giovedì 30 aprile 2015

Da Franco Rodano a Mario Monti & Matteo Renzi, dal cattocomunismo al culto della piissima banca

 La vicenda camaleontica di Franco Rodano è il motore invisibile del  dibattito politico ispirato dalla profezia di Giacomo Lercaro e Giuseppe Dossetti, i nutritori della fisima che ha preparato il tuffo nel progressismo di Giuseppe Alberigo, Mario Monti, Alberto Melloni, Andrea Riccardi e del loro ectoplasma Matteo Renzi.
 Il cattocomunismo di Rodano, purificato dal salotto lavativo di Raffaele Mattioli e dalla redazione dell'alta rivista di Elena Croce, infatti, trovò nascosto alloggio nella laicità professata da Alcide De Gasperi contro Pio XII.
 Una leggenda democristiana, resa inossidabile dalla ripetizione ossessiva, vuole che De Gasperi abbia salvato l’Italia dal comunismo, affrontando e vincendo un duello politico con il rivale Palmiro Togliatti.
 Tra cattolici e comunisti il vero duello politico, in realtà, si svolse dopo il 1947, quando Pio XII (contro l'opinione De Gasperi, dubbioso e riluttante) incoraggiò e ottenne la rottura del governo tripartito (democristiani, socialisti e comunisti). E nel 1948, quando Pio XII assegnò a Luigi Gedda i mezzi necessari ad organizzare i Comitati Civici e a condurre la vittoriosa campagna del 18 aprile [1].
 Nella Dc la resistenza a Pio XII si era organizzata fin dal 1944, quando i democristiani bocciarono il progetto di costituzione proposto da Guido Gonella.
 De Gasperi, seguace e interprete del secondo Jacques Maritain, non era il campione del cattolicesimo anticomunista.
 Vista la distanza della Dc dalla teologia ortodossa, Gedda (in perfetto accordo con Pio XII) si rivolse agli elettori proponendo De Gasperi come rappresentante di un male minore, e non come un campione di fedeltà alla Chiesa.
 I contenuti dei manifesti affissi dai Comitati Civici durante la campagna elettorale del 1948 non lasciano dubbi al proposito.
 La verità è che De Gasperi, dopo aver a lungo esitato, prima di arrendersi ai suggerimenti della curia romana e di decidersi alla rottura dell’alleanza con i socialcomunisti, stentava a credere nella vittoria democristiana, essendo forse convinto (lo ha sostenuto lo storico della Dc, Gianni Baget Bozzo) dell’ineluttabilità del successo comunista.
 Cosa si deve intendere allora per drammatico duello tra Togliatti e De Gasperi? Ed anzi tutto: quali erano le ragioni del (presunto) irriducibile contendere tra De Gasperi e Togliatti? 
 Ecco il nodo che gli storici dovrebbe sciogliere, prima di alzare lamenti contro le clamorose rivelazioni di Ettore Bernabei sull’incauto accordo tra De Gasperi e l’iniziato Raffaele Mattioli, e prima di proclamare solennemente che il partito d’ispirazione cristiana non può non definirsi degasperiano osservante.
 Giovanni Tassani, autore di un lucido e finora insuperato commento all’avventura cattocomunista, ha dimostrato che Franco Rodano non era più vittima di un abbaglio giovanile, ma lucido funzionario di un progetto laico rivolto contro Pio XII, quando, dopo aver ascoltato le lezioni di Palmiro Togliatti [e di Raffaele Mattioli, il gran banchiere crociano, che, come ricorda Massimo Caprara, si dichiarava emulo di quel Parvus che, nel 1917, organizzò il viaggio di Lenin a Pietroburgo] affermò il superamento della rivalità tra De Gasperi e Togliatti e il loro implicito accordo su una politica laica.
 Nel saggio su Rodano, che Tassani ha pubblicato nel lontano 1978, per le Dehoniane di Bologna, si trovano, dunque, le ragioni della diffidenza manifestata da Pio XII nei confronti del modello degasperiano.
 La storia di Rodano rappresenta la metamorfosi - avvenuta nel  1946 - dell’ingenua  e confusa fantasticheria antimoderna (incentivata da fatue nostalgie medievaliste) dei cattocomunisti in agenti inconsapevoli e golem dell’aggressione massonica alla tradizione spirituale e morale del popolo italiano.
 Il partito cattocomunista (PSC) si costituì, infatti, all’inizio degli anni quaranta, per l’iniziativa di alcuni giovani della borghesia romana, coinvolti nelle acrobatiche avventure del gesuitismo, e perciò “fermamente comunisti in politica, proclamava Franco Rodano nel 1944, ma cattolici, assolutamente e intransigentemente cattolici per la loro fede religiosa”.
 La piissima e spericolata peripezia di un frequentatore della gesuitica “Scaletta”, quale era Rodano, arrivava al punto di tentare la separazione della prassi comunista dalla filosofia materialistica di Marx, giudicata “oltre che non indispensabile, dannosa per lo sviluppo di una corretta e incisiva politica rivoluzionaria”.
 Rodano era intimamente convinto che solo i progressisti fossero interpreti delle istanze politiche dei cattolici refrattari all'orrendo fascismo e alla suggestione anti-modernista: “Questo significa che il problema politico del mondo cattolico non può essere risolto in Italia che dal Pci e cioè da tutta la classe operaia del nostro paese, non dalla sinistra cristiana e dallo strato cattolico del proletariato italiano”.
 Considerata da questo singolare punto di vista, la politica del Pci assumeva l’aspetto di una godibile alternativa al laicismo liberal-massonico, alla sociologia anglosassone, e all’ingiustizia praticata dalla classe borghese.
 Il giudizio di Pio XII, che condannando ogni forma d’obbedienza comunista, riaffermava l’opposizione assoluta tra la fede cristiana e il comunismo negatore dei fondamenti stessi del diritto naturale, da Rodano non era neppure preso in considerazione.
 Il fatto è che al movimento rodaniano era soggiacente quel millenarismo incendiario, che, a partire dalle farneticazioni immoralistiche esposte da Léon Bloy nel libello “Dagli ebrei la salvezza” (e apprezzate da Maritain, editore del libello) aveva attizzato le scorribande del cattolicesimo francese contro la legge naturale. 
 Franco Rodano rappresenta una fantastica contraddizione: l’acume intellettuale al servizio di un encefalogramma piatto.
 Gianni Baget Bozzo, in un intervento pubblicato nel volume che raccoglie i saggi di Tassani, ha riconosciuto che la dimensione politica rodaniana “non ha mai avuto spunti di aggancio con la teoria delle istituzioni e statuali da un lato, con la filosofia e la teologia dall’altro”.        
 Separati da Marx ma non dalla chimera millenarista, Rodano e gli altri militanti della sinistra cristiana non poterono fare altro che affluire disciplinatamente nel Pci.
 Nel dicembre del 1945, infatti, fu deciso, con voto quasi unanime, lo scioglimento del movimento e l’adesione al partito di Togliatti.
 Togliatti, invece, aveva consigliato a Rodano di confluire nella Dc, dove le tesi dei cattocomunisti avrebbero dato più consistenti risultati a vantaggio della sovversione. Fu l’ostinata e immotivata avversione del giovane Rodano a De Gasperi a decidere in senso contrario.
 Ma dopo l’adesione al Pci, Rodano cominciò a comprendere le ragioni di Togliatti, ragioni perfettamente coincidenti con quelle del crociano Raffaele Mattioli: il vero ostacolo alla rivoluzione italiana non era De Gasperi, ma Pio XII, che in vista di un argine a difesa del diritto naturale, aggredito dall’immoralità emanata dai laboratori massonici, aveva concepito e affidato alla cura di Luigi Gedda il progetto di un’alleanza a destra.
 Per Raffaele Mattioli (e per Palmiro Togliatti) il nemico da battere non era il gruppo democristiano che seguiva l’indirizzo laico e liberale della politica degasperiana, ma con il partito romano, costituito dai curiali e dagli studiosi fedeli a Pio XII, partito che tentava d’imporre alla Dc la politica dell’attenzione per le tesi della destra interclassista e patriottica.
 Rodano fatto accuorto da Togliatti, da Mattioli (e forse da don Giuseppe De Luca), modificò profondamente il suo giudizio su De Gasperi.
 Ora la strategia iniziatica di Mattioli-Parvus e di Togliatti non contemplava guadagni per il proletariato ma una radicale secolarizzazione e corruzione dell’Italia. Il disegno tracciato da Antonio Gramsci nei "Quaderni dal carcere".
 La secolarizzazione era infatti il preambolo a quella rivoluzione culturale di segno liberal-libertino, che doveva scatenarsi nel fatidico Sessantotto, quando le fondazioni dell’oligarchia iniziatica e finanziaria sostennero l’utopia francofortese-californiana.  
 Tassani svela l’argomento che aveva convinto Rodano a riabilitare e in qualche modo a far propria la linea politica di Togliatti, che apprezzava apertamente il cattolicesimo liberale di De Gasperi: la convinzione (avventurosa) che occorreva ripartire dal risorgimento, in altre parole dall’unica rivoluzione riuscita in Italia, quella liberal-democratica, laicista e borghese.
 Era da quel punto che occorreva ripartire, dopo la dolorosa parentesi fascista. Di qui la dannazione di Giovanni Gentile e la sciagurata esaltazione di Benedetto Croce.
 Ripartire dal recupero degli aspetti positivi della rivoluzione liberale attraverso la rilettura di Benedetto Croce, avrebbe reso possibile il pieno innesto nel processo rivoluzionario delle realtà di massa (la comunista e la cattolica) che erano intanto diventate protagoniste della repubblica.
 Massimo Caprara ha dimostrato che questo recupero procedeva nella stessa direzione dei saggi del raffinato esoterista cantrabigense Piero Sraffa su Gramsci e di Benedetto Croce su Marx e su Gramsci.
 Nel 1955, Rodano detterà la formula di questo perfezionamento della tradizione liberale e del libertinismo borghese: “Il problema politico del nostro tempo è quello di una fuoriuscita dall’ordinamento liberal-liberalista, che si svolga in termini di organica compiutezza e di superiorità positiva: tale cioè da non cancellare e non perdere quell’aspetto fondamentale e preziosissimo di paragone e di concorrenza, che da quel sistema, appunto, viene formalmente garantito”. 
 La scena rodaniana del 1974, con Enrico Berlinguer che festeggia, insieme con gli alleati liberali, repubblicani, socialisti e cattocomunisti, la rivincita del laicismo garibaldino sul popolo cattolico, la populace che aveva avversato la legge divorzista, e sull'orrido fascismo, che aveva realizzato la conciliazione e avviato la riforma corporativa dello stato, spiega il significato ultimo e la finalità della politica di Franco Rodano.
 Da un opposto osservatorio, Tassani sostiene la medesima tesi di Augusto Del Noce: in Italia il processo di porno-secolarizzazione – la vera rivoluzione attuata negli ultimi quarant’anni di vita repubblicana - è passato attraverso la Dc, cioè attraverso il rifiuto che De Gasperi oppose alla svolta a destra programmata da Pio XII e da Gedda.
 Per questo è da giudicare antistorica e suicidaria l’intenzione dei politicanti che vorrebbero rifondare la Dc nel segno liberale e degasperiano e nel rifiuto di quella cultura politica esposta da Pio XII nei radiomessaggi nel Natale (affermazione della democrazia secondo il diritto naturale nel 1944, umanizzazione della tecnologia nel 1953, rifiuto dell’equilibrio nel terrore, nel 1954).

