delizia”; e ridono e urlano anche: “Il lebbroso! Il lebbroso! Hai dunque fornicato con un idolo se Dio ti ha così colpito? Hai mormorato contro i santi di Israele come Maria di Mosè, se sei stato così punito? Oh! Oh! il Perfetto! Sei il Figlio di Dio? Ma no! L’aborto di Satana sei! Almeno egli, Mammona, è potente e forte. Tu... sei uno straccio impotente e schifoso”.

Data l’imminenza del sabato, venne compiuta da Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo solo la prima parte della pratica funeraria israelita. Il Corpo fu avvolto con teli insieme ad aromi e posto sulla tavola dell’imbalsamazione. Dal racconto valtortiano si deducono i seguenti particolari: 1) il Corpo non venne lavato, forse usata solo un po’ d’acqua; 2) le bende furono inzuppate di aromi; 3) il Corpo fu spalmato di unguenti; 4) la mistura degli aromi era appiccicosa, dato che riusciva a trattenere in posizione le mani del Corpo: 5) venne usata una sindone monda, diversa da quella usata per il trasporto; 6) i piedi conservarono un diversa posizione, uno più dritto l’altro più steso; 7) al volto di Gesù venne legata una fascia mentoniera; 8) il Corpo avvolto nella sindone, appoggiando sul viso un sudario di lino, poi vennero sovrapposte alla sindone altre larghe striscie o bende per mantenere la sindone stessa aderente al Corpo, ottenendo così un embrione di fasciatura completa ma affrettata.
I dettagli trovano sorprendente riscontro negli usi dell’epoca. L’analisi elettronica al computer effettuata al Jet Propulsion Laboratory di Pasadena dimostra che al volto dell’Uomo della Sindone fu applicata la mentoniera. Maria Valtorta l’aveva già scritto nel 1944.
Alla risurrezione, il Corpo uscì dalla fasciatura senza guastare le numerosissime impronte sanguigne rimaste intatte e conservando l’aspetto tipico del coagulo normale col relativo alone di siero. Il Cerri si concentra sulla narrazione valtortiana del comportamento di Pietro e Giovanni e trascura il problema della formazione dell’immagine, che pare sia avvenuta in seguito ad una smaterializzazione del Corpo: infatti, il Risorto attraversava i muri e la materia solida. La smaterializzazione pare sia avvenuta con un lampo di energia, le cui tracce sono state effettivamente riscontrate sulla Sindone. Le fasce che avevano avvolto il corpo, più pesanti, si afflosciarono, mentre il sudario, più leggero e “inamidato” dall’istantaneo essiccarsi dei profumi liquidi, restò sollevato, apparendo così a Pietro e Giovanni “in una posizione unica”, che modellava la forma del corpo che vi era stato avvolto. Il lampo di luce venne visto e descritto dalla Valtorta come una sfera di fuoco che precipitò dall’alto ed entrò nel sepolcro (Cap. 617.3-4).

