martedì 22 novembre 2016

Le inestirpabili radici cattoliche della solidarietà

Allo sguardo del turista, che dal centro storico di Genova risale verso la elegante e fastosa Circonvallazione a monte, si fa incontro l'ampio viale alberato, che mette capo a un edificio imponente e sontuoso, l'Albergo dei poveri, progettato e avviato dall'umanista e benefattore cattolico Emanuele Brignole Sale, per ospitare e assistere i genovesi privi di un decente alloggio e di sufficienti mezzi di sostentamento.
La solennità del palazzo rivela l'intenzione dei nobili e facoltosi credenti, che ne hanno attuato la splendida costruzione: inscrivere, nella magnifica e solenne struttura dell'edificio, l'affermazione dell'universale diritto alla pietà e al rispetto, diritto che la teologia cattolica riconosce specialmente ai malati e ai poveri, immagini del Cristo paziente.
Anche il grandioso ottocentesco (e tuttora funzionante in Genova Carignano) ospedale Galliera è stato costruito con il denaro di una generosa e ingente donazione, disposta dalla marchesa (papalina) Maria Brignole Sale di Galliera.
L'aristocrazia genovese è stata, insieme con il clero, all'avanguardia del movimento spirituale e civile finalizzato a soccorrere e sollevare i malati (specialmente i contagiosi, per il popolo oggetto di un sacro terrore) ricoverandoli in ospedali nei quali erano accolti e curati con misericordia ed efficienza (ad esempio, ogni giorno erano cambiati i lenzuoli, questo mentre in altre città europee i malati erano consegnati e abbandonati alla miseria dei tuguri o addirittura allo squallore e alla sporcizia delle strade).
Ispirati dalle sapienti e affascinanti conversazioni con il cardinale genovese Giuseppe Siri, i pregevoli saggi del dotto avvocato Emilio Artiglieri hanno dimostrato che le moderne imprese ospedaliere non hanno origine e fondamento nella ideologia laica e progressista e pertanto devono essere correttamente attribuite ai lungimiranti innovatori cattolici, già attivi in Genova alla fine del quindicesimo secolo.
La cultura della comunità, in cui avvenne la nascita della nuova medicina, fu ispirata e influenzata dalle geniali e intrepide intuizioni della genovese Santa Caterina Fischi Adorno (1447-1510) e di seguito, tra il sedicesimo e il diciannovesimo secolo, fu magnificamente rinvigorita dalle opere di misericordia finanziate e attuate con sapiente fede e illuminata generosità dalla aristocrazia cattolica.
La nobiltà cattolica genovese, vera avanguardia della misericordia, spese somme ingenti per costruire ospedali e abitazioni per i poveri e i disagiati.
Purtroppo l'affermazione della disgraziata e rovinosa ideologia o meglio lues liberal-massonica, importata dalla Francia e dall'Inghilterra, ostacolò e avvelenò la sequela della misericordia cattolica e promosse quella sordida borghesia degli affari, che ha fatto passare le conquiste sociali dei cattolici attraverso la calunnia, l'usurpazione e l'inquinamento della teologia, che aveva nobilitato e illuminato la storia della Superba.
Ove intendano uscire dalla degradante e imprigionante chiacchiera liberale e/o progressista, agli amministratori dell'oggetto frastagliato e misterioso, che è eiettato dalla sfasciata e sfasciante cultura della destra ultima e plurima, è offerto un solido e magnifico sostegno nella storia del cattolicesimo genovese.
L'umiliante confronto della Genova del passato cattolico con l'odierno, desolante/struggente agglomerato di progressisti, speculatori, ruffiani e necrofili urbani, offre una lampante indicazione circa il cammino da intraprendere sulla traccia del cristianesimo sociale.
E' dunque urgente confutare e smentire la storiografia riduttiva, che riduce la vicenda patriottica di Genova alle elucubrazioni e alle codarde e allucinate contemplazioni degli azionisti di varia e triste risma, sovversivi istigati e attizzati dalla storia del febbricitante e delirante Giuseppe Mazzini.
Il contraffatto patriottismo del Mazzini va respinto e rigettato energicamente nella sua ideale patria inglese, e sostituito dalla misericordia dei popolani cattolici, - gli eroici insorgenti antigiacobini, ad esempio - che hanno interpreto i valori profondi dell'anima genovese.


Piero Vassallo

lunedì 21 novembre 2016

GAETANO RASI: Un metapolítico di carattere (di Primo Siena)

La mia amicizia con Gaetano Rasi (nato a Lendinara, Rovigo, il 15 maggio 1927) è di lunga data; risale attorno al giugno-luglio del 1947, quando c’incontrammo nel primo convegno interregionale della gioventù del Msi a Padova dov’erano convenuti i delegati provenienti dai gruppi giovanili del Triveneto per organizzare una manifestazione per l’italianità del Trentino-Alto Adige contestata dai gruppi austriacanti del Volskpartei costituitisi a Bolzano.
 Gaetano - patavino da parecchi anni - faceva gli onori di casa di casa, assieme a Carlo Amedeo Gamba, Gianni M. Pozzo ed il cugino Cesare Pozzo.
Una foto d’epoca, di poco successiva, ci ritrae in gruppo alla stazione ferroviaria di Venezia dove eravamo affluiti (gennaio 1951) per un convegno regionale del Raggruppamento giovanile. Gaetano Rasi, unico con cappello, in quella foto s’assomma sorridente dietro ad un giovanissimo Fausto Gianfranceschi.

