lunedì 27 novembre 2017

IL SIGNORE DEGLI ANELLI (Recensione di Piero Nicola)

  Al maggior lavoro di Tolkien è stata conferita la patente di capolavoro ineguagliabile, edificante (anche a parere di molti tradizionalisti cristiani), per quanto alcuni critici l'abbiano giudicato negativamente sotto vari aspetti. Tre sono i suoi aspetti principali: riguardo al valore letterario, riguardo a quello morale e riguardo a quello religioso; benché gli ultimi due non possano andare disgiunti. Infatti, se il libro lede la Religione, sarà anche inficiata la sua etica.
  È fuor di dubbio che l'autore abbia rappresentato un mondo fantastico, epico e in certo qual modo mitologico, con un realismo morale che non ammette un alibi rispetto alla Verità intera, rispetto a Dio vero. Si ammette la favola e la leggenda, anche popolata di esseri inverosimili, ma il tutto deve rientrare nella Rivelazione. Il Male fa capo al demonio, il Bene fa capo all'Onnipotente. L'allegoria può proporre animali, fantasmi e personaggi mai esistiti e inesistenti, tuttavia con significati conformi al disegno della Creazione. Il bestiario cattolico in parte fu testimoniato come reale e miracoloso, oppure le sue rappresentazioni immaginarie vennero accolte essendo ortodosse.
  Purtroppo, sebbene Tolkien, figlio della Chiesa, abbia inteso rivendicare l'ortodossia dei suoi romanzi, escluse da essi il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, la Madonna e i Santi, a differenza di quanto fecero cristiani creatori di leggende (da non confondersi con le tradizioni). Non basta che egli abbia rispettato le virtù, bollato i vizi, distinto la giustizia dall'iniquità, esaltato la fedeltà e la generosità, proposto la nobile lotta dei buoni contro i malvagi. Per giunta, riguardo a certe razze che abitano la sua Terra di Mezzo - al di fuori degli Uomini e di Hobbit, Nani, Uomini-alberi, stregoni - gli Elfi sono puri affatto, mentre Orchetti e altri personaggi malefici (sebbene abbiano un carattere umano essendo considerati colpevoli) sono condannati alla cattiveria, non appaiono suscettibili di redenzione. E neppure troviamo il religioso paganesimo, assai ignaro di Dio. La superiore divinità è assente.
  La storia, situata in un mondo ancestrale e già decaduto in una Terza Età, si riassume con la missione condotta da un Hobbit, assistito da un mago, da alcuni compagni e da nobili signori, rivolta a salvare quella Terra da un regno maligno e mostruoso. Frodo, campione del minuto, modesto e gioviale popolo degli Hobbit, affiancato da un servo fedele, perviene a distruggere l'Anello del potere gettandolo nel cratere infuocato, posto nell'orribile paese delle tenebre governato dal Nemico. Il nesso tra la sconfitta di questi, tra la disfatta del suo mostruoso esercito e l'eliminazione del magico Anello rimane alquanto misterioso, come difetta anche la spiegazione di altri fenomeni e situazioni, nonostante il solido complesso del lungo racconto suddiviso in tre tomi. Pare che la forza ricevuta dall'Anello posseduto debba risolversi in un suo cattivo uso. E non si comprende perché la sua distruzione annienti il potente perverso che già non detiene lo strumento portentoso.
  Quanto al pregio letterario, l'opera si situa nel genere avventuroso destinato ai ragazzi e agli adulti che prediligono tale narrativa, farcita di immaginario. Mutatis mutandis, cioè sostituendo ai prodigi di razze e poteri extranaturali le invenzioni avveniristiche pseudoscientifiche, Tolkien può paragonarsi a un Giulio Verne. E la sua bravura di scrittore, i suoi pregi stilistici (non senza qualche flessione) non lo elevano certo al di sopra dei molti bravi artisti. Non bastano certi giochi di prestigio metaforici per eccellere ("il sole era tramontato, affondando dietro l'orlo del mondo"; "il cielo era ancora rosso, e una luce incandescente covava