La meteora si abbatte contro l’inutile serrame del Sepolcro, lo divelle, lo atterra, fulmina di terrore e di fragore le guardie messe a carcerieri del Padrone dell’Universo, dando, col suo tornare sulla Terra, un nuovo terremoto, come lo aveva dato quando dalla Terra era fuggito questo Spirito del Signore. Entra nel buio Sepolcro, che si fa tutto chiaro della sua luce indescrivibile, e mentre questa permane sospesa nell’aria immobile, lo Spirito si rinfonde nel Corpo immoto sotto le funebri bende.
Tutto questo non in un minuto, ma in frazione di minuto, tanto l’apparire, lo scendere, il penetrare e scomparire della Luce di Dio è stato rapido...
Il “Voglio” del divino Spirito alla sua fredda Carne non ha suono. Esso è detto dall’Essenza alla Materia immobile. Ma nessuna parola viene percepita da orecchio umano. La Carne riceve il comando e ubbidisce ad esso con un fondo respiro... Null’altro per qualche minuto.
Sotto il sudario e la sindone la Carne gloriosa si ricompone in bellezza eterna, si desta dal sonno di morte, ritorna dal “niente” in cui era, vive dopo essere stata morta. Certo il cuore si desta e dà il primo battito, spinge nelle vene il gelato sangue superstite e subito ne crea la totale misura nelle arterie svuotate, nei polmoni immobili, nel cervello oscurato, e riporta calore, sanità, forza, pensiero.
Un altro attimo, ed ecco un moto repentino sotto la sindone pesante. Così repentino che, dall’attimo in cui Egli certo muove le mani incrociate al momento in cui appare in piedi imponente, splendidissimo nella sua veste di immateriale materia, soprannaturalmente bello e maestoso, con una gravità che lo muta e lo eleva pur lasciandolo Lui, l’occhio fa appena in tempo ad afferrarne i trapassi. Ed ora lo ammira: così diverso da quanto la mente ricorda, ravviato, senza ferite né sangue, ma solo sfolgorante della luce che scaturisce a fiotti dalle cinque piaghe e si emana da ogni poro della sua epidermide.

Il racconto valtortiano della Passione spiega perfettamente una ad una le piaghe di Cristo riscontrabili sulla Sindone: la tumefazione  della parte centro-destra del volto (terza e completa caduta, Cap. 609.6), tumefazione della guancia destra e bocca ferita (colpo di asta sul viso dopo la flagellazione, Cap. 604.30), escoriazioni all’apice del naso e occhio destro quasi chiuso (corrisponde alla descrizione della Vittima crocifissa, Cap. 609.12), bocca leggermente deviata a destra (contrazione spasmodica del volto sulla croce, Cap. 609.22), fuoruscita di sangue e saliva sul lato destro della bocca (sulla croce, quando si avvicina la fine, Cap. 609.21), impronte delle ferite sui flagelli durante la via crucis (Cap. 608.5) e prima della crocifissione (Cap. 609.2-3), piaga del costato (Cap. 609.27), piaghe alle mani e un braccio più corto dell’altro di circa 4 centimetri (risultato della slogatura inflitta durante l’inchiodamento alla croce, Cap. 609.5). La Valtorta descrisse questa slogatura quattro anni prima che fosse diagnosticata da alcuni medici consultati dal professor Lorenzo Ferri.
La statura, il volto e il fascino di Gesù, come traspaiono dall’immagine sindonica, così corrispondono puntualmente alle descrizioni valtortiane. Il Redentore era alto circa m 1,80, maestoso e bellissimo.
Poiché il Cerri trascura il problema della formazione dell’immagine, lascia spazio ad un supplemento a firma di Ugo Bertolami, che si domanda come mai l’autore non abbia preso in considerazione l’importante dettato valtortiano proprio su questo argomento (Cap. 613.7-8):