 Piero Vassallo






[1] Di recente Giulio Alfano ha rivelato che Pio XII rifiutò di ricevere De Gasperi dopo che lo statista trentino aveva consegnato la medaglia al valore agli attentatori di via Rasella. Cfr. "La notte di Roma", Solfanelli, Chieti 2012.

mercoledì 29 aprile 2015

I POTERI DEL BUON GOVERNO (di Piero Nicola)

  Ė condivisa una radiosa teoria sui poteri dello stato; la si accetta così pacificamente che desta l’indignazione e il disprezzo chi abbia l’ardire di confutarla. Ė la tesi per la quale i poteri legislativo e esecutivo devono stare separati, essendo congegnati in modo che l’uno limiti l’altro, che l’uno possa controllare l’altro e impedirgli di agire in autonomia, cooperando a ciò le restanti garanzie: Capo dello Stato, Corte costituzionale, Magistrature diverse.
  Disgraziatamente, gli istituti garanti, fatti di uomini fallibili e anche corruttibili, abbisognerebbero di altri istituti che ne certifichino l’obiettività di giudizio, o di interpretazione delle norme, il che è lo stesso…
  Perché il parlamento o il presidente della Repubblica dovrebbero essere più onesti e saggi del governo intervenendo sui suoi decreti coi loro provvedimenti? Non provengono tutti da una stessa elezione popolare? Direttamente o indirettamente, che differenza fa? Prima di candidarsi, non sono passati attraverso nessun vaglio superiore, non li ha promossi un esaminatore qualificato e impeccabile. E se un partito li ha candidati, si tratta lo stesso di origini spurie e viziate da parzialità, nel migliore dei casi.
  Oltre alla limitazione dei poteri principali e al loro reciproco condizionamento, v’è il condizionamento dell’opposizione rispetto alla maggioranza, nel parlamento e fuori di esso. Tale istituzione servirebbe anche a far sì che la maggioranza parlamentare e governativa venga sottoposta alla critica davanti all’elettorato, così da bloccare gli abusi denunciandoli, e da palesare gli errori commessi.
  Questa la ben nota teoria, gabellata per elevata e schietta. Invece esistono poche organizzazioni statali più paralitiche e bugiarde di questa. Questo progetto democratico non può sortire buon frutto nella realtà.
  Un governo che non può valersi prontamente di leggi nuove e necessarie, se non ricorrendo a decreti provvisori, limitati, moralmente svalutati da critiche aspre e tendenziose, tipiche dei suoi legittimi avversari/concorrenti; un potere esecutivo costretto ad aspettare troppo a lungo l’esercizio di leggi definitive; un governo avversato dall’opposizione che alza la gonna facendo balenare la rivendicazione di paradisi perduti, avanzando promesse ottimistiche, con corredo di denigrazioni fatte a man salva; un governo soggetto a giudizi iniqui e demolitori da parte di elementi del potere giudiziario partigiani, legati alla parte antagonista; un governo diviso dalle fazioni partitiche  al suo interno, che competono fra loro mentre lo reggono, appartenenti anche al medesimo partito maggioritario; un governo che, obbligato a vedersela con il popolo elettore, deve assecondarlo e anche imbonirlo oltre misura, cioè molto più che se il sovrano popolare non avesse tutto il potere che ha e non fosse facile preda delle lusinghe opposte; un governo messo alle strette da sindacati e da altre varie associazioni, obbligato a subire le rivendicazioni di municipi, province e regioni; un governo così è meno che un governo dimezzato, è un potere esecutivo che va gobbo e zoppo: incapace di correggere il danno accumulato dalla demagogia e dall’impotenza precedenti, incapace di riparare quanto va riparato, di edificare quanto va edificato.
    La maggioranza parlamentare che lo sostiene, che legifera a suo favore, non è in condizioni migliori. Nella competizione democratica, gli avversari non solo hanno l’opportunità di intralciare o impedire l’approvazione delle leggi, ma riescono a sminuire quelle approvate ostacolandone l’applicazione, togliendo loro la forza morale, talvolta ideale, necessaria alla loro vitalità, alla loro fecondità. Infine, ripetiamolo, i poteri presidenziale e della magistratura non avranno il necessario carattere di equidistanza, specie essendo un diritto e un dovere universale quello di metter fuori la propria libera opinione, e la preferenza politica essendo sancita invariabilmente per ogni cittadino.
   Questo - per così dire - riguardo alla primitiva normalità. Quanto al seguito, c’è la corruzione che non sarebbe ammessa, ci sono le organizzazioni che operano in modo illegale, più o meno occulto e, nelle loro manifestazioni esteriori, sono chiamate eufemisticamente lobby e poteri forti. Esse hanno un peso decisivo, in questo sistema che si presta alle loro manovre. Infatti il sistema è sprovvisto di un organo indipendente, idoneo e deciso a mandarle in sonno, ovvero a estirparle.
  La loro azione è pure reciprocamente contrastante, salvo le loro alleanze e un unanime accordo sostanziale a salvaguardia del comune privilegio, propiziato da una costituzione liberale della cosa pubblica. Sicché nella vicenda delle lotte politiche alquanto superficiali, spesso artificiose e ingannevoli, prevale, in sostanza, il peggio degli interessi, dei mezzi e degli scopi, senza riguardo al tenore della vita civile: privata di ogni elevatezza. La buaggine viziata serve a quegli interessi. I protagonisti sulla scena operano in un ambiente in cui è dato di prendere l’arma proibita della malizia e della forza bruta, in un agone dove, privandosi di esse, non si avrà mai la meglio. Così si spiegano i guai che ne seguono, che appaiono sotto vari aspetti o sembrano inspiegabili. Il migliore dei poteri istituzionali, ammesso che ci sia un migliore, potrà farci ben poco.
    Ma ciò non accade forse, o può accadere e accadde, in ogni stato del mondo, comunque sia, o fosse, costruito? Che, in qualche maniera, debba sempre accadere, va bene. Ci furono monarchie assolute inquinate dalle sette, e re inetti. Ma alcune forme di Stato sono tali da potersi reggere piuttosto correttamente e con sprazzi di vero bene comune, per altre questo è impossibile. Di queste ultime sto argomentando.
  In tempi recenti, in Francia l'ingovernabilità portò, grazie a De Gaulle, alla costituzione di una repubblica presidenziale. Qualcosa si ottenne, ma il gioco demagogico prevalse, fece cadere il Generale. Ora la Francia non se la passa bene col suo regime. Sempre questione di uomini al comando e di condizionamenti dovuti al sistema. Tuttavia sarebbe sbagliato regredire dal presidenzialismo al caos precedente, invertendo la tendenza. Evidentemente occorre una diversa tempra di uomini per progredire, per uniformare le leggi alla vera legge naturale, per rendere inoffensiva un'opposizione lazzarona.
  Credo che l’argomentazione abbia chiarito che il sistema dei poteri statali separati e condizionati è inefficiente, di gran lunga peggiore d’una potestà esecutiva e insieme legislativa assai unita e robusta.
  Il rischio dell’abuso? Certo malgoverno si fa giustizia da solo: abbandonato dal popolo. Il delitto poi è cosa indistruttibile, viene presto a galla: coi suoi corpi del reato si autoaccusa. Il potere colpevole, individuabile non resiste, sarà scalzato e sostituito: essendo stato un governo vero, con un vero responsabile o, forse, con una vera vittima dei suoi nemici sempre attivi. Questi potranno essere sobillatori del malcontento, altrimenti falsi collaboratori, che inducono nell’errore funesto.
  Purtroppo manca un’altra scelta, una soluzione più rassicurante. Ma non è preferibile e onorevole cercare di ottenere il bene, o qualcosa che gli si avvicina, stabilendo la possibilità del potere benefico; non è preferibile rischiare anche il dramma e il sacrificio della guerra perduta da questi contro il male (guerra immancabile, necessaria, a meno di non sottomettersi); non è preferibile questa dura costituzione a una falsa pace, a uno scampo fittizio, a un andazzo vile e malsano che ha menato a una fine obbrobriosa, e tuttavia interminabile?
  Si chiederà: se la struttura dello Stato era sghemba e ricettacolo del malfare, come mai non è crollata? Anzitutto perché non presentò mai un responsabile; poi perché consentì la calunnia e l’allettamento dell’orgoglio individuale, con cui venne eliminata ogni migliore alternativa; infine perché è noto che la gente non fa rivoluzioni e resta succube finché non manchino i mezzi essenziali di sussistenza. Ed essa si pasce di svariate porcherie, tanto da rendersi quasi insensibile all’inedia spirituale che la conduce alla morte dell’anima. Chissà però se questa morte non le tolga anche il vigore per porre rimedio a una crisi che affama, oltre a distruggere il buon cibo dello stomaco mentale, e allora si desti l'istinto di sopravvivenza e finalmente succeda qualcosa d’importante?
  La legge elettorale che determina una maggioranza parlamentare omogenea e stabile, formata da eletti designati dal partito, e la riforma del senato, per la quale esso non sarà elettivo, né potrà far cadere il governo, rendono di attualità il tema che ho trattato. Con tutto questo, nessun dubbio: Renzi è la negazione dell'uomo della Provvidenza, e un suo fallimento non sarebbe da rimpiangere.
  Vorrei ancora osservare come, fuori dei nostri confini, nessuno si scandalizzi delle sue iniziative autoritarie. Donde, si deduce che sia la democraticissima UE, sia gli USA le vogliano proprio. Non sarebbe la prima volta che, dovendo scegliere tra il disprezzo popolare verso la politica, giudicata troppo inefficiente, e un rafforzamento del governante di turno, obbediente alle direttive straniere, i direttori optino per la seconda soluzione. Quanti dittatori e quanti regimi militari sono sorti per tale criterio! Salvo farli cadere dopo qualche tempo.