 Quel nostro rapporto, umano, politico, intellettuale, non s’affievolì neppure quando (febbraio 1978) lasciai l’Italia per una missione professionale in Cile, che con il tempo mi trasformò in un italiano stabilmente residente all’estero.
Egli, invece, presentando il 2 marzo 2012 a Palazzo Sora in Roma, il mio libro La perestoika dell’ultimo Mussolini, confessava agli astanti:
 “Ho la convinzione di aver sempre conosciuto Primo Siena. Non riesco a stabilire una data, un’occasione, un luogo dove io abbia incontrato per la prima volta l’autore di questo libro. Il mio sodalizio umano ed intellettuale con Primo, che nasce certamente nei mesi immediatamente successivi alla seconda Guerra Mondiale, costituisce uno di quei fatti che sono compenetrati nella formazione continua di ciascuno di noi nel corso del tempo. Insomma che fa riferimento a coloro con i quali condividiamo principi e valutazioni (cum qui in idem sentiunt)”.
Quel nostro sodalizio, infatti, è durato ininterrottamente fino al giorno del suo inaspettato decesso (20 novembre 2016), quando si trovava a mezza strada dei suoi novantanni, pieni di acuta e penetrante lucidità intellettuale.
C’eravamo visti ed abbracciati a Roma (11 ottobre 2016) alla celebrazione del settantesimo del Msi, organizzata dalla “Fondazione Giorgio Almirante”.
Quattro giorni prima del suo improvviso ricovero in clinica, l’avevo chiamato telefonicamente a Bracciano da Santiago del Cile. Ci s’era parlati per quasi due ore, trattando diversi argomenti di comune interesse: i cambi culturali e sociopolitici avvenuti nel mondo ultimamente; le celebrazioni dei 70 anni dalla fondazione del Msi, i problemi della Fondazione di Alleanza Nazionale; la situazione del Cesi, quel Centro Nazionale di Studi politici ed economici, sua ultima creatura la cui continuità nel futuro era il suo cruccio. “Vi ho raccolto uomini di alto valore e profilo, già anziani o di mezza età, ma vedo pochi giovani” mi diceva.
 I giovani della nostra area politica e la loro formazione, erano la sua costante, profonda preoccupazione (da me condivisa), perchè essi solo – insisteva - possono assicurare la proiezione futura del nostro progetto politico alternativo.
Un progetto politico le cui radici affondavano in un tempo assai lontano, quando sulle pagine della rivista giovanile Cantiere (n.2, marzo 1952) Gaetano rintracciava la derivazione corporativa (e s’era a 7 anni appena dalla sconfitta del 1945) del “Piano” di William Beveridge avviato nell’Inghilterra laburista di quegli anni.
 Egli richiamava l’attenzione su questo caso perchè: “l’interesse che esso suscita – scriveva – viene anche dal fatto che proprio questa nazione fu la irriducibile nemica e la causa prima della sconfitta di quell’Italia che espresse la soluzione sociale ed economica valida, con i necessari adattamenti, per tutti i popoli, compresi quelli di lingua inglese”.
E commentava in proposito: “Interessante è per noi, che combattemmo dall’altra parte della barricata, constatare come il nemico a mano a mano che ci combatteva, si appropriava, facendole passare per proprie, quelle idee che costituivano i motivi ideali per i quali moriva il fior fiore della gioventù europea”.
Allievo dell’economista Marco Fanno e del geopolitico Ernesto Massi, il giovane Gaetano Rasi si poneva già da allora il problema della giustizia sociale come un problema non solo economico bensì etico, inteso quindi come esigenza spirituale per assicurare un ordine ai rapporti tra gli uomini, nell’ambito di una struttura organica e funzionale dello Stato moderno, affinchè il cittadino non naufragasse nell’anonimia della massa informe.
Egli riprende questi concetti quando assieme a me, alla fine del 1954, dà vita alla rivista Carattere; la quale - accanto alla linea gentiliana e tradizional-evoliana di Cantiere (che fu l’officina, il laboratorio appunto, di una ricerca d’indirizzo), ne accentua una tradizional-cattolica elitista che puntava all’unione metapolitica tra due mondi anteriormente poco comunicanti: il religioso ed il politico; due spazi dove dovrebbe agire l’essere umano sostenuto eticamente da principi spirituali trascendenti.
 Ma è soprattutto con una misura di coerenza morale (un “carattere” appunto, ossia fermezza consapevole) con la quale Gaetano Rasi si misura in questa avventura culturale proponendo le linee – sono parole sue – “di un progetto politico non restaurativo, ma evolutivo” atto a raccogliere le emergenti esigenze spirituali, etiche e politiche future di una postmodernità tuttora incerta e confusa.
Fin dal tempo di Carattere egli comprese che, senza cambiare la visione del mondo offertaci dal riduzionismo scientifico moderno (e dalle sue conseguenze tecnologiche, non sempre positive), non si sarebbe potuto affrontare la crisi attuale che ha avvolto il mondo per aprirgli, quindi, spazi futuri più fecondi dove la scienza e la tecnica ritornino fecondamente al servizio dell’uomo.
Già da allora - dotato di una solida cultura classica, nutrita altesì di una profonda visione spirituale – egli intuì la correlazione tra una scienza interdisciplinare come la metapolitica e la metafisica della politica (tanto ideologica come economica), intesa non come una scienza esclusivamente teoretica, bensì come misura di pensiero che si apre all’azione politica concreta dove il metapolitico agisce.
Infatti, come precisava ancora, “la rivista trattò molti temi relativi alla trasformazione dello Stato, fondato dopo la sconfitta solo sui partiti, in uno Stato che fosse l’organizzazione giuridica rappresentativa di tutti i corpi sociali della Nazione. In quest’ottica, la rivista Carattere rappresentò un ponte tra il passato, il presente e il futuro”.
 Bisognava infatti, secondo lui, sciogliere il nodo della discontinuità storica inevitabile tra il fascismo mussoliniano, cioè tra il fascismo storico ed il periodo successivo nel quale stavano sorgendo nuove esigenze geopolitiche, geoeconomiche e culturali che si stanno consolidando ed evolvendo in una postmodernità tuttora incerta e confusa.
Diveniva quindi necessario non un taglio netto sul nodo gordiano, ma un dipanare con pazienza e creatività raziocinante il nodo della frattura storica, per mantenere – pur con nuove forme per i tempi nuovi – una continuità d’idee e di principi, al fine di elaborare programmi attuali per un progetto politico alternativo volto a creare una Nuova Repubblica organica, dotata di una democrazia partecipativa in sostituzione della attuale, imbrigliata nelle maglie aggrovigliate di “un tiranno senza volto”: la partitocrazia.
Gaetano Rasi ha visto la possibilità di risolvere il male della partitocrazia attraverso l’instaurazione di una funzione corporativa, che si profila come la quarta accanto alle altre tre (la legislativa, l’esecutiva, la giudiziaria), in un ambito che da politico si fa metapolitico perchè soddisfa la problematica relativa all’ordinamento d’una società composta da uomini liberi ed orientata al bene comune; ragion per cui la politica si costituisce come ramo della morale intesa quale etica civile della convivenza umana sociologicamente e giuridicamente organizzata; una convivenza che attinge infine alla metafisica, come insegnava l’ insigne maestro dell’ateneo patavino, da Gaetano Rasi ben conosciuto e seguito: Marino Gentile.
Il quale nel corso di un suo famoso corso accademico su “Il filosofo di fronte allo Stato” (1969) aveva affermato: “Una filigrana naturale collega l’uomo allo Stato, perchè non esiste ordine giuridico senza morale, come non c’è ordine fisico senza metafisica”.
In quest’ottica, Rasi ha insegnato che l’ordine derivato dalla funzione corporativa si va costituendo mediante la partecipazione in sede politica, economica e culturale (ossia anche in senso antropologico). Ed ha attribuito alla partecipazione la caratteristica ineliminabile della corresponsabilità perchè il partecipare implica un condividere, cioè l’assunzione tanto dei doveri e dei sacrifici come degli esiti e dei benefici dell’azione.
Questo concetto “corporativo” di partecipazione – egli precisava[1]- “si differenzia nettamente dalle interpretazioni astratte e deformate” poste in circolazione dalla sociologia comunitaria, la quale annega nel calderone anonimo nell’assemblearismo il contenuto autentico della partecipazione, perchè in tal caso si esclude tanto la responsabilità individuale quanto “ l’apporto della volontà e delle intelligenze dei partecipanti pur tendenti al fine comune”.
Per Gaetano Rasi, nella cultura politica contemporanea sono tuttora presenti, con diverse sfaccettature e commistioni, tre ideologie: il liberismo, il socialismo e il corporativismo.
Delle prime due, di derivazione illuminista si conoscono i limiti e gli effetti concreti che ne hanno messo in crisi l’effettualità. In esse, l’ideologia pone sempre un interesse primario rispetto al quale i valori risultano secondari.
Infatti, nel liberismo le scelte dell’individuo sono sempre preminenti sulla società, e la libertà economica senza disciplina (cioè senza un minimo di programmazione interna e volontaria) esportata nel mondo, serve infine ad un potere contrario alla libertà: al potere dispotico del denaro. Mentre nel il socialismo (tanto nella formulazione radicale del comunismo, come in quella moderata della socialdemocrazia) l’interesse del proletariato, inteso come classe organizzata a Stato, prevale su quello dell’individuo che in tal modo viene annullato nella massa.
Rasi riconosce che, dal punto di vista storico, sono stati vissuti periodi di alternanza di un interesse o di un valore preminente su un altro; quindi, per uscire da tale altalena, l’obiettivo da perseguire resta la costituzione di una società nella quale “tutti i valori abbiano sede e siano fra essi correlati. La scelta di un valore come assoluto e preminente sugli altri, costituisce un momento di crisi etica e sociale”; e comunque si tratta di fasi di passaggio.
Solo la terza costituisce una prospettiva di futuro in grado di destreggiarsi tra i difetti e gli errori delle altre due, perchè essa punta alla ricerca dialettica di una armonia sociale tra le parti in grado di sostituirsi alla lotta di classe, trasformando così la politica da arte o scienza esclusiva del gestire il potere, in modalità sostanziale per vivere la pienezza di ogni essere umano.
 Il momento obiettivo per evitare le crisi etico-sociali od uscirne, è costituito dalla ricerca operativa onnipresente ed istituzionale di tutti i valori. E chi pensa ad un superficiale, difficile equilibrismo post-ideologico perchè - tanto - saremmo usciti definitivamente dall’epoca delle ideologie, s’inganna. Oggi il perseguimento degli interessi (non sempre limpidi ed onesti) sostituisce quello dei valori; per cui le ideologie non sono sparite, hanno solo cambiato di segno.
Il corporativismo,quindi, nonostante le demonizzazioni semantiche affibiategli dalle ideologie contrastanti, risulta la terza via possibile
Analizzando la storia delle idee sviluppatesi all’interno del Msi, nei 48 anni della sua esistenza, Gaetano Rasi ne individua, appunto, l’identità politico-dottrinale nel corporativismo concepito come l’ideologia “che tende a realizzare la democrazia sostanziale in contrapposizione alla democrazia solo formale dei regimi liberisti e partitocratici, tendenzialmente oligarchici e indifferenti allo sviluppo solidale della comunità cui appartiene un popolo nella sua consapevolezza”[2].
Questo corporativismo costituzionale affermato dal Msi – e alla formulazione dottrinale del quale, Rasi ha dato un forte contributo di pensiero – postula una Repubblica presidenziale dove il Presidente della Repubblica è la sola autorità che viene eletta direttamente dagli cittadini indifferenziati, mentre la selezione del resto della dirigenza politica viene affettuato elettoralmente “dal cittadino individuato nella sua competenza professionale e nelle sue opinioni politiche”. Sicchè gli istituti parlamentari che esprimono l’esecutivo e fanno le leggi, sono formati, per una parte, dai partiti politici costituiti “da coloro che la pensano alla stessa maniera (qui in idem sentiunt) e propongono progetti e programmi politici”; e per l’altra parte “dalle associazioni spirituali, culturali, economiche, ossia le categorie professionali e del volontariato”: corpi sociali organici che – secondo la dinamica della società - sono portatori “di specifiche competenze nonchè d’interessi morali e materiali”.
Nello sviluppo delle sue riflessioni sul corporativismo democratico del Msi, Gaetano Rasi ha dimostrato, accanto alla preparazione giuridica (s’era infatti laureato, a suo tempo, in giurisprudenza), una solida formazione speculativa nutrita da un’ annosa consuetudine con il filosofo Ugo Spirito e dalla filosofia attualista di Giovanni Gentile (il maggior pensatore eminente del nostro Novecento), al quale ha dedicato acuti saggi, trasmessi nella loro essenza educativa, sia dalle cattedre universitarie dalle quali ha esercitato un originale magistero economico-sociale, sia dalle ricerche scientifiche e dai corsi politici svolti mediante l’Istituto di Studi Corporativi, da lui fondato e diretto per cinque lustri; ed infine attraverso la Fondazione Ugo Spirito della quale fu, se non erro, il primo presidente.
Ha vissuto una vita dedicata allo studio e al magistero politico inteso come “servizio al cittadino, alla società, alla Patria”: con trasparenza, onestà e disinteresse (nominato Ministro del Commercio Estero del Governo Dini nel 1995, rifiutò l’incarico per coerenza politica).
Italiano cattolico, discreto ma osservante, ha creduto nella religione dei padri, ha vissuto con intensità spirituale le vicende della Patria con l’animo del combattente che affronta le vicende varie e talora difficili della vita come uomo di carattere che non s’arrende: esempio di vita per le nuove generazioni che si inerpicano sui sentieri scosesi del secondo millennio.
Questi fu Gaetano Rasi!

Primo Siena



[1]
                        [1] G.Rasi, Partecipazione organica e política programmatoria in AA.VV., Il Corporativismo è libertà. Gruppo di studio Fuan-Isc. Collana “La alternativa”. Istituto di Studi Corporativi, Roma 1975, p.21-22.
[2]
                        [2] Le citazioni, virgolettate, sono tratte dall’opera: GAETANO RASI, Storia del progetto politico alternativo. Dal Msi ad AN (1946-2009). Vol.Iº , La costruzione dell’identità (1946-1969).Solfanelli Ed. 2015. Pagg. 224 + 8 ill. Il progetto editoriale dell’opera prevede, come seguito di questo volume, altri due: L’alternativa al sistema (1970-1994) che va dalla preparazione del IXº congresso dove alla sigla MSI si aggiunge la dicitura “Destra Nazionale”, fino alla trasfornamazione del MSI-DN in Alleanza Nazionale; e un 3º volume, titolato: Evoluzione, involuzione, eclissi (1995-2009) che fa riferimento alle vicende che vanno dal tentativo di allargare il consenso di base fino alla destrutturazione organizzativa ed alla dissipazione del patrimonio progettuale, per concludersi nella fusione di AN con Forza Italia. 
E` da sperare che l’improvviso decesso dell’autore, non arresti l’edizione di quest’opera fondamentale per lastoria delle idee del Msi, e di cui il 2º volume si trova già tutto composto. Gaetano mi ha dedicato una copia del Iº volume con queste parole: “All’amico di cuore e di mente Primo Siena col quale mi trovo sempre in sintonia, nell’auspicio che i suoi libri e i miei piú modesti saggi possano trovare prosecuzione di pensiero e di azione. 8 Settembre 2015 (che anniversario...) G.R.



domenica 20 novembre 2016

Un saggio sulla vita eterna di Giovanni Cavalcoli

 Nell'attuale clima di spensieratezza pressappochista, secolarista  e buonista pare che molti cattolici intendano la propria vita come  le api, che passano spensieratamente di fiore in fiore senza  fermarsi mai in niente, senza dar per certo nulla, se non forse uno  spasmodico attaccamento al proprio io scambiato per Dio.
 padre Giovanni Cavalcoli o. p.



La casa editrice anticonformista Fede & Cultura, attiva in Verona, propone il saggio La vita eterna, ragguardevole opera di Giovanni Cavalcoli, l'illustre teologo domenicano, dai banditori della teologia modernizzante tenuto sotto schiaffo, perché fedele alla tradizionale dottrina cattolica, contemplante il premio e il castigo eterno.
I banditori dell'avventizia teologia buonista e perdonista, infatti, accusano l'illustre teologo domenicano di aver condiviso e affermato la dottrina che contempla la infallibile giustizia di Dio, una teoria, secondo una loro temeraria opinione, superata, antimoderna e crudele.
Refrattario alla suggestione del progressismo, Padre Cavalcoli o. p. continua imperterrito la sua attività di strenuo difensore della teologia tradizionale e del legittimo e realistico confronto con la filosofia classica.
Pur riconoscendo la distinzione della filosofia platonica dal panteismo, ad esempio, l'illustre domenicano ne indica i limiti: “in Platone la distinzione anima-corpo appare a un tempo esagerata e troppo debole: esagerata in quanto l'anima appare ostile al corpo, troppo debole, in quanto il corpo sembra essere una semplice imitazione o manifestazione dell'anima”.
Di seguito il sagace teologo sottolinea l'assenza, nel pensiero cristiano, della suggestione dualistica, ossia di quella opposizione estrema e fuorviante, di quel conflitto insanabile tra eterno e temporale, che caratterizza il pensiero greco, e in modo speciale la scolastica sintonizzante.
Refrattario ai travestimenti rugiadosi e mondani della Carità, mascherine in circolazione sfrenata ed estenuante nella teologia progressista, padre Cavalcoli afferma risolutamente che “se il prossimo pone ostacolo alla nostra ricerca di Dio, dobbiamo avere la forza d'animo di respingerlo o di separarcene, come invece abbiamo il preciso dovere di seguire quei maestri e quei santi che ci conducono a Dio, o di prenderci cura di coloro che si lasciano guidare verso Dio”.
Padre Cavalcoli, pertanto, suggerisce ai teologi tentati dalla suggestione buonista la dottrina di San Bernardo, secondo cui l'amore è fine a se stesso e rammenta che il Santo Dottore “si riferisce a un amore che sia in se stesso la perfezione, come l'amore divino”. Natura e sovrannaturale, infatti, si incontrano nel disegno divino: “Dio, istitutore della natura, dà ad essa le forze sufficienti per raggiungere il suo fine, conseguito il quale noi siamo felici e perfetti”.
Opportunamente padre Cavalcoli respinge la suggestione della nuova e orizzontale teologia, denuncia la suggestione secolarista e la tendenza a dimenticare la meta ultraterrena, incombente sulla Chiesa e rammenta infine che “Dio, nel creare l'uomo, non era per nulla obbligato a indirizzarlo al fine soprannaturale il quale, come insegna Pio XII nell'enciclica Humani Generis, non corrisponde affatto ad un'esigenza dell'umana natura, ma una esigenza soltanto allorché l'uomo sa per fede dell'esistenza di questo fine sublimassimo e quindi comincia a desiderarlo e ha il diritto di desiderarlo in forza della grazia dello Spirito Santo”.
In conclusione è doveroso rammentare che la critica elaborata con rara competenza e con splendida fede da padre Cavalcoli, pur non non ignorando il potere delle oscure suggestioni, in trionfale, alienante e rovinosa corsa intorno alle rovine prodotte dal mondo moderno, afferma risolutamente e dimostra (si è tentati di usare il proibito e calunniato proverbio trionfalisticamente) la vitalità del pensiero cattolico.