Tu l’hai vista la corona di lividi che stava intorno ai miei reni. I vostri scienziati, per dare una prova alla vostra incredulità rispetto a quella prova del mio patire che è la Sindone, spiegano come il sangue, il sudore cadaverico e l’urea di un corpo sopraffaticato abbiano potuto, mescolandosi agli aromi, produrre quella naturale pittura del mio Corpo estinto e torturato.
Meglio sarebbe credere senza aver bisogno di tante prove per credere. Meglio sarebbe dire: “Ciò è opera di Dio” e benedire Iddio che vi ha concesso di avere la prova irrefragabile della mia Crocifissione e delle precedenti torture!
Ma poiché, ora, non sapete più credere con la semplicità dei bambini, ma avete bisogno di prove scientifiche – povera fede, la vostra, che senza il puntello e il pungolo della scienza non sa star ritta e camminare – sappiate che le contusioni feroci delle mie reni sono state l’agente chimico più potente nel miracolo della Sindone. Le mie reni, quasi frante dai flagelli, non hanno più potuto lavorare. Come quelle degli arsi in una vampa, sono state incapaci di filtrare, e l’urea si è accumulata e sparsa nel mio sangue, nel mio corpo, dando le sofferenze della intossicazione uremica e il reagente che trasudando dal mio Cadavere fissò l’impronta sulla tela. Ma chi è medico fra voi, o chi fra voi è malato di uremia, può capire quali sofferenze dovettero darmi le tossine uremiche, tanto abbondanti da esser capaci di produrre un’impronta indelebile.
La sete. Quale tortura la sete! Eppure lo hai visto. Non ci fu uno, fra tanti, che in quelle ore mi seppe dare una goccia d’acqua. Dalla Cena in poi, Io non ebbi più nessun conforto. E febbre, sole, calore, polvere, dissanguamento, davano tanta sete al vostro Salvatore.
Tu l’hai visto che ho respinto il vino mirrato. Non volevo addolcimenti al mio patire. Quando ci si è offerti vittime, bisogna essere vittime senza transazioni pietose, senza compromessi, senza addolcimenti. Occorre bere il calice così come esso è dato. Gustare l’aceto e il fiele sino in fondo. Non il vino drogato che produce intontimento del dolore.
Oh! la sorte di vittima è ben severa! Ma beato chi la elegge per sua sorte.

Questo conferma la teoria vaporigrafica formulata da Paul Vignon, professore di biologia dell’Institut Catholique di Parigi nel 1902 e da lui dimostrata esponendo una tela di lino simile all’originale in presenza di aloe, mirra e vapori di urea. La teoria ha attratto numerose critiche. Secondo Pierluigi Baima Bollone, professore di medicina legale all’università di Torino, tale teoria non sarebbe accettabile perché: 1) la trasformazione avviene con un certo ritardo, anche di giorni, 2) i vapori non possono muoversi in modo perfettamente ortogonale in modo da dare un’immagine precisa, 3) per la grandezza dell’immagine sindonica sarebbe state necessarie grandi quantità di urea.
La prima obiezione diventa piuttosto una prova a favore: infatti i Vangeli canonici non la menzionano al momento della scoperta della tomba vuota. La Valtorta racconta esplicitamente che l’immagine si formò a poco a poco. Infatti alcuni giorni dopo la risurrezione Nicodemo, alla presenza dell’apostolo Giovanni, di Giuseppe d’Arimatea e di Lazzaro risuscitato, consegna alla Madonna la Sindone, spiegando (Cap. 644.6-7):

(…) la seconda sindone, che fu su di lui dalla sera di Parasceve all’aurora di Risurrezione, deve venire a te. E – te ne avverto, perché tu non debba commuoverti troppo nel vederla – e sappi che più i giorni sono passati e più su di essa è apparsa nitidamente la figura di Lui, così come era dopo il lavacro. Quando la ritirammo dal Sepolcro pareva che semplicemente conservasse l’impronta delle sue membra coperte dagli oli e, ad essi mescolati, scoli di sangue e di siero dalle molte ferite. Ma, o per un processo naturale o, il che è molto più certo, per un volere soprannaturale, un miracolo di Lui per dare una gioia a te, più il tempo è passato e più l’impronta si è fatta precisa e chiara. Egli è là, su quella tela, bello, imponente, anche se ferito, sereno, pacifico, anche dopo tante torture. Hai cuore di vederlo?”.
“Oh! Nicodemo! Ma questo era il mio supremo desiderio! Tu lo dici d’aspetto pacificato... Oh! poterlo vedere così, non con quell’espressione torturata che è sul velo di Niche!”, risponde Maria congiungendo le mani sul suo cuore.
Allora i quattro spostano la tavola per avere più spazio; poi, stando Lazzaro e Giovanni da un lato, Nicodemo e Giuseppe dall’altro, svolgono lentamente la lunga tela. Appare per prima la parte dorsale, iniziando dai piedi; poi, dopo la quasi congiunzione delle teste, quella frontale. Le linee sono ben chiare, e chiari i segni, tutti i segni, della flagellazione, coronazione di spine, sfregamento della croce, contusioni da colpi ricevuti e cadute fatte, e le ferite dei chiodi e della lancia.
Maria cade in ginocchio, bacia il telo, carezza quelle impronte, bacia le ferite.