Piero Nicola



martedì 28 aprile 2015

Kierkegaard, sulla fede in Cristo l'ombra di Lutero

Kierkegaard è uno di quegli scrittori che stimolano alla meditazione, aprono l’anima a problemi abissali, ma poi non danno alcun aiuto nel ripensamento che il lettore ne fa, come se dicessero: lasciamo l’anima con se stessa, perché la disperazione della solitudine la elevi alle vertigini dell’infinito”  Michele Federico Sciacca

 Cornelio Fabro, che fu traduttore, commentatore e per alcuni aspetti interprete e ammiratore della filosofia di Soeren Kierkegaard (1813-1855) dichiarò: "io non sono kierkegaardiano e sento di dover fare molte sostanziali riserve alle sue posizioni così in filosofia come in teologia. ... in filosofia gli è mancato il sostegno di una ben definita dottrina dell'essere, così alla sua Teologia della Fede manca il sostegno vitale della Chiesa" [1].
 Prese le dovute distanze, Fabro confessa tuttavia: "devo dire però che l'apprezzamento che ora s'impone sull'importanza storica e sul significato del suo pensiero come anche della sua vita si sono in me profondamente cambiati da alcuni anni a questa parte, da quando cioè presi un contatto diretto con la sua anima e col suo pensiero".
 L'importanza del pensiero di Kierkegaard nella scena della crisi europea in atto, è ora confermata dalla pubblicazione di un magistrale saggio critico di Pier Paolo Ottonello, Il nichilismo europeo, volume secondo, Lutero e Kierkegaard, edito in questi giorni in Venezia da Marsilio.
 L'interesse di Ottonello per il filosofo danese ha origine dalla puntuale diagnosi di un vizio strutturale del mondo moderno, la pretesa (hegeliana) di conciliare (confondere) Dio e mondo, una chimera "che si evolverà storicamente nella sempre più radicale sostituzione di Dio e della chiesa con un mondanismo ateo-statalista, come avverte nel modo più tempestivo e intempestivo Kierkegaard la cui incondizionata accettazione del principio luterano dell'interiorità assoluta - in lui impennata drammatica del soggettivismo assoluto contemporaneo - gli spalanca gli occhi anziché socchiuderglieli, ai rovesciamenti in un assoluto mondanismo politicante di cui riconosce primo responsabile Lutero stesso".   
 Ottonello attribuisce a Lutero la responsabilità dello sviluppo catastrofico del nominalismo occamistico ossia la colpa di aver dissolto "il principio della costituzione metafisica del finito e dunque il principio della creazione come posizione della positività degli enti, onde non gli resta se non la pesantezza schiacciante della negatività metafisica degli enti stessi".
 Lutero ha elevato il suo edificio teologico sopra un bizzarro fondamento: tutto ciò che non è Dio è antidio. Fedele alla dottrina occamista, l'eresiarca aveva ripudiato la teoria dell’analogia entis e s'era risolto ad inventare il bizzarro concetto di contraria species.
 Posto che l’essere di Dio non è analogo all’essere delle creature, è necessario affermare un’antitesi radicale:  Dio è avversione all’essere creato, Dio è totalmente altro da essere.
 La conseguenza di un tale pensiero, come osserva acutamente Ennio Innocenti, è devastante: “Se l’Ineffabile Nulla infinito si esprime, si esprime nel suo contrario. Siamo in piena gnosi[2].
  Ora il luogo in cui la suggestione neognostica si rovescia nell'incolore supponenza è la borghesia post-hegeliana, il mondo in via di dissoluzione, nel quale Kierkegaard nasce: "l'arco della sua esistenza, sostiene Ottonello, "è segnato dalle tensioni di liberazione dai condizionamenti familiari, malgrado le quali, e, infine, mediante le quali Kierkegaard porterà su di sé, con levità dialettica più o meno elegantemente attenta a drammatiche cadute, il retaggio dei propri limiti esistenziali".  
 Il tentativo di uscire dalla gabbia del fatuo mondanismo, "che riduce l'uomo singolo ad una astrazione evanescente", incubo che imprigiona la borghesia festaiola, è peraltro dichiarato apertamente in una sdegnosa pagina del Diario, uno scritto coinvolgente, nel quale tuttavia si intravede l'annuncio del naufragio della protesta kierkegaardiana nelle acque della non-filosofia: "La disgrazia sta nella borghesia. ... La classe agiata e colta, se non proprio i grandi signori, in ogni modo l'alta borghesia: ecco il bersaglio da prendere di mira. E' là che il prezzo deve essere alzato, nei salotti. ... Il popolo rappresenta sempre quella sanità da cui può nascere qualcosa di buono. .. Per predicare la parola di Dio occorrono alcuni uomini, essi sono il medio a traverso il quale la parola di Dio suona al popolo: questo medio è il Clero. Ora è facile vedere che se questo medio fosse completamente esente da egoismo la cosa sarebbe perfetta. ... Il cattolicesimo vide giustamente che conveniva che il clero appartenesse il meno possibile a questo mondo. Per questo favorì il celibato, la povertà, l’ascesi[3].
 L'avversione di Kierkegaard alla borghesia si legge chiaramente in una sferzante pagina del Diario, scritta nel 1854, nella quale è dichiarato il disprezzo dei giornalisti, banditori della cultura al potere nella società liberale: “Questa gente ha il nome del giorno (giornalisti). A me sembra che si potrebbero chiamare meglio della notte. Per questo propongo, dal momento che giornalista è anche una parola straniera, di chiamarli notturni, il sindacato dei notturni. A me non sembra per niente che codesto termine di notturni convenga a quelli cui ora è applicato, agli addetti alla pulizia dei pozzi neri. Sono veramente i giornalisti i notturni, essi non portano via le immondezze di notte, ciò che è cosa onesta e una buona azione, essi immettono le immondezze di giorno, o, per essere ancor più precisi, riversano sugli uomini la notte, le tenebre, la confusione: in breve sono i notturni”  [4].
 E' innegabile tuttavia la prossimità della critica kierkegaardiana all'istante estetico, una dipendenza dalla quale discende l'ombra non filosofica che si stende perfino sulle pagine del Diario.
 Il giudizio quantunque severo di Ottonello non è perciò contestabile seriamente: "La dialettica turbata di Kierkegaard, non dialettica di concetti, è dialettica di sentimenti - fondata sul sentimento dell'impotenza - è una dialettica della malinconia, perché l'eccezione, il paradosso è sempre irrimediabilmente solitario. La solitudine è il suo regno di Mida, prigione in cui si muore di ricchezza sterile. Kierkegaard porta la propria esistenza come la ricchezza sterile propria del mondo contemporaneo, lampeggiante della malinconia del suo essere legata all'istante, consumazione impotente alla continuità, alla possibilità di fruttificare, di generare, di fare storia".
 L'opera di Kierkegaard, grazie alla lettura puntuale e ultima di Ottonello, svela la sua natura di  controcanto e grido, alto grido di dolore della modernità, ferita dalle proprie insanabili, estetiche contraddizioni.
 Simile all'erede kafkiano, che l'inganno arresta davanti al regno di cui è erede, Kierkegaard è il testimone di una verità proibita da un custode invincibile, l'integrismo luterano.

