giovedì 26 gennaio 2017

Tutti, tutti, migrammo un giorno nero (di Pucci Cipriani)

Nella mia famiglia - finché famiglia c'è stata, prima ancora dell'ultimo doloroso evento, per cui posso ben dire, parafrasando il Pascoli: "Tutti, tutti, migrammo un giorno nero" - usava annunziare qualche importante ricorrenza con il ricordare un altro evento, o festa, antecedente e così la nonna diceva : "Siamo ai morti, tra poco arriva Ceppo", ovvero il S. Natale e poi, il mercoledì delle Ceneri - al mio paese, nella piazza antistante alla chiesa, fanno una "polentata antigiacobina" che distribuiscono a tutti, condita con i porri e il baccalà, per ricordare la liberazione di Borgo dalle truppe rivoluzionarie, quando fu bruciato l'albero delle false libertà in mezzo alla piazza e innalzata, al suo posto, la colonna con sopra la Madonna del Conforto - si diceva : "Ci vuole un fiat ad arrivare a Pasqua".... e così via...
Da oltre quarant'anni io mi reco a Civitella del Tronto e da una trentina organizzo, insieme agli amici storici, il Convegno della Tradizione della "Fedelissima" Civitella del Tronto che si tiene nella seconda settimana di marzo, dal venerdì alla domenica...e così, arrivati a febbraio in casa si diceva :"Vai..tra poco c'è Civitella..." e, infatti, già a fine febbraio, si preparavano borse e scatoloni con libri "alternativi", calendarietti, bandiere....e, poi, via, in partenza...e per arrivare ci voleva una giornata...allora...
Già, ma io nel Settanta, nulla sapevo della "Fedelissima" Civitella del Tronto, nonostante avessi iniziato a leggere alcuni libri di Carlo Alianello tra cui "La Conquista del Sud" - Ricordo la copertina tricolorata della Rusconi libro con in mezzo una litografia di un plotone di bersaglieri che fucila un "brigante", ovvero un patriota, combattente per Re Francesco (Dio guardi!) e poi , sempre di Alianello, una vecchia edizione de "L'Eredità della Priora" delle edizioni Feltrinelli - me la regalò il mio amico Paolo Caucci - e, infine "L'Alfiere" che ti fa un quadro di quella infame guerra coloniale contro il popolo del Sud con le parole del Capitano Franco, morente, dopo aver eroicamente combattuto sugli spalti di Gaeta:

"Altri combattono e muoiono per una conquista, una terra, un'idea di gloria, per un convincimento magari o un ideale, ma noi moriamo per una cosa di cuore: la bellezza. 

Qui non c'è vanità , non c'è successo, non c'è ambizione. Noi moriamo per essere uomini ancora. Uomini che la violenza e l'illusione non li piega e che servono la fedeltà, l'onore, la bandiera e la Monarchia, perché son padroni di sé e servitori di Dio.
Ieri forse poteva sembrar più nobile, più alta la parte di là, ma oggi con noi c'è la sventura, e questa è la parte più bella. Perché sopra noi ci possano scrivere senza speranza"

Andavamo dunque i primi anni il sabato ad Ascoli ed eravamo ospiti, per la cena, nella casa di campagna di Caucci e, poi, la mattina, a Civitella, sulla Rocca, che ancora non era sistemata e, mi ricordo, accedevamo alla fortezza mediante una scala a pioli (mah...e mi sembra impossibile, ora) che due ragazzi, i quali si erano inerpicati precedentemente, tenevano avevano gettato e tenevano ferma...ma prima ancora del discorso commemorativo sulla Rocca (non siamo mai stati, allora, più di una quindicina) presso la chiesetta di San Giuseppe c'era la S. Messa, quella in rito romano antico, la Messa di sempre... e di tutti. E siccome allora in Italia non c'era il Priorato della FSSPX, e trovare un sacerdote che celebrasse la Messa cattolica( si diceva la Messa in latino) era non dico difficile ma perfino impossibile, Paolo Caucci era ricorso a un Canonico del Duomo di Ascoli buona persona ma che poco sapeva della Tradizione (che probabilmente confondeva con il Ventennio) che riassumeva così la sua posizione "Mah! Saprei io che fare alli giacubine: arza o' cappello e dacce 'o manganello"... Ma questo Canonico coraggioso celebrava la Messa di San Pio V..la Messa dei Santi e dei Martiri.
Ed è stata una "grazia", una grande grazia, quella di aver potuto  assistere alla Messa cattolica prima celebrata da questo canonico e,dopo qualche anno, dai sacerdoti della Fraternità San Pio X; quindi, per venti, anni grazie al nostro "eroico" cappellano don Giorgio Maffei che era sacerdote diocesano a Ferrara, Cappellano della Certosa e che, in seguito, anche lui entrò, con il consenso del suo vescovo, nella Fraternità San Pio X.
Ma io li ricordo tutti i sacerdoti che, in anni, si sono succeduti a guidare la Via Crucis del venerdì e a celebrare la S. Messa della domenica nella chiesa di Sant'Iacopo alla Rocca e, nonostante alcuni abbiano scelto strade diverse dalla nostra, io non posso fare a meno di ricordare la loro grande sollecitudine pastorale, una grande spiritualità e umanità : don Francesco Ricossa, don Ugo Carandino (ora è, oltre che un caro amico, uno dei miei preziosi fornitori di libri), don Piero Cantoni ,rigido difensore di Mons. Lefebvre, e duro demolitore del Concilio vaticano II, il caro don Emanuele du Chalard - lo conobbi, e sembrava un ragazzino, quando - primo prete in Italia ad Albano - accompagnò Mons. Lefebvre dalla Principessa Pallavicini in un'epica conferenza che scombussolò il Vaticano - e poi anche i sacerdoti dell'ICRSS, don Mauro Tranquillo, don Pierpaolo Petrucci, p. Wodzach che ci illuminava con le sue lezioni di storia, infine i due penultimi Superiori della Fraternità Sacerdotale San Pio X, persone eccezionali, don Michele Simoulin e don Marco Nelly, che, oltre a celebrare la S. Messa, furono tra i relatori e le loro belle conferenze sono poi state pubblicate su Controrivoluzione (www.controrivoluzione.it) e don Stefano Carusi,grande Docente e conferenziere e, ahimè, anche polemista di classe, l'amico fraterno che con Manlio Tonfoni mi invito' - dopo che mi aveva invitato il caro Fabrizio Di Stefano nel 1999 nel bicentenario delle Insorgenze antigiacobine... e che, da allora, è sempre stato al nostro fianco -, all'Università di Camerino per una serie di conferenze tra cui quella insieme ai figli di Guareschi Alberto e Carlotta -  e i cui scritti il buon don Stefano, nonostante le mie ripetute richieste per la pubblicazione, preferisce tenerseli nel cassetto....
Ma perché questa scelta di Civitella del Tronto, questa Roccaforte che non si arrese nonostante gli ordini del Re e, poi, addirittura contro gli ordini del Re, continuando a combattere per il partito della Regina Sofia, che aveva inviato ai difensori, dopo la caduta di Gaeta, una bandiera Biancogliata, ricamata con le sue mani con la scritta "Non mi arrendo" ? 
Già, erano gli anni grigi della contestazione sessantottarda che ha forgiato queste nuove generazioni venute su - l'eccezione conferma la regola - a televisione, nutella e scuola "a tempo pieno", frasi fatte e supponenza; erano i tempi in cui per la strada si gridava "a morte" e "l'utero è mio e lo gestisco io" e "Padroni porci, domani prosciutti"; era l'epoca in cui anche la Destra che, pur con i suoi limiti, si era ispirata, prima, al trinomio Dio - Patria e Famiglia, verrà aggredita dalla sifilide della "Nuova Destra Francese" animalista, abortista, filonazista, ambientalista (prima ancora che venisse fuori quella sublime enciclica di Bergoglio su "La raccolta differenziata della spazzatura"); erano i tempi delle pulci, delle zecche e dei pidocchi, ritornati alla ribalta, insieme ai capelluti arruffapopoli della contestazione pilifera contro l'acqua e il sapone;ma erano anche i tempi che precorsero e ispirarono gli "Anni di Piombo" e delle "Liste di Proscrizione", gli agguati, le sprangate, i colpi della P38 e chi militava nella Destra, o comunque nelle file della Tradizione - ricordo la battaglia del 1974 contro il divorzio e le prime conferenze a Firenze, con padre Centi contro don Milani e la marmaglia cattocomunista, contro il Comunismo,nel 1976, al Centro "Branzi", con il Prof. Roberto de Mattei - additato come un "provocatore fascista" o addirittura un "terrorista"...e poi la difesa del Commissario Calabresi e i manifesti appesi sui muri del mio paese con la foto del Commissario Calabresi e sotto la scritta "Dopo Calabresi, Puccio fascista sei il primo della lista"...e non era tanta la paura per se stessi (ma c'era anche quella) quanto la tristezza di aver lasciato sole, a casa, nell'angoscia, le persone che ti volevano bene e che avevano smesso perfino di comprare il giornale perché avevano paura di trovarci il tuo nome....non eravamo, grazie a Dio, tutti come quel mio ex amico fiorentino E.N.(che per paura giunse anche a boicottare un suo libro, fatto con altri, in cui c'erano cinque righe di critica al risorgimento italiano) che si nascondeva da mane a sera e che quando andò a parlare all'Università, per il FUAN, fu ritrovato nascosto nel cesso...
Insomma a Civitella in quei giorni si respirava (e si respira tuttavia) un'altra aria...lontani dalla contestazione, ai piedi del Gran Sasso, in qull'atmosfera, in quel silenzio, facevi i conti - dopo la confessione - con te stesso; e poi la Via Crucis della sera, per le vie del paese, commuovente e suggestiva, guidata dal nostro cappellano don Giorgio Maffei che, a fine, ci benediva, sulla scalinata davanti alla chiesa; le conferenze - ormai a Civietlla si riunisce il Gotha della Tradizione - avvincenti per tutto il giorno del sabato...e i ragazzi che hanno studiato il prof. de Leonardis e, dall'espressione del suo volto, capiscono quanto valga l'oratore che sta parlando...poi l'alzabandiera, dopo la S. Messa per i nostri defunti e per i Martiri della Tradizione, per quegli eroi che si batterono contro quella :

"Unita' d'Italia (che si inquadrava per sempre in un'ottica nazionalista che rappresentava la negazione dell'antico e sacro concetto di Cristianità e preparava i grandi conflitti del XX Secolo . Inoltre con il pretesto di una liberazione astratta e menzognera da presunte tirannidi straniere, il progetto restava in ogni caso quello di spogliare i villaggi e le città delle loro millenarie libertà e autonomie accentrando tutti i poteri, in nome di una pretesa razionalizzazione, nelle mani di una burocrazia manovrata dall'alto"

(Cfr. Carlo Alberto Agnoli in "Atti del XXI Convegno della "Fedelissima" Civitella del Tronto "Dalla Malaunità alla Rovina attuale" 8 - 9 - 10 marzo 1991)
E dagli spalti di Civitella dai quali, quando c'è sereno, vedi il mare, in quella atmosfera di intenso cameratismo, in mezzo a quelle guarnigioni sbrecciate, tu rivedi i soldati che "spes contra spem" resistettero, pur senza umana speranza, alle forze preponderanti della Rivoluzione italiana.

Pucci Cipriani


mercoledì 25 gennaio 2017

TERREMOTI DI IERI E DI OGGI (di Piero Nicola)

Notizie da il Secolo d'Italia del 25 agosto 2016 (giorno successivo al terremoto con epicentro ad Amatrice).
  Il giornale lancia una sfida al presidente del consiglio Renzi, il quale "polemizza con la ricostruzione dell’Aquila anziché concentrarsi esclusivamente sul sisma che ha colpito la zona di Amatrice. Vedremo cosa saprà fare lui. Ed è bene, in questo momento, ricordare altri terremoti".
  Dopodiché si riportano i dati del terremoto che colpì il Vulture il 23 luglio 1930. Fu di magnitudo 6,7 (10 della scala Mercalli), dunque superiore a quello di Amatrice, e fece 1404 vittime, mentre quello del 24 agosto 2016 ne fece 300. Ma il sisma del Vulture interessò 50 comuni di 7 provincie di Basilicata, Campania e Puglia, con distruzioni molto più estese, e fece relativamente pochi morti perché avvenne durante la mietitura e trebbiatura del grano.
  I lavori di ricostruzione cominciarono subito (RDL del 3 agosto 1930) erigendo casette in muratura e cemento armato antisismiche, che ressero al terremoto dell'Irpinia avvenuto 50 anni dopo (1980). Contemporaneamente si ripararono gli edifici che potevano essere ricuperati. Le casette costruite furono 3.746, le case restaurate 5.190.
  La voce di Wikipedia sul terremoto del Vulture conferma i dati suddetti, e dice che il 28 ottobre 1930 (tre mesi dopo il disastro) furono consegnate 961 nuove abitazioni antisismiche.
  I commenti: ai lettori.


Piero Nicola

martedì 24 gennaio 2017

Ombre garibaldine: Il giallo della morte di Anita Garibaldi

 Studioso instancabile, scrittore di polso e demistificatore puntuale e implacabile, lo storico napoletano Luciano Salera è autore di un avvincente ed esauriente saggio revisionistico, La fuga di Garibaldi e il giallo della morte di Anita, edito in Chieti dall'anticonformista Marco Solfanelli.
 Il robusto saggio in questione fa scendere l'impertinente e impietosa luce della verità su uno dei più strombazzati e incensati episodi della rivoluzione massonica, la morte di Anita Garibaldi, avvenuta nell'agosto del 1849, durante l'ultima fase della fuga precipitosa, attuata degli eversori, dall'effimera, scellerata e iniziatica repubblica romana.
 Un monumento, in mostra squillante sul Gianicolo, rappresenta Anita nella veste inverosimile di una cavallerizza furente e implacabile, che ha sguainato l'eroica sciabola, scagliandosi contro i nemici clericali.
 In realtà la statuaria leggenda di Anita sciabolatrice a cavallo rovescia la verità, che contempla una donna stremata dalla febbre e dall'irragionevole sequela dell'avventuriero nizzardo, lo strombazzato Giuseppe Garibaldi.
 Al proposito Salera rammenta che gli storici di scuola risorgimentista, squillanti e veneranti autori della leggenda intorno alla monumentata cavallerizza, hanno nascosto e censurato le deprimenti notizie sull'inferma salute di Anita: “nessun accenno alle condizioni estreme di questa povera donna, che viene trascinata, morente, in stato di drammatico disagio e massima precarietà, in una fuga che lasciava pochissimo spazio alla speranza di riuscita; anzi ne lasciava talmente poca, stante la necessità di dover trasportare quel corpo in fin di vita, da rendere ancora più complesse le operazioni di fuga”.
 L'ufficiale, lacrimosa narrazione della morte di Anita, stremata dalle fatiche della fuga patriottica da Roma, fa parte delle pagine apologetiche intorno al c. d. risorgimento ed è usata per censurare e nascondere la verità, messa in luce dall'ispettore Giuseppe Radicchi, autore di una relazione sul ritrovamento del cadavere dell'infelice sposa di Garibaldi.
 Al proposito Salera scrive: “premesse le note circostante in cui il cadavere di Anita è stato rinvenuto, il Radicchi assicurava che questo appariva come quello di una donna strozzata … con la lingua fuori, con gli occhi tumefatti e stravolti e con i lividi in corrispondenza della trachea”.
 Salera cita una testimonianza inconfutabile sulla fine violenta di Anita, omicidio definito terribile misfatto, compiuto dai garibaldini nell'agosto del 1849. Per far sloggiare (scappare) Garibaldi dalla casa in cui si era nascosto, “si era tenuto un congresso in casa Moreschi e alla sera era seguito lo strangolamento dell'infelice donna e la sua sepoltura alle cosiddette motte”. La morte di Anita fu un caso di eutanasia, delicatamente taciuto dalla storiografia di stampo massonico e pseudo patriottico.
 Gli storici propriamente detti, quelli che non ignorano e sopra tutto non nascondono la spietatezza e il cinismo dell'eversore nizzardo, sono fermamente convinti dell'esistenza di un'ombra scellerata sull'avventura del Garibaldi.
 L'opera di Luciano Salera, storico erudito ed onesto e fervido patriota rinnova e accresce le ragioni della fondata diffidenza negli ideali dei garibaldesi, falsi italiani, attivi sul fronte massonico costituito dalla rabbiosa, laida avversione alla Cristianità e all'ordine civile.

 La memoria storica degli italiani dovrà, pertanto, superare e liquidare l'umiliante e intossicante dipendenza dalle pagine della storia, che sono infettate dalla lue massonica e dal furore anticristiano.