La seconda obiezione cade se si considera che comunque il formarsi dell’immagine è dovuto a un miracolo, alla luce della risurrezione le cui tracce sono state pure individuate sulla sindone. La terza obiezione non regge, dati i colpi di flagello che causarono un blocco renale e relativa uremia.
Riguardo alla ferita al costato, l’opinione generalizzata è che l’immagine si sia formata all’interno del Telo, in modo che l’immagine sindonica sarebbe vista di riflesso, come in uno specchio. Partendo da tale assunto, le ricostruzioni tridimensionali del Corpo (come quelle di Mons. Ricci e dello scultore Luigi De Mattei) mostrano la grande piaga triangolare causata dal peso della croce sulla spalla sinistra di Gesù, mentre nella sindone è invece sulla spalla destra. È come se il miracoloso lampo di luce della risurrezione avesse proiettato l’immagine sull’esterno del Telo.
Ciò è confermato dagli scritti valtortiani, che più volte indicano la sindone come la sua vera effige di Gesù, sacra e vera immagine, e non immagine riflessa. I Vangeli canonici non parlano della piaga della spalla, che fu rivelata per la prima volta da Gesù a san Bernardo da Chiaravalle (1090-1153), abate e dottore della Chiesa. Questi domandò a Nostro Signore quale fosse stato il maggior dolore sofferto nel corpo durante la sua passione. Gli fu data questa preziosa rivelazione privata:

Io ebbi una piaga sulla spalla, profonda tre dita, e tre ossa scoperte per portare la croce. Questa piaga mi ha dato maggior pena e dolore più di tutte le altre e dagli uomini non è conosciuta. Ma tu rivelala ai fedeli cristiani e sappi che qualunque grazia mi chiederanno in virtù di questa piaga verrà loro concessa; e a tutti quelli che per amore di Essa mi onoreranno con tre Padre Nostro, Ave e Gloria al giorno, perdonerò i peccati veniali, non ricorderò più i mortali, non morranno di morte subitanea e in punto di morte saranno visitati dalla Beata Vergine conseguendo ancora grazia e misericordia.

Dopo la morte di Padre Pio si scoprì che anche il santo stimmatizzato di Pietrelcina aveva sofferto di tale piaga, evidentemente a completamento delle sofferenze della Passione da lui sperimentate. Infatti, evidenti macchie di sangue sulla spalla destra appaiono sulla tonaca portata dal frate.
La sindone ci mette davanti al mistero divino, che noi possiamo adorare, ma restando ben lontani dal comprenderlo. E il Bertolami, opportunamente conclude la sua appendice allo scritto di don Vincenzo Cerri con un significativo dettato di Gesù a Maria Valtorta (Quaderni, 20 maggio 1049):

Mi dice il Signore, mentre io penso a tutt’altro che a cose mistiche e lavoro d’ago riparando la biancheria di casa:
“La mia Sindone, o Maria, per chi sa vedere, è non soltanto testimonianza che Io sono veramente morto e sono risorto, ma anche testimonia di come fui concepito e nacqui non secondo le leggi dell’umanità. È quindi conferma alle verità che la Religione mia insegna: il mio concepimento per opera dello Spirito Santo; la divina maternità di Maria; la sua verginità perpetua; la mia passione e morte; la mia risurrezione gloriosa. Ma ciò è conferma a chi, nella luce di Dio, è dato di vedere.”

EMILIO BIAGINI

1 commento:

  1. Ci mancava solo il revival della teoria vaporigrafica . "La Valtorta racconta esplicitamente che l’immagine si formò a poco a poco".

    Un motivo in più per non seguire la Valtorta e le altre ispirazioni non riconosciute dalla Chiesa

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