Piero Vassallo




[1] Cfr. l'introduzione al Diario, vol I, pag. 81 e pag. 87, Morcelliana, Brescia 1962. Al fine di proporre una attendibile traduzione delle opere di Kierkegaard, finalizzata a sottrarre il pensiero del danese alla mano morta del sinistrismo europeo, padre Fabro soggiornò a Copenhagen dove si impadronì della lingua danese.
[2] Cfr. “La gnosi spuria”, Sacra Fraternitas Aurigarum in Urbe, Roma, 1993, pag. 150.
[3] Cfr. Diario, op. cit., vol. II, pag. 597.
[4] Cfr. Diario, op. cit., II vol., pag. 553.

domenica 26 aprile 2015

L'IMMORALITÀ PUÒ ESSERE BELLA? (di Piero Nicola)

La storia è vecchia e purtroppo sempre si ripete. Che negli ambienti artistici, della critica d'arte e, disgraziatamente, scolastici, per la bellezza delle umane creazioni si debba prescindere dal loro significato morale, è una massima sostenuta e accettata salvo poche eccezioni.
  L'invenzione estetica, l'espressione resa magistralmente assurgerebbero a un valore assoluto, sicché la moralità del contenuto scomparirebbe o sarebbe affatto secondaria. Invece il Bello non è il Bene. Storia vecchia!
  Perciò, qui, la sciocchezza paludata e quella conformista non hanno scusa. Ma farebbe meraviglia che la crema dei pensatori e dei valutatori cada così miseramente, se non fosse per noi pacifico che i sapienti del mondo, ad esso vincolati, finiscono nell'idiozia.
  Qualsiasi opera umana implichi un giudizio sul bene e sul male, che proponga cosa onesta oppure disonesta, sarà buona o cattiva, benefica o malefica, secondo i casi, qualunque ne sia il pregio artistico.
  Un articolo di giornale di questo 25 aprile si annuncia col titolo La poesia è bella o brutta, né morale né immorale. La sentenza viene da Oscar Wilde. Per concessione dell'Editore Lindau, il quotidiano riproduce un'intervista rilasciata dal celebre poeta irlandese - che soggiornò negli Stati Uniti durante il 1882 - a un giornalista del San Francisco Morning Call.
  In realtà, la sostanza delle domande e delle risposte lascia il tempo che trova. La disistima verso gli inglesi che ignorano il singolare rinascimento del loro paese nel XIX secolo, è propria del noto scrittore raffinato, sferzante e paradossale. Tuttavia interessa l'origine della pur logora uscita del ventottenne Wilde il quale, dicendo d'aver ricevuto le osservazioni dei critici a lui contrari solo come ci si può trovare in una giornata uggiosa, rileva negli appunti che gli vengono mossi un moralismo fuori luogo.
  Per capire come nelle contrade anglosassoni, già infestate dalle eresie protestanti e dal liberalismo più o meno democratico, resistesse il senso della legge di natura (per cui anche Oscar Wilde venne condannato a due anni di carcere per aver dato scandalo di omosessualità), occorre considerare che le popolazioni cristianizzate da secoli conservarono nei costumi e nell'animo il retaggio della legge ecclesiastica, di cui si sarebbero disfatte quasi del tutto soltanto ai nostri giorni, adagiandosi nell'ignavia coltivata dai parlamenti e dai governi. Non fu semplicemente il puritanesimo dell'Est statunitense (quello, per intenderci, della secentesca caccia alle streghe) a reagire condannando le trasgressioni impudiche e i perversi insegnamenti. Le lusinghe democratiche, via via sviluppate e assodate in norme civili, erano ancora insufficienti per spazzar via una certa regola dell'onestà.
  Tornando a noi, l'infiltrazione infettiva nelle anime prodotta dall'arte idolatrata avrebbe l'aria di qualcosa di poco conto e di effetto assai circoscritto. Al contrario, per un dato strato sociale l'arte può essere un efficace veicolo di seduzione. Da esso ricevono un ulteriore logoramento le difese immunitarie contro la derubricazione di peccati mortali, la quale è più che mai in voga e, in pratica, sancita dal clero alto e basso.
  Ma anche il caso delle case editrici che pubblicano lavori dell'ortodossia cattolica o vicini ad essa, mentre ospitano nei loro cataloghi libri eterodossi o finanche complici della licenziosità, senza che gli autori di sicura fede cattolica mostrino sconcerto, anche questo fenomeno contribuisce allo scandalo. Per esso,  incerti e dubbiosi possono pendere dalla parte sbagliata.
   Alimenta l'insensibile ubriacatura dei deboli il quotidiano che riferisce una falsità propinata per vera da un personaggio famoso e grande nel suo genere, falsità deleteria e avvalorata dalla una sottintesa approvazione.
  Facendo la conoscenza dei deboli e buoni, che si adattano ai nuovi costumi pervertiti (p.e. liberi rapporti sessuali, convivenza di coppia, divorzio) e che credono alla propaganda delle libertà innaturali, il loro disagio parrebbe rivolto soltanto verso la corruzione e l'inettitudine dei poteri pubblici, verso alcuni disordini del consorzio umano. Invece la loro passività, che pure approfitta di diritti abusivi instaurati, non li salva da una contraddizione per cui restano privi della bussola nei passi cruciali e privi della fede intatta. 
 