sotto le nubi galleggianti"; "gonfie praterie ondulate come un grande mare grigio"; "il fiume largo e stanco fra banchi sabbiosi ed alte terrazze erbose"; "il giorno invecchiato"). D'altra parte è innegabile l'eccesso dei dettagli ("faceva caldo rispetto alla stagione in cui erano"), la prolissità di parecchie descrizioni, il numero stragrande degli esseri straordinari dotati di eccezionali capacità, la superfluità delle vicende che li vedono protagonisti (p.e. circa gli Ent, esseri mezzo umani e mezzo alberi) e in generale la pletora di avvenimenti incalzanti e di sorprese, con episodi che sanno di riempitivo senza particolare significato (p.e. Sire Aragorn per abbreviare il cammino attraversa una regione detta Sentieri dei Morti, dove si verificano spaventose e di regola irresistibili apparizioni di spettri, in seguito arruolati nella guerra contro gli invasori). Se ciò lusinga l'interesse degli appassionati di imprevisti e di casi stupefacenti, contribuisce a togliere l'ampio respiro agli avvenimenti eroici e poetici. L'epopea delle gesta e delle grandi ambientazioni risulta diminuita. L'infinita varietà dei paesaggi incredibili e poco funzionali alla narrazione finisce per essere stucchevole. C'è pure qualche arrivano i nostri che scongiura una sconfitta irreparabile. La trama predispone la molteplicità delle avventure. Eventi contrari scompaginano presto la Compagnia dell'Anello; il viaggio dei suoi elementi si dirama e talvolta si ricongiunge.  
  Né mancano le incongruenze, benché quasi inevitabili in tanta finzione: due a cavallo, veloci come il vento, conversano quasi fossero in un salotto. Che Il Signore degli Anelli fosse sostanzialmente per ragazzi lo dice il fatto che di tanti soggetti perversi e posseduti da brame, non uno di loro manifesta voglie sessuali; inoltre mai di essi compaiono le famiglie. Mal si concilia poi il coraggio e la generosità degli Hobbit con le loro paure e terrori. La scena in cui il servo Sam sta accanto all'adorato padrone Frodo, creduto ucciso dal mostro, è assai debole: scarsa emotività di Sam, dolore poco e male rappresentato, prevalendo la preoccupazione per se stesso e per la missione da portare a termine (cfr. La Due Torri. pag. 377-378). Viceversa il personaggio di Gollum, che contiene in sé Sméagol, è geniale e inedito. Gollum, fisicamente sgraziato e unico esemplare di tal razza, infido e servile dovendo sottomettersi, si rivolge spesso apertamente alla sua seconda personalità, ragiona, discute con essa, e nella sua viltà riesce spassoso. Altrettanto originale e azzeccato troviamo Barbalbero, la sorta di albero semovente animato al pari di un mortale, bonario ma un rullo compressore quando si tratta di fare giustizia. Ma ripeto che la sovrabbondanza di soggetti e di situazioni, insieme agli innumerevoli prodigi e ai luoghi inattesi ad ogni piè sospinto, va a detrimento dell'essenziale, dell'armonia, del punto di vista distaccato necessario al pathos. La vicenda avventurosa e guerresca risente del truce, dell'oscuro, del truculento, del ripugnante, relativi ai luoghi spaventevoli e agli orridi avversari, restringendosi così lo spazio del meraviglioso. La parola tetro predomina e ricorre cento volte.
  Vi sono pure squarci di sereno, per lo più melanconici, come nel finale in cui Frodo si stacca da colui che è il caro amico prima d'essere il servitore, e lascia la patria Contea per imbarcarsi con lo stregone su un vascello. La partenza prefigura l'approdo a un lido alieno dalla Terra di Mezzo, adatto a chi ormai deve trascenderla. Infine la breve Appendice esula dal racconto per la gioventù, riepilogando la storia di Aragorn erede dell'antico Regno, del quale entrerà in possesso, e della sua amata Arwen, che per amore rinuncerà alla sua condizione privilegiata di elfica, accettando di divenire mortale sposando il Re.