Piero Vassallo 

RITORNO IN A. O. (di Piero Nicola)

  La guerra è il dramma che è. Al fronte e nelle retrovie avvengono le uccisioni, alcune assai penose. Le prove da sopportare sono spesso gravi, a volte estreme a causa d'un nemico criminale. I civili soffrono e talvolta muoiono a causa del conflitto. La guerra può essere necessaria e giustificata oppure no. Il soldato degno del suo servizio non la giudica, non giudica la Patria, che essa abbia dichiarato guerra oppure no, che abbia fatto bene o meno. Egli potrà dire la sua, a torto o a ragione, tornando civile, sperando che sia capace di sagge valutazioni e che sia in buona fede.
  Così ci sono due specie di militari. Quelli che vivono male la guerra e in fondo non sono soldati, perché la ritengono intollerabile, e quelli che l'accettano e possono trarne profitto morale e spirituale. Ai numerosi casi di personaggi stimati nel mondo ma ingiusti, come un Heminway (che si permise di giustificare la diserzione), un Remarque, un Barbusse, fa felice risconto una schiera di combattenti e di eroi indiscutibili, che testimoniarono il valore e l'accettazione del sacrificio proprio e altrui (D'annunzio, Giosuè  Borsi,  Arturo Marpicati, Filippo Corridoni, Paolo Caccia Dominioni e tanti altri, tra i quali Nino Badano).
  Di quest'ultimo, di cui ho parlato in questa rubrica a proposito della sua attiva fedeltà al Deposito della Fede e contro il Concilio Vaticano II, sono riuscito a leggere le sue memorie Ritorno in A.O. pubblicate nel 1938, in una edizione del 1994. Si tratta di un ritorno nella memoria, che ripercorre le tappe dell'esperienza di tenente nella Campagna di Abissinia del 1935-36.
  Qualcuno avrà da criticarmi per aver impostato un articolo con delle conclusioni apodittiche, che avrebbero dovuto figurare alla fine. Ma ho voluto premettere tali affermazioni, purtroppo oggetto di contestazione o di dubbi, in quanto superiori ad una individuale, per quanto eccellente, loro conferma.
  Il giornalista Nino Badano era stato incarcerato e inviato al confino per aver mosso una severa critica al Duce. Giova riportare un suo breve curriculum da lui stesso redatto: "Avevo 23 anni quando ho cominciato. Dirigevo il settimanale della Gioventù Cattolica delle diciassette diocesi piemontesi. La prova direttoriale non è durata molto perché una mia telefonata da casa ad un amico, telefonata nella quale commentavo troppo vivacemente un'esortazione di Mussolini a 'odiare', mi ha portato prima in carcere; poi, dopo una traversata in manette dell'Italia tra due carabinieri, al confino in Calabria. Ero da poco tornato a casa dal confino quando sono stato richiamato, con tutta la mia classe, come ufficiale per la guerra di Etiopia. Al ritorno, radiato dall'albo dei giornalisti, non potevo scrivere che nelle terze pagine di qualche giornale coraggioso, come l'Avvenire d'Italia di Manzini, e sulle riviste letterarie più tolleranti, a cominciare dal glorioso Frontespizio, dove ho incontrato amici indimenticabili. come Bargellini, Lisi, Betocchi, Giordani, Fallacara, Bugiani, La Pira, Occhini, dell'Era, Soffici e altri, a Vita e Pensiero, a Maestrale di Adriano Grande, a Incontro di Vallecchi, a Meridiano di Roma, a Gioventù italica, a Pro-Familia, ecc. Poi è venuta l'altra guerra, che ho cominciato da richiamato sul fronte greco e ho finito nelle baracche di prigionia dei lager tedeschi. Il giornalismo vero e proprio ho potuto riprenderlo soltanto dopo: prima a Torino al Popolo Nuovo, poi a Roma al Quotidiano, che ho diretto per 14 anni, al Giornale d'Italia che ho diretto per tre e poi sul Tempo dove sono stato per oltre venti anni fondista".
   In una sua prefazione a Ritorno in A.O., Giano Accame osserva che "il ventisettenne Badano (1911-1990)" era stato "fondatore e direttore di un fortunato settimanale cattolico per bambini, Il Vittorioso, e nel 1935 aveva pubblicato già un libro su Giosué Borsi nella collana dell'A.V.E. dedicata a figure di cattolici segnalatisi per meriti patriottici: scritto in Eritrea sotto la tenda, uscì mentre lui entrava ad Adua con il suo reparto di esploratori". "Scopo della collana era rivendicare i titoli nazionali dei cattolici in un periodo di rapporti difficili tra la Giac e il regine. Titoli a cui Badano [...] contribuì di persona guadagnandosi in Africa Orientale una proposta di medaglia di bronzo al valor militare".
  Il diario di soste, esplorazioni, battaglie, attraverso traversie d'ogni sorta e pause quasi idilliache dall'Eritrea al cuore dell'Etiopia, ha un'intonazione nostalgica da capo a fondo, c'è un rimpianto d'una vita felice,  mai venata di amarezze e recriminazioni. Per giunta egli usa sovente il "noi", accennando all'armonia che regnava nel reparto, specie tra gli ufficiali; né degli altri corpi dell'esercito risultano colpe e deficienze, anzi troviamo diversi apprezzamenti. Soltanto verso i traffici mercantili incontrati durante le operazioni belliche si nota un certo distacco del narratore.
  "Giornate di marcia faticosa, di avanguardia rischiosa, di combattimento, non sembrano più nostre tanto sono lontane, e paiono impossibili tanto sono belle!" (pag.25-26). "Prima notte solenne della nostra avventura; ancora non sapevamo quanto fosse bella: bisognava vederla finita, passata, come oggi. Allora non avevamo che gioia e impazienza di vedere, di consumare il tempo" (pag. 32). "Banchetto di Pasqua! Primo giorno d'Africa e di marcia, indimenticabile giorno della nostra giocondità!" (pag. 40). I commilitoni: "Sono una folla: una grande folla, di anonimi, di cari compagni, senza difetti, senza scortesie. Ce me sono in tutti i paesi visti, in tutti gli ambienti toccati, in tutte le circostanze vissute" (pag. 42). "Ma ciò che si è dimenticato non importa; è bello anche così. Bello anzi aver smarrito qualcosa: anche tanto, anche il più. È ciò che è rimasto soltanto nostro, e sempre per noi!" (pag. 44). "Bastava un cenno per intendersi, un'occhiata per spiegarsi, perché la nostra vita era una sola, comune, ed era bella proprio per quella unità" (pag. 55). "Dopo averla spiata per mesi dalle alture della vecchia Eritrea, dietro il baluardo pauroso di queste montagne valicate; dopo averla nominata per mezz'anno con il desiderio nel cuore e con un'ansia lieve nella voce, ecco ora in tre giorni l'avevamo raggiunta; potevamo uscire dalla tenda a contemplarla. Adua era nostra e l'avevamo presa noi" (pag, 81). "Non pareva vero di tornare al fronte. E s'arrivava col volto mascherato di polvere, e cogli abiti coperti di terra: non si riconosceva né grado, né reggimento. Presentarsi al colonnello così, per dirgli 'tutto bene' era una soddisfazione; poi a vederlo contento e compassionevole, si filava via allegri" (pag. 89). "Che cosa importa aver lo zaino pesante, se la terra che si marcia è tutta conquistata, se le valli che si percorrono mai nessuno le ha finora vedute, e le bellezze che i nostri occhi godono, sono vergini e incontaminate dal giorno che il pensiero di Dio le ha formate?" (pag. 129). "Verso sera quelli del genio captavano il giornale radio e le lo portavano su a mensa; alla nostra mensa di pietre, sotto l'acacia grande delle mitraglie nemiche [...] Dall'altra parte andavano avanti, avanti e nessuno li poteva fermare: noi sempre fermi; si era metà contenti e metà invidiosi: ma non c'era nulla da fare" (pag. 141). Il ritorno a guerra finita: "Ripassavamo in un giorno le tappe fatte in lunghe settimane di marcia. Era la nostra prima delusione, sentire meno vasta quella terra conquistata" (pag. 151). "Si tornava ad essere soldati con le giberne vuote, con la canna del fucile da tener lucida, con le scarpe da tener pulite, con il posto da mantenere in ordine. Eravamo di nuovo soldati del tempo di pace. Ecco ciò che avevamo perduto in quel furioso ritorno, tutto d'un colpo, precipitosamente: la nostra bella vita di guerra" (pag. 153).


Piero Nicola

domenica 22 gennaio 2017

A CHI GIOVA IL COMUNISMO? (di Emilio Biagini)

La rivista di propaganda alleata del tempo di guerra Il Mese (n. 21, settembre 1945, pp. 310-319) riportava, condensato da The Saturday Evening Post di Filadelfia, un importante articolo delleconomista americano P.F. Drucker, dal titolo Stipendi e paghe nellURSS, che contiene informazioni interessanti e attendibili, dato che lindirizzo della rivista era ovviamente quello di elevare peana ai paesi vincitori, oltre che di insultare quelli sconfitti e imbottirli di menzogne.
Nel paradiso dei lavoratori il divario di paghe e stipendi fra dirigenti e operai era molto più forte che negli USA, e addirittura ancora più forte di quanto non fosse nella Russia zarista. Negli anni antecedenti alla seconda guerra mondiale un operaio sovietico lavorante a catena [di montaggio, si spera] era pagato 125 rubli al mese (circa 50 dollari), ossia 1500 rubli allanno, ma i dirigenti sovietici dellazienda (direttore, ingegnere capo, amministratore generale, direttore di produzione) ricevevano fra i 24.000 e i 36.000 rubli annui se la produzione dellofficina era buona.
[Ossia se aveva raggiunto o superato le quote stabilite dal piano; se poi la merce prodotta serviva davvero, quella era unaltra questione. Una barzelletta corrente era che unazienda era stata premiata per aver superato di gran lunga le quote di produzione ma, andando a vedere cosa produceva, veniva fuori che fabbricava cartelli con la scritta Non funziona.]
Nello stesso periodo di tempo un operaio americano non qualificato riceveva in media 1200 dollari lanno e il suo direttore dofficina o ingegnere capo era pagato fra i 10.000 e i 15.000 dollari. Ciò significa che i tecnici dirigenti nelle industrie guadagnavano nellURSS da quindici a venti volte quanto era pagato a un lavoratore non qualificato e negli Stati Uniti da otto a dieci volte tanto. La differenza di salario tra un dirigente tecnico e un operaio era il doppio nellURSS rispetto agli USA. In tale paese le imposte sul reddito gravavano assai sul bilancio di un dirigente industriale: su un introito di 15.000 dollari limposta poteva essere del 30%.
NellURSS i dirigenti di officine o erano esenti da tasse o ne erano colpiti assai leggermente: laliquota più alta era del 10% e la maggior parte dei direttori e degli ingegneri industriali non la pagava; infatti era raro che un cittadino sovietico potesse occupare un incarico direttivo se non aveva meritato almeno una delle molte decorazioni e onorificenze esistenti, ognuna delle quali comportava esenzione parziale o totale dalle tasse.
Si aggiunga che, più ancora dello stipendio, contava il fatto che i proventi di un dirigente industriale sovietico consisteva in premi in denaro e ricompense in beni e servizi, spesso di tale valore che nessuna somma in denaro avrebbe potuto procurarli in un paese di così scarse disponibilità; poteva ad esempio ricevere una casa appositamente costruita, e i sui figli godevano di un monopolio pressoché totale dellaccesso allistruzione superiore.
Privilegi analoghi e talora ancora maggiori potevano toccare ai dirigenti statali, ai più eminenti professionisti e agli artisti. Già nel 1938 oltre metà degli studenti universitari era composta da figli di dirigenti industriali o statali e meno del 10% proveniva da aziende agricole, benché gli agricoltori costituissero ancora oltre il 50% della popolazione sovietica. Nel 1940 erano state introdotte tasse scolastiche per le università, allo scopo dichiarato di sbarrare la strada ai ceti operai perché i loro figli non accedano a professioni da colletti bianchi.
Dopo lattacco tedesco allURSS il divario si accrebbe ulteriormente: un dirigente industriale che nel 1938 guadagnava 1.500 rubli al mese, nel 1945 ne guadagnava 10.000 o più, e riceveva premi in denaro ancora più sostanziosi, i Premi Stalin di 50.000, 100.000, 150.000 rubli. Al contrario, i divari salariali negli USA si erano ridotti per i forti aumenti agli operai. Sebbene il denaro in URSS contasse poco, essendovi poco o nulla da comprare, questi confronti sono altamente significativi.
Essi infatti svelano la vera natura dellideologia comunista. Ecco perché la cosiddetta rivoluzione di ottobre non fu affatto un movimento operaio, ma un colpo di stato militare; ecco perché, durante la guerra civile, come testimonia anche Boris Pasternak ne Il dottor Zivago, gli operai parteggiarono per i bianchi o addirittura si arruolarono negli eserciti bianchi, mentre i proprietari di aziende sostennero i rossi: per loro si prospettava infatti la possibilità di scambiare il rischio imprenditoriale con la più tranquilla posizione di funzionari statali aventi lunica preoccupazione di consegnare le quantità di prodotto richieste dai piani.
I privilegi della Nomenklatura, così efficacemente descritti da M.S. Voslensky (1984, Nomenklatura: la classe dominante in Unione Sovietica, Milano, Longanesi, 2ª ed., trad. d. tedesco) nei paesi afflitti dal comunismo iniziano dunque fin dai primordi del dominio degli sciagurati rivoluzionari di professione. Questo dunque è sempre stato il comunismo: un comodo sistema di occupazione di posti privilegiati e di sfruttamento ai danni dei più deboli da parte di una scaltra e spietata banda di parassiti di regime.
A questo precisamente aspiravano anche i rivoluzionari nostrani, gli striscianti blateratori dei salotti buoni e delle televisioni okkupate e avvelenate, i kani da guardia delle kase editrici blindate, i mirakolati improvvisamente konvertiti dal fascismo al verbo komunista, i kapò della kontestazione sessantottarda, tutti quelli che hanno intossikato lItalia e continuano a intossikarla. È sempre la stessa identica storia, perché il diavolo è monotono.

EMILIO BIAGINI

Lo stato contro natura: Sodomia democratica e progressiva

Due persone dello stesso sesso costituiscono un'unione civile mediante dichiarazione di fronte all'ufficiale di stato civile.
 Monica Cirinnà


 Esaltato e incensato dal pensiero esclusivo, in circolazione instancabile nel raffinato, profumato e sontuoso salotto radical chic, il vizio contro natura irrompe nella società gongolando e squillando in forza della legge che ha il nome, venerato dagli urologi, di Monica Cirinnà.
 La legale promozione dei vizi del basso ventre ha recente, virtuosa e gloriosa origine dalla resistenza all'etica tradizionale e dal rifiuto della normalità, giudicata quale bieca espressione di un oscuro passato medievale, ultimamente compromesso con la sotterranea, vergognosa criminalità clerico - fascista.
 Rovesciata (dalla defezione degli impauriti benpensanti) nella minoranza impavida, ostinatamente refrattaria all'estrema pratica democratica e progressiva, il silenziato e ghettizzata popolo della resistenza alla sodomia, non può far altro che indossare mutande di robusta, sospetta e quasi reazionaria latta. E tentare di sottrarre i bambini a una scuola inquinata dal viscido delirio dei sodomiti politicanti.
 Uscito dal ghetto il capovolto piacere, è incensato e onorato da una democrazia delirante e truffaldina. La legislazione viziosa ha lontano principio dalla rassegnazione di un personaggio del teatro aristofaneo, il quale, atterrito dall'estensione minacciosa della folla pederastica gridò - “tenete il mio mantello, gente di culo rotto, che io fra voi diserto”.
 Il disperato delirio di un antico commediografo greco diventa la parola d'ordine del partito regressista, in corsa festosa tra le righe crepuscolari di una democrazia vaselinosa, che il compianto, preveggente professore Gianni Collu definiva aperta in tutte le direzioni del vizio.
 L'Europa neopagana è percossa da crisi e tormentata da sciagure variamente colorate. Naturalmente nessuno osa parlare di castighi di Dio. La modernità ha censurato la religione. La democrazia è una macchina che premia le minoranze festanti nel salotto dei pervertiti.
 D'altra parte la lingua del santo clero è impastata dal perdonismo e dal buonismo. In altre parole: la teologia è sotto lo schiaffo dei nichilisti filosofanti. Le lettere di Santa Caterina al papa sono aggiornate dagli applauditi appelli di Emma Bonino all'ecumenico papa argentino.
 La memoria degli insulti piovuti sul cardinale Giuseppe Siri, che aveva osato affermarne l'esistenza dei castighi di Dio, d'altra parte, impone al santo clero un cauto e pavido silenzio. Di conseguenza la funzione di prevenire le sciagure è sottratta alla preghiera dei fedeli e affidata alle esercitazioni della protezione civile.
 Se non che si diffonde l'ostinato, invincibile sospetto che la sciagure che affliggono la gongolante allegria nazionale (ed europea) siano conseguenze del disordine promosso da poteri scesi in guerra contro il pudore del pensiero e contro l'onestà della vita.