Piero Nicola

sabato 25 aprile 2015

Una tesi di Pier Paolo Ottonello: L'inesistente civiltà europea

"L'Europa, da almeno centocinquant'anni, moltiplica le prove  della propria inesistenza. Infatti dagli abortiti imperi di Napoleone e di Hitler sono state partorite nuove generazioni di europeismi. Gli europeismi son le velleità di Europa, i fantasmi di Europa, che tanto più ne comprovano l'inesistenza quanto più si ergono ad alibi della sua distruzione o del suo tramonto". Pier Paolo Ottonello

 Soggiacente alla dispendiosa/macchinosa inutilità del parlamento europeo, alle sue spregevoli diserzioni (ultimamente l'abbandono dell'Italia all'inquietanti flussi dei migranti islamici) e alle sue snervanti manfrine intorno alla curvatura dei cetrioli e alla bianchezza del latte, sta la strutturale / inguardabile impotenza di una costruzione polifrenica - ossia empiamente stupida -  conforme al vano progetto elaborato da allucinati, di rabbiosa formazione laicista, quali furono Altero Spinelli ed Ernersto Rossi. 
 Nel primo dei tre magistrali e coinvolgenti volumi dedicati all'esplorazione del nichilismo europeo, Pier Paolo Ottonello, uno dei pochi filosofi attivi, a intrepido dispetto dell'invasione di soffocanti metamorfosi francofortesi nel pensiero moderno, formula il criterio che consente di viaggiare indenni tra i rantoli della scienza liberale e le antiche sirene, ululanti nelle viscere alchemiche di Elemire Zolla [1].
 Ottonello rammenta, infatti, che nessuno, può sfuggire al dilemma: "Due strade dell'intelligenza: o nichilismo o creazionismo, ossia o autodistruzione o assunzione di sé nella propria integralità. L'intelligenza nella sua integralità è il pensiero" [2].
 Calunniare e disertare la verità filosofica, per sviare e mercificare la volontà, significa avvilire e mutilare la vita umana. L'ultimo traguardo della modernità è infatti l'intelligenza dimezzata, moncherino spensante che si esprime penosamente nel linguaggio sincopato / sgangherato degli strumenti di comunicazione di massa e dei giochi elettronici.
 L'imbarbarimento produce il vocabolario maleodorante e la sgangherata sintassi, che disonorano gli oratori e avviliscono gli uditori della televisione, elevata al rango di vox populi.
 La mente europea, estenuata dalla colossale  mole delle comparse in agitazione nel castello, i kafkiani Sordini sussurranti nella sale sterminate - nelle quali trafficano migliaia di traduttori, di stenografi, di commessi, di figuranti, di portaborse ecc. - si rovescia nell'ideologia crepuscolare: "la metafisica della decadenza coincide con la decadenza della metafisica e riduce la decadenza stessa a fenomenologia di sé medesima".
 Nella mente sterminata dei pensatori deboli,  il nuovo e il momentaneo sostituiscono l'eterno: "Il grande mito della modernità - il mito del nuovo - genera il grande mito autodistruttivo della contemporaneità, cioè il mito del futuro, assolutizzato fino a dissolvere lo stesso presente: l'uomo senza presente diagnosticato da Cioran è l'uomo il cui unico futuro è l'autodissoluzione" [3].
 Ora il partito della dissoluzione sventola i vessilli europei sui quali fiammeggiano le oscure parole della avanguardia marcusiana/sessantottina: Irrazionalismo, Immoralismo, Resistenza, Sodomia, Pedagogia pederastica, Droga, Usura, Divorzio breve, Aborto, Eutanasia, Delirio teologico, Ecumenismo incontrollato, Eco-teppismo., Esoterismo, Satanismo.   
 L'Europa, prima della disgregazione, è stata respublica christiana: "il suo affacciarsi storico è segnato simbolicamente dal De Civitate Dei (fra il 413 e il 427) dalla musica gregoriana ... dalle Rergulae di Benedetto, dalle Institutiones di Cassiodoro".
 Purtroppo tale mirabile sintesi "corrisponde ai sei secoli che le illuminate storiografie dell'Occidente moderno, di matrice riformata, hanno bollato, non a caso, come i secoli più oscurantisti".
 Vi fu tuttavia la splendida stagione della scolastica domenicana, che, grazie al genio di San Tommaso d'Aquino, elevò il pensiero umano alle vette insuperabili della filosofia. Poi la sciagura luterana, anglicana, cartesiana, spinosiana, hegeliana, marxiana, ossia la sfilata tossica degli spiriti sanguinari di matrice squisitamente europea.
 Opportunamente è citata da Ottonello la diagnosi di Novalis, secondo cui "la grande scissione moderna è fatta risalire all'unica causa della riforma, che provoca l'assopimento mortale del cristianesimo sotto la pressione della vita economica" [4].
 Non a caso i paesi europei a economia forte disprezzano e opprimono Grecia e Italia, le patrie della civiltà dello spirito contro cui l'Europa combatte la guerra dell'idiozia.
 Alla fine della lettura del magnifico saggio di Ottonello ci si chiede perché dovremmo rimanere imprigionati nella gabbia costruita da zombi famelici e beffardi.
 Perché dovremmo dimenticare il consiglio di Petrarca agli italiani - non far idolo un nume vano senza soggetto?
 Perché dovremmo sottomettere la nostra residua dignità alle enormi, soffocanti / trionfanti natiche della Germania, carnose figure della tracotanza atea e dell'oppressione bancaria?
 La festa del 25 aprile non è forse una buona occasione per pensare seriamente alla liberazione dall'Europa delle patrie dagli oppressori?

Piero Vassallo



[1] Cfr. Sul concetto di decadenza, Il nichilismo europeo, volume primo saggi introduttivi, Marsilio, Venezia 2015, p. 90.
[2] Op. cit., pag. 19. 
[3] Op. cit., pag. 147.
[4] Op. cit., pag. 152.

La Chiesa “sofferta” di Radaelli (di Giovanni Tortelli)

La «Chiesa ribaltata» di Enrico Maria Radaelli (sottotitolo eloquente: Indagine estetica sulla teologia, sulla forma e sul linguaggio del magistero di Papa Francesco, Verona 2014) è una di quelle opere che non si possono consumare tutte d’un fiato ma che il tempo fa apprezzare sempre di più, esattamente come i farmaci a lento rilascio la cui densità è proporzionata agli effetti lunghi. Infatti, se per un verso essa costituisce ad oggi il contributo più intelligente e più documentato sul primo scorcio di magistero di papa Francesco, è anche vero che l’opera di Radaelli non è suscettibile di limitazioni entro i soli confini temporali del magistero di papa Bergoglio, poiché in realtà essa lavora sui principi – teologici prima, filosofici dopo – di realtà come «Fede» e «Verità» per illuminare le cause prossime e remote del malessere e dei cambiamenti evidenti della Chiesa d’oggi.
Così, l’attuale magistero papale che sigilla col marchio dell’imprimatur l’indefettibilità e l’irretrattabilità delle scelte del Vaticano II, nelle mani di Radaelli diventa un’occasione per capire quelle decisive spinte – rotta definitivamente ogni residua riverenza col passato - per lanciare la Chiesa verso imprevedibili orizzonti, quelle che si usa comunemente chiamare «sfide». Sfide per un mondo che questa Chiesa vorrebbe sì cambiare, ma con gli strumenti e col linguaggio di quaggiù, in corsa con una realtà terrena che risponde alla regola dell’ etsi Deus non daretur che la costringe ad abbandonare le vie del linguaggio chiaro, preciso, lapidario e definitorio e ad accelerare verso un cattolicesimo secondario vago, opaco e vacuo sia nell’insegnamento che nella liturgia, non più “fatto di fuoco”, secondo una felice espressione dell’Autore.
Lo straordinario lavoro condotto dal Filosofo milanese sta proprio nell’aver puntato lo sguardo su quella rivoluzione (anche) «linguistica» aperta dal Vaticano II, questione mai affrontata prima da alcuno con tanta dovizia di dottrina e di prove. Un linguaggio nuovo fatto non solo di parole, di atti, di documenti e di interviste, ma anche di comportamenti, che Radaelli elenca puntualmente: dal “buonasera” di inizio pontificato, alla rinuncia del “noi” apostolico, all’abitazione in santa Marta, alla semplice talare bianca senza i segni del primato di Pietro. Comportamenti ed atteggiamenti che, pur nella loro apparente marginalità, rispondono a precise e sistematiche scelte via via sempre più invasive anche del campo dottrinale e liturgico con l’affermarsi – dal vertice della Chiesa in giù – di una teologia dell’incontro (col Cristo), dell’evento (redentivo), dell’amore (misericordioso e salvifico), a scapito del primato del Logos, della Verità, della Fede e della loro stessa proclamazione attraverso i dogmi, col risultato di assistere ad un’inconsueta timidezza della Chiesa verso le altre religioni e il mondo laico proprio sui suoi punti di forza come le verità rivelate. Attenzione, non dualità e nemmeno contrapposizione fra «fede-dottrina-ragione» da una parte ed «esperienza cristiana» dall’altra, ma solo una precedenza, come si addice alla «vera» dottrina che diventa «vita». Fa bene dunque Radaelli ad impostare l’asse di tutta la sua opera sulla constatazione di un’ormai avvenuta «dislocazione della divina Monotriade». La dominante teologia dell’incontro o dell’evento ha finito per premiare l’amore “e lo ha messo sul trono del Logos”, ha così spostato l’ordine delle Persone trinitarie fondato sul costante insegnamento della Chiesa per cui “non si ama se non ciò che si conosce” (Summa theol. I, 36,2), e con questo ha aperto la strada ad un metodo (e a un insegnamento e a una liturgia) debole e purtroppo anche sviante che trascura la conoscenza di Dio – fatta di fede e di verità attraverso la Rivelazione e il magistero della Chiesa – e che tutto giustifica per via dell’amore. A prescindere. Ma l’Autore ricorda con un refrain che percorre tutta la sua opera le parole della Lettera agli Efesini di sant’Ignazio d’Antiochia: “La fede è il principio, l’amore il fine”.
La conseguenza è che questa Chiesa che cede vistosamente sul versante del dogma e che guarda con sempre maggior favore ad una tradizione “viva” soggetta ai mutamenti storico-temporali dei credenti, preoccupa per le scelte in campi delicatissimi, pensiamo alle prossime decisioni sulla famiglia. Ma proprio per questo - forte del principio che la verità non si impone che in forza della stessa verità - Radaelli sa essere coraggioso con questa sua Chiesa ribaltata, che si potrebbe anche definire una sorta di lunga, lunghissima lettera aperta a papa Bergoglio - per implorare dal Santo Padre l’ascolto di una voce diversa dal coro ma autenticamente voce della Chiesa di sempre; e nello stesso tempo dimostrando tutta la sua obbedienza, quasi gridando e rivendicando il riconoscimento della sua filiazione in questa Chiesa e direttamente dal Santo Padre: “Tu sei mio Padre, il mio Santo Padre, e io sono tuo figlio, un tuo figlio da nulla, ma tuo figlio, e questo solo io so: che la mia fede deve essere la tua, in tutto la tua”.