Piero Vassallo

venerdì 18 novembre 2016

LA MAGGIORANZA SILENZIOSA NON È MODERATA (di Piero Nicola)

La moderazione può funzionare come forza da contrapporre alla forza che fa paura. Negli anni Quaranta e Cinquanta del Secolo scorso la Democrazia Cristiana ebbe successo essendo la Diga, ovvero procurando una occupazione del campo elettorale, per cui il comunismo non poteva prendere il potere. Allora c'era stato il disastro della guerra, i richiami bellicosi rimasero inascoltati dalle masse dei cattolici, che crederono alla D.C.
 Tuttavia la moderazione non pagò. Si sgretolò l'argine posto alla sovversione e alla decadenza da essa determinata. I moderati dovettero uniformarsi al deteriore progressismo e addivenire ai compromessi col nemico (Solidarietà nazionale). Sempre più, molte nefandezze individuali e sociali divennero meravigliose. Il fenomeno-Craxi cresciuto sulle attrattive delle libertà corruttrici e del benessere effimero, dovette calare e soccombere perché, in sostanza, fu moderato. Il borghese Berlusconi non ebbe sorte migliore. Gli ex comunisti, dapprima mitigati dalla cattive prove del comunismo reale e dai compromessi, poi tramortiti dal crollo sovietico, ripiegarono sulle grigie posizioni della sinistra social-liberale. Il popolo non ebbe scelta al di fuori dei due blocchi partitici in concorrenza, e restò a lungo tiepido, insoddisfatto, fazioso o tifoso, più che altro, per partito preso.  
  Ma il popolo, soprattutto in tali condizioni, cioè spettatore del teatrino della politica e allettato dalle novità inventate dalla classe dirigente, screditata, bassa e ingannatrice, non è moderato, non vede l'ora di uscire dal pantano seguendo chi dia una scossa, una spallata al sistema mafioso. Questo popolo non s'accontenta più d'una protesta affidata alle mani di un Grillo. Gli ci vorrebbe l'iniezione di entusiasmo. Sebbene non si renda ancora ben conto del perché e del percome, anela all'autentica rottura e a un rivolgimento. È vero che anche qui, come negli USA, una maggioranza abbraccerebbe il Castigamatti. Tanta gente sente la puzza del buonismo, della pseudo-misericordia bergogliana, della prevista integrazione degl'immigrati, delle alzate d'ingegno di Renzi contro l'Europa ingrata, del faraonico progetto statale per rendere antisismiche le case italiane, delle casette promesse ai terremotati, che non ricevono neppure i container. Tanta gente non crede alle riforme, renziane o berlusconiane che siano, né le bastano i vaffa grillini, vuole parole forti che abbiano il sapore di fatti, che preludano a fatti nuovi e differenti, destando entusiasmo. Soltanto l'entusiasmo induce alla rinuncia, alla coesione, emarginando gli estenuati libertari e protestatari.
  Il leghista Salvini sembra averlo capito, ma chissà se abbia i numeri occorrenti? Di certo chi non capisce è il Berlusca, che va ancora cianciando di liberalismo (fallito), di maggioranza moderata, e vagheggia un'alleanza comprendente donnicciole bellocce, esponenti pallidi, di dubbia rettitudine, e un'accozzaglia di politicanti, in vendita per interesse o per forza.
  Tutto questo non significa che una reazione vincente sui mali presenti ne esca fuori in ambito democratico, in un ordinamento sottratto alla Legge di Dio. Ciò significa soltanto che il malessere dovuto al lungo abbandono della Legge non si placa con nessuna moderazione, e con nessun oppio propinato al popolo.

Piero Nicola

   

mercoledì 16 novembre 2016

Sul mistero del male e i castighi di Dio

Spesso le pene volute da Dio sono piuttosto un rimedio che un mezzo di espiazione, piuttosto poenae medicinales che poenae vindicativae. Esse ammoniscono il reo a riflettere re sulla sua colpa e sul disordine delle sue azioni e lo inducono a distaccarnese e a converrtirsi.
Pio XII

I martiri sono testimoni della fede che tracciano la strada dei cristiani: strada di affermazione della verità e di lotta per diffondere e difendere la verità contro i lupi che la minacciano.
Roberto de Mattei


 Segnale della risoluta, inarrestabile e inflessibile opposizione cattolica al delirio progressista, in discesa lungo le fratte della nuova teologia e in caduta nei burroni del post concilio, cresce l'instancabile produzione di studi in difesa dell'indeclinabile tradizione [1].
 Il popolo dei refrattari costituisce uno strenuo, irremovibile e perseverante argine alle mielose slavine, in caduta sorda e implacabile dalle fonti oscure, soggiacenti al Concilio ecumenico Vaticano II e dalle tossiche officine dei teologi approvati e applauditi dall'apolide demiurgico Georges Soros.
 Roberto De Mattei, (con la sapiente collaborazione e il sostegno di alcuni dotti e refrattari teologi, quali padre Serafino Lanzetta, mons. Antonio Livi, padre Giovanni Cavalcoli, e il professore Corrado Gnerre), propone una sferzante e corrosiva antologia, Il mistero del Male e i castighi di Dio, edito in Verona dall'irriducibile e scandalosa casa editrice Fede & Cultura.
 Il saggio dell'ingente studioso cattolico De Mattei, si raccomanda ai lettori refrattari alla modernizzazione teologica in atto, perché fa scendere la luce impietosa della critica d'ispirazione ortodossa sulla giubilante/trionfante ma sconnessa teologia dei bergogliani.
 De Mattei non confuta una sgangherata dottrina ma descrive un pittoresco volo di coriandoli, un modernizzante carnasciale, in frenetica oscillazione tra il vilipendo della sacra tradizione, l'umiliazione della liturgia (esempio inquietante il mancato inginocchiamento di Bergoglio al cospetto del pane consacrato) e un buonismo tanto squillante quanto anacronistico.
 Quali estratti dalla farsa catto-laicista circolano le respecteuses, lepide, burrose e quasi veneranti conversazioni telefoniche – di stampo surrealista quando non ridolinesco - con il patetico, guru del senescente, screditato, rottamato e azzerato illuminismo de sinistra e de salotto) e la malcelata, quasi ringhiosa avversione alla indeclinabile teologia tradizionale.
 Puntualemente De Mattei insiste nella indicazione del vuoto cui si riduce il male, “che non è una realtà o entità positiva, qualcosa che esiste per se stessa, ma è la negazione di una determinata entità in un determinato soggetto. Esiste ad esempio la verità, ma non esiste in nse stessa la falsità: il falso, per esistere ha bisogno di una verità che nega o che deforma … il male non esiste in sé, ma solo come privazione dell'essere fisico o morale a cui si riferisce”.
 De Mattei, di seguito, rammenta la tesi ortodossa sull'origine del male: “Il male morale, che chiamiamo anche peccato [definizione discendente da un termine che indica il cammino incerto e insicuro del claudicante] non è altro che il nostro rifiuto dell'amore di Dio, il non riconoscerlo con le parole, o con i fatti, come nostro principio e nostro ultimo fine, come padrone della vita e della libertà che ci ha dato”.
 Di qui l'affacciarsi il problema del castigo divino e la puntuale citazione della sapiente risposta formulata da San Pio da Pietrelcina: “Ringrazia e bacia dolcemente la mano di Dio che ti percuote, è sempre la mano di un Padre che ti percuote perché ti vuole bene”.
 Quasi facendo eco al giudizio di San Pio, Benedetto XVI, opportunamente citato da De Mattei, ha contestato la suggestione messa avanti dalla teologia buonista, affermando risolutamente: “non è il castigo che deve essere eliminato, ma il peccato, quel rifiuto di Dio e dell'amore che porta già in sé il castigo”.
 Nella luce dell'ortodossia cattolica, professata da De Mattei, si rivela la fatuità del perdonismo predicato dall'avventurosa teologia, che è ostinatamente intesa a separare e ad opporre la divina misericordia all'indeclinabile giustizia.

Piero Vassallo



[1]    Fanno parte della comunità dei refrattari al progressismo i più vivaci laici, militanti d'area cattolica, oltre a De Mattei, Fausto Belfiori, Valentino Cecchetti, Matteo D'Amico,Lino Si Stefano,Marco Solfanelli8, Pucci Cipriani, Roberto Dal Bosco, Elisabetta Frezza, Tommaso Romano, Pier Paolo Saleri, Paolo Deotto, Emilio Artiglieri, Giulio Alfano, Emilio Biagini, Pietro Giubilo,. Stefano Fiore, Normanno Malaguti,Gaetano Rebecchini, Angelo Ruggiero,. Mario Sossi, Arcangelo Santoro, Carlo Testa,Guido Vignelli, Mauro Viscuso.

martedì 15 novembre 2016

L'ORDOFOBIA (di Piero Nicola)

L'ordofobia è una malattia che non esiste, non essendo registrata dalla scienza ufficiale o comunità scientifica? Che importanza ha? La scienza, almeno quella recepita dai mezzi d'informazione, ha trovato la ludopatia, di cui pure non si era mai sentito parlare, e allora siamo autorizzati a parlare di ordofobia. Intendiamoci, né l'una né l'altra sono malattie. Salvo annullare il libero arbitrio come fanno i luterani, in generale chi è preso dalla passione del gioco è anche in grado di smettere, essendo in possesso delle sue facoltà. Dunque si tratta di un vizio. Parola bandita dal vocabolario postmoderno, ovvero dell'imperante impostura psicologico-patologico-morale..
  Ma in che consiste il vizio dell'ordofobia? Semplicemente si tratta dell'avversione per l'ordine. È un atteggiamento psicologico e morale che ha la radice nell'orgoglio e nell'ignobiltà. È pensiero e comportamento attaccato visceralmente alla democrazia. L'ordofobico aborrisce l'indipendenza della potestà, il capo svincolato da lui, e finisce schiavo del potere occulto. Egli è uno spirito libero che ama la libertà eccessiva, non ne ha mai abbastanza di diritti a sua disposizione, anche se non se ne servirà mai, anche se servono ai furfanti e ai delinquenti che lo danneggiano, anche se quel regime di libertà illecite lo fa vivere in una palude mefitica. Egli si è abituato al puzzo, anzi lo annusa come quelli che apprezzano il sano odore del letame.
  L'ordofobico detesta l'ordine soprattutto perché il suo concetto implica una stabilità, un mondo definito, una pulizia soltanto da mantenere, ed egli ne riceve l'impressione di una monotonia intollerabile. La sua immaginazione è corta, il suo mondo interiore è arido, il suo egoismo gli vieta di apprezzare l'autentico valore della generosità e dell'abnegazione. Infatti le idee di Patria, di sacrificio fecondo, di bella morte in guerra, di santità, gli sono aliene. Egli si commuove davanti alle miserie tangibili, la coscienza lo spinge ad aiutare i disgraziati, ma non ha niente di prezioso da dare loro, essendone egli stesso sprovvisto, non si cura affatto dell'altrui salute spirituale, tanto meno del destino delle anime. Posto rimedio al bisogno materiale o sentimentale, non restano che i godimenti epicurei. L'ordofobico li apprezza al più alto grado, li riveste di bellezza e di libertà.
  La riprova della devastazione ordofobica l'abbiamo con la religione. La massa sedicente cattolica che odia l'ordine connaturato col re ottimo, il quale dispone di tutte le cose, ha detronizzato il Signore. Bergoglio e i suoi predecessori demagoghi hanno praticamente oscurato Cristo Re e Dio onnipotente. Una conseguenza la si è vista di recente quando il Vaticano ha negato la giustizia divina compiuta sulla terra, eventualmente con un terremoto.
  Tutto torna. L'ordofobia è il flagello di questa era democratica. Però tutto stanca, l'abitudine viziosa stanca, l'abuso reca la nausea. Ed allora ecco che in America, come anche altrove, molti intravedono i profittatori del popolare male oscuro, rinunciano a una fetta di superbia, provano a immedesimarsi in un capo che rimetta un po' le cose a posto e, in questa parvenza di nobile slancio, eleggono Donald Trump loro presidente.