Piero Vassallo

venerdì 20 gennaio 2017

Il pianeta sull’orlo di una crisi di nervi (recensione di Francesco Maj)

La recente fatica letteraria della coppia Emilio e Maria Antonietta Biagini (Gaia. Il pianeta sull’orlo di una crisi di nervi, Tabula fati, Chieti, 2016) si aggiunge alle numerose pubblicazioni già prodotte controcorrente e che hanno come bersaglio evidentissimo tanti idoli del nostro tempo e i loro devotissimi adoratori.
Come non ricordare, per limitarci alle pubblicazioni più recenti, le gustosissime “Satire Clericali” con tante ombre vagamente ecclesiastiche che recitano “pezzi di giornali”, ripetono slogan molto buonisti… dove manca qualsiasi rispetto della verità e non v’è cenno della propria identità? Degni di molta attenzione restano anche libri come “Saccenti ed altri serpenti”, “La pioggia di fuoco”, “Labirinto oscuro”, ecc., che da vari anni  fanno la loro periodica comparsa, incuranti della reticenza e del silenzio di chi dovrebbe difendere i valori fondamentali e invece… lascia correre o, peggio, rema contro.
Sono testi in cui l’autore entra a spada tratta con grande libertà di denuncia, e senza sottintesi fa emergere vigliaccherie e chiari tradimenti…
Bisognerebbe proprio che venissero messi in scena!
Divertirebbero anche un largo pubblico di indifferenti, irriterebbero alcuni saccenti e forse farebbero riflettere… anche tante mosche cocchiere”!
L’ultimo prodotto di cui sono a conoscenza della dinamica coppia è GAIA… Il titolo promette un po’ tutto quello che la madre-terra può dire e soprattutto quanto ne dicono gli inquilini… chiamati sul palco ad accusare, a difendersi dai tentativi e dalle molte chiacchiere dell’“homo sapiens”. Si tratta di creature inanimate come il Vulcano, il Cielo stellato, gli Asteroidi, il Mare, le Nuvole che commentano le varie idiozie con cui l’uomo li accosta e li utilizza e talvolta li idolatra.
Soprattutto però il dialogo a più voci si fa contemporaneamente divertente, ironico e amaro quando parlano le ranocchie, i topi, i panda, gli aironi, le poiane, gli squali, le iene, gli avvoltoi, pinguini e zanzare…
Davanti al lettore si snodano quadretti più o meno lunghi, talora brevissimi, sovente accompagnati da un Io-vociante.
Troveranno un regista coraggioso che li presenta in qualche scena televisiva?
Se però si dovesse scegliere un “pezzo” da rappresentare veramente con tanto di apparato non si potrebbe assolutamente escludere le pagine dove sono di scena la Scimmie dai pittoreschi nome come Orango, Gibbone, De Gorillis… con vari altri animali chiamati in causa: il Picchio, la Bertuccia… Ci si trova nell’aula di un vero tribunale con tanto di apparato giudiziario dove le scene si succedono solennemente secondo le procedure canoniche… I vari personaggi si avvicendano con accuse e precisazioni, e le “dimostrazioni” dell’area evoluzionista vengono in definitiva vagliate e sottoposte a un duro esame da parte degli animali chiamati in causa…
“Indiscussi” venerati personaggi come Darwin e il suo mastino Huxley… sono sottoposti a domande imbarazzanti e all’implacabile logica del pubblico ministero Orango. Ne emerge una conclusione ben martellata dall’autore: ci possono essere state modifiche lentamente verificatesi, adattamenti dentro la stessa specie… ma la derivazione di una specie dall’altra resta indimostrata…
Soprattutto il “mistero umano” con la conoscenza del bene del male, con le doti artistiche che lo caratterizzano… non si lascia minimamente dedurre da una organizzazione sia pure complessa di molecole. Nel dibattito fa capolino anche una parola famosa: il caso… Nonostante i mirabolanti tentativi escogitati per farne il protagonista adatto a spiegare certe trasformazioni e il funzionamento dei vari organi… resta un puro vocabolo di origine molto chiara: non sapendo come un fatto sia avvenuto o avvenga, ci si abbandona a uno sbalorditivo atto di fede mascherato da una parola!
Interessanti spunti di ricerca storica sono offerti dagli accenni:
-                     alle relazioni fra Darwin e Huxley e i progetti del Club X (a cui lo scienziato non partecipava, anche perché non invitato!),
-                     al passaggio dal Darwin credente al suo finale agnosticismo,
-                     alla utilizzazione che vari atei hanno tentato di fare delle idee di Darwin, ecc.
Che dire in definitiva sulla questione dibattuta?
I vari colpi d scena che si succedono negli interventi portano lo spettatore non del tutto digiuno ad alcune conclusioni più volte e in molte forme proposte:
-                     lo scienziato si muove sul piano del dove, del quando, del quanto e del come e le sue conclusioni… non sono mai definitive. Quante “scoperte” che parevano definitive sono state smentite!
-                     lo scienziato nulla può dire sul perché di quanto avviene,
-                     lo scienziato non decide del bene e del male…
La tecnologia offre all’uomo mezzi, ma non gli insegna come usarli…
Sempre sulla questione calorosamente dibattuta nel tribunale… non sembra inutile precisare (e l’autore certamente lo sa!) che molti credenti pur seguendo Darwin lo correggono su un punto decisivo: parlano di Dio che guida l’evoluzione
Se si assiste, pensano, alla disposizione di varie lettere dell’alfabeto in parole, che a loro volta compongono una proposizione e questa si inserisce in un discorso, è troppo evidente che è all’opera un Autore! A questa conclusione si è avvicinato lo stesso Darwin…

Io confesso che mi pare il più alto assurdo possibile supporre che l’occhio sia stato formato, per mezzo di selezione naturale, con tutte le sue inimitabili disposizioni ad aggiustare il suo fuoco alle varie distanze, ad ammettere diverse quantità di luce e a correggere l’aberrazione sferica e cromatica.
(Prima edizione italiana de L’origine delle specie, 1864)
E la sua perplessità è del tutto ragionevole… Mentre sconcertante è quanto scrive in un secondo tempo…

L’occhio mi fa venire ancora oggi un brivido freddo ma… la ragione mi dice che dovrei superare questo brivido.
(in una lettera di qualche anno dopo…)

A quale tipo di “ragione” si appellava questo secondo Darwin?
Concludendo…
Non si sfugge al desiderio di augurare alla coppia che ci ha offerto GAIA di procedere perché il dibattito resta sempre aperto e il tentativo di ridurre tutto il reale a una organizzazione di particelle dai nomi sempre più strani… certamente continuerà finché dura l’uomo. E occorre chi smaschera camuffamenti e conclusioni ingiustificate anche se presentate in paludamenti scientifici e con cipiglio accademico e… ironizzando e calpestando la famosissima “ragione”!

FRANCESCO MAJ
Istituto Salesiano “Valsalice”, Torino

martedì 17 gennaio 2017

La scienza laica in viaggio nel sottosuolo esoterico (di Giovanni Badiali)

La dottrina democratica, eiettata della squillante fanfara esoterica, orchestrata e ultimamente abbagliata (flesciata) e stordita dalle contraddizioni, in furente corsa nelle grotte in cui è caduta la modernità - antri scavati dal vaneggiamento iniziatico per indirizzare alla dissoluzione il cammino di un vasto popolo costituito da sapienti illuminati (allucinati), politici decerebrati, plebi plagiate e rassegnate e iniziati ai gridati misteri del
sottosuolo & del vespasiano - sta ottenendo l'ambito risultato: sostituire la giustizia cristiana con il truffaldino gioco delle carte stampate dalla banca babilonese.
 Come il vomito fa girare i tormentosi dubbi dell'affamato cane, i tamburi della destra democratica attirano i candidati al godimento della soggiacente - nascosta e venerata – truffa delle tre carte moderne: liberté, égalité, fraternité.
 Iniziata dai saccheggi e dai massacri giacobini, l'eredità della commedia rivoluzionaria di stampo demo-babilonese riposa. infine (Marcello Guidasci dixit), nelle capienti, auree tasche dello speculatore & finanziere ungherese Georges Soros.
 Di qui l'avviamento di una macchina devastante, un tritacarne sodomitico concepito per indurre i popoli a rassegnarsi alle povertà nascoste sotto le vaste e sontuose ali dei poteri di servizio, e per avviarli all'immoralità, allo sfascio delle famiglie, agli estenuanti giochi d'azzardo, alle deliziose macchinette progettate, propagandate e promosse dalla beffarda società degli usurai d'alto profilo e dai loro filosofanti buffoni.
 La povertà dei popoli cristiani è il preambolo a un piano magico inteso alla semina di una fatale, velenosa discordia tra gli accecati europei e gli immigrati islamici, avanzanti sotto la protezione della dottrina globalista, elaborata al sapiente tavolino degli usurai e avallata dallo sconcerto vaticanista.
 Contemporaneamente, la sistematica diffamazione e la pilotata insorgenza di ebbri teologi e di utili preti ha aggredito, debilitato e stordito la fede del basso clero e dei fedeli, aprendo ampi varchi al falso ecumenismo e al sincretismo e avviando, infine, surreali e grottesche manfrine.
 Di qui l'obbligo incombente sui testimoni della cultura italiana: riscoprire e promuovere risolutamente la resistenza cattolica alla torbida ideologia culocratica, in arrivo dall'America.
 Capire, infine, che il fallimento della destra berlusconiana dipende dalla inadeguatezza e dalla fragilità del pensiero liberale e dall'assurdità della simpatia per l'America, reperti fossili di un mondo che si è naturalmente rovesciato nel porcile sinistrorso, nel quale stanno sguazzando i miseri resti della rivoluzione liberal-illuminista.
 Edito dall'infaticabile Marco Solfanelli, editore in Chieti, “Corti pensieri nella notte lunga”, raccoglie alcuni articoli e saggi intesi a spezzare la soffocante corda, legame irrealistico che permette il trasbordo della confusione illuministica sulla nave dei cattolici frastornati e turbati dalle grida squillanti sul palcoscenico di un mondo agonizzante.

 Giovanni Badiali



domenica 15 gennaio 2017

PER ORA INCOLUMI, MA INVASI (di Piero Nicola)

  Ci si sarà chiesti come mai in Francia, in Belgio, in Germania sono avvenuti gravissimi attentati commessi da terroristi islamici e, alcuni anni or sono, anche Inghilterra e Spagna hanno pianto per questo i loro morti, mentre in Italia siamo andati esenti da simili stragi. Una spiegazione deve pur esserci. Ma non ci si venga a raccontare, con la solita propaganda governativa, che la nostra polizia è più in gamba e previene gli attentatori.
  Deve essere vero che da noi sono state scoperte pericolose cellule dinamitarde, ed anche isolati aspiranti terroristi. Ma è impossibile che nessuno abbia potuto portare a termine il crimine prefissato. Anche i cosiddetti cani sciolti devono sapere come regolarsi, ovvero perché bisogna che si astengano dall'ucciderci. Tra parentesi, va notato che tali soggetti, sciolti o legati, non vengono messi al sicuro in carcere e non vanno sotto processo. Invece li riportiamo a casa loro. Ed è strano come ciò possa farsi regolarmente, se per il rimpatrio (già decretato di rado) dei clandestini sorgono problemi sia di individuazione della provenienza, sia per le difficoltà opposte dai paesi d'origine, tanto è vero che il nostro governo ora deve prendere accordi, per cominciare con la Libia, onde assicurare tale operazione (ma dal dire al fare...). Ancora più strano il fatto che si rimpatrino i nostri nemici più pericolosi, che avranno ampie possibilità di fare ritorno, p.e. con i barconi e gommoni dei migranti, con la benedizione del finto papa Bergoglio.
  Tornando alla spiegazione dell'attuale nostrana immunità da bombe, mitragliamenti e camion lanciati sulla folla, la logica vuole che ciò sia evitato perché il Bel Paese tiene aperte le porte agli extracomunitari, i quali qui stanno accumulandosi a milioni. È chiaro che anche ai musulmani presunti moderati e lavoratori conviene accrescere il loro numero, converrebbe loro essere così tanti da aver diritto o modo di comandare in Italia. A maggior ragione gli islamici più islamici non vorranno interrompere questa, per ora, pacifica invasione. Se anche qui perpetrassero stragi, la gente autoctona, sebbene impecorita, comincerebbe a prendersela con l'immigrazione e anche con gli immigrati. Di già Renzino ed ora il gentile, anzi gentilone, capo del governo, hanno parlato di organizzare centri di identificazione degli irregolari e rimpatri sostanziosi. Quand'anche fosse un intento reale, sarebbe assai difficile che si sia in grado di portarlo a termine. Tuttavia tali progetti governativi per tener buona la massa, che comincia ad essere allergica allo straniero dannoso, sono un ulteriore motivo per non agitare le acque usando armi proprie e improprie contro gli italiani.


Piero Nicola

sabato 14 gennaio 2017

Cinque milioni di immigrati alla tavola degli italiani poveri

Restituita l'Africa agli africani, il delirio progressista contempla infine la metamorfosi sincretista dell'Occidente, un devastante progetto, che contempla la metamorfosi terzomondiale della civiltà cristiana”.
Don Miche Rosati


 Afflitti da una crisi economica, che produce mortificanti disoccupazioni giovanili e diffonde sconforto e malessere nelle famiglie, gli italiani (specialmente i giovani) subiscono anche la soffocante pressione esercitata da una congrega buonista e masochista, agitata dalla ridicola convinzione che alla tavola dell'esausto benessere ci siano posti e cibi abbondanti (succulenti e gratuiti) per gli avventizi mangiatori terzomondiali.
 Naturalmente al buonismo gastronomico e alberghiero sono associati lauti guadagni per gli ecumenici cuochi e albergatori e per i loro autorevoli e pii protettori, attivi nei partiti consacrati allo scialo impropriamente detto misericordioso.
 A monte delle allegre ed ecumeniche mense, allestite dalla untuosa e scialante bontà del governo costituito dalla distrazione irrealistica, il segnale più allarmante è costituito dalla presenza di circa un milione di islamici, avanguardie di una rivoluzione antropologica, che è progettata e finanziata dalle nazioni petrolifere del Medio Oriente, entità seminatrici dell'impostura maomettana e della generazione aggressiva.
 Il rovente sadismo e la conclamata idiozia degli iniziati (anglo americani ed europei) ai demenziali e criminogeni misteri della massoneria e del vespasiano, non vede e se vede pavidamente tollera l'aggressione dell'islam selvaggio contro il mondo cattolico, che ha sempre rigettato sia il delirio maomettano che la frusciante musica della moneta americana.
 E' in corso imperterrito la radunata dei cialtroni e degli allucinati, che si incontrano nelle sedi delle sette iniziatiche, nei salotti d'alto indirizzo pederastico e lesbico, negli ambulacri delle banche ladrone, nelle scuole del delirio filosofante, e nei bassi vespasiani. Solo la Russia di Vladimir Putin pone freno alla tracotanza islamica.
 Mentre l'aristocrazia del vizio occidentale gongola negli indisturbati salotti progressivi, gli islamici mettono in scena la loro manfrina.
 Avanguardie islamiche, in sonno tattico, costituiscono, sotto la pioggia del delirio sedicente ecumenico, robuste comunità (criminogene e potenzialmente eversive) nei grandi centri, ad esempio a Roma (dove sono presenti 365 mila credenti nel falso profeta Maometto) e a Milano (dove i residenti islamici sono 254 mila).
 L'obbligo di rifiutare le ottuse generalizzazioni, e il dovuto rispetto dei princìpi neo ecumenici, continuamente gridarti da Giorgio Bergoglio, non sono sufficienti a nascondere l'allarmante presenza di numerosi fanatici islamici, intesi a sostituire la religione di N. S. Gesù Cristo con la delirante ferocia in corsa tra le righe lugubri e laide del Corano.
 Fleshato dal galoppante buonismo. il volontariato cattolico nuota nelle acque torbide e agitate, nelle quali gorgogliano le parole del disordine mentale e della capitolazione.
 Di qui la delusione dei fedeli refrattari all'eresia circolante sotto la cappa pseudo ecumenica della tolleranza ad ogni costo. Tolleranza che contempla l'allestimento di tavole culinarie al servizio degli islamici, a costi che aggravano il disagio degli italiani impoveriti dalla sanguisuga europea.
 Secondo ragionate previsioni entro mezzo secolo gli immigrati islamici diventeranno padroni (ossia devastatori) della cultura italiana e avvieranno l'estromissione della Chiesa cattolica e il declassamento dei credenti in Gesù Cristo.
 Riconosciuta la veridicità di tale desolante previsione si afferma la necessità di porre un freno all'immigrazione islamica, anche se un tale atto contrasta duramente con l'allegro buonismo circolante, senza freni e ripugnanze di fede e di ragione, nella chiesa ecumenica di Bergoglio.

 Si tratta, in ultima analisi, di riconoscere la distanza enorme che corre tra la carità (che incomincia dai benefici dovuti al prossimo ovvero ai propri connazionali) e il buonismo pseudo ecumenico, in corsa incontrollata nella direzione imperiosamente indicata dai poteri inziatici, che gestiscono il delirio unico.

Piero Vassallo

venerdì 13 gennaio 2017

Il Bello secondo san Tommaso d’Aquino (di Paolo Pasqualucci)

     Sommario:  a. La nostra epoca ha smarrito la vera nozione del bello.  b.  L’origine divina della bellezza.  c. Il bello come “debita proporzione” e “consonantia” delle parti nel tutto e dell’ente con Dio.  d. La bellezza come “clarificatio” ossia splendore, luminosità, luce nella quale la “proportio” delle creature si perfeziona secondo il fine loro proprio.   e. La bellezza come “integrità” e “perfezione”.  f. Il bello come “delectatio” individuale del bello in sé.  g. Il bello in senso trascendentale. 