 Giovanni Tortelli

venerdì 24 aprile 2015

I TEDESCHI (di Piero Nicola)

Ricordo che alla fine della guerra tutti, o pressappoco, e principalmente coloro cui era dato d'avere voce in capitolo, detestavano i tedeschi con le loro caratteristiche. Non i nazisti, ma il popolo germanico. Un po’ come quando era stato il nemico della Grande Guerra. Giudizio espresso a buon diritto - si riteneva - perché quella nazione era rimasta fedele sino all’ultimo al famigerato Hitler e ai suoi sistemi. Così facendo si dava un certo riconoscimento – sebbene inversamente – al razzismo. Sì, perché era considerato implicito il nesso tra indole germanica e adesione al Führer. Quale altra nazione avrebbe fatto corpo con lui?
  A parte simili incontinenze, l’obiettività riconosce che le note del tedesco si discostano da quelle delle altre stirpi europee ed extraeuropee, quasi come esse si differenziano fra loro. Non sarebbe significativa la teutonica precisione. Anche i francesi, a modo loro, competono con essa per quadratura, diciamo, cartesiana. Non la fermezza. Anche gli anglosassoni sono puntigliosi e tengono fede al loro orgoglio. Non l’operosità. Diversi sono gli operosi e gli industriosi, come gli olandesi. Non fa differenza l’inclinazione verso l’eroismo. Quantunque l’eroismo romantico sia stato cosa tedesca. Tuttavia un assieme di queste peculiarità costituisce già qualcosa di singolare.
  L’amore della disciplina e di ciò che è marziale o guerresco distingue bene i discendenti dei devoti di Odino. Ma tale inclinazione resta in parte soggiacente e suscettibile d'essere rinfocolata. Se vige un parlamentarismo, ci si adegua ad esso, e il passo dell’oca viene accantonato. Prevale l'ordine conformista. Il tedesco non nutre idee politiche ferme e coerenti col suo essere. Nel primo dopoguerra il comunismo piuttosto rivoluzionario e con elementi di internazionalismo fece una quantità di proseliti in Germania. Una debolezza filosofica e morale difficilmente spiegabile si rivelò all'epoca dell'infatuazione luterana, quando poté giocare un ruolo non trascurabile il nazionalismo e il moralismo nei confronti del clero, e la ricerca di un'eccessiva libertà dottrinale mal si conciliava con un giusto rigore teologico.
  Nella sostanza, ciò che rende il crucco unico è il sostrato dei suoi sentimenti e della sua mente. Un sostrato ereditario, per così dire prussiano, forma la capacità di agire nelle difficoltà, anche quotidiane, in maniera controllata. Ė la sua attitudine a superare, anzi ad affrontare con impegno sistematico e soddisfatto, o almeno con naturalezza, le fatiche della sussistenza, le cure per cui molti altri si scompongono. I fastidi di cui faremmo volentieri a meno - e insieme a noi, vi si sottrarrebbero i restanti ospiti della crosta terrestre - per molti figli del Reich sembrano pane della loro applicazione, alla stessa stregua del lavoro retribuito.
  Lo si riscontra dovunque a casa loro. La pulizia, l’ordine, l’organizzazione, che altrove costano assai (talché, nei luoghi analoghi, altrove affiora la sporcizia, l’incuria, l’incompiutezza, la sciatteria, o il difetto che pure ci si possa permettere), là sono il prodotto di un modo di essere che non ha niente a che vedere con la pignoleria del nevrastenico. Faccende che nel resto del mondo danno luogo a contrarietà, a sopportazione, ad affanno, parrebbe che per la natura germanica siano palestra di allenamento, occasione d'un lavoro ben fatto, tutt’altro che pesante e noioso.
  Su questo fondo risaltano le diverse manifestazioni del carattere alemanno. Se la loro squadra nazionale di calcio appare tetragona, sistematica, potente (i panzer) – che vinca o che perda – la spiegazione possiamo averla dando un’occhiata al loro modo di condurre l’esistenza, che non ha l’uguale al di là delle loro frontiere. Non per nulla, sono la locomotiva economica dell’Europa, pur non essendo dotati di risorse minerarie, di energia e geografiche superiori a quelle francesi o britanniche.
  Se da queste considerazioni ne deriva un razzismo nazionalistico contrario a un'equivalenza dei pregi e dei difetti innati nei popoli, non so che farci. Come gli individui sono diversamente forniti sin dalla nascita di diverse qualità e perciò sarebbe falso dirli uguali, similmente sono diverse le nazioni. Sovrapporvi un livellamento egualitario, qualsiasi ne sia il movente, fa commettere errori e iniquità.


Piero Nicola

martedì 21 aprile 2015

Operazione Filadelfia: Un appassionante racconto di Simonetta Scotto

L'ammirazione della vita consacrata al rischio che è strettamente associato alle imprese del controspionaggio, corre senza respiro fra le righe di Operazione Filadelfia, un avvincente racconto d'azione, scritto con polso sicuro dalla consacrata specialista Simonetta Scotto e pubblicato, in agile veste, dalla casa youcanprint, editrice  in Tricase di Lecce.
 Oggetto del racconto è il furto e il recupero di una potentissima, devastante coltura di batteri creati da un noto scienziato americano.
 Le spaventose armi chimiche, selezionati e conservati in un laboratorio del governo, nel quale operano diversi scienziati benché sottoposte a severissimi controlli da parte della polizia di stato sono sottratte da ignoti. Insieme con le devastanti creature è stato sequestrato anche il loro inventore, il biologo Roger Grant.
 Di qui l'angoscia degli agenti incaricati di recuperare la micidiale arma terroristica. I batteri, se liberati nell'aria dagli scienziati di uno stato canaglia, avrebbero infatti causato una epidemia spaventosa, che avrebbe potuto sterminare gran parte dell'umanità (l'Occidente, fondato dalla Cristianità e gestito dal triste surrogato democratico/liberale) e instaurare l'incontrastato impero dei sopravvissuti (i credenti nell'arcaica e implacabile religione islamica).
 Gli specialisti dei corpi speciali, incaricati di recuperare le velenose e incubose culture scoprono che una delle collaboratrici del dottor Grant è l'amante di un miliardario islamico, che agisce sotto mentite spoglie, avendo al proprio servizio un manipolo di terroristi ben addestrati.
 I due responsabili dell'inchiesta, Fred e James, decidono di intervenire in forze e assaltano la casa in cui sono insediati i terroristi. Il loro intervento è spietato ossia conforme alle regole della guerra totale.
 Insensibile al canto delle sirene pacifiste Simonetta Scotto inventa una storia in cui agiscono le opposte schiere del terrore e della forza. Retroscena del conflitto immaginario è una riflessione sulla inflessibile reazione che è necessario opporre al terrore seminato dal fanatismo religioso, erede rovente della guerra fredda condotta dai sovietici contro l'Occidente.
 La ripetizione di guerre implacabili contro la patria americana, madre della ideologia e custode del sistema occidentale, induce tuttavia il lettore a sospettare che nell'americanismo si nasconda una ostinata, invincibile magagna, che provoca le guerre calde e/o fredde, che hanno segnato l'età contemporanea.  
 Il racconto della Scotto svela la ferocia di un progetto inteso a rovesciare contro l'America le sue spaventose armi. Non nasconde tuttavia che l'America è un laboratorio nel quale si producono o si nutrono mostri ideologici e veleni strategici. Il mito della mano magica del mercato, ad esempio. La debilitante filosofia sessantottina. E le armi chimiche, presenti nella realtà prima che nell'inquietante e allarmante romanzo della Scotto.
 Infine non si può nascondere la perfetta infelicità degli interventi americani in Medio Oriente, imprese cervellotiche/fobiche, dettate dal fanatico e accecante culto della democrazia illuminata e antifascista, e finalizzate ad abbattere regimi (le dittature di Saddam Hussein e di Mu'ammar Gheddafi) che ostacolavano l'insorgenza dell'estremismo islamico. Con i catastrofici risultati che sono sotto gli occhi del qualunque non prevenuto vedente.
 L'esaltazione del valore dimostrato dai militari americani e rievocato magistralmente da Scotto, in definitiva, non basta a giustificare il fanatismo pseudo-etico di una nazione pacifista nella squillante immagine hollywoodiana, bellicosa e imperiosa nei fatti.

