A partire dalla costituzione della Repubblica,
la storia politica dell’Italia si sviluppa come un processo critico, segnato da
fasi più o meno lunghe e significative che vanno dal centrismo fino alla cd.
“seconda Repubblica”, attraverso il centro-sinistra, il penta-partito,
l’emergenza terroristica, l’affaire
Moro, tangentopoli, il tandem Lega Nord-Berlusconi e infine la cogestione delle
larghe intese tra partiti antagonistici, fino al nuovo centro-sinistra a
direzione Renzi. Lo stesso movimento di protesta delle “Cinque Stelle”, con la
sua critica ai partiti organizzati e la sua guida carismatica elettoralmente
non responsabile, non fa che accentuare il processo di privatizzazione della
politica tipico del regime repubblicano, che pure verbalmente contesta, e che
la figura di Berlusconi ha portato al parossismo, concentrando sulla “sua”
politica l’attenzione di molta parte della magistratura, impegnandola sul
fronte della legalità politica non meno che su quello della criminalità
organizzata.
Ogni decennio di questa Repubblica è stato
contrassegnato da una qualche “svolta” politica, cioè da un riassetto del
potere partitocratico, che periodicamente trova equilibri più congeniali alla
sopravvivenza di un regime parlamentaristico fondato sul compromesso politico
di quelle oligarchie socio-culturali che, in nome della comune ideologia anti-fascista,
hanno definito a propria immagine ideale e misura politica il nuovo Stato
democratico, di cui la
Costituzione è il testo formale.
La tara d’origine della Repubblica, da cui
discendono tutti i vizii politici e le storture storiche del regime, è nella
stessa struttura ideologica della Costituzione, la quale comprende nelle sue
diverse sezioni le diverse visioni ideologiche dei movimenti che l’hanno
patrocinata, secondo un criterio compromissorio e di reciproca tolleranza, che
rappresenta il modello dei futuri rapporti parlamentari tra i partiti
democratici che l’hanno redatta, sottoscritta e difesa.
La prima, per ordine cronologico e d’importanza
storica, anomalia politica del regime repubblicano è stata, dopo
l’esautorazione della Monarchia, l’identificazione dello Stato con il sistema
parlamentare, e delle sue funzioni amministrative e di governo con l’attività
dei partiti, cioè di organizzazioni private aventi una informale ma sostanziale
funzione pubblica. La conseguenza di questa identificazione di uno scopo
privato con una funzione pubblica è stata la progressiva privatizzazione della
vita politica nazionale, con la sostituzione inevitabile degli interessi
particolari con quelli generali e comuni.
Da questa privatizzazione della politica discendono
sia la perenne condizione di guerra civile tra i partiti elettoralmente
concorrenti, che la conseguente instabilità dei governi parlamentari,
costituiti su un precario compromesso dei diversi interessi sociali
rappresentati dalle relative parti politiche, sicché l’intera attività politica
dello Stato si costituiva come la ricerca di un temporaneo quanto precario
equilibrio di interessi particolari politicamente componibili ai fini della
costituzione di una maggioranza di
governo. Questa ricerca compromissoria e l’esito di essa sono indicati
nell’Italia repubblicana come “attività politica” e, rispettivamente, “attività
di governo”, coi risultati che abbiamo sotto gli occhi.
Il risultato istituzionale
è stato la destrutturazione dello Stato, divenuto non la casa comune ma una
cittadella da assaltare come un “forno” manzoniano ovvero una nave mercantile
da parte di impavidi bucanieri, al fine di consolidare gli interessi delle
truppe elettorali, con la sostituzione di fatto, ma anche sancita in principio,
della politica degli interessi privati concorrenti in vista del potere
pubblico, con l’esercizio del governo della cosa pubblica secondo l’etica del
bene comune.
Il risultato civile
è stato la sostituzione di ogni etica pubblica con il partitismo amorale
delle fazioni politicamente organizzate. La privatizzazione della funzione
politica, con la conseguente scomparsa della autonoma funzione di governo di un
organismo non rappresentativo di interessi di parte, rigorosamente escluso
dalla Costituzione repubblicana, ha provocato la dissoluzione nelle nuove
generazioni italiane di ogni senso etico comune, fondativo della comunità
civile e regolativo della moralità pubblica, la cui portata pedagogicamente
devastante è paragonabile solo alla similare devastazione della civiltà europea
perpetrata dalle altre forme di democrazia istituite dalle ideologie
socialistiche nei paesi d’oltre cortina, che ripresero con rinnovato vigore
iconoclastico l’opera annichilente della rivoluzione francese. Non a caso
motivi razionalistici e socialistici tanta parte hanno nella definizione
ideologica della Costituzione della repubblica nei motivi programmatici e nella
sua struttura istituzionale.
Il risultato economico
è stato la sovrapposizione di una amministrazione politicamente controllata
dello sviluppo nazionale a una autonoma struttura produttiva in grado di
valutare tempi e modi della crescita economica complessiva di una realtà
storicamente frastagliata come quella italiana, con la conseguenza persistenza
delle contraddizioni regionali e la sostituzione del criterio dell’assistenza
pubblica in favore del sottosviluppo politicamente controllato, a quello di una
autonoma crescita politicamente assistita.