Un tema oggi inconsueto:  la nozione del bello secondo san Tommaso d’Aquino.  L’arcigna Scolastica, apogeo del Medio Evo nella speculazione, si è dunque occupata del senso del bello, ha elaborato un’estetica?  Certo che se n’è occupata ed esiste ovviamente una letteratura specialistica al riguardo, debitamente citata ed egregiamente discussa nel libro che andiamo a recensire.  Dal punto di vista dell’uomo della strada può, tuttavia, sembrar buffo andare a ritrovare l’idea del bello proprio nel pensiero medievale, noto per il suo dogmatismo e la sua tendenza al misticismo, e in fama di aridità per quanto riguarda la considerazione dei sentimenti e delle passioni degli uomini.  La rivalutazione della bellezza nella nostra vita non è apparsa soprattutto con l’Umanesimo e  il Rinascimento, per l’appunto dopo le eccessive chiusure medievali alla dimensione sensibile-sensuale della nostra esistenza?   Certamente, però con una impostazione antropocentrica che ha finito con il separare il bello dal divino, innescando in tal modo un processo involutivo, che sembra giunto (si spera) al suo ultimo stadio proprio nelle aberrazioni della nostra epoca, affogata nella carnalità.

a.  La nostra epoca ha smarrito la vera nozione del bello
  Credo che poche epoche della storia abbiano, come la nostra, necessità di riacquistare un’autentica nozione del bello. Il nostro tempo è purtroppo caratterizzato dai cattivi costumi presentati come se fossero virtù, dalla volgarità, dal pessimo gusto, da una bruttezza manifesta e ovunque diffusa.  Basti pensare alle forme sbilenche, storte, contorte che dominano nelle arti figurative e persino nell’architettura, ove ci si compiace di costruire edifizi senza capo né coda, rannicchiati in volumi enormi e sfuggenti da tutte le parti o storti, obliqui, pencolanti, come se dovessero crollare da un momento all’altro o disperdersi in un’onda di vetro-cemento.  C’è il culto della forma impura:  anche certi famosi grattacieli altissimi e sottili sembrano contorcersi; e quando no, appaiono comunque fuor di proporzione nei loro segmenti, che rinviano all’immagine di pezzi di materia, di schegge, di frammenti, non si sa perché rivolti in alto.  L’architettura contemporanea, nelle sue ultime forme, sembra inseguire l’idea del disordine, del caos, come se le costruzioni dovessero rappresentare elementi in rivolta.
 Ma la bellezza dei corpi umani, che mai come oggi sarebbe vicina alla perfezione delle forme, della quale tanto si vanta il Secolo ipernutrito e iperpalestrato, quella non conta?  Il fatto è che tutta questa “perfezione”, oltre ad apparire fredda, asettica, muscolare ed esibita in modi non conformi al decoro e alla pudicizia, troppo spesso è frutto di artificio, di sapienti e meno sapienti chirurgie estetiche.  Ciò si nota soprattutto in molte donne di oggi.    
Per non dir nulla della bruttezza addirittura allucinante nella quale è caduta l’architettura religiosa, che, nella migliore delle ipotesi, appare seplicemente insignificante.   Chiese cattoliche con facciate da cinematografo o grandi magazzini, o inespressive; chiese circolari, come grandi torte schiacciate e con campanili ridotti ad inespressivi simboli filiformi.  Un esempio forse inarrivabile di questi orrori è la nuova chiesa costruita a Fatima, sul luogo delle celebri apparizioni mariane di un secolo fa. 
Difficile negare che il nostro gusto si è corrotto di pari passo con i nostri costumi.  Anzi, si potrebbe dire che la depravazione della nostra sensibilità estetica è cominciata già con la musica atonale, il surrealismo, l’astrattismo, ben prima dell’esplodere del consumismo di massa, della Rivoluzione Sessuale,  della ribellione della gioventù nel 1968, della pornografia,  e, per quanto riguarda l’Italia, delle oscene volgarità disseminate nei vergognosi film della c.d. “commedia all’italiana”, imperversanti negli anni Settanta del secolo scorso.   A nulla potevano servire le critiche e le denunce avanzate da isolati osservatori anticonformisti sulla decadenza e in pratica l’estinzione delle arti figurative (per non parlar della musica e della letteratura) possedute da uno spirito sempre più deviato e tenebroso[1].  L’imbarbarimento dell’arte “ufficiale” continua oggi all’insegna di una vera e propria “estetica del disgusto”, cioè di una produzione (in genere priva di vero talento) che vuole scandalizzare e addirittura suscitare disgusto e repulsione: tipico prodotto di quello che  si può definire un vero e proprio “inverno della cultura”[2].
Recuperare l’autentico senso del bello sembra pertanto di vitale importanza per il futuro della nostra civiltà.  Ben venga, allora, l’eccellente studio di Miriam Savarese, tesi di dottorato così intitolata:  La nozione trascendentale di bello in Tommaso D’Aquino[3].

b.  L’origine divina della bellezza
Preceduta da una breve Introduzione e seguita da una brevissima Conclusione, l’opera si divide in cinque capitoli.  Un breve Quadro storico delle concezioni medievali del pulchrum anteriore all’Aquinate precede l’analisi approfondita del suo pensiero, così suddivisa: Gli elementi del bello (cap. II), la visio e il piacere (cap. III), i trascendentali (cap. IV), il trascendentale pulchrum (cap. V).
Dati i limiti di una recensione, l’ampiezza e la complessità dei temi trattati, mi concentrerò in prevalenza su “gli elementi costitutivi del bello”, ovvero sul fondamento metafisico dell’estetica dell’Angelico, senza ovviamente trascurare la parte più impegnativa del libro, dedicata alla “nozione trascendentale” del bello.  Infatti, il concetto trascendentale del bello (che non è ovviamente quello kantiano) non compare esplicitamente in san Tommaso e va ricostruito all’interno della sua complessa dialettica di bonum-verum-pulchrum, impresa a mio avviso realizzata dall’Autrice con pieno successo (vedi infra, § g), a conclusione di una ricerca che sviluppa e approfondisce in modo originale anche gli spunti offerti dalla letteratura specialistica più recente.   
La riflessione estetica di san Tommaso non nasce come un fiore nel deserto ma si inserisce in una problematica già presente nel pensiero cristiano a lui anteriore e nella stessa tradizione patristica, come dimostrano i riferimenti a sant’Agostino e a Dionigi l’Areopagita (Pseudo-Dionigi), riportati nel Quadro storico.   
Il pensiero medievale, immerso nella visione cristiana della vita, non separava il mondo sensibile dall’intelligibile, il materiale dallo spirituale, intendendo sempre tutto all’insegna dell’unità del creato, opera di Dio onnipotente.   A rivalutare questa sua prospettiva, ci sono stati nel passato importanti contributi, tra i quali gli studi di Umberto Eco (sulla sensibilità estetica medievale e sul pensiero estetico di san Tommaso), ripubblicati di recente da Bompiani (certo, di un Eco ben diverso dal posteriore autore di quel  feuilleton anticattolico che è il suo noto romanzo Nel nome della rosa), studi ai quali l’Autrice di frequente si riferisce, a volte in garbato e motivato dissenso[4].
In sant’Agostino e nei filosofi cristiani la bellezza viene colta come “species” (aspetto, bellezza, forma), attribuita soprattutto al Figlio, Seconda Persona della Santissima Trinità.   Fattori di bellezza sono “armonia e soavità di colore”.  Ma il bello, originandosi da Dio, ha anche i caratteri del bene (modus, species, ordo) e vi è una tendenza costante a contrapporre una superiore bellezza interiore  a quella esteriore[5].  Questa tendenza a concepire la bellezza in modo spirituale e in sostanza mistico, si basava anche sulle nozioni filosofico-scientifiche dell’epoca. La Scuola di Chartres, ispirandosi  al Timeo platonico e a Boezio interpretava il cosmo come ordine dotato di un’interiore armonia mentre si sviluppava un’estetica della luce, fondata anche sugli studi scientifici sulla luce  ad opera dei Francescani.
“La luce è sorgente di bellezza, perché costituisce la sostanza stessa del colore e, nello stesso tempo, la condizione esteriore della sua visibilità; di volta in volta, essa viene presa in considerazione con un’ottica mistica, metafisica o scientifica, ma la sua importanza rimane sempre confermata”[6].  Fioriva anche una estetica della proporzione (consonantia), che autori come Eco vorrebbero in contrasto con quella della luce, tesi assai dubbia secondo Savarese.  In ogni caso, il modo di intendere la bellezza era sempre metafisico. “Il problema principale che si trovarono di fronte coloro che affrontavano la sistemazione teorica del bello fu proprio la sua integrazione con i trascendentali, in particolare con il verum  e il bonum:  per difendere la dignità del pulchrum era necessario, da un lato, mostrare che non era in opposizione ad essi, anzi per certi versi vi si identificava (e fu questa, soprattutto prima di Tommaso, la principale preoccupazione), ma dall’altro divenne poi necessario garantirne la distinzione, altrimenti l’identità e la consistenza propria della bellezza sarebbe scomparsa.  Si tratta del filo rosso che percorre tutta la riflessione di Tommaso d’Aquino in merito”[7]
Nella Summa Theologiae si trova una sua notoria definizione del bello come “ciò che piace alla nostra vista”, che evidentemente lo trova bello:  “Pulchra dicuntur quae visa placent”. Prima di analizzarla nel III capitolo del suo libro, Savarese, con procedimento metodologicamente ineccepibile, ci illustra “gli elementi del bello” risultanti dalla riflessione teoretica dell’Aquinate.  Elementi che potremmo definire oggettivi, nel nostro modo di esprimerci, se non fosse che tale modo mal si adatterebbe al pensiero dell’Angelico.  Savarese preferisce, pertanto, parlare qui di “elementi costitutivi”, lasciando da parte la distinzione di oggettivo-soggettivo, tipicamente moderna[8].
Il testo nel quale compaiono al meglio i tre “elementi costitutivi” di questo concetto si trova nella Summa Theologiae, I, q. 39, a. 8 co.:
“Infatti per la bellezza sono richieste tre cose.  Per primo, l’integrità o perfezione, infatti le cose che sono menomate per ciò stesso sono brutte.  E la debita proporzione o consonanza.  E per secondo lo splendore, da cui le cose che hanno un colore brillante sono dette belle”[9].
Una prima formulazione del concetto del bello si ha nel commento tommasiano ai Nomi Divini dell’Areopagita.
“Perciò, anche se nelle creature il bello [pulchrum] e la bellezza [pulchritudo] differiscono, tuttavia Dio li comprende entrambi in Sé, secondo l’uno e l’identico”.  Pertanto:
Bello si dice “ciò che partecipa della bellezza”; si dice bellezza, invece, la partecipazione alla Causa Prima che fa “belle” tutte le cose:  la bellezza della creatura, infatti, non è altro che la somiglianza alla bellezza divina partecipata nelle cose”[10].   Il bello, riferito all’ens, partecipa di una bellezza che rinvia di per sé alla bellezza “che è Dio”.  Il pulchrum è dunque il bello concreto, la cosa bella, si potrebbe dire, che appartiene al regno di questo mondo pur non essendo scissa dalla realtà di Dio, senza la quale, oltre a non esistere, non sarebbe nemmeno bella.  Mi viene in mente il famoso verso di Keats: 

A thing of beauty is a joy for ever;
Its loveliness increases; it will never
Pass into nothingness….[11]

Non voglio certamente attribuire al sensuale e sontuoso classicismo di Keats una concezione cristiana del bello e tuttavia si vede come il suo verso voglia esprimere, con felice intuizione, il significato eterno della bellezza della cosa bella, anche se tal cosa possa sembrar bella solo esteriormente.  Da qui la domanda: l’eternità del bello come può concepirsi senza credere che essa partecipi, anche solo come un’ombra, dell’eterna bellezza di Dio?
Ma come può effettivamente il bello terreno, la “cosa bella” partecipare alla bellezza “che è Dio”, costituente uno degli attributi della sua assoluta perfezione?  Tale possibilità è giustificata in base all’articolato concetto di partecipazione, uno dei pilastri della metafisica dell’Aquinate, tratto da Platone ma da lui originalmente rielaborato[12].  Dio è lo Ens subsistens o Esse per essentiam mentre “le creature sono l’essere partecipato, composto di essenza e atto di essere”, composto cioè non solo di ciò che lo fa essere ciò che è (la sua essenza o sostanza) ma anche (necessariamente) dell’esistenza in atto, in quanto ente creato appartenente alla realtà.  L’actus essendi è il risultato della creazione che Dio fa dell’ente, ex nihilo.  Le “partecipazioni” sono “le formalità secondo le quali i doni di Dio sono divisi nelle creature, che ne partecipano in quanto li ricevono in modo parziale”.  Pertanto, il pulchrum e la pulchritudo  sono in Dio per essentiam mentre nelle creature lo sono per partecipationem[13].  Con questo nesso, essenza-partecipazione dell’essenza all’ente creato, si spiega l’origine della bellezza nella creatura:  Dio ne è la “causa prima”[14].
All’interno di questo nesso teoretico fondamentale vanno situati gli “elementi costitutivi” del bello secondo san Tommaso.  Essi sono:  “integrità o perfezione (integritas sive perfectio), dovuta proporzione o consonanza/armonia (debita proportio sive consonantia) e luminosità/splendore (claritas)”[15].
Sulla base di questi concetti, anche se non sempre impiegati tutt’insieme, l’Angelico propone alcune definizioni del bello.  Commentando l’Areopagita, scrive che egli mostra “la ragione della bellezza soggiungendo che Dio “trasmette bellezza in quanto è ‘causa dell’armonia e dello splendore in tutte le cose”.  Ne consegue, prosegue san Tommaso, “che bisogna intendere proporzionalmente il bello in tutte le altre cose, perché ogni cosa si dice bella in quanto ha lo splendore del suo genere, o spirituale o corporale, e in quanto è costituita secondo la proporzione dovuta (In De Div. Nom., c. IV, 1.5, 339)”[16].

c.  Il bello come “debita proporzione” o “consonantia” delle parti nel tutto e dell’ente con Dio
L’idea di intendere “proporzionalmente” il bello è dell’Aquinate, così come quella di una proporzione dovuta o debita proportio.  Riprendendo questi concetti nella Summa Theologiae, egli distingue tra bellezza corporea e spirituale: “la bellezza del corpo consiste nel fatto che l’uomo ha le membra del corpo ben proporzionate, con una certa chiarezza del debito colore.  E similmente la bellezza spirituale consiste nel fatto che il genere di vita dell’uomo, o la sua azione, sia ben proporzionata secondo la chiarezza spirituale della ragione.  Ciò, infatti, appartiene alla ragione dell’onesto, che diciamo sia identico alla virtù, che regola tutte le cose umane secondo ragione.  E perciò l’onesto è identico al bello spirituale[17].
Ques’idea della consonanza o “ proporzione debita”, cioè dovuta, giusta, mi sembra particolarmente interessante, meritevole di esser riproposta alla nostra riflessione, proprio perché la mentalità oggi predominante sembra compiacersi di ogni mancanza di proporzione, di ogni disarmonia, di ogni “trasgressione”, accettando che l’arte (ma anche la stessa natura) siano svilite a banco di prova di ogni possibile esperimento.
Cercherò di riassumere i complessi e profondi concetti dell’Angelico, interpretati con sagacia e  grande acribia filologica da Savarese.
L’idea di proporzione “attraversa, per così dire, tutta la riflessione di Tommaso d’Aquino”, assumendo “molteplici accezioni”.  Fondamentalmente, tale idea si presenta in due modi:  “un determinato rapporto [habitudo] di una quantità ad un’altra”; “un qualsiasi rapporto [habitudo] di una cosa ad un’altra”.  Il primo è quantitativo, misurabile, come il rapporto di due a uno in musica poiché l’intervallo di 8a  è maggiore del doppio della nota base.  La “proporzione” investe tutta la realtà, sia dal punto di vista quantitativo (esprimibile matematicamente) che qualitativo.  E questo perché tutta la realtà è strutturata secondo un ordine (ordo) stabilito da Dio. “E così ci può essere proporzione della creatura a Dio, in quanto essa la ha a Lui come l’effetto alla causa e come la potenza all’atto.  Secondo ciò, l’intelletto delle creature può essere proporzionato a conoscere Dio”[18].    
Allora il bello (pulchrum), in quanto “debita proportio”, si ritrova in tutti gli aspetti della realtà.  La “proportio” coinvolge il nesso, di origine aristotelica, potenza-atto:  “è la proporzione dell’atto in se stesso e quella della potenza all’atto”, esprimente un rapporto che va oltre la semplice “armonia di parti”[19].  Va oltre perché “è in essa e grazie ad essa che la realtà finita trova compimento e manifesta valore estetico”[20].
Sono concetti difficili, soprattutto per la nostra mentalità, abituatasi a navigare a vista, a galleggiare nell’indeterminato, nel sentimentale, nel puramente soggettivo, amorevolmente intenta a coltivare l’informe rappresentato dai propri istinti, quali che siano.
In ogni ente creato (uomo, animale, pianta) esiste questa “proporzione”, che possiamo definire, con l’Autrice, “ontologica”.  È la proporzione vigente tra l’essenza e l’ipsum esse o actus essendi (atto dell’essere), che è anche, in generale, proporzione fra materia e forma[21].
Questa proporzione, osservo, muove da una distinzione che successivamente essa stessa unifica.  La distinzione è tra l’essenza (o sostanza) dell’ente (aristotelicamente:  ciò per cui esso è ciò che è e non è altro da sé – principio di identità) e il suo essere, vale a dire il suo esistere in atto, concretamente, e non semplicemente in potenza, come mera possibilità di esistere. Perciò, “quella tra un’essenza e il suo atto di essere è la prima essenziale proportio che costituisce l’ente (escluso Dio, sia chiaro)”; ragion per cui, “senza di essa, essentia e actus essendi non potrebbero comporsi e nessun ente si darebbe”[22]
Il rapporto tra la potenza e l’atto è quello che “fonda la cosa [l’ente creato-NdR] in quanto esistente e, di conseguenza, anche la sua bellezza e la possibilità della sua fruizione”[23].   Pertanto, nella proporzione che regola il rapporto tra potenza e atto, atto e potenza, proporzione che viene da Dio, si ha già la proporzione che costituisce la bellezza degli enti, nel loro grado e ordine.   Questa proporzione è nella realtà delle cose, in quanto ordo creato e stabilito da Dio, e quindi si ha non solo  nell’atto intellettivo, l’atto del soggetto che conosce la realtà (il vero è consonantia tra l’intelletto e la cosa conosciuta) ma anche “tra il senso e il sentito”[24].
Qualitativamente, la proportio è quindi diversa a seconda della natura degli enti nei quali ha luogo e in questo senso è debita:  “è debita perché è quella che appartiene a ciascun ente in quanto tale:  la proportio di un ente corporeo è diversa da quella di una realtà spirituale”[25].  È quella che gli spetta per natura, potremmo dire.   Allora la rappresentazione artistica dell’ente – mi chiedo – non dovrebbe comunque cogliere questa proportio?  Si tratta di una relazione il cui fondamento è metafisico: cogliere, allora, il fondamento metafisico della bellezza.  Metafisico e, in ultima analisi, divino. 
Esistono vari tipi di proportio:  “la proportio di ciascun ente, che sarà differente a seconda dell’ente in questione” e “la differenza che passa tra proporzione delle realtà corporee e di quelle spirituali”.  In quest’ultime è ricompresa “la proportio morale degli atti umani, che ha come termine di riferimento la ragione”[26].
La proportio estetica è quella che “fonda la bellezza tra gli enti”.  In essa si esprime la proporzione degli enti a Dio.  Infatti, “è perché Dio è causa di ogni bellezza che gli enti sono belli”[27].
Ma, dirà il figlio del Secolo, non è astratta tutta questa costruzione, se riferita al concetto del bello?  Non ne dà una rappresentazione troppo spirituale, troppo elevata?  La bellezza sensuale, che attira vicendevolmente l’uomo e la donna, e dà, in generale, concreto significato estetico ai rapporti tra i sessi e con la natura, vi trova posto?  E se lo trova, non è esso relegato ad un ruolo ingiustamente secondario, contro ciò che ci mostra l’esperienza?  Qui cadiamo nel platonismo più deteriore, nella retorica delle anime belle:  gli amanti si trovano belli perché trovano belli i loro reciproci corpi, e questi vogliono godere! 
Rispondo:  esiste anche la retorica dell’eros, nata dal giusto desiderio di abbellire poeticamente il sostrato puramente sensuale dell’attrazione dei sessi.  Non si può negare che nella bellezza sensuale è all’opera il desiderio dei rapporti carnali, provocato a sua volta dall’impulso alla riproduzione, per il mantenimento della specie. Il desiderio dipende dal fòmite della concupiscenza, che ci spinge al piacere.  Ammesso da Dio, è ovvio, ai fini del mantenimento della specie umana mediante la riproduzione dall’unione del maschio e della femmina.   Ma questa bellezza è caduca perché legata alla sensualità della giovinezza (“Nulla cosa è sì fallace/ Quanto il tempo giovinile”), all’eros che seduce e inganna, tendendo quindi di per sé al disordine sentimentale e di vita.  La caducità ingannevole dell’eros si dimostra nel fatto che, se abbiamo senno, da vecchi, dopo esser stati feriti dalle tante spine nascoste nella rosa delle nostre passioni, ci appare transeunte, falso e persino volgare ciò che ci affascinava da giovani, spinti com’eravamo dalla molla della concupiscenza. E quanti errori vorremmo non aver fatto, in quell’epoca della nostra vita, ormai irreparabilmente trascorsa.
Per annullare il suo potenziale distruttivo, la bellezza sensuale, che non può certamente esser tolta dalla nostra vita, deve tuttavia esser sublimata nella disciplina della procreazione nel matrimonio e nella famiglia, come li ha stabiliti Dio stesso: trascendersi in valori più alti, che aiutino a goderne con la necessaria moderazione e temperanza.  Ciò dimostra che nella bellezza va cercata una ratio che va al di là del dato immediato della bellezza puramente sensuale, che non sarebbe d’altronde tale, per noi, senza il desiderio, soggiacente in chi la percepisce.  E questa ratio conduce alla fine a vedere in Dio la causa di ogni vera bellezza.
Il concetto del  b e l l o   non può quindi esaurirsi in quello della bellezza dei sensi, esso deve necessariamente trascenderlo, se vuol darsi un fondamento autentico.  Il “pulchrum” non può essere limitato ai corpi[28].  Questo carattere trascendente della vera bellezza, lo si desume anche dall’importanza che l’Angelico attribuisce alla claritas ossia alla luminosità.