Piero Nicola

sabato 12 novembre 2016

GLI ALBORI DIFFICILI del MOVIMENTO SOCIALE ITALIANO (di Primo Siena)

Testimonianza  e riflessioni di un “figlio del sole” dell’Alta Italia

Io non credo, è vero all’obiettività assoluta della storia, questa vecchia favola, quest’antico mito tante volte smentito e negato. Ma io credo fermamente che si possa fare storia solo entrando in un  rapporto d’intima unione, d’interiore consonanza col passato, solo rianimando e rivivendo in sé lo spirito, il senso, il valore, l’ordine  e la dialettica peculiare degli eventi trascorsi...
La storia  è presente solo in quanto sia ricreazione e risuscitazione di quello che è l’unico, l’inconfondibile passato.
GIOVANNI SPADOLINI
Ritratto dell’Italia moderna (700-900) Vallecchi, Firenze 1948.

1. L’adesione alla Fiamma Tricolore: una scelta  iscritta  in un dna  personale e familiare.
La sezione provincale del Msi veronese  era stata  costituita uffcialmente il 2 febbraio del 1947, da un gruppo composto da Angelo Savoia e Arturo Marchese ambedue reduci dal Campo di concentramento inglese dei Non-cooperatori  n. 25 di Yol (India).
A costoro si erano uniti gli studenti: Ennio Beltrame, Fabio Saccomanni, Livio Valentini ed un sottufficiale della Guardia Repubblicana: Giovanni Zurlino. La prima sede fu  un appartamento affittato al primo piano di un edificio in via San Rocchetto, nel centro storico di Verona che sarebbe poi  devastato da inferociti partigiani comunisti, qualche mese dopo.
Mi sono iscritto al Fronte Giovanile  del Msi, il 17 marzo del 1947 a Verona, la città dove avevo raggiunto la mia famiglia, colà trasferitasi nell’estate del 1944 da Modena  (luogo natìo del mio casato) per sfuggire alla persecuzione dei partigiani locali.
La mia era una famiglia di fascisti d’antica data: mio padre Mario ed il fratello Primo, erano iscritti al fascio di San Prospero, nella bassa modenese, fin dal 1920;  ed ambedue avevano partecipato alla marcia su Roma, il 28 ottobre 1922, con gli squadristi  di Modena.
Nato il 20 novembre del 1927, io ero stato battezzato con lo stesso nome dello zio paterno Primo, morto nel 1925 per i postumi di una feroce aggressione da lui subita da parte di un gruppo di socialisti inferociti nell’estate del 1924.
Il 16 settembre del 1943, mi ero iscritto alla federazione del Fascio repubblicano modenese, costituita da pochi giorni.
Il 2 novembre mi ero presentato alla caserma dell’8º Reggimento Bersaglieri di Verona per arruolarmi del 1º battaglione “Benito Mussolini” costituitosi il 9 settembre e  già operante, dal mese d’ottobre, contro il corpo partigiano di Tito che cercava di espandersi nell’alto goriziano, vulnerando la frontiera orientale d’Italia.
Il 3 novembre del 1945, rientravo in patria, dopo aver trascorso sei mesi di dura prigionia in Slovenia (campo di concentramento di Bovnica, nella piana di Lubiana, definito dall’arcivescovo trtistino dell’epoca, Monsignor Santin, il “campo dei morti viventi”), dov’era stato tradotto il Battaglione bersaglieri, bloccato da ingenti forze dell’armata partigiana jugoslava, il 30 aprile 1945 vicino a Caporetto   mentre - rimasto isolato - tentava la ritirata verso Udine.
Questi precedenti, mi collocavano in quel “popolo dell’abisso” citato da Antonio Carioti, quale luogo dell’esperienza psicologica della sconfitta e della persecuzione vissuta dai reduci della Repubblica Sociale Italiana.
L’iscrizione al nascente Msi, era dunque una scelta naturale, iscritta nel mio dna personale e familiare.
Il Fronte Giovanile, in quei primi mesi del 1947 era guidato dall’universitario Giorgio Martinat, figlio di Giulio: un   generale degli Alpini, caduto eroicamente in terra russa,  a Nikolajevca, nel 1943, alla testa del Battglione “Edolo”. Fui quasi subito chiamato a far parte del direttivo giovanile  e presi contatto con altri dirigenti giovanili del Triveneto.
A Verona l’attivismo giovanile era animato da: Ivan Benito Romei, dalmata, già alpino della divisione “Monterosa” nella Rsi, fratello del comandamte sommergibilista Romeo Romei, medaglia d’oro caduto nella guerra sottomarina nel 1942.
Romei sostituì ben presto Martinat alla guida del costituendo Raggruppamento Giovanile Studenti e Lavoratori del Msi.
Con Romei, desidero ricordare: Raimondo Meloni, Piero Tomasich ed il fratello Bruno, guida carismatica del gruppo goliardico “San Marco” nell’Università di Padova; Livio Valentini,  Eugenio Chiarelli e Raimondi Meloni ambedue feriti leggermente nella manifestazione di Trieste del marzo 1953; l’ex maró paracadutista Franco Annatelli.
Tutti costoro, con una scarsa decina di altri iscritti, difesero coraggiosamente la sede del Msi in via San Rocchetto, aggredita da una folla scatenata di antifascisti nel novembre  del 1947; i  quali  l’invasero, nonostante la strenua resistenza dei difensori, e la distrussero.
A Padova conobbi Cesare Pozzo e suo cugino Gianni Maria, allora laurenado in lettere e filosofia, cofondatori della sezione locale assieme a Gaetano Rasi; il quale mi farà conoscere succesivamente il Prof. Marino Gentile, del quale sarei divenuto allievo, frequentando le sue lezioni di filosofia nella prestigiosa facoltà di lettere alloggiata  nel celebre palazzo del Liviano.
Marino Gentile, triestino di nascita ma ormai patavino d’adozione, era stato consulente di Carlo Alberto Biggini, ministro dell’Educazione Nazionale durante la Rsi. Nell’immediato dopo guerra il Prof. Marino Gentile frequentava un cenacolo intellettuale che fiancheggiava il Msi, appena costituito.
Tale cenacolo s’era formato ai margini dell’antico Ateneo patavino dove, secondo la vulgata antifascista primeggiavano dopo il 1945 solo nomi “politicamente corretti” come: il grecista Manara Valgimigli (socialista), il penalista Giuseppe Bettiol (democristiano), il farmacologo Egidio Meneghetti (Partito d’Azione), il latinista Concetto Marchesi (comunista).
Quel cenacolo, dove si coltivava un pensiero differente da quello settario dell’antifascismo dominante, era composto da: Mario Ferraboschi, docente di diritto canonico ed avvocato prestigioso, nel cui studio professionale Gaetano Rasi  sarà poi giovane praticante; Luigi Pezzolo, docente di scienza della finanza collegato alla Facoltà di Economia dove spiccava, all’epoca, un grande economista antimarxista come Marco Fanno; Francesco Apergi, docente di diritto commerciale; Gerardo d’Ambrosio, ingegnere e preparatissimo economista aziendale.

2.- La costituzione del Msi nel Triveneto  e la situazione drammatica della Venezia Giulia e dell’Alto Adige.
A Venezia la sezione del Msi era stata fondata dal conte Paolo Foscari (47 anni)  d’antica famiglia patrizia veneziana; il quale era accompagnato da Edgardo Beltrametti, aspirante filosofo che si dedicherà, poi,  al giornalismo specializzandosi nelle problematiche militari, dal giovane toscano Gastone Romani, da Michele Di Bella,  profugo dall’Egeo, il quale si guadagnava da vivere, allora, come “arsenalotto” (operaio nell’Arsenale locale), da Giulio Raiola (che svolgerà poi una carriera giornalistica).
La sezione di Bolzano viene aperta dal diciannovenne Silvio Poggio, bolognese, già bersagliere volontario del 1º Btg. “Benito Mussolini”; il quale  cederá presto la segreteria all’Ingegnere Delfino Ardizzone (classe 1901), coadiuvato dai fatelli Andrea e Piero Mitolo, la cui azione simbolizzerá negli anni, la strenua battaglia per la difesa dell’italianitá di quella terre di confine.  Silvio Poggio assumerá la guida del Fronte Giovanile.
A Trento, apre la sezione locale René Ceccon (26 anni), funzionario municipale.
Nel settembre il trentunenne  Arturo Bonomi, apre la sezione a Treviso, assieme a Francesco Montagner, Carlo Mion, Gino Florian, Anna Maria Cusin.
Alessandro Biancuzzi costituisce la sezione di Udine e Romeo Sartori  (ventunenne) quella di Vicenza,  che presto eleggerà come segretario il commercialista Pietro Marchetto.  Ai primi del 1948 Andrea Borgato apre la sezione provinciale di Rovigo e Fernando Bacchetti (trentenne, reduce dal campo non cooperatori di Yol) quella di Belluno.
Il 29 giugno del 1947 si svolge a Padova il primo rapporto politico-organizzativo del Triveneto, presieduto da Paolo Foscari, con l’intervento di Achille Cruciani (un perugino di 26 anni che opera a Milano), segretario della Delegazione Alta Italia.
Durante la riunione si esamina la drammatica situazione della Venezia Giulia, dove il territorio soffriva una spartizione provvisoria che aveva assegnato agli Alleati angloamericani la cosiddetta Zona A,  comprendente Trieste, Gorizia, una  parte dell’altipiano carsico, ed una fascia di territorio compresa fra il confine del 1915 e gli altiopiani della sinistra del fiume Isonzo.
 La Yugoslavia di Tito dominava invece la parte orientale della provincia di Gorizia, tutta l’Istria e la cittá di Fiume: si trattava della Zona B che finirá poi definitamente assegnata alla Federazione yugoslava compresa la cittá di Pola.
La situazione in Alto Adige si stava facendo alquanto precaria, dinnanzi a gruppi di austriacanti, nostalgici dell’impero asburgico  che ribattezzavano l’Alto  Adige come“Sud Tirol” ed esigevano uno statuto speciale
René Ceccon a Trento ed i fratelli Mitolo a Bolzano, reagiscono  proponendo la  leale collaborazione  delle popolazioni di parlata tedesca e ladina con la popolazione italiana, nel quadro dell’identitá nazionale del territorio, ribadita fin dal 1938, “l’anno in cui il popolo germanico riconobbe come intangibile la linea di confine segnata dallo spartiacque alpino”.
Ceccon propone di raccogliere le due province dell’Alto Adige sotto l’antica denominazione di “Regione Alpina delle Alpi Retiche”. Tutti i gruppi giovanili del triveneto vengono attivamente impegnati per conservare e difendere l’identitá nazionale messa in discussione tanto in Venezia Giulia come nell’Alto Adige e compromessa da una politica di debolezza del governo nazionale.
Trieste costituisce la posizione piú avanzata e cruciale del neonato Movimento Sociale, dove fin dal 28 ottobre del 1946, i Far (Fasci d’azione rivoluzionaria) avevano issato un tricolore con il fascio littorio sul campanile della cattedrale di San Giusto. Anche a Trieste sono giovani e giovanissimi ad alzare l’insegna della Fiamma Tricolore.
Annalisa Terranova, ricorderà molti anni dopo (25 giugno 2015), recensendo il libro Trieste a Destra, che “senza il legame con l’associazionismo patriottico triestino, l’Msi non sabebbe stato l’Msi”.
Il fondatore della sezione triestina è l’industriale Giuseppe Sonzogno,  affiancato da un pattuglia di giovani animosi:  Alfio Morelli, Claudio De Ferra, Franco Petronio, Fabio Lonciari, Luciano Lucchetti, Francesco Paglia.
Francesco Paglia, che aveva difeso durante la Rsi, i confini orientali, quale volontario del Btg. “Mussolini” nel goriziano,  cadrà sotto piombo inglese assieme a Pierino Addobbati (militante della “Giovane Italia”) e ad altri quattro triestini il 6 novembre del 1953, durante l’insurrezione popolare che reclamava la fine del cosiddetto “territorio libero” amministrato dagli inglesi, ed il  conseguente ritorno di Trieste alla madre patria.
Nelle elezioni politiche del giugno 1953, il giornalista triestino Carlo Colognatti, segretario missino  poco piú che quarantenne,  sarà eletto deputato per il  collegio di Udine-Gorizia-Belluno nel giugno 1953.
Nella stessa tornata elettorale  gli eletti del MSI passano dalla esigua  pattuglia di 7 parlamentari dell’aprile del 1948 (sei deputati ed un senatore) a 29 deputati e 9 senatori.
Viene eletto,  nel collegio veneto di Verona-Vicenza-Padova-Rovigo,  Cesare Pozzo, (25 anni ) ferito, assieme a Fabio De Felice, durante la manifestazione seguita al grande comizio di Augusto De Marsanich al Politeama Rossetti di Trieste (8 marzo 1953).
 Candidandosi alle elezioni, Cesare Pozzo aveva ceduto il comando della federazione patavina al  patrizio veneto conte Alvise Loredan.
 La lista capeggiata da Pozzo, vede tra i candidati il conte Emo Capodilista (allora inedito  intellettuale, di peculiare valore speculativo) che Massimo Cacciari riscatterà da un ingiusto oblìo negli anni novanta.
 Emo Capodilista risulterà tra i primi  dei non eletti.