Il risultato
sociale è stato il cronico divario tra un’Italia legalmente controllata
dall’amministrazione pubblica degli interessi privati, e un’Italia
autarchicamente gestita dai medesimi interessi privati, inevitabilmente
illeciti. Queste due Italie sociali hanno potuto politicamente convivere in
ragione, la prima, della assistenza economica fornita dallo Stato attraverso
l’elefantiasi del settore pubblico e l’erogazione per la copertura relativa di
enormi risorse finanziarie che hanno garantito, col reddito assicurato a
milioni di impiegati pubblici, il consenso elettorale al regime politico; e, la
seconda, della garanzia politica di una sostanziale anarchia di ampi settori
economici, che ha consentito il loro sviluppo parallelo a quello legale,
oscillante variamente dalla piccola frode fiscale a scopo di sopravvivenza alla
mastodontica organizzazione criminosa di portata affaristica internazionale.
Il risultato culturale
è stato l’impoverimento intellettuale progressivo delle nuove generazioni a
seguito della maldestra gestione politica del patrimonio della memoria ideale
collettiva – della “cultura” appunto – da parte di una classe dirigente normalmente
dedita all’attività politica professionale in ragione della sua povertà
culturale, e perciò selezionata sulla base dei suoi interessi privati a
sostenere un tale regime anti-culturale, che si è caratterizzato per aver
distrutto il patrimonio di civiltà nazionale. A partire dalla scuola pubblica,
diventata ricettacolo di ogni mediocrità intellettuale, funzionale, per un
verso, a garantire l’occupazione massiccia di personale docente e
amministrativo altrimenti disoccupato e perciò politicamente incontrollabile, e
per l’altro a neutralizzare l’intelligenza critica dei giovani attraverso la
funzionale pedagogia della rassegnazione al mediocre presente, alternata alla
protesta inconcludente per un velleitario futuro.
In una tale situazione - prodottasi nel corso di
lunghi decenni di sistematica devastazione del patrimonio morale italiano e
della sua civiltà da parte di una dirigenza politica culturalmente
inconsapevole, perché barbara per origine sociale, quasi esclusivamente
popolare, e per formazione intellettuale, quasi sempre di prima generazione e
meramente ideologica -, parlare di “crisi economica” dell’Italia, significa
misconoscere per insipienza o scientemente occultare i veri problemi nazionali,
che si compendiano tutti nella necessità di superare la parentesi storica
rappresentata dal regime politico repubblicano attraverso:
a) la ridefinizione di un nuovo assetto
istituzionale dello Stato, radicalmente nuovo rispetto a quello disegnato dalla
Costituzione vigente, ideologicamente anacronistica già al tempo del suo varo
perché trascrittiva di istanze ideali appartenenti a movimenti di due secoli
precedenti il Novecento e riabilitati dalla crisi della civiltà europea che due
guerre civili di massa non hanno risolta;
b) la formazione di una nuova classe dirigente
che sia valida interprete della nuova realtà internazionale in cui l’Italia si
trova oggi inserita, sollevando la società civile dalla sua attuale dipendenza
cronica dal potere politico ed economico partitocratico, in vista di una
rinascita locale non politicamente assistita ma in grado di costituire una
autonoma risorsa nazionale;
c) il superamento dei termini del confronto
intellettuale, circoscritto a temi dettati dalle fruste ideologie
sette-ottocentesche che hanno presieduto alla redazione della carta
costituzionale della Repubblica e incentrate sui soli motivi funzionali alla
vita del regime democratico ed economico stabilito per la cogente volontà dei
vincitori della seconda Guerra mondiale, che hanno imposto con le armi un
ordine mondiale demagogico e idealmente arretrato, proprio di una civiltà
culturalmente meno avanzata di quella europea.
Un dibattito nazionale, insterilito su pochi e
fissi temi intellettuali, dibattuti senza originalità né aperture mentali da
sofisti, retori interessati e cronisti di regime stipendiati dai giornali
finanziati dallo Stato, ha avvilito lo spirito italiano, rimuovendo le tracce
più significative della sua tradizione culturale.
All’uopo, per una reale rinascita spirituale
dell’Italia, è indispensabile che il motivo politico, indissolubilmente
congiunto a quello culturale, venga affrontato nei termini di una visione
storica e filosofica non ideologicamente occlusa da una rappresentazione
dell’epoca contemporanea mistificata da visioni politicistiche ed
economicistiche che la presentano come quella idealmente più avanzata e
ideologicamente intrascendibile, per cui non ci potrà essere autentica rinascita
politica senza una preventiva rinascita spirituale.
L’Italia ha bisogno, non di nuovi partiti, ma di
una nuova idea della politica, ossia di una rinnovata visione degli interessi
pubblici, che soltanto una nuova definizione di Stato, di società e di
cittadinanza potranno fornire. E questo è affare di filosofi e di cultori dello
spirito, più che di scribi e di farisei.
Trattandosi di un nuovo rinascimento spirituale
e civile dell’Italia, a questo compito, intimamente religioso perché
coinvolgente ogni dimensione della vita morale e pratica delle persone e dei
gruppi sociali, locali e nazionali, non può sottrarsi la Chiesa , rappresentativa
della stessa identità spirituale dell’Europa, e la cui vocazione cattolica è
intimamente legata all’universalismo della civiltà europea. Una Chiesa, beninteso,
profetica, e non più trionfante come quella militante che abbiamo conosciuto in
passato.
Costantino Marco
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