d.  La bellezza come “clarificatio” ossia splendore, luminosità, luce nella quale la “proportio” delle creature si perfeziona secondo il fine loro proprio
Questo secondo elemento del bello, considerato ratio pulchri  già da Alberto Magno suo maestro, risulta in modo meno diretto della proportio.  E tuttavia  Savarese dimostra che lo si può rintracciare chiaramente nell’Aquinate. Quest’aspetto è di particolare interesse poiché esso tratta il tema, a mio avviso essenziale, del rapporto tra la luce e il bello, dando fondamento teoretico all’idea della luce che deve rischiarare oltre ai corpi anche le menti, in modo che la rappresentazione del bello sia conforme alla verità  dell’essere, come stabilita da Dio.
Anche il termine claritas, che si può rendere con “chiarezza, splendore, luminosità”, possiede per san Tommaso diversi significati.  Di questi, ci interessa in particolare quello che illustra il rapporto tra claritas e lux.
La luce viene considerata nella sua capacità di manifestare le cose, vale a dire di permettere la visione e la conoscenza[29].  C’è quindi un nesso tra le due distinte realtà della luce solare e della luce interiore, proveniente dall’intelletto. Nella sua “capacità di mostrare, la luce appartiene più propriamente alle realtà spirituali.  Tutto ciò che è manifesto è clarum”.  La ratio della claritas è, allora, la sua “manifestatività”, sia sensibile che intelligibile[30].  L’Aquinate ha anche riflettuto a fondo, nella quaestio 67 della I parte della Summa, sulla natura della luce naturale, giungendo alla conclusione che essa non deve considerarsi “corpo”.  Non ha natura corporea  e non è la “forma sostanziale” del sole:  è una “qualità attiva “ del sole[31].
La “forma sostanziale”, lo ricordo, è quella che costituisce la sostanza stessa dell’ente, ciò per cui esso è in sé ciò che è e non è altro; sostanza che, dal punto di vista del significato, è la sua stessa essenza (come abbiamo visto, i due termini sono usati anche come sinonimi).  La luce sta a parte, è una “qualità”, che all’epoca di san Tommaso si riteneva si propagasse istantaneamente. Grazie alle scoperte e ai calcoli della scienza moderna, oggi sappiamo che la luce saetta all’altissima velocita’ di quasi 300.000 km/s, costituita di pura energia viaggiante sia come corpuscolo (fotone) che come onda.  Essa si propaga sempre in linea retta nel vuoto.  Cosa sia l’energia tuttavia non sappiamo.  Va notato che san Tommaso, che si basava anche sugli studi della scienza del tempo, aveva visto giusto nel separare la luce dal sole, in quanto fenomeni fisici:  dire che la luce non era la “forma sostanziale” del sole significava affermare che luce e sole erano, come tali, fenomeni diversi e che il sole non era fatto di luce, cosa a quei tempi forse non così ovvia come oggi[32].
La luce ha dunque caratteristiche e qualità proprie. Deriva dai corpi luminosi (sole, stelle) manifestandone la forma sostanziale (con la quale non coincide) e produce nei corpi, anche negli esseri umani, un “colorem nitidum”, cioè brillante, “che in quanto tale è segno di bellezza”, oltre che di “sanità in senso fisiologico”, secondo la concezione aristotelica dell’esser sani[33].  Nella claritas si ha dunque “il risplendere della forma”, sia in senso fisico che spirituale.  Come essa manifesta la forma sostanziale dei corpi celesti, così la manifesta nell’uomo.  Ma nell’uomo tale forma è costituita dalla sua anima, onde la claritas di uomini e donne sarà costituita dalla “radiosità” della loro anima[34].  Accanto allo “splendore sensibile” che proviene dalla luce sui corpi abbiamo allora uno  “splendore intelligibile”, costituito in noi dalla “resplendentia animae”, forma sostanziale del nostro corpo.  Dall’anima proviene anche lo splendore del “corpo glorioso” del Signore Risorto e quello che avranno i corpi dei risorti in Cristo.  La “luminosità del corpo” non ha una causa solo fisica, essa è sempre connessa alla claritas intelligibilis, che ha anche un significato morale.  Recita, infatti, la Summa:  “la luminosità del corpo rappresenterà la qualità della mente, quanto alla quantità di grazia e di gloria”[35].  Ovvero:  “dopo la resurrezione, la claritas del corpo esprimerà, renderà visibile, la mente di ciascuno”.  In tal modo essa dimostrerà il suo collegamento con “il vero” e “il bene”[36].
Può sembrare singolare – osservo – il nesso sistematico che l’Angelico istituisce tra la realtà fisica e quella spirituale e proprio in relazione ad un modo di essere o stato rappresentato dalla claritas, condizione che può sembrare anche evanescente o comunque solo temporanea.  Ma, a ben vedere, questo nesso, oltre ad esser giustificato di per sé, se non si vogliono separare arbitrariamente corpo e spirito (anima e corpo), lo ritroviamo affermato anche nella Sacra Scrittura.  Le acute riflessioni di san Tommaso, ci rimandano a un celebre versetto del Vangelo di san Matteo, là ove riporta il Discorso della Montagna, quando il Signore disse:
 “L’occhio è lume del corpo.  Se dunque l’occhio tuo è sano, il tuo corpo sarà illuminato.  Ma se l’occhio tuo è torbido, tutta la tua persona sarà nelle tenebre.  Se dunque la luce che è in te è tenebre, quanto grandi saranno queste tenebre?”[37].
La luminosità la vediamo nell’occhio, nostro e altrui.  L’occhio nostro è illuminato dalla luce che lo riempie dall’esterno allo stesso modo per tutti ma non ogni sguardo  è uguale all’altro poiché l’occhio appare limpido o torbido a seconda della claritas o delle tenebrae prevalenti dall’interno.  La luce di un occhio moralmente sano, come di chi vive sforzandosi sinceramente di fare in tutto la volontà di Dio, ci spiega il Signore, farà sì che “tutto il tuo corpo sia illuminato”.  Come a dire:  la claritas dell’occhio, specchio dell’anima, investirà tutto il tuo essere, il tuo corpo.  L’estensione potrebbe sembrare arbitraria o solo simbolica.  Eppure, chi non ha avuto, di fronte a giovani o a giovanette dall’aspetto semplice e virtuoso, ben educati e modesti, impressioni come queste:  che bello sguardo limpido, che impressione di semplicità, di pulizia morale, di purezza, in tutta la sua persona?  E lo sguardo limpido non è forse bello?  E la claritas che emana dalla persona che abbia l’occhio sano e bello, non è tale anche dal punto di vista estetico, oltre che etico?  L’occhio torbido è quello senza luminosità, che rende opaco ed anzi tenebroso anche il corpo, poiché il suo sguardo si è guastato in séguito ai peccati di una vita che trasgredisce la volontà divina.
La claritas dell’occhio sano risplende di una luce che è la stessa luce di Dio?  Possiamo affermarlo, purché si rammenti che tale luce nella creatura non è diretta bensì partecipata.  La bellezza-splendore di quest’occhio deve esser intesa come ogni bellezza di questo mondo:  come “partecipazione alla luminosità divina”[38], secondo la gerarchia dei vari gradi dell’essere.
La metafisica cristiana della luce, che, al contrario di quanto ritengono alcuni eruditi, non ha dovuto certo attendere gli influssi delle correnti mistiche mussulmane per costruirsi, ha sempre visto nella luce uno degli attributi di Dio. E Dio, nella sua bontà, ne rende partecipi in vari modi le creature, in senso sia corporeo che spirituale, nella bellezza esteriore e interiore: si veda il cap. IV dei Nomi Divini di Dionigi l’Areopagita, autore datato dalla critica moderna tra il V e il VI secolo.  San Paolo ci rivela che Dio “inabita una luce inaccessibile, che nessun uomo mai ha veduto né può vedere”[39].  Ma appunto la divina bontà ci ha reso “accessibile” la luce:  non quella “che Egli inabita” ma la radiazione che costituisce la luce in senso fisico, visibile, disponendo che sia emanata a beneficio della terra e nostro da stelle come il sole.  E in senso etico-estetico, nello splendore dell’anima gradita a Dio, quando si riflette nello sguardo limpido, nel quale l’interiore pulchritudo  morale diventa bellezza esteriore.

e.  La bellezza come “integrità” e “perfezione”
Nella bellezza appaiono anche integrità e perfezione.  L’idea della perfezione, come intesa dall’Aquinate, confluisce spontaneamente in quella del bello.  Esistono due tipi di perfezione, strettamente connessi.
“La prima perfezione è appunto secondo il fatto che la cosa è perfetta nella sua sostanza.  Questa perfezione è appunto la forma del tutto, che deriva dall’integrità delle parti.  Invece la seconda perfezione è il fine.  Invece il fine o è l’operazione, come il fine del suonatore di cetra è suonare la cetra, o è qualcosa al quale si giunge per mezzo dell’operazione, come il fine del costruttore è la casa, che realizza costruendo.  Ma la prima perfezione è la causa della seconda perché la forma è il principio dell’operazione” (S. Th. I, q. 73, a. 1, co.)”[40].
La prima, sottolinea Savarese, “è perfezione sostanziale e consiste (necessariamente) nella forma della cosa, che viene spiegata in riferimento all’integrità delle parti”.  Che vuol dire, qui, integrità delle parti?  Vuol dire “che la forma consta di tutte le parti che la res deve avere per natura”.  Infatti la  forma  “non è mai mutilata”.  Essa rimane perfetta anche se la res è mutilata, a meno che la parte mancante non sia tale da determinare un cambiamento sostanziale”[41].
Dunque, rilevo, l’integrità riguarda la forma e la cosa che la realizza in atto; tuttavia l’eventuale mutilazione della cosa non ne comporta una della forma, a meno che non si produca un cambiamento “nella sostanza” della cosa stessa.  Così un uomo non perde la sua forma-uomo se per disgrazia perde un arto; se però perde la testa, la conserva la forma-uomo?  Un uomo senza una gamba è ancora un uomo, un uomo decapitato diventa invece un cadavere.  Dire che la cosa, ossia ogni ente, è perfetta nella sua sostanza, significa affermare che essa è compiuta secondo la forma nella quale esiste.  Nel caso dell’uomo, quello di esser stato creato per essere ciò che è, un uomo e non qualcos’altro, completo di tutte le parti che organicamente costituiscono il tutto (individualmente determinato) dell’esser-uomo in atto.
La perfezione seconda, invece, riguarda non l’essere dell’ente ma il suo agire, che è sempre un agire per un fine.  Perciò concerne “un’operazione o il risultato dell’operazione stessa”.  Qui il fine non è costituito dal venire in essere stesso dell’ente, come entità perfettamente compiuta (integra) nella forma che deve avere; è costituito dallo scopo cui mira l’azione concreta dell’ente o soggetto consapevolmente agente, nel caso dell’uomo.  “La perfectio secunda consiste sempre nell’operazione ma a seconda del tipo di operazione di cui si tratta essa sarà compiuta  in se stessa oppure produrrà (o tenderà a) qualcosa al di fuori di sé, che in tal caso ne costituirà il fine.  Si può anche dire che la perfectio secunda consiste sempre nel fine, che è a sua volta sempre il fine dell’operazione”[42].
La “seconda perfezione” è dunque strettamente connessa al fine dell’azione, “è però la prima perfectio che è causa della seconda, perché la forma è principio dell’operazione e, in quanto tale, è da essa che si “sprigiona” l’automovimento che porta ad es. un bambino a diventare un adulto”[43].   La “forma” principio dell’operazione è la forma sostanziale, che costituisce la sostanza della cosa e in definitiva il suo stesso essere.  Essa si realizza nel movimento della crescita che, nel caso di specie, fa sì che il bambino diventi alla fine adulto.   La perfezione secunda completa il perfezionamento di cui è capace l’ente “ed è al vertice di tutta la perfezione possibile”, che non può mai esser “piena” per nessun ente finito, onde l’integritas che caratterizza la perfezione, nel senso pieno del termine, la si può attribuire solo a Dio, che è lo Ens  Perfectissimum. La perfezione limitata della quale è capace ciascun ente, è quella comunque “a lui propria”[44].
Nel passaggio dalla prima alla seconda perfezione opera sempre la proportio o convenientia:  esso non avviene casualmente, è ovvio.  Nel compimento (consummatio) dell’ente quando si realizza la seconda perfezione, si attua anche il massimo della bellezza. Ciò si deduce dalle riflessioni di san Tommaso sul significato del settimo giorno nel processo della creazione.
“Il sesto giorno la creazione è compiuta.  Il settimo giorno Dio si riposa e ne fruisce:  questo fatto, se poi ci darà preziose indicazioni sul bello, già ora indica che la compiutezza della perfectio secunda non fa altro che esprimere appieno le potenzialità della prima e porta con sé il “riposo”:  essa è legata con la Pax in cui si manifesta la proportio del cosmo.  Tra perfectio prima  e secunda c’è convenienza, l’una corrisponde all’altra, l’una non è compiuta senza l’altra, l’altra la completa”[45].    
La perfezione finale dell’universo deve tuttavia esser intesa in chiave escatologica e sarà rappresentata dal realizzarsi della Visione Beatifica: 
“Invece l’ultima perfezione, che è il fine di tutto l’universo, è la perfetta beatitudine dei santi; questa ci sarà nel compimento ultimo dei tempi [quae erit in ultima consummatione saeculi].  La prima perfezione, d’altra parte, che consiste nell’integrità dell’universo, ci fu nella prima formazione delle cose.  E questa è assegnata al settimo giorno. (S. Th., I, q. 73, a. 1. Co)”[46].

La prima perfezione fu sanzionata da Dio creatore quando, riposandosi il settimo giorno, benedisse dal suo riposo ciò che aveva creato, poiché, alla fine del sesto giorno, lo aveva trovato molto buono:  “Viditque Deus cuncta quae fecerat, et erant valde bona” (Gn 1, 31).  E se erano “molto buone” le sue opere, osservo, non erano anche molto belle?  Non risplendevano della claritas che Dio stesso, creandole, si era degnato di partecipar loro?
La perfezione che si compie nel settimo giorno della creazione, che è la perfezione di una realtà finita, come lo è quella dell’uomo e del mondo creati, verrà superata da un’ultima perfectio, costituita dalla “beatitudine dei santi”, dalla Visione Beatifica offerta alle anime degli Eletti.  Quella sarà la suprema bellezza, suprema felicità, nel trionfo della luce, come l’ha poi cantata Dante, che alla morte dell’Angelico (AD 1274) aveva nove anni, negli ultimi suoi Canti del Paradiso.  E nel viso dei Beati, come in quello di Beatrice, penultima guida del Poeta nel suo viaggio, apparirà una bellezza che non si può descrivere  in termini umani e solo Dio, “suo Fattor”, può perfettamente comprendere: 

La bellezza ch’io vidi si trasmoda
non pur di là da noi, ma certo io credo
che solo il suo Fattor tutta la goda[47].