 Una nazione, l'America, che esalta il mito democratico/bancario, ponendolo al di sopra del qualunque altro valore, compreso il diritto dei popoli a scegliere il proprio regime, la propria economia e la propria religione.

Piero Vassallo

domenica 19 aprile 2015

Un saggio di Curzio Nitoglia sull'islam

 Don Curzio Nitoglia, uno fra i più sagaci e risoluti difensori della verità cattolica, giacente e sofferente sotto lo schiaffo della nuova teologia, ha pubblicato nella collana di Radio Spada, intrepida e battagliera casa editrice milanese, il saggio Islam, metafisica medievale araba e filosofia moderna ebraica, la cui lettura è caldamente consigliata a quanti dovrebbero evitare due opposti eccessi, quello dell'invasato, belante/stordito sincretismo/buonismo, che accoglie con pii gongolamenti l'arrivo di probabili colonizzatori islamici, e quello dell'intolleranza cieca e ruggente
 L'allontanamento dagli eccessi prodotti dalla bilaterale disinformazione è necessaria, prima di affrontare in modo serio il problema che turba i cattolici esposti ai venti delle mode e li divide tra ecumenici di stampo buonista/catatonico  e crociati americanizzanti e/o ebraicizzanti.
 Quali esempi di fuorviante ossia americanizzante e giudaicizzante avversione all'islam, don Nitoglia cita le avventurose/funamboliche tesi di Giovanni Cantoni, Andrea Morigi e Marco Respinti, militanti della brasilofila Alleanza Cattolica e discepoli del miliardario dottor Plinio Correa de Oliveira, i quali sono invincibilmente convinti che efficaci antidoti all'islamismo siano il c. d. cristianesimo yankee e il conservatorismo british di Edmund Burke, Russel Kirk, Michael Novak e Leo Strauss.
 Nello scenario disegnato da tali transatlantici architetti l'incontrollata immaginazione di Respinti vede addirittura una Magna Europa separata dalla sua ovvia geografia e dalla sua autentica storia: "un'Europa che abita tra America, Gran Bretagna e Israele".  
 Nonostante le difese dall'islamismo da parte di destre estreme siano nutrite dalla intenzione di reagire all'ideologia atlantica, è doveroso  riconoscere che "la religione musulmana originaria, che nega la divinità di Cristo e la trinità delle Persone nella Natura divina è inconciliabile teologicamente con il cristianesimo".
 Le dolci, vaselinose tentazioni del sincretismo, in circolazione irresponsabile e fumosa nel pensiero postconciliare, pertanto devono essere rifiutate e respinte energicamente.
 Di seguito è tuttavia doveroso ammettere, al seguito di don Nitoglia e contro l'opinione dei tradizionalisti di scuola americana, che l'islam "non è soltanto barbarie, ossia beduinismo rozzo e ignorante come i sionisti e i neocon vorrebbero farci credere, ma ha avuto notevoli pensatori e scuole di pensiero letterario, filosofico e teologico". 
 Il contributo di Al Farabi e Avicenna alla formazione della sintesi tomasiana non può essere dimenticata. Opportunamente Don Nitoglia rammenta che la macchina che produce la crisi del cattolicesimo è la cultura dell'Europa, "che ha smarrito la sua identità nel 1945 e si trova oggi come vaso di coccio in mezzo a due vasi di ferro (americanismo e islamismo) e imita pappagallescamente o l'americanismo o l'islamismo radicale".
 Per uscire dalla depressione schizoide, che la trascina nel sottobosco abitato dall'infedeltà e dalla subalternità culturale, l'Europa deve sottrarsi alla cattività americana e ritornare alle fonti della sua nobile storia: "la cultura greco-romana e cristiana patristico-scolastica".
 Don Nitoglia al proposito cita una lucida sentenza dello storico Jacques Le Goff: "l'Europa risorgerà solo se terrà contro della sua storia: un'Europa senza storia sarebbe orfana, perché l'oggi discende dallo ieri e il domani è il frutto del passato. L'avvenire deve poggiare sulle eredità che sin dall'antichità hanno arricchito l'Europa". 
 Purtroppo ai cattolici turbati dagli alti giudizi sull'appartenenza alla Cristianità degli ebrei, che negano la natura divina di Nostro Signore, si propone un teo-conservatorismo americanoide, la cui essenza "sarebbe il filo-Giudaismo sionista, teologicamente fratello maggiore dei cristiani, geo-politicamente dell'Europa, la quale è diventata Grande/Magna dacché si estende dagli Stati Uniti fino a Israele".   
 Di qui la necessità di indicare la via d'uscita dal labirinto in cui la tradizione europea è sottomessa ai pregiudizi antimetafisici, che hanno accompagnato e illuminato il disgraziato cammino dell'imperialismo inglese e angloamericano. Agli errori della filosofia empirista, che hanno oscurato la ragione dell'Occidente, don Nitoglia dedica il più interessante capitolo del suo saggio.  
 Capitolo magistrale, che rammenta al clero immemore e stordito dal concilio, l'obbligo di riconoscere che la filosofia di San Tommaso ha attinto il vertice del pensiero umano, una vetta oltre la quale è possibile solamente la rovinosa discesa su la sodomitica Saint Francisco dei sessantottini.
 La lettura del testo di don Nitoglia pertanto si raccomanda quale dimostrazione dell'insostituibilità dei preambula fidei arma decisiva degli oppositori al pensiero inteso a ridurre la fede al sentimentalismo grondante dalle prediche postconciliari.

   
Piero Vassallo

venerdì 17 aprile 2015

Il falco pellegrino del dolore (di Luciano Garofoli)