3. – IL  Raggruppamento  Giovanile Studenti e Lavoratori.
Nel maggio del 1947, lascio Verona dove rimane la mia famiglia, e mi trasferisco a Milano, da un parente  che mi offriva un impiego amministrativo in una piccola azienda edilizia  operante nella ricostruzione della capitale lombarda  che si rialzava lentamente dalle distruzioni belliche.
A Milano frequento la locale sezione, dove conosco i dirigenti della Delegazione Alta Italia del MSI, guidata dal Prof. Ernesto Massi un triestino di 37 anni, Gianluigi Gatti laureando in medicina,  dall’Avv. Manlio Sargenti, dal Prof. Salvatore Caltabiano, (già giudice del tribunale dei minori) e dal Prof. Achille Cruciani, segretario.
Provenienti, tutti, dall’esperienza della Rsi, costoro si riunivano nella sede di Via Radegonda, nel centro cittadino, in un vecchio palazzo salvatosi dai bombardamenti bellici,  il cui accesso era protetto da un paio di cavalli di frisia decorati da parecchio filo spinato.
Quando giunsi a Milano, la squadraccia della “Volante Rossa” aveva assassinato da poco il giornalista Aldo De Agazio, fondatore e direttore del settimanale “Meridiano d’Italia” che andava pubblicando un interessante servizio giornalistico sull’uccisione di Mussolini e sulla sparizione del “cosiddetto oro di Dongo”
In tasca al giornalista assassinato  il 21 marzo 1947, si rinviene una lettera firmata da Giorgio Almirante (datata 1 febbraio), dove si affidava al povero De Agazio una missione delicata ed urgente.
Abbiamo avuto notizia – scriveva Almirante a nome della Giunta nazionale del Msi di cui, allora,  era il segretario esecutivo – che il cardinale Fossati di Torino ha convocato parecchie persone e personalità allo scopo di addivenire alla fondazione in Piemonte di squadre di resistenza anticomunista. Tu capirai cosa significa e cosa può significare ciò. Affidiamo quindi a te la missione di andare a Torino, possibilmente con altra persona di tua fiducia, di farti ad ogni costo ricevere dal Fossati e di prospettargli la possibilità che il Msi collabori con lui. Gli puoi dire – perchè è vero che i gesuiti di qua ci conoscono, ci approvano e ci appoggiano.[...] Non ci siamo rivolti al nostro incaricato di Torino perchè  la cosa è troppo delicata e interessante. Vedi tu, con il tuo diplomatico tatto, il modo migliore per condurla in porto. Comunque tieni presente che a Torino potrai appoggiarti – se vorrai – all’ing. Giovanni Volpe (figlio di Gioacchino) presso il quale funziona la nostra sezione”.
Da questo documento emerge quale fosse il clima in cui doveva operare il Msi nell’Italia del centro-nord.
Il segretario giovanile milanese, Enrico Fiorini, ex-parà del Btg. “Nembo” della Rsi, mi chiamó nella sua giunta giovanile, dove conobbi Mirko Tremaglia e Giorgio Pisano che calavano quasi ogni giorno, uno da Bergamo ed uno da Como, per concordare con il gruppo milanese l’azione di proselitismo in Lombardia e dintorni.
La delegazione Alta Italia aveva da poco avviato la pubblicazione di un settimanale - Avanguardia Sociale, diretta da Salvatore Caltabiano -  dove si  era aperto un  esame interessante del nostro recente passato, al quale io stesso partecipai con una cruda critica al gerarchismo burocratico del ventennio fascista.
In una dei miei primi articoli, avanzavo, assai ingenuamente – lo riconosco, oggi – una proposta di pacificazione tra fascisti ed antifascisti, scrivendo con giovanile retorica:
Gioventù al di quà e al di là della Linea Gotica riunisciti, ritrovati, svesti l’intransigenza, l’isolamento, il rancore covato, la prevenzione, privati del piacere della vendatta e fanne un rogo. Levati i calzai ed entra nelle fiamme, poi con cuore puro, unita, compatta, balza decisa, oltre la Gotica, ad incontrare l’Italia”.
Cito questo passo per dimostrare che i combattenti della Rsi non attesero cinquant’anni – come farà poi l’ex comunista Luciano Violante nel 1996 – per offrire, a partire  dagli ex-combattenti dei due fronti contrapposti, la pacificazioe della Nazione Italiana lacerata drammaticamente dalla guerra civile 1943-45.
Ma quell’appello restò senza risposta, con le conseguenze che conosciamo. Anzi esso fu violentamente osteggiato dal fronte dell’antifascismo militante capeggiato dal Partito Comunista Italiano, che  il 19 gennaio 1947, interruppe una cerimonia promossa all’Università di Roma, dallo storico Piero Operti, già partigiano monarchico, mutilato di guerra e medaglia d’argento al valor militare conseguita nella guerra 1915-18.
La riunione che si doveva svolgere nella facoltà di Giurisprudenza per la riconciliazioine fra reduci della Rsi e combattenti partigiani, con il sostegno del quotidiano romano “Il Tempo”, venne interrotta violentemente da un comando comunista guidato da Cino Moscatelli che la fece fallire.
Ripresi la critica al gerarchismo improduttivo - che aveva inaridito gli slanci del fascismo durante il regime del Ventennio  - su un periodico giovanile promosso alla vigilia delle elezioni del 1948 da Tremaglia, Pisanò, Fiorini e da me; lo  intitolammo “Vent’anni – periodico di bonifica integrale”, riprendendo la testata del giornale  di Guido Pallotta.
Il mio articolo apriva il periodico con un titolo provocatore: “La caduta degli Dei” dove - con baldanza giovanile alquanto incosciente, e mettendoli tutti nello stesso sacco -  attaccavo i gerarchi fascisti, da quelli del Gran Consiglio ai più modesti gerarchi di provincia.
Quell’ articolo voleva suonare un campanello d’allarme contro personaggi  opportunisti e screditati del passato (il riferimento era indirettamente rivolto specialmente all’ex qualunquista Emilio Patrissi, con il quale il Msi, allora,  stava trattando).
 Mi preoccupava  l’insorgere, nel nuovo e giovane movimento della Fiamma,   di un certo autoritarismo, una eredità del passato considerata una forma di corruzione dell’autentico principio d’autorità, invece  da preservare.
Quell’articolo non piacque ad Angelo Berenzi, giornalista colto,  già direttore del quotidiano di Vicenza durante la Rsi, collaboratore  anch’egli di Avanguardia Sociale.
All’uscita del congresso provinciale del Msi milanese (13  giugno 1948), Berenzi mi affrontò rimproverandomi di essere stato ingeneroso verso modesti gerarchi provinciali, molti dei quali pagarono poi, dopo il 25 luglio 1943, errori ed abusi non loro.
 La nostra discussione finì in una discreta trattoria di Porta Venezia, dinnanzi ad un generoso bicchiere di vino, che segnó una leale  e profonda amicizia che mi  legò poi ad Angelo Berenzi per tutta la vita.
Nel congresso provinciale milanese avevo presentato, assieme ad Enrico Fiorini,  un documento che si richiamava all’etica del “senso eroico della vita” accompagnato però dalla “rinuncia alla prassi dittatoriale del fascismo”, perchè lo scopo da perseguire doveva essere:“il fermo e leale proposito dell’inserimento degli ex-fascisti nello schieramento democratico del Paese”.
Tale inserimento non doveva significare adesione alla deteriore partitocrazia moderna, bensì la ricerca di un “nuovo umanesimo del lavoro” (con un riferimento esplicito al pensiero dell’ultimo Gentile”), al fine di costituire: “una comunità d’individui con uguali diritti ed uguali poteri, senza sfruttati e sfruttatori, regolati nei loro rapporti da leggi imparziali liberamente espresse attraverso gli organi legislativi”.
Dal 27 al 29 giugno di quell’anno partecipai, quale delegato eletto del Msi milanese al 1º Congresso Nazionale tenutosi nella Sala Tarsia di Napoli, dove  -aprendosi la seduta inaugurale -  presentai una mozione di saluto al Maresciallo Graziani, quale  “simbolo dell’onore e delle glorie militari nazionali”, allora incarcerato.
La mozione d’ordine era firmata, inoltre, da Enrico Fiorini  per Milano, da Bartolomeo Zanenga ex parà del “Nembo” per Belluno, dal ex-bersagliere Rsi Livio Valentini per Verona, dal giovane volontario dalmata Pompeo Mariani, per Varese.
Nel settembre del 1948, esaurito il tentativo di una professione amministrativa per la quale non era tagliato, rientravo a Verona, assumendo la guida del locale gruppo giovanile.

  Nel 1949 conseguivo, da studente privatista, l’abilitazione magistrale per iscrivermi succesivamente alla Facoltá di Magistero dell’Universitá di Padova, dove avevo la fortuna di conoscere Marino Gentile, grande maestro di pensiero che avrebbe modellato profondamente la mia  - ancora acerba, allora - personalitá intellettuale.
Dal 12 Al 13 marzo partecipo alla 1ª Assemblea Nazionale del Raggruppamento Giovanile Studenti e Lavoratori, che già dal novembre del 1947 aveva sostituito il Fronte Giovanile.
Roberto Mieville – ferrarese, giovanissimo ufficiale carrista in Africa  settetrionale, catturato dagli americani   a Enfidaville (1943, Tunisia) durante la ritirata del corpo italo-tedesco  dal fronte libico - era stato prigioniero non-cooperatore ad Hereford negli Stati Uniti, da dove era rientrato in patria nel 1946 indossando la camicia nera.
 Mieville aveva aderito fin dalla fondazione al Msi, dove alla fine del 1947 aveva assunto la segreteria della nuova formazione giovanile, dotandola di una certa autonomia politico-organizzativa che garantiva il suo collegamento al Msi, attraverso un cordone ombelicale costituito dalla presenza istituzionale del responsabile giovanile sia nelle rispettive  direzioni provinciali che nella direzione nazionale della Fiamma.