I vari gradi nei quali san Tommaso vede l’attuarsi della perfezione, culminanti nella perfezione “ultima”, alla fine dei tempi, permettono a Savarese di affermare, a pieno titolo, che “che la perfectio estetica ha anch’essa due “livelli” e che anche il pulchrum da un lato e in primis è legato all’ente in se stesso, ma dall’altro si compie solo in un secondo momento”.  C’è quindi uno sviluppo, che non ha a che vedere con la moderna idea di progresso, totalmente antropocentrica ed immanente all’ordine che l’uomo stesso vuol dare al mondo, ma piuttosto con il rapporto tra la potenza e l’atto, tra l’essere che si realizza come ente finito e l’essere (il medesimo) che si realizza in Dio come realtà infinita ed eterna, nella quale l’ordine creato da Dio come ordine della natura e del cosmo viene sostituito per sempre da un ordine del tutto sovrannaturale.  Perciò, “se per Tommaso il cosmo è già ora ordine, è già ora bello, tuttavia questa bellezza non è ancora compiuta e lo sarà, escatologicamente, solo alla fine dei tempi:  la cosiddetta pancalía  medievale, che non si può certo sostenere Tommaso abbandoni, non va vista come un ottimismo cieco nei confronti dello stato di fatto delle cose […] ma piuttosto come un già e non ancora che aspetta, intrinsecamente, il suo completamento.  ‘Ne deriva che, dal punto di vista metafisico, il bello supremo presuppone che l’essere abbia raggiunto il suo pieno sboccio’”[48]
Ciò che crea alla fine l’unità di tutti questi “elementi costitutivi” del bello in san Tommaso, è il concetto della   f o r m a, elemento portante della sua metafisica, prevalentemente nel senso della entelécheia aristotelica, cioè quale “principio strutturante la res”, che ne realizza “l’attualità” e la “perfeziona”.   Al concetto della forma nell’Angelico, Savarese dedica alcune finissime pagine in chiusura di questo capitolo[49].

f. Il bello come “delectatio” individuale del bello in sé
Il piacere puramente estetico, quando troviamo diletto in determinate realtà del mondo a noi esteriore, provocandoci per l’appunto la sensazione del godimento estetico, che rilievo ha nella concezione tomistica del Bello?  Il realismo di san Tommaso sembra concederle il giusto spazio, pur senza cancellarne il nesso con gli “elementi costitutivi”della bellezza in quanto tale. 
“Perché si ha bellezza, solo perché l’uomo ne gode o viceversa, l’uomo gode perché si dà bellezza?”[50].
Questa l’antica domanda.  Nella visione del mondo del Medio Evo anche il bene era considerato “bello”.  Si manteneva sempre uno stretto rapporto fra il bonum e il pulchrum.  Al fine di enucleare il concetto del Bello relativamente al soggetto percipiente – il Bello in senso soggettivo – l’Aquinate deve mettere inizialmente in rilievo la loro distinzione.
Il bene riguarda l’appetito poiché “l’appetito è in un certo qual modo un moto verso la cosa”, essendo la cosa (il bene) “ciò che tutti desiderano”.  La nozione del bene è da vedersi soprattutto in relazione al fine per il quale il soggetto agisce, quello appunto di conseguire il bene, nelle varie gradazioni:  da un bene particolare, al bene terreno, al bene comune, al bene sommo, l’unico che conti veramente, costituito dalla vita eterna nella Visione Beatifica. 
Il bello, al contrario, non concerne l’appetito o desiderio (dato che qui ci piace qualcosa unicamente per il fatto in sé di esser bella) ma la facoltà conoscitiva:  “Il bello concerne invece la facoltà conoscitiva, infatti si dicono belle le cose che viste piacciono.  Perciò il bello consiste in una debita proporzione, poiché il senso si diletta delle cose debitamente proporzionate, come delle cose simili a sé; infatti anche il senso e ogni facoltà conoscitiva sono strutture razionali”(S. Th., I, q. 5, a. 4, ad 1)”[51].
La vista fa parte della “facoltà conoscitiva”, come gli altri sensi. Essa ci permette di cogliere la “debita proporzione” (vedi supra) e le “similitudini” di una cosa che a noi, proprio per questo, par bella. “Donde concernono il bello principalmente quei sensi che sono conoscitivi al massimo grado, cioè la vista e l’udito che servono con premura la ragione, infatti diciamo belle le cose visibili e belli i suoni.  Invece non usiamo il nome di bellezza per i sensibili degli altri sensi, infatti non diciamo belli i sapori o gli odori.  E così è chiaro ciò che il bello aggiunge sopra il bene, cioè un certo ordine alla facoltà conoscitiva; così che si dice bene ciò che semplicemente compiace l’appetito; invece si dice bello ciò la cui apprensione stessa piace (S. Th., I-II, q. 27, a.1, ad 3)”[52].  
Il bene cui aspiriamo è l’oggetto del nostro desiderio; il bello risulta invece dal semplice piacere che ci procura la sua percezione o “apprensione” (apprehensio) sensibile:  un magnifico paesaggio ci piace per il solo fatto di vederlo non perché costituisca l’oggetto di un nostro precedente desiderio, come nel caso di un bene cui aspiriamo.  È pertanto giusto dire che il nostro sentimento del bello è costituito dalla semplice “apprensione” sensoriale della cosa bella, essendo esso il piacere datoci da questa stessa “apprensione”, da questa particolare conoscenza.   Nello stesso tempo possiamo dire, aggiungo, che il bel paesaggio naturale è di per sé un bene, da mantenere e conservare proprio come si mantiene una cosa utile e benefica.  Nella bellezza della natura si riflette quella del divino Artefice che l’ha creata e noi la conserviamo come un bene, anche riproducendola nell’opera d’arte.  E difatti non ricomprendiamo oggi opere d’arte e bellezze naturali all’interno dell’ampio concetto di beni culturali?  Ciò dimostra che c’è anche per noi oggi un nesso fra l’idea del bello e quella del bene, nesso sul quale ha giustamente insistito in modo approfondito la speculazione medievale.
Che il piacere (delectatio) provato dal soggetto di fronte alla cosa bella sia per l’Aquinate da intendersi in senso del tutto soggettivo (e quindi sostanzialmente edonistico), ciò è comunque da escludersi, sottolinea l’Autrice: per san Tommaso,  “il bello non si identifica tout court con il piacere, tantomeno con quello dei singoli soggetti”. E difatti, “il piacere sopravviene solo dopo la conoscenza e nasce da quest’ultima:  non per niente, quel che differenzia il pulchrum dal bonum è essenzialmente l’attività conoscitiva, come risulta dal fatto che la proportio, elemento costitutivo del bello, comprende in sé anche la proportio gnoseologica, sia sensibile che intellettuale, dell’oggetto al soggetto e viceversa (per usare una terminologia moderna)”[53].  Ciò dimostra come, per san Tommaso, la dimensione soggettiva della fruizione estetica sia sempre strettamente collegata a quella oggettiva.
Il termine “apprensione” (apprehensio) usato dall’Aquinate ha offerto lo spunto ad un’interpretazione (sostenuta anche da Maritain e che Savarese respinge in toto, con argomenti a mio avviso validissimi), secondo la quale san Tommaso professerebbe in realtà una concezione intuitiva (“intuizione intellettuale”) del bello, del bello come concretamente percepito dal soggeto, del bello appunto in senso soggettivo, per esprimersi alla maniera dei moderni.  Devo limitarmi qui alla conclusione cui giungono le sottili analisi di Savarese e cioè che la tesi è insostenibile: nel Nostro non si riscontra alcuna forma intuitiva del conoscere.  Anche la conoscenza estetica viene da lui concepita attraverso la mediazione degli “universali” ossia del concetto, che si forma mediante un giudizio sulla cosa conosciuta:  anche la “conoscenza estetica” è sempre concepita come “unione di senso ed intelletto”, allo stesso modo della “conoscenza in generale”[54].
Il piacere estetico è di tipo particolare ma non è comunque meramente sensibile, è anche intellettuale.  In esso opera sempre la volontà del soggetto di raggiungere la propria “perfezione naturale”, ragion per cui c’è un nesso tra il piacere e la ricerca della felicità, da intendersi però non nel senso della semplice felicità materiale bensì in quello più elevato di una beatitudo che si realizzerà in forma perfetta unicamente nella vita eterna degli Eletti.  Una delle caratteristiche dell’essere umano, preclusa all’animale, è proprio quella di poter apprezzare la bellezza delle cose sensibili in sé e per sé , quale valore a loro intrinseco:  il bello in sé, che ci piace perché è bello. “I sensi sono stati dati all’uomo – scrive l’Angelico – non solo per procurarsi le cose necessarie alla vita, come agli altri animali:  ma anche per conoscere.  Perciò, mentre gli altri animali non provano piacere delle cose sensibili se non in ordine ai cibi e al sesso, solo l’uomo gode nella bellezza delle cose sensibili per se stessa (S.Th., I, q. 91, a. 3, ad 3)”[55].
Come si vede, san Tommaso coglie nitidamente il carattere del tutto disinteressato, libero da ogni altro fine si vorrebbe dire, che è proprio del vero godimento estetico, sciolto come tale da ogni ricerca del piacere, dell’utile o del bene.  In questo compiacersi della cosa in sé, per la sua intrinseca bellezza, còlta nella sua immediatezza, si registra una delle differenze fondamentali ed incolmabili tra l’uomo e l’animale.
È quindi possibile concepire un “piacere estetico puro” ovvero disinteressato, privo di legame “con i bisogni vitali” del soggetto, piacere nei confronti del quale non occorre esercitare la virtù della temperanza, necessaria invece per i piaceri della carne, a cominciare da quello sessuale[56].  Tuttavia il piacere estetico, per quanto puro, non è secondo san Tommaso distaccato dalla vita concreta, come sembrano ritenere alcuni suoi interpreti.  Anche il piacere estetico, che coglie la bellezza sensibile nella vita, viene inserito nella gerarchia o scala di valori che l’intelletto deve riconoscere nella realtà; scala di valori concepita finalisticamente, ovvero in funzione del fine ultimo della nostra vita, stabilito da Dio. 
“San Tommaso non avrebbe mai accettato la riduzione della vita al biologico – come invece si tende a fare nel pensiero moderno – ma piuttosto vede la vita dell’uomo in tutta la pienezza di tutte le sue dimensioni.  Ciò si riflette nel fatto che anche il piacere estetico è inserito nel più generale fine ultimo della vita umana, la beatitudo cioè la felicità, che è questione assai più intellettuale e spirituale che corporale”[57]. In effetti, mi chiedo, in cosa può consistere la vera e ultima felicità per un cristiano e filosofo, se non nel conseguimento del Sommo Bene, che è Dio?  La nostra vera patria è il Cielo, qui siamo solo di passaggio, sottoposti ad un periodo di dure prove da superare (con l’aiuto imprescindibile della Grazia) per esser considerati degni di entrare alla fine dei tempi nel Regno di Dio, che dura in eterno.  Anche il godimento estetico non può sfuggire a questa prospettiva sovrannaturale, che si integra alla prospettiva teoretica intrinseca ad ogni vera speculazione:  dopo averlo definito nel suo concetto, inquadrare il particolare (qui la percezione e il giudizio estetici) nell’universale, rappresentato dal concetto di una gerarchia di valori retti dall’idea del fine, ricomprendente cielo e terra.  Anche il piacere estetico appare pertanto ordinato, ordinato al fine proprio dell’uomo, altrimenti si potrebbe cadere nell’estetismo: dal culto del bello che riflette il divino nella natura e nell’uomo, al culto del bello per il bello, facendone erroneamente lo scopo della propria vita, cosa che comporta la caduta dell’individuo nel narcisismo e non raramente nei peggiori vizi. 
“Il piacere estetico, dunque, deve essere anch’esso ordinato.  Questo significa che per Tommaso anche il bello è finalizzato all’uomo e non a sé stesso:  il bello per l’uomo e non il bello per il bello.  L’arte per l’uomo e non l’arte per l’arte […]  Però, sebbene il piacere non costituisca il fine ultimo della vita umana, esso si accompagna comunque alla felicità, la beatitudo, che nel pensiero tommasiano è il fine ultimo […] Infatti, per l’Angelico ‘il piacere [delectatio] che segue operazioni buone e da desiderare, è buono e va desiderato; invece quello che segue le cattive, è cattivo e va fuggito.  Dunque ha il fatto di essere buono e da desiderarsi da un’altra cosa. Dunque non è esso stesso l’ultimo fine, che è la felicità” (C. G., III, c. 26, n. 13)’”[58].  Ciò significa, continua Savarese, che “nessuna delectatio, nemmeno quella estetica, può esser completamente lasciata a se stessa; o, meglio, che per Tommaso essa non esaurisce la totalità del vivere dell’uomo e deve quindi essere inserita all’interno dell’ordine dei fini”[59]
Non desideriamo il piacere per se stesso ma per conseguire un determinato oggetto del nostro desiderio, cosa che, a seconda della qualità dell’oggetto, provoca piaceri buoni e piaceri cattivi, che vanno evitati.  Il piacere estetico è senz’altro buono poiché il suo oggetto è il bello, còlto nei suoi elementi costitutivi indipendentemente da ogni altra determinazione o fine. L’oggetto del desiderio, il bene, è qui il bello stesso, che non è tuttavia il bene più alto cui possa aspirare l’uomo.
“Infatti, il piacere è causato dal fatto che il desiderio riposa nel bene raggiunto.  Perciò, poiché la beatitudine non è altro che il raggiungimento del sommo bene, non può esserci beatitudine senza piacere concomitante (S. Th., I-II, q. 4, a. 1, co)”[60].
In conclusione, “la visione e il piacere del pulchrum si trovano sia a livello sensibile che a livello intelligibile; piacere e visione sono del soggetto ma sono strettamente dipendenti dagli elementi costitutivi del bello, dalla struttura stessa della realtà.  Non è quindi che il ruolo del soggetto sia assente:  tale ruolo è strutturale – il pulchrum non è pensabile senza di esso – ma esso non è soggettivo, è il soggetto che è determinato dalla sua struttura e dalla struttura del reale. Data l’importanza di integritas, proportio e claritas, bisogna dire che il “consenso”, il piacere personale, fa sì parte della ratio pulchri, ma solo in quanto è la cosa, in quanto bella, a dover piacere.  Non bisogna separare soggettivo e oggettivo:  essi sono, anzi, strettamente intrecciati, inseparabili l’uno dall’altro”[61]