Dolore!
Che brutta parola!
Indigesta, ostica, che ti avvolge nelle sue spire perverse e sottili. Ti penetra dentro piano piano, causando soltanto spiacevoli sensazioni, lasciandoti sempre di più, man mano che il tempo passa, spossato, fiacco, esposto a qualsiasi tipo di offesa e di oltraggio fisico o morale che sia.
Arriva all’improvviso, come una folgore scoccata a  ciel sereno, ma subito dopo accompagnato da nembi scuri ed anche paurosi che fanno arco voltaico tra cielo e terra ed ogni scarica è un sobbalzo, un fiotto di maggiore sofferenza.
Ti cala addosso con la velocità fulminea di un falco pellegrino, ti aggredisce, ti arpiona con gli artigli di una zampa la cassa toracica, te la distrugge, te la apre, fino ad insinuare i suoi rostri potenti dentro il muscolo miocardico. Te lo graffia, te lo offende causandoti quelle classiche sensazioni inaccettabili. L’altro artiglio ti fracassa la testa ti penetra  e strizza il cervello togliendoti qualsiasi capacità reattiva, razionale, riducendoti a puro istinto.
“Il Genere Umano non era stato creato, programmato, voluto per soffrire, bensì per realizzarsi. Per poter, sotto l’amorevole guida divina crescere all’ombra di Dio in Sapienza, Scienza ed Intelletto!”  Ma noi, come  al solito attratti dalle lusinghe dell’auto esaltazione, dal nostro narcisismo ed egoismo abbia rovinato tutto, tutto perdendo e riducendoci, in un condizione di servaggio, di abbrutimento bestiale e dovendo imparare a convivere con questa brutta bestia: il dolore.”
Poi è venuto Cristo, Dio Incarnato ed allora questo mostro ha avuto una nuova dimensione, un’inquadratura diversa.
Padre Andrea D’Ascanio insisteva:
“Esso è diventato il mezzo che ci permette di recuperare quell’immenso patrimonio che, per la nostra cecità, ci siamo giocato: ognuno di noi fa la sua parte per completare quello che manca alla Passione di Nostro Signore, per la redenzione dell’umanità! Quindi soffrire è necessario ed inevitabile! Ma non crediate che Gesù, nel Getsemani, mentre pregava intensamente prima del suo arresto, facesse dei salti alti così; oppure che fosse pieno di gioia e di ilarità: provava, come dicono i Vangeli, tristezza ed angoscia. Arrivò persino ad invocare il Padre, perché allontanasse da sé quel calice amaro e disgustoso!”
Nella mia vita questa presenza ostile e scomoda, ma necessaria, non mi ha mai abbandonato.
Ultimamente mio suocero "parte di testa", mia suocera muore, mio cognato ha degli episodi ischemici.
Anche mia madre comincia a stare male sul serio. Rientro dalla Calabria e per me il cammino del Dolore comincia  a farsi più arduo.
Direte tutte a te capitano: sfigato! Aspettate mica finisce qui.

La sofferenza oltre che fisica, per me, diventa anche morale, in quanto devo combattere anche con il rispetto che devo a chi mi ha dato la vita e che il comandamento “onora il padre e la madre”, mi impone.
Passo notti semidisteso su una poltrona cercando di dare un po’ di respiro a mia moglie che, uscendo da mesi di affaticamento profuso nel sobbarcarsi in maniera quasi solitaria, l’assistenza  a sua madre, ovviamente non sarebbe in grado di reggere più di tanto. Inoltre non lo ritenevo né una cosa giusta, né cristianamente umana scaricare il peso solo sulle sue spalle. Ma quelle notti non erano solo un esercizio di resistenza al sonno alla fatica, oltre che un tormento sottile per dover restare sveglio o, come si dice, dormire con un occhio solo, con il pensiero fisso di dover essere pronto ad intervenire e fornire quella piccola assistenza necessaria. Ma oltre al disagio fisico si aggiungeva anche quello morale: una lama sottile che, senza controllo, ti faceva rivivere la tua vita passata in maniera saltuaria, andando a scovare ricordi dimenticati, pensieri sopiti, ricordi struggenti. Voci, immagini, sorrisi per lo più di gente ormai scomparsa e che vive solo nei tuoi ricordi: mani che stringevano la tua da piccolo, sguardi amorevoli, storie raccontate che ti creavano quasi una piccola estasi, ti facevano vivere, nel reale, dei sogni stupendi.
Il peggioramento divenne più marcato e sensibile: feci in tempo a regalarle l’ultimo piccolo gesto d’amore prima che, nella notte, spirasse: quello di poterle far avere i sacramenti e l’unzione degli infermi. Capì bene quello che il sacerdote le stava impartendo, ne fu rasserenata e, quando nella notte restituì l’anima a Dio, lo fece sicuramente a malincuore, ma con una delicatezza ed una leggerezza uniche, quasi se ne fosse voluta andare senza “dare fastidio a nessuno”, come ripeteva sempre.
Alla metà di settembre la narice di destra non funziona più: era completamente occlusa e la mia “zucconcella” si decide a sottoporsi a visita otorino laringoiatria. Risultato melanoma al seno mascelare: un caso su mille!
Calvario x gli ospedali della "democrazia popolare" quella dei progressisti un'operazione fatta da incompetenti. Poi si deve rioperare: stavolta cambiamo aria: andiamo a Brescia.
Totale si dovrà procedere ad un’altra operazione che sarà ben più impegnativa ed invasiva della prima Essa verrà eseguita per via non endoscopica e, probabilmente, si dovrà asportare un pezzo dell’osso mascellare, oltre ai relativi denti.
Viene fissata una batteria di analisi tra cui la famosa PET, tutto in ambiente ospedaliero ed in maniera molto sollecita.
Tempo due settimane anche l’operazione viene eseguita.
Solerzia inaudita: ma chi si credono di essere questi? Pazzi furiosi esibizionisti!
L’operazione dura ben otto ore! Viene asportato un pezzo d’osso della mascella e si deve ripulire  tutta una zona sotto l’occhio sicuramente non toccata prima, ma interessata comunque.
Uscendo dalla struttura, l’occhio mi si posa su una lapide marmorea piuttosto grande; provo a fotografarla: lo faccio anche se arriva subito un addetto alla vigilanza che mi redarguisce: un po’ sorpreso, un po’ compiaciuto dalla solerzia, rispondo che mi deve scusare, ma nessun cartello mi indicava il divieto di fotografare! Altrimenti non lo avrei fatto!
Il vigilante è un po’ confuso e risale sulla sua Panda marroncina: sembrava una Camicia Bruna!
La lapide porta incise queste parole:


“Varca fiducioso la soglia,
fratello
col tuo dolore, con la tua speranza

Amore e scienza vegliano
Affinchè possa
Nuovamente sorriderti la vita.”


Francamente non ce la faccio e scoppio in lagrime!
Il falco pellegrino del dolore viene scacciato via ed il nembo scuro dell’ansia è vinto dal raggio di sole prepotente della Speranza.

Luciano Garofoli

DUE PAROLE SU EVOLA (di Piero Nicola)

  Si è scritto molto, si è detto il necessario su Evola, né serve aver letto tutto su di lui. Molti che ne hanno preso di mira gli errori, ne hanno discusso in modo parziale, trascurando il lato cattivante e senza pervenire a disperderne il fascino esercitato sui miscredenti o sui fedeli dubbiosi e insoddisfatti. Nell'attuale crisi del cattolicesimo costoro sono legione e preda delle favole, tra le quali grandeggia ancora quella evoliana.
   Evitiamo di entrare nel complesso sistema filosofico, storico, spiritualista e politico evoliano, per estrarre da esso i capi essenziali che fanno maggior presa sulle menti e che di esso nascondono i falsi sostegni.
  Le sue aporie risultano dalla negazione del Dio personale e creatore, cui viene sostituita un'indefinita divinità gratificante chi giunga a partecipare di essa; risultano dalla distinzione degli uomini in dotati e non dotati: per trascendere la realtà sensibile attraverso la via esoterica (superiore razza spirituale, aristocrazia cui è consentita un'etica differenziata); risultano da uno storicismo alla rovescia, ossia da un'involuzione dell'umanità rispetto a un'ancestrale e mitica età dell'oro (Rivolta contro il mondo moderno); risultano dal conseguente abbandono della via della mano destra (morale tradizionale e costruttiva) e bisogno, per gli iniziati, di elevarsi mediante la via della mano sinistra, consistente in pratiche eroiche (Cavalcare la tigre), che distruggono la forma (vedi adozione dell'arte astratta) e anche in pratiche orgiastiche, sebbene virili e che usano i sensi solo come veicolo da abbandonare.
   Le attrazioni esercitate sugli atei e sugli apostati consistono nella critica al presente scaduto nel materialismo, nel mercantilismo e nell'edonismo fine a se stesso, insomma nell'irreligiosità (salvo forme di gnosi invertite e demoniache), consistono nel mito di un nobile e ardito trascendimento, attraverso straordinari stati di coscienza che conducono a godere di un Nirvana, pertanto a una salvezza in cui si mantiene la propria identità.
  Ciò fa leva sulla vanità dei creduli, i quali non ammetterebbero la propria inettitudine, e sperano di potersi dare alle esperienze della scienza ermetica, all'alchimia del solve et coagula, al buddismo iniziatico o al tantrismo, secondo le personali inclinazioni.
  Siamo davanti a una seducente prospettiva di restaurazione dell'individuo integrale, che apprezza i le virtù militari, la razza dello spirito, che nutre benevolenza verso il prossimo e mira all'unione con il divino simboleggiato dal sole, mentre la luna è il crepuscolo, e il culto della Madre Terra comporta l'irrimediabile discesa nella materia e negli inferi.
  Il panorama del pensiero esposto dal barone Julius Evola può servire a spiegare come la Destra, incredula e frustrata, si sia perduta in simili dottrine sfuggendo alla ragione, abbandonandosi ai sogni irragionevoli, nonché viziati da empietà.  


Piero Nicola