Quell’autonomia  -movimentata da forti discussioni ideologiche  tralignate in piú d’una occazione addirittura in qualche scontro fisico – sarà poi abolita dal IVº congresso del partito a Viareggio (1954).
I delegati provenienti dalla province furono alloggiati in quell’occasione nella foresteria del Foro Mussolini, che Roberto Mieville era riuscito – non ricordo come – a conseguire.
La giunta  nazionale giovanile uscita da quell’assemblea per affiancare Mieville comprendeva, tra gli altri, Giuseppe Ciammaruconi,  Mario Tedeschi, Enrico De Boccard, Giorgio Pisanó, Mirko Tremaglia,   Gianfranco Finaldi, Marcello Perina, Angelo Nicosia.
Si trattava di  un gruppo umano raccolto attorno alla rivista Architrave, diretta da Guido Scotto e dal giornale quindicinale L’Assalto, di cui  direttore era Ciammaruconi.
La politica giovanile di questo  gruppo si distingue per un attivismo pragmatistico, con certa inclinazione per le idee di una “sinistra nazionale” che s’ispira al programma sociale della Rsi.
Per i rapporti tra Raggruppamento giovanile e partito, quella prima Assemblea nazionale, nel suo documento finale, afferma di accettare l’origine e la fisionomia del partito, “nel quale come giovani si sentono inseriti”, ma subito dopo avverte che questi giovani ritengono d’avere una funzione politica altresì  verso la gioventù italiana per assolvere la quale debbono acquistare “una individualità  più caratteristica ed acentuata”  di quella che finora hanno avuto.
 Durante l’Assemblea Giovanile, mi incontrai con Achille Billi (classe 1929), delegato del gruppo giovanile romano e che avevo conosciuto (novembre 1944) nel Btg. Bersaglieri Mussolini, essendo stato inquadrato nella mia stessa compagnia.
 Un mese  dopo il nostro incontro a Roma, Billi verrà trovato assassinato, sulla riva del Tevere, imbavagliato con un fazzoletto tricolore. Non si seppe mai chi lo avesse ucciso, ma i sospetti andavano verso qualche agente di Tito infiltrato tra profughi politici anticomunisti yugoslavi che si muovevano in Italia.
Achille Billi non fu la sola vittima della sua fede politica. Prima di lui erano stati assassinati: Brunilde Tanzi, giovane ausiliaria nella Rsi, uccisa nel centro di Milano; sempre a Milano, il giornalista Franco De Agazio, del quale già s’è detto. Lo studente Vittorio Ferri, era stato linciato a Pisa da un gruppo di comunisti, inferociti per l’attentato al loro capo Palmiro Togliatti. Infine il 31 ottobre del 1949, era stato ucciso Francesco Nigro, bracciante agricolo, segretario della sezione missina di Melissa (Crotone), durante un’occupazione di terre incoltivate.
L’esito dell’ all’assemblea giovanile di Roma, - svoltasi all’insegna del motto “Italia, svegliati” - mobilita la gioventù missina in tutto il territorio e mi consente  nuovi contatti con giovani attivisti e dirigenti dell’Alta Italia: Roberto Garufi, Sergio Pessot, Piero e Franco Vassallo, Alessandro Guarnieri  e Piero Catanoso a Genova;  Piero Turrini a Savona; Titta Dal Cero e Dina Festa ad Imperia; Guido Giannettini a La Spezia; Roberto Melchionda e Marcello Mainardi ed Elio Barucco a Brescia; Carlo Casalena, Gianni Rebaudengo,  Giampiero Martelli, Mario Marcolla a Torino; Piero Buscaroli,  Giampaolo Vita-Finzi, Romano Ricciotti, Bruno Bosso, Sergio Nanni a Bologna¸ Gianni Alberto Rinaldi a Ferrara.
Poco dopo l’assemblea di Roma, la Giunta giovanile nazionale soffre una crisi dovuta al seguente episodio.
Discutendosi in Parlamento l’adesione al Patto Atlantico, proposto alle nazioni occidentali dagli Stati Uniti, nel clima di guerra fredda che divideva l’Unione sovietica con tutti i suoi satelliti, dal cosidetto “mondo libero”, il gruppo parlamentare del Msi aveva deciso di votare contro, pur attribuendo al loro no  un significato non pregiudizievole.
In tal modo i parlamentari della Fiamma raccolgono la volontà del mondo giovanile missino  che aveva manifestato compattamente la sua avversione a quel Patto,  considerando che tanto il filoamericanismo come il filobolscevismo erano facce dello stesso male, non i termini di una scelta.
Il deputato palermitano  Guido Russo-Perez  del gruppo parlamentare del Msi, si dissociò alla Camera dai suoi colleghi, dichiarando di votare a favore.
Egli  venne quindi affrontato da alcuni dirigenti giovanili, tra cui Giulio Caradonna,  Giuseppe Ciammaruconi,  Mario Tedeschi, Enrico De Boccard e ricevette un paio di ceffoni. Gli aggressori di Russo-Perez furono sospesi  dal partito, mentre Mieville - per solidarietà con i suoi collaboratori - si dimise dall’incarico di segretario del Raggruppamento Giovanile;  e venne sostituito   da Cesco Giulio Baghino come Commissario nazionale.
Baghino costituì una nuova Giunta nazionale composta da quattro residenti a Roma: Giorgio Borghetti, Maria Teresa Magno, Bruno Colletti, Bartolomeo Zanenga, bellunese che stava facendo pratica giornalistica nella capitale; e da esponenti dei gruppi giovanili periferici,  sparsi sul territorio: Michele M. Di Bella (Venezia) Carlo Amedeo Gamba (Padova), Carlo Casalena (Torino), Giorgio Pisanò (Milano), Primo Siena (Verona), Vito Cusimano (Catania), Angelo Nicosia (Palermo), Armando Epifani (Taranto), Enrico De Angelis (Napoli).
La nuova Giunta indisse per il 23-24 settembre del 1950 la seconda Assemblea nazionale, convocandola nella rossa Bologna, in audace sfida al socialcomunismo.
Il documento finale - dovuto in gran parte alla penna brillante di Carlo Casalena - emesso da quella assemblea - traccia una strategia politica e dottrinale riassunta nella consegna “Dallo scontro alla conquista”.
Questa strategia viene raccolta da tutti i gruppi giovanili; i quali lanciano una offensiva frontale  nelle scuole medie superiori, nelle universitá, in sedi politiche e culturali, sfruttando ottimamente la disposizione impartita da comunisti, socialisti e democristiani: aprire le propie sedi  ai giovani d’ogni colore, per sottrarli all’azione di conquista lanciata dalla gioventù del Msi.
 In queste occasioni  i protagonisti vittoriosi  dei dibattiti che s’accendevano, erano sempre gli esponenti giovanili della Fiamma, che s’imponevano per  preparazione storico-culturale, abilità dialettica, spirito critico e sorprendente capacità dottrinale.
A Brescia, il sottoscritto riusciva a”scippare” letteralmente alla gioventù democristiana una conferenza del sociologo Achille Ardigò, mentre a Padova gli universitari del gruppo goliardico “San Marco”, guidati da Bruno Tomasich rompevano l’assedio politico-culturale fino ad allora imposto in quel glorioso Ateneo, affermandosi con prestigio nella goliardia locale.
 Analogamente, i giovani del Raggruppamento s’imponevano in altre località come Piero Buscaroli a Bologna, Casalena a Torino, Milano, Genova. Michele Di Bella, con Cesare Pozzo a Venezia; e così in tutt’Italia.
Come riconoscerà  poi Enzo Erra, in una sua testimonianza allo scrittore Carioti, gli avversari invitavano i giovani missini a discutere perchè erano divenuti una forza politica reale, nuova, che dominava le scuole medie ed era assai influente nelle università.
In coincidenza con l’assemblea nazionale  di Bologna, erano uscite due riviste giovanili, Imperium a Roma e Cantiere a Verona, considerate da Antonio Carioti - nel libro da lui dedicato al “sessantotto nero” de Gli orfani di Salò[1]“due importanti iniziative culturali”, la seconda delle quali sarà organo ufficioso del settore studi e cultura della Giunta nazionale guidata da Cesco Giulio Baghino.
L’Assemblea giovanile di Bologna elegge una nuova Giunta nazionale che riconferma i seguenti dirigenti della anteriore Giunta Commissariale: Casalena, Siena, Pisanò, Nicosia, Borghetti, Maria Teresa Magno, ai quali si aggiungono Silvio Vitale ed Adriana Palomby (Napoli) e Mirko Tremaglia (Bergamo).

4.- Le correnti giovanili, tra “ Figli del Sole” e “Visi pallidi”.
Due correnti  correnti   ideali, due maniere di considerare la politica movimentarano gli albori del Msi.
 La prima, definita altresì “corrente sociale”  si richiamava ai posulati della Rsi: Italia-Repubblica-Socializzazione, e propugnava una specie di “socialismo nazionale” incentrato in uno Stato del Lavoro antimaterialista.
La seconda corrente era più possibilista,  incline ad una considerazione etica dello Stato, aveva una visione sociale corporativa nell’ambito di una società organica, definita altresì “corrente intellettualistico-aristocratica”[2].
La prima corrente sembrava  comoda nell’ isolamento politico, per non contaminare la purezza della propria identità; la seconda propendeva per una attenzione strategica con altre forze politiche nazionali ed anticomuniste per  una politica  cosiddetta “d’inserimento”.
Alla “corrente sociale”, nell’ambito giovanile corrispondeva grosso modo l’orientamento dei “visi pallidi”, mentre i “figli del sole” erano considerati piuttosto prossimi alla corrente “aristocratico-intellettualistica”, sia pure con trasversalismi che in varie occasion s’incrociavano.
Le definizione di “figli del sole” e “visi pallidi” s’impone al congresso del Msi convocato a  L’Aquila dal 26 al 28 luglio del 1952. Essa  si deve ad un giornalista del Tempo, Giuseppe Antonio Longo. Il quale cogliendo nel pallore dei secondi “i segni di una macerazione interiore” li paragona “alle sinistre eretiche e minoritarie” in una cronaca del congresso inviata al suo giornale.
Sono soprannominati “figli del sole” dai loro oppositori,  invece i primi, ritenuti “bizzarri e presuntuosi”, a causa del loro  interesse per gli studi esoterici e delle civiltà antiche.
In questo caso si trattava di un nomignolo affibbiato alla corrente considerata  “evoliana” all’interno del Raggrupamento giovanile, ma che raccoglieva non solo seguaci di Julius Evola, bensì giovani gentiliani (come Carlo Amedeo Gamba), tradizionalisti scaligeriani (come Enzo Erra, seguace di Massimo Scaligero) e tradizionalisti cattolici (come Fausto Belfiori, Gianfranceschi ed il sottoscritto).
Sarà proprio Enzo Erra – anni dopo – a spiegare, al riguardo:
Non era necessario essere evoliani in senso stretto o – come si cominciò a dire, prendendo per buono un motto derisorio degli avversari - figli del sole  per sentirsi parte di un mondo opposto ad un altro, portatori di una concezione spirituale  e morale in aperto contrasto con il materialismo e l’edonismo che trionfavano ovunque, dopo la vittoria congiunta delle potenze democratiche dell’ovest e comuniste dell’est. Coincidevano con questa scelta di campo ideale e civile, altri impulsi che ricadevano nella stessa direzione, pur venendo da fonti diverse, alcune delle quali in fiero contrasto con il nocciolo delle teorie evoliane, e con la struttura piú generale del suo sistema”.
Più avanti, Erra precisa: “Il richiamo alla tradizione, ad esempio, risuonava con forza  in ambienti monarchici e legittimisti (riferiti però, a dinastie diverse); i quali per più motivi storico-istituzionali erano in dissenso con quanti direttamente si riferivano alla Rsi, e influiva anche in settori cattolici più legati all’ortodossia e meno esposti alle tentazioni moderniste”.

Erra aggiunge, infine, che l’ispirazione spiritualista del “figli del sole” interessava altresì  “pensatori e gruppi idealistici gentiliani e persino hegeliani, che erano in rotta di collisione con Evola, sul diverso piano del dibattito filosofico[3].

Ma qual era l’origine del nomignolo “figli del sole”? 