g. Il bello in senso trascendentale
Il discorso sul bello in san Tommaso non è ancora finito.  Bisogna vedere se egli l’abbia “sufficientemente distinto da bonum e verum” sì da conferirigli una sua ragion d’essere, una ratio propria.  Il che significa, nella metafisica tomistica, avere una natura trascendentale, come l’hanno appunto i concetti del bene e del vero, ai quali va aggiunto quello dell’uno.  La questione è tuttora aperta e su di essa Savarese (vedi supra) prende posizione in senso affermativo, anche se con cautela, trattandosi di una verità ricostruita  su testi che mostrano, almeno in apparenza, oscillazioni in opposte direzioni[62]
Il cap. IV esamina brevemente la dottrina dei trascendentali, il V e ultimo il bello “in senso trascendentale” in san Tommaso.  Preliminarmente, l’Autrice sgombra il campo da possibili equivoci per i non specialisti, ricordando che la concezione scolastica dei trascendentali non ha nulla a che vedere con il concetto di conoscenza trascendentale elaborato da Kant.  Molto opportunamente, essa ne riporta un famoso passaggio in proposito, tratto dalla Critica della ragion pura:  “Chiamo trascendentale ogni conoscenza che si occupa non di oggetti ma del nostro modo di conoscenza degli oggetti, in quanto questa deve esser possibile a priori”[63].  Per Kant, il Trascendentale non è una proprietà delle cose fuori di noi ma un modo di essere della nostra mente, se così posso dire:  una categoria a priori del nostro intelletto, che ci permette di conoscere la realtà esterna, a cominciare dallo spazio e dal tempo.  Kant non può negare l’esistenza dello spazio (si difese esplicitamente da quest’accusa, nei Prolegomena ad ogni futura metafisica, 1783) ma afferma che ne abbiamo conoscenza solo grazie alla “forma” trascendentale, ossia anteriore ad ogni esperienza, che ne possediamo in interiore homine.  In quest’ottica, “lo spazio e il tempo altro non sono che forme dell’intuizione sensibile, e quindi semplicemente condizioni dell’esistenza delle cose in quanto fenomeni”[64]Condizioni, si intende, per noi, in quanto soggetti conoscenti:  “Il termine trascendentale non significa mai per me un rapporto della nostra conoscenza con le cose [Dinge] ma solamente con la nostra capacità di conoscere [Erkenntnisvermögen]”[65].
Savarese riporta in nota un altro passo della Critica nel quale Kant attacca esplicitamente il concetto scolastico del Trascendentale come “predicato” che stabilisce “proprietà delle cose in se stesse”; il che per Kant è un grave errore, restando a suo dire la cosa-in-sé a noi del tutto sconosciuta;  non conosciuta ma conoscibile, invece, solo in quanto fenomeno percepito e organizzato da noi secondo le nostre categorie a priori[66].
Ciò premesso, vediamo il concetto di Trascendentale degli autori medievali.  Con esso “si intendono le determinazioni che sono proprie di ogni ente in quanto ente e che, in quanto tali, oltrepassano, trascendono appunto, le determinazioni categoriali (che sono invece modi parziali dell’essere); per quanto non necessariamente legati a Dio nel loro sviluppo filosofico, essi sono attribuibili anche a Lui (con tutte le precauzioni del caso), tanto da costituire dei nomi divini non metaforici [degli effettivi attributi divini-NdR].  I trascendentali sono dunque proprietà coestensive all’essere (che cioè con esso coincidono), ma dall’essere si distinguono concettualmente, ratione, per usare il linguaggio medievale”[67].
I “trascendentali” sono dunque “proprietà dell’essere” (“predicati” o “modi di essere”) che non si identificano all’essere e nemmeno alle categorie, che essi appunto trascendono. Il concetto non va confuso con quello di trascendente, cosa che nel parlar comune può accadere.  La concezione medievale, precisa Savarese, “ingloba, almeno in parte, il significato di trascendente”, termine con il quale si indica in genere “ciò che è al di là, usato per indicare Dio, la vita ultraterrena etc.”; in sostanza, una realtà del tutto spirituale, anche ultraterrena[68].
 I trascendentali integrano le categorie.  Ma cosa sono le categorie?  In senso metafisico, si intende, trattandosi di nozione usata nel parlar comune per indicare un complesso ordinato di individui o di cose o come sinonimo del vocabolo qualità (il salto alla Seria A come passaggio alla categoria superiore; impiegati di prima, seconda categoria; merci di prima categoria; uno scrittore di ben altra categoria, etc.).  La domanda è legittima anche in relazione al fatto che il pensiero filosofico sembra aver oggi rinunciato al concetto stesso di categoria, sostituito (più o meno) da quello abbastanza oscuro di esistenziale, proposto da Heidegger nel § 9 di Sein und Zeit (1927).
Le categorie furono, come si sa, enucleate da Aristotele in numero di dieci.  Nonostante le critiche e i rifacimenti cui sono state sottoposte (Kant le rielaborò secondo la sua prospettiva trascendentale), le dieci categorie aristoteliche rappresentano ancora il fondamento di ogni discorso sulle categorie mediante le quali inquadriamo l’essere, il pensare, l’agire dell’uomo.  L’esposizione più chiara e completa Aristotele la fa nel breve scritto intitolato appunto Categorie
“I termini che si dicono senza alcuna connessione esprimono, caso per caso, o una sostanza, o una quantità, o una qualità, o una relazione, o un luogo, o un tempo, o l’essere in una situazione, o un avere, o un agire, o un patire.  Orbene, per esprimerci concretamente, sostanza è, ad esempio, uomo, cavallo; quantità è lunghezza di due cubiti, lunghezza di tre cubiti; qualità è bianco, grammatico; relazione è doppio, maggiore; luogo è nel Liceo, in piazza; tempo è ieri, l’anno scorso; essere in una situazione è si trova disteso, sta seduto; avere è porta le scarpe, si è armato; agire è tagliare, bruciare; patire è venir tagliato, venir bruciato”[69].
Le dieci categorie sono dunque: la sostanza, il quanto, il quale, la relazione, lo spazio, il tempo, lo stare, l’avere, l’agire, il patire.  Quest’ultimo termine va inteso nel senso dell’esser oggetto passivo di un’azione, di doverla subire; è il contrario dell’agire che noi facciamo verso gli altri o l’esterno in generale. Quasi a a commento del suo elenco, Aristotele aggiunge subito dopo:
“Ciascuno dei suddetti termini, in sé e per sé, non rientra in alcuna affermazione; un’affermazione si presenta invece, quando tali termini si connettono tra di loro. Pare, infatti, che ogni affermazione debba essere vera o falsa; per altro, nessuno dei termini, che si dicono senza alcuna connessione, ad esempio uomo, bianco, corre, vince, è vero oppure falso”[70].  Cosa vuol dire qui Aristotele? Che i termini indicanti le categorie esprimono il loro significato indipendentemente dall’esser impiegati in una “connessione” (symploké) cioè in una proposizione, un discorso articolato.  Le categorie non risultano dalla logica interna di un discorso, esse ne sono invece il presupposto.  Una “affermazione” (katáphasis) è in genere costituita da una frase, da una proposizione dotata di senso. Essa risulterà dalla connessione dei termini indicanti le categorie:  se si preferisce, dai concetti fondamentali che chiamiamo categorie, logicamente preliminari ad ogni discorso razionale.  Concetti fondamentali che indicano un “modo di essere” (modus essendi) della realtà, (per usare la terminologia dell’Angelico, richiamata da Savarese), cui non si possono applicare le qualificazioni del vero e del falso, del giusto e dell’ingiusto[71].  
Hegel disse che il logos, cioè il pensiero come intelletto che ragiona sulle cose, è il medesimo in tutti, nella testa del filosofo come nella mente della madre di famiglia che fa il calcolo della spesa.  Ciò significa che le categorie sono le stesse per tutti, ossia che tutti le usiamo nel nostro ragionar quotidiano, anche senza averne contezza.
“Oggi sono andata a fare la spesa al mercato coperto, qua vicino, un posto umido e freddo però vi si trova roba fresca e di buona qualità. Mi sono messa il cappotto pesante. Per quello che spendi e che compri, ti potrebbero dare piu’ roba, comunque. Domani, ci ritorno, anche se alcuni dei venditori sono un po’ bruschi. Di fronte a modi bruschi ti senti come indifesa.  Magari cerchero’ di spendere un po’ meno, devo stare attenta ai conti…”.  Se analizziamo una periodo come questo, quale tipo di una riflessione o di un dialogo del tutto comuni, riscontriamo la presenza delle seguenti categorie, indispensabili al venir in essere stesso del discorso, in quanto discorso fornito di senso: tempo (oggi e domani), spazio (il luogo costituito dal mercato coperto), la qualità delle merci di contro alla quantità, la relazione (spender meno o di più, andar al mercato di meno o di più), lo stare nel senso di esser in quella determinata situazione (di acquirente, di donna di casa che fa la spesa), l’avere (il vestito pesante, il denaro), il fare (il camminare, l’acquistare), il patire (il subire le brusche maniere di certi negozianti o i loro prezzi).   La sostanza è costituita dal soggetto stesso che pensa, con la sua humanitas che lo fa essere quello che è e non altro (principio d’identità), espressa nei pensieri della madre di famiglia e non di altri, di quella irripetibile individualità che è la sua. E dalla sostanza costituita dagli altri enti contenuti nel ragionamento, con i quali il soggetto si è messo in rapporto.  Ma nel parlar comune, le categorie vengono usate anche come concetti generali, il cui significato è perfettamente noto, anche solo intuitivamente.  Ad esempio, il gioco di identità e differenza nel rapporto tra sostanza e apparenza (contenuto e forma), tra quantità e qualità, tra spazio come luogo e tempo, tra il più e il meno, tra l’essere come essere in una determinata condizione e l’avere o non avere, tra l’agire e all’opposto il subire l’azione degli altri.
Ci si è sempre chiesti se le categorie aristoteliche costituiscano un tutto perfettamente omogeneo. Limitiamoci a constatare che noi pensiamo effettivamente servendoci delle categorie.  Per san Tommaso, le categorie, come si è visto, esprimono un “modo di essere”, senza per questo esaurire tutti i predicati dell’essere (dell’ente).  A proposito della sostanza, egli afferma:  “la sostanza non aggiunge all’ente alcuna differenza, che designi una qualche natura aggiunta all’ente, ma col nome “sostanza” si esprime un qualche speciale modo di essere, cioè ciò che è “per sé”, e così anche per gli altri generi”, che vengono ricompresi nelle categorie[72]. Con l’espressione specialis modus essendi, l’Aquinate non indica qui qualcosa di eccezionale ma semplicemente quel modo di essere che individua l’ens per se, ovvero l’essere in quanto determinato nell’ente specifico, che è ciò che è e non può esser simultaneamente altro.  Indica, pertanto, l’ente nella sua intrinseca natura, non una qualche “natura aggiunta” (naturam superadditam).  Tale modus essendi non potrà quindi attribuirsi ad ogni ente ma solo a quel determinato ente particolare:  se la sostanza è l’uomo (humanitas) non potrà essere il cavallo (cavallinitas), e così via.
Ma vi sono anche “modi di essere” di carattere generale, esprimenti “un modo generale che consegue a ogni ente [modus generalis consequens omne ens]”.  E questi altri “modi di essere” sarebbero i trascendentali, modi di essere per l’appunto generali, “che cioè si accompagnano ad ogni ente (è proprio qui che passa la differenza con le categorie)”[73].
 Le categorie non esauriscono tutti i predicati dell’essere, come era chiaro allo stesso Aristotele.  Non per nulla, nell’accennare all’evoluzione storico-filosofica del concetto di trascendentale, Savarese inizia con Aristotele, nel quale il concetto sarebbe già adombrato nonostante manchi un termine equivalente; assente, del resto, anche nell’Angelico e frutto – il termine – di elaborazioni della tarda Scolastica[74].
Le “proprietà trascendentali” sono tradizionalmente: ens, unum, verum, bonum.  L’uno, come realtà transcategoriale in stretto rapporto con l’ente, si ritrova già in Aristotele.  Successivamente furono aggiunti:  res, aliquid.  Non però il bello.  I trascendentali o comunissima canonici, pertinenti a tutti gli enti, rimarranno, sino al XIII secolo, i quattro seguenti:  “ente, uno, vero, buono”[75]
I trascendentali sembrano riposare sul concetto dell’ente.
“L’ente, invece, è ciò che per prima cosa l’intelletto concepisce come il più noto, e nel quale risolve tutti i concetti, come dice Avicenna all’inizio della sua Metafisica.  Perciò è necessario che tutti gli altri concetti dell’intelletto siano appresi per aggiunta all’ente (De Ver., q. 1, a. 1, co.)”[76].
Spiega Savarese:  oltre ai “primi principi del ragionamento che non richiedono dimostrazioni in quanto noti all’intelletto di per sé”, occorrono anche “delle prime nozioni che riguardano la conoscenza delle cose”[77].  Ora, quali potranno essere queste “prime nozioni”?  La prima in assoluto riguarda l’ente ossia l’essere.  Il “primum cognitum”, in un certo senso addirittura notissimo, è l’essere in quanto essere, la cui esistenza non abbisogna di dimostrazione.  (Al contrario, il pensiero moderno, annoto, con il dubbio metodico cartesiano ha  preteso una dimostrazione anche di questa esistenza, facendo così erroneamente dipendere l’essere dal pensiero, spingendosi ben al di là dell’identità parmenidea di essere e pensare).
Tornando a San Tommaso.  Egli rinvia esplicitamente ad Avicenna.  La citazione non è letterale. Credo che il passo cui si riferisce sia il seguente:  “Perciò, il soggetto primo di questa scienza [la filosofia] è l’essere in quanto essere [ens inquantum est ens] mentre le cose che in essa vanno ricercate sono quelle che lo accompagnano in quanto è essere, senza condizione”[78].  Il termine ens, ente, come sappiamo traduce letteralmente il greco on , lett.: essente, participio presente del verbo einai (essere).  Con esso si indica l’essere, l’essere in quanto tale.  Nell’uso, anche da parte dell’Aquinate, il termine ente sembra indicare sia l’essere in generale che il singolo ente, costituente una parte dell’essere; riferirsi quindi sia al tutto che alla parte.   
L’ente è dunque il primo oggetto di conoscenza, l’ente in atto, evidentemente, non quello in potenza; l’ente che si configura come atto di essere (actus essendi) e non semplicemente come stato[79].  Però la conoscenza di questo primum non è di per sé sufficiente.  Continua Savarese:
“Ora, il primum cognitum è l’ente, ma la sua nozione non include certo in sé tutte le altre nature; è necessario quindi che qualcosa venga aggiunto all’ente, ma […] all’ente non può essere aggiunto nulla di reale:  si tratta quindi di aggiunte di ragione, che esprimono dei modi dell’ente che non sono inclusi nella sua nozione.   Ecco quindi le categorie da un lato e i trascendentali dall’altro”[80].  Questi ultimi riguardano sia “l’ente in se stesso” che “la relazione di un ente con un altro”.  Ai trascendentali tradizionali, l’Angelico aggiunge la nozione di res, che riguarda l’ente in se stesso, in quanto “abbia un’essenza” (mentre l’unum concerne la sua unità di ente indiviso) e quella di aliquid (o moltitudo, pluralità), che “aggiunge all’ente la nozione della relazione ad un altro ente, in quanto sono divisi”[81].
Non dobbiamo addentrarci nelle “varie tipologie di additio” accennate nel testo.  Basti rilevare che in esse non compare il pulchrum.  Per esso, dunque, “non vi sarebbe spazio alcuno”[82].  Il problema è affrontato con mano maestra nell’ultimo capitolo dell’opera, il più difficile, dovendo esso, come ormai sappiamo, ricostruire un concetto che si presenta in modo elusivo. 
 Dopo aver brevemente ricordato le posizioni pro o contro degli studiosi recenti più importanti sul tema, Savarese sviluppa il “confronto con il bonum”, vale a dire il raffronto tra il bene inteso come effettivo trascendentale e il pulchrum  quale possibile trascendentale[83]. Il criterio del raffronto, che ad un certo momento si occupa anche del rapporto tra il pulchrum e il verum, e che riassumo in alcuni suoi tratti essenziali, è il seguente:  “come emergerà dall’analisi dei testi, la trascendentalità del pulchrum acquista consistenza soprattutto se la sua ratio non è totalmente ricompresa nel bonum[84].  Se, in altre parole, quale predicato trascendentale dell’essere in atto, il pulchrum dimostra una ragion d’essere sua autonoma ed indipendente, anche se solo parzialmente autonoma, in quanto sempre connessa al bonum.
Nei testi si nota “la frequenza con cui, sulla scia della tradizione, pulchrum e bonum compaiono insieme”, fin dall’opera giovanile di Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo:  “Così, secondo Dionigi, bello e bene conseguono l’uno all’altro [se consequuntur].  Perciò sembra che tutte le cose desiderano il bello e il bene [omnia pulchrum et bonum appetunt]…(Super Sent., I, d. 31, q. 2, a. 1 arg. 4)”.   Per cui:  “la bellezza non ha natura di appetibile se non in quanto riveste natura di bene:  così, infatti, anche il vero è anche appetibile…(Super Sent., I, d. 31, q. 2, a. 1, ad 4)”[85].
Il bene e il bello “si conseguono”, dunque.  Essi sembrano implicarsi a vicenda, caratteristica dei trascendentali, i quali sono anche, per così dire, intercambiabili, sottolinea Savarese:  “dicendo che un ente è in realtà si sta già dicendo che è uno, vero, etc.”[86].  Del resto, chi tende al bene, tende anche ipso facto al bello e chi tende al bello, come può prescindere dal bene?  Nel De Veritate, l’Angelico insegna:  “per il fatto stesso che qualcosa tende al bene, tende insieme anche al bello e alla pace:  senza dubbio al bello, in quanto è modificato e specificato in se stesso, cosa che è inclusa nella nozione di bene; ma il bene aggiunge l’ordine di ciò che perfeziona verso le altre cose [sed bonum addit ordinem perfectivi ad alia].  Perciò, chiunque  tende al bene, tende per ciò stesso al bello (De Ver., q. 22, a. 1, ad 12)”[87].   Qui, osserva Savarese, “il bonum è logicamente più esteso del pulchrum”, il bene e iI bello hanno una ratio diversa, pur non essendo nello stesso tempo diversi:  ciò implica che la ratio del pulchrum “è inclusa in quella del bonum”.  Difatti, “è il bene che aggiunge al bello l’ordine (l’ordo:  il riferimento, l’esser finalizzato a) proprio di ciò che perfeziona (perfectivi) verso altre cose (alia):  il bene è infatti ciò che porta a perfezione, a compimento, ciò che si riferisce ad esso; non altrettanto si può dire del bello”[88].  
Il bene possiede dunque la capacità di “perfezionare” ciò cui si riferisce, portandolo a compimento in senso positivo, buono.  Questa capacità fa vedere l’esistenza di un ordine (umano-divino) e dell’esser ordinato a un fine, che non può esser quello meramente individuale (siamo, in quanto individui, anche inclini al male) ma deve esser quello stabilito da Dio creatore, le cui leggi reggono sia il mondo fisico che quello morale.
Nella fase iniziale della sua speculazione, l’Aquinate concepisce dunque il pulchrum  quale realtà (valore, diremmo noi) subordinata al bene:  esso è desiderato solo in quanto buono, cosa che vale anche per il vero.  La ratio  del bello appare pertanto inclusa in quella del bene.  In effetti, mi chiedo:  potrebbe la ratio del bello esser inclusa in quella del male?  Non potrebbe.  Ma non esiste, forse, la bellezza che seduce e rovina?  Esiste, bisogna però chiedersi che tipo di bello essa rappresenti, visto che opera soprattutto come fascino esteriore, il quale, depurato delle trasfigurazioni che lo ingentiliscono (“Deh, Vïoletta, che in ombra d’Amore/ ne gli occhi miei sí subito apparisti…), fa leva sul fòmite della concupiscenza o comunque sulle nostre passioni.  Il bello della bellezza cattiva è quello che trasluce in un gioco di essere e parere che affligge mortalmente l’anima di chi lo subisce, invano sperando che sia vera la promessa  di felicità, e quindi di bene, adombrata da quella bellezza.   La connessione ricercata sia dalla metafisica classica (Platone) che da quella cristiana tra il bello e il bene, può sembrarci oggi astratta e utopistica.  Tuttavia, non lo è affatto se solo riflettiamo a quanto sia decaduto il nostro gusto e il nostro costume, una volta separata l’idea del bello dall’idea del bene e da ogni trascendenza.  E in Italia ma anche in assoluto, la poesia non ha raggiunto uno dei livelli  più alti proprio con un poeta come Dante, che ha trasfuso in queste categorie dello spirito il soffio potente della sua arte, posseduto com’era da una visione trascendente, per non dire trascendentale, dei valori estetici?
Ma torniamo a san Tommaso.  Nel Commento ai Nomi Divini  e nella Summa, cioè nella fase più matura del suo pensiero, la sua prospettiva in parte muta. Ora è il bello che sembra aggiungere qualcosa al bene.  Il concetto del bello acquista una sua autonomia[89].       
Dall’analisi condotta sempre con assoluta padronanza dei difficili testi dell’Aquinate, che non posso seguire qui nei dettagli, risulta che, in relazione all’idea della perfezione, coinvolgente sia il bene che il bello, sembra che “quest’ultimo abbia un rapporto diretto con essa”, senza cioè aver bisogno della mediazione del bonum[90].  Infatti, spiega l’Angelico, “il bello e il buono sono certamente identici nel soggetto, poiché si fondano sulla stessa cosa, cioè sulla forma, e perciò il bene si loda come bello. Ma sono diversi quanto alla nozione [ratione]”.  E perché sono diversi?  Questo testo l’abbiamo già visto nell’analisi  del bello come delectatio individuale (vedi supra) ma ora ci interessa da un altro punto di vista.  Sono diversi perché “il bene riguarda propriamente l’appetito”, essendo costituito dall’oggetto del nostro desiderio.  Esso ha quindi “natura di fine”.  Invece il bello “riguarda la facoltà conoscitiva” dato che, come sappiamo, “si dicono belle le cose che viste piacciono”.  Perciò il bello consta di una “debita proporzione”, ossia delle “cose debitamente proporzionate come delle cose simili a sé”. E siccome: “la conoscenza avviene per assimilazione mentre la somiglianza riguarda la forma, il bello pertiene propriamente alla nozione di causa formale (S. Th., I, q. 5, a. 4, ad 1)[91].  
Dunque, è l’idea della forma che fa “coincidere” il bene e il bello nel medesimo soggetto.   Forma, in che senso?  Penso si debba intendere nel senso della sua “attualità”, dell’attuarsi dell’essere secondo la “perfezione della cosa” (entelécheia), giusta la “proporzione” intrinseca ad essa[92].  La “proportio” intrinseca al bello non si ritrova anche nel bene e nella verità?  Dove allora la differenza?  Nell’applicazione del principio di causalità.  Il bene, essendo oggetto dell’appetito, viene a costituire il fine delle nostre azioni, a disporsi quindi per noi come causa finale delle stesse (il fine cui aspiriamo – respice finem – provoca come suo effetto la nostra azione, volta a conseguirlo).  Invece al bello va applicata la nozione di causa formale.  “Inoltre, la causa formale, che è una causa intrinseca, a differenza della causa finale che è estrinseca [perché esterna al soggetto agente-NdR], indica non più la meta verso la quale tende l’agente (causa finale), ma la forma stessa che (nel caso degli enti sensibili) attualizza la materia e le dà il suo proprio grado di perfezione”.  Infatti, “L’appropriazione [dell’oggetto-NdR] che si ha nel bello è solo di carattere intellettuale”, come sappiamo, consistendo in un disinteressato godimento della sua intrinseca bellezza, armonia[93].  Non così quella che si ha nell’apprendere il bonum, tripartito dall’Aquinate nelle tre specie tradizionali dello honestum, utile, delectabile (S. Th., I, q. 5, a. 6), tutte modalità di ciò che da diversi punti di vista consideriamo un bene.  Esse implicano un’azione diretta per esser conseguite, non la semplice visio.
Anche il bello conferisce un ordine alla facoltà conoscitiva, che non è lo stesso attribuitole dal bene.  Nel passo di S. Th., I-II, q. 27, a. 1, ad 3 già visto, l’Angelico afferma che a sua volta il pulchrum “aggiunge sopra il bene, cioè è un certo ordine alla facoltà conoscitiva”, che è l’ordine della conoscenza delle cose sensibili, quali “le cose visibili” e “i suoni”.  Pertanto, mentre nel caso del bene diciamo “bene  ciò che semplicemente compiace l’appetito”, nel caso del bello, diciamo bello “ciò la cui apprensione stessa piace”.  Questa è per l’appunto l’aggiunta  alla nostra “facoltà conoscitiva”, provocata dalla percezione del pulchrum:  esso ci piace per il solo fatto di “apprenderlo” non perché sia per noi quel bene che il nostro desiderio stava cercando.  Si potrebbe dire, osservo, che l’aggiunta apportata al nostro modo di conoscere – messa ottimamente in rilievo da Savarese – consista proprio nel permetterci il godimento estetico nella sua purezza, fondando quindi il nostro giudizio estetico: esso riposa su di una diversa relazione con l’idea della causa, nel senso di esser improntato all’idea della causa formale.   
Pertanto, se la forma fa coincidere il bene e il bello, la causalità li separa, nel senso che viene a costituire una ratio o ragion d’essere diversa per entrambi.  Ciò tuttavia non altera la loro reciproca correlazione. In conclusione: pur nella loro ontologica complementarità, sono due diversi modi d’essere dell’essere, per l’appunto due diversi trascendentali.

Paolo   Pasqualucci





[1] Ricordo, tra gli altri: Hans Sedlmayr, La morte della luce. L’arte nell’epoca della secolarizzazione, tr. it. di Marola Guarducci, Introduzione di Quirino Principe, Rusconi, Milano, 1970.   Nell’Ottocento ad un certo punto la luce scomparve dal colore: “a cominciare dall’epoca di Cézanne, la luce viene inghiottita dal colore, al quale ora passano la dignità, la forza e la potenza della luce […]  Il colore diviene ora il surrogato della luce , anzi della luce interiore” (op. cit., pp. 26-27).  Si veda anche tutto il capitolo dedicato alla “secolarizzazione dell’Inferno” nelle arti figurative (ivi, pp. 33-58).  Sulla decadenza dei costumi dell’Occidente nell’ambito di un vero e proprio “tramonto dei valori tradizionali”, dovuto anche al diffondersi dell’irreligiosità di massa, resta esemplare l’analisi di Augusto Del Noce, in contrapposizione al filosofo Ugo Spirito: Tramonto o eclissi dei valori tradizionali? In:  Ugo Spirito-Augusto Del Noce, Tramonto o eclissi dei valori tradizionali?, Rusconi, Milano, 19725, pp. 61-313.  
[2] La terminologia è del critico francese Jean Clair, L’hiver de la culture, Flammarion, Skira 2011, che ho trovato citato sul Corriere della Sera di qualche anno fa.   L’autorevole trimestrale francese Catholica, a quanto ne so, è l’unico che si sia occupato in modo sistematico (con numerosi e puntuali articoli) della presente decadenza delle arti, dalla letteratura alle arti figurative alla musica, anche in relazione allo scadimento impressionante della Liturgia cattolica.
[3] Miriam Savarese, La nozione trascendentale di bello in Tommaso D’Aquino, con Presentazione di Alberto Strumia e Prefazione di Giovanni Ventimiglia, Studi e Strumenti SISRI, EDUSC, Roma, 2014, pp. 240.
[4] Miriam Savarese, op. cit., pp. 18-19.
[5] Op. cit., pp. 21-24.  Superiorità già teorizzata, ricordo, dal pensiero greco e in particolare da Platone, quando scriveva che Socrate, basso di statura e dall’espressione plebea, era reso comunque bello dalla sua bellezza interiore, dallo splendore della sua anima (sul punto: Max Pohlenz, L’uomo greco, 1947, 1974, tr. it. B. Proto, La Nuova Italia, rist. nella collana Il Pensiero occidentale di Bompiani, con un saggio introduttivo di G. Reale, bibliografia e indici di G. Girgenti, Milano, 2006/2014, pp. 500-502).    
[6] Op. cit., p. 26.
[7] Op. cit., pp. 27-28.
[8] Op. cit., pp. 42-57; p. 54.
[9] Op. cit., pp. 57-58. Corsivi di Savarese. L’Autrice riporta quasi sempre in nota il testo originale latino dei passi tomistici citati e tradotti.  “Nam ad pulchritudinem tria requiruntur.  Primo quidem, integritas sive perfectio, quae enim diminuta sunt, hoc ipso turpia sunt.  Et debita proportio sive consonantiaEt iterum claritas, unde quae habent colorem nitidum, pulchra esse dicuntur”.   
[10] Op. cit., p. 49.
[11] Endymion, in:  The Works of John Keats, with an Introduction and Bibliography, The Wordsworth Poetry Library, Ware, 1994, p. 57.  Keats, nato nel 1795, morì di tubercolosi a Roma, nel 1821, nella casa ora sede della Fondazione Keats-Shelley, a fianco della scalinata di Piazza di Spagna. Libera mia versione di questi intraducibili versi:  “Una cosa bella è gioia sempiterna/ Il suo incanto  s’accresce/ Giammai svanirà nel nulla….”.
[12] Sul tema vale sempre il classico lavoro di P. Cornelio Fabro, La nozione metafisica di Partecipazione, secondo San Tommaso d’Aquino, in:  ID., Opere Complete, 3, a cura di Christian Ferraro, EDIVI, Segni, 2005, specialmente la Parte Terza, pp. 261-324.
[13] Savarese, op. cit., p. 51, per tutte quest’ultime citazioni.
[14] Op. cit., p. 54.  
[15] Op. cit., p. 53.
[16] Op. cit., pp. 56-57.  Corsivi nel testo. I corsivi sono sempre del traduttore.
[17] Op. cit., p. 59.  Il passo della Summa è:  IIa-IIae, q. 145, a. 2, co.  Corsivi nel testo. Ho leggermente modificato la traduzione italiana in un punto.
[18] Op. cit., p. 63.  La citazione finale è da:  S. Th., I, q. 12, a. 1, ad 4.
[19] Op. cit., p. 64.
[20] Op. cit., ivi.
[21] Op. cit., ivi.
[22] Op. cit., ivi.
[23] Op. cit., p. 65.
[24] Op. cit., pp. 66-67.
[25] Op. cit., p. 67.
[26] Op. cit., pp. 68-69.
[27] Op. cit., p. 70.
[28] Op.cit., p. 81.
[29] Op. cit., p. 72.
[30] Op. cit., pp. 72-73.
[31] Op. cit., pp. 73-74.
[32] Il sole è un globo di materia fluida, molto calda, ionizzata e magnetizzata.  Si ritiene che sia composto di idrogeno (92%), elio (8%), elementi pesanti (0,1%). Vedi: Ester Antoniucci, Dentro il sole, il Mulino, Bologna, 2014, p. 16.
[33] Op. cit., p. 75.
[34] Op. cit., p. 76.
[35] Op. cit., p. 76 e 77-78.  Il passo della Summa è:  S. Th. I, q. 57, a. 4 ad 1.
[36] Op. cit., pp. 76-81.
[37] Mt 6, 22.  Traduz. it. in La Sacra Bibbia, a cura della CEI, Edizioni Paoline, 1963; e in:  La Sacra Bibbia, annotata da Giuseppe Ricciotti, Salani, Firenze, 1954.  Vulgata-Clementina, ediz. BAC, 1965:  “Lucerna corporis tui est oculus tuus.  Si oculus tuus fuerit simplex:  totum corpus tuum lucidum erit.  Si autem oculus tuus fuerit nequam:  totum corpus tuum tenebrosum erit.  Si ergo lumen, quod in te est, tenebrae sunt:  ipsae tenebrae quantae erunt?”.
[38] Savarese, op. cit., p. 81.
[39] 1 Tm 6, 15-16.  Vulgata-Clementina:  “Rex regum, et Dominus dominantium: qui solus habet immortalitatem et lucem inhabitat inaccessibilem:  quem nullus hominum vidit, sed nec videre potest”.  La luce al di là della quale o nella quale “inabita” Dio Altissimo, lo nasconde (Deus absconditus) al creato, ma non gli nasconde di certo il creato. L’inaccessibilità di Dio nella sua luce, viene resa poeticamente da Dante nel XXVIII canto del Paradiso, allorché rappresenta Dio da lontano circondato dai nove cori angelici:  “un punto vidi che raggiava lume/acuto sì, che ‘l viso ch’elli affoca/chiuder conviensi per lo forte lume” (vv. 16-18, La Divina Commedia, ediz. commentata da G. L. Passerini, Sansoni, 1922, rist. anast. Sansoni, Firenze, 1988).
[40] Savarese, op. cit., p. 84.  Corsivi nel testo.
[41] Op. cit., p. 85.
[42] Op. cit., ivi.
[43] Op. cit., p. 86.
[44] Op. cit., p. 87.
[45] Op. cit., p. 89.  Savarese cita S. Th. I, q. 73, a. 1, ad 2.
[46] Op.cit., ivi.
[47] Par., XXX, vv. 19-21.
[48] Savarese, op. cit., pp. 89-90.  La citazione nella citazione è di E. De Bruyne, eminente studioso novecentesco dell’estetica medievale, più volte richiamato da Savarese.  Pancalía:  la bellezza del tutto, nel senso che tutto ciò che Dio ha creato è bello.  
[49] Op. cit., pp. 93-99
[50] Op. cit., p. 102.
[51] Op. cit., pp. 102-103.  Corsivi nel testo.
[52] Op. cit., pp. 103-104.  Corsivi nel testo.
[53] Op. cit., p. 106.
[54] Op. cit., pp. 110-122.
[55] Op. cit., p. 140.  Corsivi nel testo.
[56] Op. cit., p. 141.
[57] Op. cit., p. 142.
[58] Op. cit., p. 144.
[59] Op. cit., ivi.
[60] Op. cit., pp. 144-145.
[61] Op. cit., p. 146.
[62] Op. cit., p. 149 ss.; p. 228.
[63] Op. cit., p. 150. È la traduzione di Gentile e Lombardo-Radice, sez. VII dell’Introduzione.  In nota  Savarese riporta anche l’ottima  spiegazione del triplice significato del termine data a suo tempo da Sofia Vanni Rovighi (op. cit., pp. 151-152).
[64] I. Kant, Critica della ragion pura, a cura di Pietro Chiodi, UTET, Torino, 1967, p. 50.  Si noti:  non dell’esistenza delle cose in sé ma “in quanto fenomeni”cioè come appaiono a noi che le inquadriamo nelle nostre categorie mentali.  Uno dei passi che sembrava negare la realtà dello spazio era il seguente: “lo spazio è semplicemente la forma dell’intuizione esterna, non quindi un oggetto reale, suscettibile di esser intuito esternamente; come non è un termine correlativo ai fenomeni, bensì la forma dei fenomeni stessi” (Kant, op. cit., p. 371).  Per una recente critica del concetto kantiano dello spazio e dell’impianto trascendentale della sua teoria della conoscenza, mi sia consentito rinviare a:  Paolo Pasqualucci, Metafisica del Soggetto II - “Il concetto dello spazio”, Giuffré, Milano, 2015, capp. 2-4, pp. 103-193.
[65] I. Kant, Prolegomena zu einer künftigen Metaphysik die als Wissenschaft wird auftreten können, hrsg. von K. Vorländer, 1905, rist. Meiner, Hamburg, 1970, p. 47.
[66] Savarese, op. cit., p. 150 nota n. 2, per la critica kantiana alla concezione della Scolastica.
[67] Op. cit., p. 151.
[68] Op. cit., ivi.  Anche qui, ci ricorda l’Autrice, Kant ha scavato il solco della sua concezione dualistica del conoscere e del vero, concependo il trascendente, e in sostanza Dio, in quanto realtà sottratta all’esperienza, in modo tale da non consentire alla ragione di poter dir nulla su di Lui (op. cit., ivi). Nel parlar corrente si usa l’espressione “difficoltà trascendentale” ossia del più alto grado e Franz Liszt compose i suoi famosi dodici Studi trascendentali o di esecuzione trascendentale, per indicare le difficoltà vertiginose che attendevano il pianista.
[69] Aristotele, Categorie, in ID., Organon, a cura di Giorgio Colli, Einaudi 1955, rist. Adelphi, Milano, 2001, pp. 5-53; p. 7.  Corsivi miei.  Per l’originale:  Aristotelis categoriae et liber de interpretatione, rec. L. Minio-Paluello, Oxford, 1949, rist. 1989, 1b, 4.
[70] Op. cit., ivi.
[71] Savarese, op. cit., p. 152, per il tomistico modus essendi.
[72] Op. cit., p. 152.  Il testo citato è:  De Ver., q. 1, a. 1, co.
[73] Op. cit., pp. 152-153.  Il testo dell’Angelico citato è sempre il medesimo.
[74] Op. cit., p. 154 e pp. 155-161.
[75] Op. cit., ppp. 160-161.
[76] Op. cit., p. 165.
[77] Op. cit., p. 166.
[78] Avicenna, Metafisica, con testo arabo e latino, a cura di Olga Lizzini e Pasquale Porro, Bompiani, Il pensiero occidentale, 2002, p. 37 (Trattato Primo, sezione seconda, [13]).
[79] Sul punto, e sul complesso concetto tomista dell’essere come essere in atto, atto di essere, sempre valido mi semba: Étienne Gilson, Le thomisme. Introduction à la philosophie de Saint Thomas d’Aquin, Paris, Vrin, 1944, pp. 50-52.
[80] Op. cit., p. 166.
[81] Op. cit., ivi.
[82] Op. cit., p. 167.
[83] Savarese, op. cit., rispettivamente pp. 177-184 e pp. 186-211.
[84] Op. cit., p. 186.
[85] Op. cit., pp. 186-187.
[86] Op. cit., p. 209.
[87] Op. cit., p. 188.
[88] Op. cit., pp. 188-189.

[89] Op. cit., p. 197.
[90] Op. cit., pp. 199-200.  Si cita S. Th., I, q. 5, a. 5, co.
[91] Op. cit., p. 203.
[92] Op. cit., pp. 93-97 sul concetto di forma in san Tommaso.
[93] Op. cit., p. 204.