Discutendo su possibili risoluzioni del problema sociale –argomento di scottanti discussioni all’interno del Msi -  sembra che Evola, di buon umore, avesse commentato ai giovani della redazione di “Imperium”, che una soluzione buona poteva essere quella dei guerrieri sciti.
Ed aveva raccontato loro questa storia:  “I guerrieri sciti, rimasti per 28 anni lontani dalla loro terra natía per aver tenuto l’impero dell’Asia Minore, desiderarono rientrare in patria, trovandola occupata da una schiatta di schiavi usurpatori. I quali furono vinti non da armi classiche (spade, lance, frecce), ma solo dall’uso della frusta. Infatti quando i guerrieri sciti, considerati “figli del sole”, schioccarono le loro fruste sugli schiavi nemici, costoro chinarono la schiena, arrendendosi[4].
La  storiella raccolta  dall’ambiente giovanile tradizionlista,  era sciorinata polemicamente come una soluzione della “questione sociale”; e faceva andare in bestia i  giovani contraddittori social-progressisti.
In occasione del Congresso dell’Aquila, la direzione del Raggruppamento Giovanile - ormai saldamente in mano alla corrente giovanile di Enzo Erra - emana due ordini del giorno.
Nel primo,  il “carattere rivoluzionario” del Msi  é visto come il presupposto essenziale per poter svolgere, in sede tattica, “la politica che le contingenze renderanno, di volta in volta, necessaria”.
Dichiarazione questa che si differenzia sostanzialmente da coloro che all’interno del Movimento contestano l’alleanza elettorale  del Msi con i monarchici -  alleanza sostenuta dalla segreteria di Augusto De Marsanich - e che aveva permesso il grande risultato nelle elezioni amministrative nel Mezzogiorno d’Italia, dove la coalizione missino-monarchica aveva conquistato i municipi di Napoli, Salerno, Benevento, Bari, Foggia e numerosi centri minori.
Quel documento giovanile inoltre “rifiuta nella maniera piú decisa la concezione e la prassi di una ”dialettica interna di partito impostata in termini di destra e di sinistra”.
Affermazione, anche questa, che punta a delegittimare coloro che criticavano la politica di De Marsanich, considerata compromissoria, perché protesa all’espansione verso altri ambienti di destra.
I giovani “figli del sole” inoltre rigettano la distinzione tra progressisti e conservatori, perché considerano che la radice fascista é alternativa ad ogni dottrina egualitaria, sia essa liberale o comunista.  Si sostiene, quindi che l ’originalitá di tale radice  consente,  a chi se ne senta erede,  di avventurarsi nelle manovre politiche piú spregiudicate, senza rinunciare alla meta rivoluzionaria finale.
La strategia di Enzo Erra, cerca di coniugare – come si vede - una politica pragmatista delle alleanze con l’intransigenza dottrinale di fondo, perché egli – come teorizzerá poi nei suoi libri – ritiene che il fascismo sia stato pensiero ed azione, per cui la politica in concreto  é “intervento”: pensiero tradotto  in azione,  o non é.
In base a questo pensiero si spiega – a mio avviso – la decisione  di diversificarsi  dagli altri due schieramenti: uno guidato da  De Marsanich, Michelini, e Almirante (mozione di centro: “Per l’unità del Movimento”) e l’altro da  Massi (mozione di sinistra: “Per una Repubblica sociale”), presentando una lista  della corrente dei “figli del sole”, al IV° congresso del partito che si svolgerá per mozioni contrapposte a Viareggio dal 9 all’11 gennaio del 1954.
La mozione dei giovani - inizialmente denominata “Estrema Destra”, titolo obiettato da Pino Rauti, che rifiutava questa etichetta – restò identificata dal sottotitolo “Per una grande Italia, per una nuova Europa” .
La lista presentata da questa mozione, venne capeggiata da Pino Romualdi, seguito da Ernesto De Marzio - personaggio sempre sensibile verso i “figli del sole”, soprattutto quelli d’ispirazione cattolica – e dal suo amico sardo Giovanni Maria Angioy. Cosicchè Enzo Erra dovette accontentarsi d’essere il quarto capolista.
Antonio Carioti, nel suo libro dedicato ai  “Ragazzi della Fiamma” (I giovani neofascisti e il progetto della grande destra. 1952-1956), afferma che il documento congressuale dei “figli del sole” rivelava – parole sue –“una ferrea ispirazione antidemocratica” ed esaltava uno Stato fondato sul puro principio d’autorità e gerarchia, dove il principio di libertà individuale era concepita in funzione del bene comune
Ma, con tutto il rispetto che si merita Carioti, la sua mi sembra una lettura piuttosto affrettata e superficiale.
Esaminate in profondità, le idee espresse  in quella mozione – alla quale aveva dato un sostanziale contributo Carlo Costamagna, che si candidava anch’egli accanto ai “·figli del sole” – richiamavano due fondamentali principi dottrinali: uno tratto da Giambattista Vico e l’altro dalla scuola organicistica  di Vienna rappresentata da Otmar Spann e Walter Heinrich; i quali negli Anni Trenta avevano collaborato alla rivista “Lo Stato” diretta da Costamagna.
Il principio vichiano era: la società (e quindi lo Stato, quale comunità organizzata) non sorge da un contratto, come sostiene Rousseu, padre nobile della democrazia moderna nutrita di cultura illuminista. La società, e quindi lo Stato – secondo Vico - si costituisce per “diritto naturale  eterno che scorre nel tempo”, e i suoi elementi essenziali sono: “la famiglia, la giustizia, la religione”.
La mozione dei “figli del sole” - in analogia trasparente con il principio vichiano - afferma: “La sovranità non proviene allo Stato da un’investitura dal basso, ma è attributo originario, connaturato ai fini ch’esso deve attuare”.
A sua volta la scuola organicistica viennese sosteneva che l’appartenenza alla comunità civile e nazionale, non sgorga da un contratto, nè da una volontà astratta, ma dalla natura costitutiva dell’uomo, per cui essa proponeva una riedificazione dello Stato moderno dal profondo e dall’alto.
Questa posizione dottrinale emergeva nella mozione dei “figli del sole” laddove essa affermava: “In uno Stato così concepito, la rappresentanza sarà rappresentanza di virtù, di competenze, d’interessi e sarà rappresentanza non di popolo, ma delle associazioni politiche, morali, culturali e professionali nelle quali il popolo acquista concretezza di esistenza  ed evidenza di lineamenti. Questa rappresentanza non si arrogherà il diritto di definire l’interesse generale,  che non può risultare nè dalla somma d’interessi particolari, nè dal compromesso fra essi; ma darà allo Stato gli elementi di valutazione politici ed economici e provvederà alle funzioni regolamentari ad essa dallo Stato devolute”.
Appare assai significativo  notare – in questa rilettura –  l’uso del plurale nelle “associazioni politiche”, che di fatto esclude la relegazione della rappresentanza in un partito unico.
In questo modo, la mozione giovanile con una formula originale si  apriva al pluralismo politico senza aderire al pluralismo partitocratico.
Originale altresì la conclusione del documento, dove si legge:”Il Msi, per i principi che proclama, per l’eredità che rivendica,  deve assumersi la tutela degli interessi della collettività minacciata dallo scatenarsi di contrastanti egoismi che stanno consumando il tessuto connettivo della società nazionale. Oggi che le pretese  appoggiate dalla forza del denaro o dalla forza del numero, prendono il nome di diritti e trovano il sollecito patrocinio dei partiti politici, il Msi per dare espressione politica alle preoccupazioni di milioni d’italiani, deve qualificarsi come il partito del dovere nazionale”.
I “figli del sole” sono stati considerati dei “neofascisti” radicali, ma mi sembra chiaro che il loro neofascismo dottrinalmente era già qualcosa di diverso da quello pigramente nostalgico, esibito da altre componenti del Movimento Sociale.
La loro intransigenza nasceva da una motivata ostilità verso il fascismo burocratico del Partito nazionale fascista, nella consapevolezza che l’antifascismo vigente ripeteva gli aspetti spurii e negativi del fascismo-regime: conformismo politico, carrierismo, ipocrisia.
Consapevolezza sintetizzata da Giuseppe Prezzolini nella graffiante definizione dell’antifascismo quale: “’incancrimento degenerativo del fascismo” e che induceva Giacomo Noventa a precisare: “L’antifascismo è una setta interna al fascismo”.
Allora  - anch’io “figlio del sole”  - mi sentivo,  come i miei camerati, un rivoluzionario: neofita, però,  di una rivoluzione intesa come l’intendeva, a suo tempo, Berto Ricci su Il Selvaggio del 15 dicembre 1926: “Successione di aristocrazie e ringiovimento della nazione”. E mi sentivo eretico, come lo era stato Berto:   eretico e protestario verso il fascismo storico, per aver impedito l’avvento di un fascismo puro.
La corrente giovanile riusciva a Viareggio, giusto giusto,  a raggiungere il quorum minimo di 120 voti e portava in Comitato Centrale – oltre a Romualdi, De Marzio, Giovanni M.Angioy, Costamagna -  una agguerrita pattuglia di 15 giovani: Enzo Erra, Fabio De Felice, Cesare Pozzo, Angelo Nicosia, Carlo Casalena, Pino Rauti, Franco Petronio, Carlamedeo Gamba, Silvio Vitale, Enrico De Boccard, Primo Siena, Giorgio Ciarrocca, Giano Accame, Vito Cusimano.
Però lo stesso congresso, votava a maggioranza la perdita dell’autonomia del Raggruppamento giovanile, con la soppressione delle elezione dal basso dei suoi organi direttivi centrali e periferici; e  stabiliva un controllo del partito su tutta l’organizzazione giovanile.
Tomaso Staiti di Cuddia, anni dopo, commenterà amaramente: “L’autonomia dei giovani creava nel Msi una gran confusione, ma era un segno di vitalità. Purtroppo i partiti, maledetti loro, vogliono sempre controllare tutto”.
Perduta l’autonomia del Raggruppamento giovanile, inizierà una    frantumazione lenta che si concluderà con la diaspora politica dei “figli del sole”; essa culminerà dopo il Vº Congresso nazionale  del Movimento (Milano, dicembre 1956) e che porterà Arturo Michelini alla segreteria del Msi (riconfermato, successivamente fino al suo decesso: 15 giugno del 1969).
Infatti, l’esito del congresso di Milano induce Pino Rauti, con i suoi seguaci a lasciare il Msi, per costituire il “Centro di studi politici Ordine Nuovo”. Successivamente se ne andranno per diversi motivi: Giano Accame, Cesare Pozzo, Fabio De Felice.
La sinistra interna viene a sua volta indebolita con l’uscita di Ernesto Massi, Manlio Sargenti, Franesco Palamenghi-Crispi Giorgio Pisanò, Mirko Tremaglia.
 L’eredità dei “figli del sole” sarà raccolta in parte dalla Associazione Studentesca “Giovane Italia”, guidata negli anni Cinquanta da Fausto Gianfranceschi e successivamente da Massimo Anderson e Pietro  Cerullo, fino alla  sua fusione nel 1970 con il  sopravissuto Raggruppamento giovanile,   per dar vita ad una formazione unica: “Il Fronte della Gioventù”.
L’Associazione studentesca diverrà una fucina d’iniziative culturali ed attivistiche che mettetrà in luce  molti giovani di valore, tra i quali, spiccheranno: i fratelli Adalberto e Romolo Baldoni, Giuseppe Tricoli, Mario Marcolla, Gianfranco Legitimo, Pinuccio Tatarella; il quale – intervistato negli Anni Novanta da Adalberto Baldoni – dirà:
La Giovane Italia fu una doppia contestazione al sistema dei partiti già imperante e alla incapacità dei responsabili del mondo scolastico di risolvere i  problemi della gioventù. Fu un contenitore arioso di proposte, di riscoperte e di contestazioni. Fu una fucina straordinaria di vivaci ed anarchiche intelligenze, con una coralità d’impegno e di tensione  non più riscontrabili  nei successivi movimenti giovanili”[5].

5.-La cultura come impegno politico.
S’ è imposto come luogo comune, divulgato soprattutto dagli avversari, che la cultura sarebbe stata  la grande assente nel Msi e dintorni.
È una tesi che non ho mai accettato. Attorno al Msi  -ed all’area detta di “destra” che lo ha contornato-  vi è stata sempre una “visibilità della cultura” anche se mediante  un approccio “eterodosso”. Basta guardare alla proliferazione di giornali, riviste e pubblicazioni varie, collegate direttamente o indirettamente, con la varie correnti politiche esistenti all’interno del Msi.
Voglio ricordare qui  solo alcuni titoli e testate di queste pubblicazioni  -(l’economia del tempo, non permette altro in questa sede) – che dimostrano invece la vivacità e la consistenza di temi culturali che circolavano all’interno ed attorno al movimento della Fiamma Tricolore:
 Il Pensiero Italiano (rivista mensile, patrocinata da Costantino Patrizi come editore) e la Casa Editrice L’Arnia: presenti tra il 1947 ed il 1953; Nazione Sociale, che faceva capo ad Ernesto Massi; I settimanali: Rivolta Ideale, Asso di Bastoni, Meridiano d’Italia;  Il Nazionale di Ezio M. Gray, Rosso e Nero di Alberto Giovannini; I Vespri d’Italia di Alfredo Cucco; Il Picchio Verde a Catania  di Orazio Santagati.
 I giornali  quotidiani: L’Ordine Sociale, quindi Il Secolo d’ Italia e Il Popolo Italiano; i rotocalchi Domani, Barbarossa, Cronaca Italiana; la rivista mensile Occidente di Ernesto De Marzio; la rivista internazionale Europa Nazione di Filippo Anfuso e  le riviste  Nazionalismo Sociale di Edmondo Cione a Napoli,  Rivista Romana di Vanni Teodorani e l’Italiano di Pino Romualdi a Roma.
La stampa giovanile: Vent’anni, a Milano; La sfida e poi Imperium a Roma; Cantiere a Verona; Repubblica Sociale di Delfino e Belfiori a Roma; La Sberla  Michele Di Bella a Venezia, Risveglio Nazionale di Cesare Pozzo e Gaetano Rasi a Padova, Il Reazionario di Piero Buscaroli a Bologna; Architrave e L’Assalto a Roma; Riscossa a Salerno, La Fiamma di Silvio Vitale,  a Napoli.
Le  due correnti dottrinali  che prevalevano nel Msi si ispiravano a due maestri del pensiero: Giovanni Gentile e Julius Evola.
Giovanni Gentile – come ha osservato un intellettuale cattolico di sinistra  quale Giovanni Tassani – possedeva tutte le caratteristiche per “esercitare culturalmente un ruolo baricentrico” tra le spinte contrapposte entro il Msi: il risorgimentalismo mazziniano del “pensiero ed azione” che si sposava infine con una dimensione neo-cattolica per soddisfare tanto la tematica dei corporativisti alla De Marsanich, come quella dei “socializzatori” alla Massi[6].
Un gentilianesimo militante era quello della rivista “Studi Gentiliani, per un Umanesimo del Lavoro” diretta a Pisa da Vittorio Vettori; il quale organizzerà nel 1955, in Santa Croce a Firenze, il primo grande convegno di “Studi gentiliani” del dopoguerra con l’adesione di notevoli cultori del pensiero filosofico del tempo (Bontadini, Sciacca, Stefanini, Diano, Cione, Spirito, Guzzo, Marino Gentile) e lo scultore Francesco Messina.
Secondo Tassani “Di spirito costruttivista gentiliano appare colma – altresì – la rivista Cantiere” (promossa dal sottoscritto, con la condirezione di Carlo Casalena e Carlo Amedeo Gamba, dal 1950 al 1953), ma con un impegno culturale che si sforza d’innestare nel proprio arco ideologico la componente evoliana dell’ ideale eroico, per “cauterizzare – osserva ancora Tassani –le tentazioni viste come demagogiche e parolaie della sinistra socializzatrice missina”.
Cantiere  publica (marzo-aprile 1951) una “Carta della gioventù” stesa da Evola su un canovaccio preparato dal sottoscritto. Questa “Carta” sarà recepita poi – con adeguamenti adattabili ad un orientamento accentuatamente cattolicizzante – quale documento fondamentale dalla “Giovane Italia”.
Come chioserá posteriormente Marcello Veneziani, Evola ha insegnato alla gioventù di destra a leggere il fascismo in chiave critica, per scongelare il neofascismo dall’ibernazione nostalgica”[7].
Attraverso i suoi “gruppi di studio”(26 agosto 1951) Cantiere cercherà addirittura una convergenza tra il transidealismo eroico  di Evola e l’idealismo attualista di Gentile, per attingere al contributo d entrambi. 
A Cantiere pubblicato con periodicità irregolare, subentra Carattere (1955-1963) che accentua una ispirazioine cattolico-ghibellina che trasferisce lo spirito di una cultura militante, ad una Romanitas “onde Cristo è romano”[8].
Tutto ciò dimostra che nel Msi, anche nei primi tempi difficili, si alternava il pensiero all’azione.
6.- Contro il formalismo nostalgico, per una progettualità  il futura.
Fin dai suoi albori, la gioventù soprattutto – a mio avviso - si caratterizzò per la denuncia di falsi unanimismi all’interno del Msi, per il superamento di un nostalgismo formalista e sterile, per una azione politica fondata su solide analisi delle realtà circostanziali, mirando ad un progetto di civiltà orientata da una nuova visione  della società.
Nell’antifascismo settario dell’Italia nata dalla Resistenza essa individuò un altro nostalgismo: quello per il modello debole di una società liberaldemocratica; nostalgismo  speculare a quello di un neofascismo ridotto  a ritualismo folkloristico, carente di progettualità futura.
La consegna lanciata da Augusto De Marsanich – Non rinnegare. Non restaurare  -  fu raccolta, superando la cronologia storica dei tempi recenti, per radicarla in una revisione politico-dottrinale risalente all’intera storia italiana nell’ambito della civiltà europea.
 E la storia della Rsi, in tale prospettiva, veniva considerata come l’eresia libertaria del regime fascista del ventennio; da essa sgorgava il progetto di civiltà alternativa al marxismo ed al capitalismo selvaggio, la spinta a ribellarsi al conformismo di una società molle, socialmente ingiusta e crudele, prona all’’idolo di fango” del materialismo.
Furono i giovani  del Msi, peculiarmente i “i figli del sole”, che  già nei primordi della vita di partito, osarono parlare – talora persino in modo provocatorio – di destra e di estrema destra nel senso classico di una destra dello spirito, di una destra politica, aristocratica nel senso del merito e non del sangue. Una destra rispettosa del capitale quale frutto del lavoro; e perciò antitetica al capitalismo rapace e speculatore, ugualmente  sovversivo come la sinistra marxista.
Considerata la dittatura mussoliniana come un capitolo biografico chiuso, irrepetibile nella storia italiana, la gioventù del Msi ha propugnato – contro la democrazia cifrata, eredità nefasta della cultura illuminista –una democrazia olistica ed organica, direttamente funzionale al valore preminente delle libertà concrete, quale conquista spirituale della persona nell’ambito della società politica.
Denunciò l’espansione di uno statalismo burocratico come una degenerazione dello Stato, del quale ha sempre rivendicato la dignità e l’essenza. Proclamò il riscatto della Nazione Italiana, umiliata dal Trattato di Pace del 1947, reclamandone l’unità di destino, nel quadro di una rinascita dell’Europa dei Popoli.
Tutta una tematica, come si vede, che scaturiva da una costante  elaborazione dottrinale, sorretta da vigile attenzione per l’evoluzione della realtá sociopolitica nazionale ed internazionale.
Da qui, la sollecitazione di uno spirito critico capace di suggerire risoluzioni adeguate ai tempi, secondo un concreto progetto di civiltà: simbiosi di libertà e autorità, di tradizione e sviluppo, concerto d’elites e convocazione di popolo, dove la responsabilità di vertice è sempre sorretta da un libero consenso di base.
Progetto, questo, che conteneva  in sè – e tuttavia contiene -   tutta la modernità possibile, collocandola però in un contesto  di critica radicale alle contraddizioni  e  debolezze della realtà contemporanea. Progetto che al tempo stesso tracciava la via per transitare in una postmodernità tuttora incerta e confusa, senza naufragare nel deserto delle idee e degli ideali.
Questo fu il sogno perseguito dal Movimento Sociale Italiano – nonostante debolezze ed errori,  incertezze e talora contraddizioni, presenti nella natura umana dei suoi protagonisti: dirigenti e militanti. Un sogno che fu, ad un tempo,  una necessità politica.
Siamo dunque orgogliosi delle nostre radici, della nostra milizia politica necessaria – come riconobbe (1983) un avversario bilioso come l’ex fasciata partigiano Giorgio Bocca, dinnazi alla settaria ipocrisia degli avversari “che divideva gli italiani fra la grande maggioranza dei buoni democratici e la cattiva minoranza dei missini”, per ammettere subito dopo, a denti stretti: “Dunque, politicamente, si può tranquillamente ammettere che il Msi doveva nascere e che ha svolto una funzione utile di vaso di raccolta del popolo della destra”.
Il Movimento Sociale Italiano fu necessario, anche e soprattutto perché - e non sembri un paradosso – fu “una forza di libertà”.
Così lo riconobbe il politologo Gianni Baget Bozzo su Panorama del 2 aprile 2009:
“Il Msi conservò il senso della nazione Italia e della patria quando gli schemi della guerra fredda imponevano la divisione tra Occidente ed Unione Sovietica. Svolse così un compito importante e per questo fu discriminato e combattuto. Ma contribuì  a mantenere il fondamento dell’unità culturale del Paese. Fu un elemento di differenza e quindi, appunto, perchè emarginato e perseguitato, una forza obiettivamente di libertà.[…] L’egemonia comunista della cultura italiana trovò una resistenza nella cultura di destra e nell’identità politica del partito della fiamma”.
Durante un cinquantennio il Msi cercò di lanciare un ponte dove far transitare quanto restava  di riscattabile del passato per inverarlo in un progetto  nuovo di società libera, germinata da un seme antico.
Quel progetto  resta tuttavia vigente nell’attesa che - prima o   poi - venga raccolto dalle nuove generazioni, con la stessa passione con la quale abbiamo vissuto una avventura umana nutrita di principi alti e di valori forti, testimoniando fedeltà - in un mondo ossessionato dal tornaconto e dall’utilità materiale - agli ideali dell’Italia perenne. 

Primo Siena





[1]
                        [1] A.CARIOTI, Gli orfani di Salò. Il “sessantotto nero” dei giovani neofascisti nel dopoguerra 1945-1951. Mursia, Milano 2008, p.181.
[2]
                        [2]  Cfr. Al riguardo, si rimanda a: ELISABETTA CASSINA WOLF, L’inchiostro dei vinti - stampa e ideologia neofascista-1945-1953. Mursia, Milano 1912. Specialmente si veda il cap. ottavo: “Alcune considerazioni sulle diverse correnti ideologiche del neofascismo italiano” (p.268-322).
[3]
                        [3] Cfr. ENZO ERRA, Tradizione e Intervento. Saggio riportato con altri nel “corollario” annesso a: JULIUS EVOLA, Orientamenti. Undici punti. Edizioni di Ar, Salerno 2000. Pp. 76-77.
[4]
                        [4] La storia dei guerrieri Sciti, tratta da Erodoto (libro di Melpomene) per bocca di Gabriele D’Annunzio, sará quindi raccontata da Percivalle Doria  (pseudonimo di Giano Accame) sul n. 5 (ottobre 1954) del periodico Il Reazionario diretto da Piero Buscaroli a Bologna.
[5]
                        [5] Cfr. A. BALDONI, La destra in Italia: 1945-1969. Ed. Pantheon, Roma 1999., p. 442.
[6]
                        [6] G: TASSANI, Le culture della destra italiana tra dopoguerra e centrosinistra nella rivista Nuova Storia Contemporanea. Marzo-Aprile 2003¡. Ed. Le Lettere, Firenze., p.136.
[7]
                        [7] M. VENEZIANI, La rivoluzione conservatrice in Italia. Sugarco Ed., Milano 1987, 210.
[8]
                        [8] G. TASSANI, Op.cit p. 143.