Piero Nicola 

giovedì 23 novembre 2017

Ricordo di ETTORE COZZANI (di Piero Nicola)

  Chi ricorda questo scrittore potente, roccioso e umano, poeta nella sua prosa ricca e incisiva, in una narrativa che ci fa partecipi degli ambienti come delle vicende con efficacia immediata e sincera, compiendo affreschi di vita autentica? Chi rende omaggio ai contenuti ideali dei suoi romanzi, pregni di sapienza esistenziale e sociale? Chi apprezza ancora i loro protagonisti positivi, con i quali si risolve al meglio l'avventura terrena, attraverso il personale travaglio, con i quali si distruggono, sulla condizione umana, sia il pessimismo che l'illusione ottimista, la condanna alla miseria morale e la falsità?
  Ultimamente, nella sua terra d'origine, da lui amata e illustrata, qualcuno ha tentato un suo dissotterramento, una riabilitazione, a prezzo di qualche bugia; poiché egli non solo esaltò concezioni appartenenti al fascismo (mai abiurate), ma non negò ad esso il suo consenso. Il riconoscimento prestato al concittadino resta comunque tardo e parziale, disperso nella vasta dimenticanza, negato dalla denigrazione degli addetti ai lavori di critica letteraria, nei repertori specifici da cui non è stato possibile eliminarlo.
  Lo stile del Cozzani, pur essenziale, presenta una menda; ciò va riconosciuto. È un neo dovuto al temperamento, piuttosto che un punto di vista melodrammatico, tanto meno è un'infatuazione e imitazione del dannunzianesimo. Quasi con rammarico si riscontrano certe accentuazioni evitabili, che i detrattori tacciano, a torto, di enfasi ottocentesca, e vi si appigliano per inficiare tutta un'opera grande. Il sentimento di tale grandezza, d'una costruzione robusta, compiuta, persuasiva, obbliga ad accettare il lavoro, a rigettarne una bocciatura, a ringraziare di averne potuto godere, di non averlo perduto.
  Prima di presentare a sufficienza autore e opere, devo porre un'altra avvertenza. Essendo un estimatore di Giovanni Pascoli, in particolare, dell'interpretazione pascoliana di Dante politico e teologo, Cozzani, pur rispettoso della nostra Religione, omette l'eterodossia del Poeta romagnolo, cui si contrappone l'ortodossia dantesca (confermata da Benedetto XV con l'Enciclica In Praeclara Summorm).
  Cito alcune note circa il pensiero di Pascoli, contenute nel IV volume della monografia (1937) a lui dedicata dal suo antico alunno all'Università di Pisa.
  "Noi attraversiamo un periodo in cui, non ostante la superba eruzione di potenze storiche che drammatizza la vita, la letteratura è minacciata dal più grave dei pericoli, quello di diventare formalismo, tecnicismo, sensualismo, esteriorità. L'idea pascoliana disperde questo pericolo, perché riafferma la necessità - per l'opera d'arte, d'essere unità e totalità di spirito e di forme - e per l'artista, di vivere e trasfigurare in bellezza la fede, il pensiero, la volontà dei suoi tempi, della sua terra, della sua razza, chiamando i millenni a testimonianza della missione del proprio popolo, e schiudendo ad esso la visione del suo avvenire sull'orizzonte del destino universale.
  "Noi ci accorgiamo che tutto intorno a noi e in noi stessi si prepara ed è già in atto una vera palingenesi umana, nella quale lo scetticismo, la materialità, la prepotenza delle nude leggi fisiche, dei valori economici, delle abilità ed esperienze organizzative, tentano di violentare le forze morali, imponendosi come sola potenza creatrice, organizzatrice e dominatrice del cosmo umano.
  "L'interpretazione pascoliana della Commedia insorge; illuminando in tutte le coscienze la più alta delle verità: che la vita tende a sublimarsi nell'ideale, liberando alla lotta tutte le forze spirituali; e la civiltà, per quanto aspra e sanguinosa e scoraggiante d'arresti e di cadute sia la strada, tende a diventare nella giustizia e nella pace, ordinata, feconda e lieta.
  "Ed è forse destino che questa nuova apparizione di Dante ci si chiarisca proprio mentre l'Italia, animata da un impeto di fede messianica, e tutta intenta a rimettere sul loro piano gerarchico le forze spirituali, in piena armonia con le forze materiali, attua la sua rivoluzione; e lavora a creare le moderne leggi della convivenza umana basate su tutte le più audaci conquiste della giustizia sociale e civile, che son l'avvenire, e sul concetto d'una universalità cattolica e imperiale che è il passato ancor vivo e vitale".
  "Nel 'buon Barbarossa' Dante non vede il nemico dell'indipendenza italica, ma il rappresentante dell'Impero, a quindi in Milano non la antesignana della libertà nazionale, ma la ribelle a Roma e alla missione di Roma".
  "Dante, di fronte al disordine delle vita comunale [...] lancia un allarme: 'Se non ci sarà ordine, nella pace, e per mezzo della giustizia, ordine che non può essere ricondotto in terra che dall'Impero, la vita tempestosa, riempiendo ed eccitando di mali impulsi l'anima, le impedirà di meditare e di contemplare: e l'anima disorientata, stordita, snervata, non avrà possibilità di pensare alla sua salvazione e di salvarsi: ossia per essa la Redenzione sarà come non fosse stata'.
  "Soltanto che, secondo l'interpretazione del Pascoli, Dante queste verità le ha espresse in una maniera oscura e potente, profonda e scottante, misteriosa e abbagliante, perché le anime inadeguate a resistere non se ne spaventassero, e le anime preparate e forti ne fossero scosse come da un cataclisma interiore: che è il modo dei libri biblici e di tutte le profezie; delle apocalissi e delle catarsi: il modo con cui egli ridifendeva ancora la sua idea politica centrale, della necessità dell'Impero, e riaccendeva la sua speranza dell'avvento dell'Imperatore, del Veltro".
  Segnalo un'ultima cautela da assumere a proposito di Mazzini, da Cozzani considerato maestro, così che nel 1917 fondò l'Associazione Nazionale La Giovane Italia, e fece dell'Apostolo del Risorgimento l'ispiratore dello statuario che anima un suo romanzo. Ebbene, il pensatore e patriota sovversivo genovese non fu cattolico. Perciò se ne potevano trarre alcune affermazioni di valori, evitando di prenderlo come figura esemplare.
  Ettore Cozzani (La Spezia 1884 - Milano 1971) nel 1911 pubblicò L'Eroica, rivista di arti figurative e letteratura, con l'intento dichiarato di "annunciare, propagare, esaltare la poesia, comunque e dovunque nobilmente essa si manifesti in ciascuna arte e nella vita". Tenne fede all'impegno preso, procurando una veste tipografica pregevole e la collaborazione di notevoli artefici nel campo delle previste creazioni. Continuando la sua professione di insegnante, trasferì la Casa editrice a Milano, con la quale curò la pubblicazione di libri, anche propri. Per la Giovane Italia, da lui diretta durante un quinquennio, redasse L'Orazione ai giovani. I titoli principali della sua produzione sono inoltre: Le strade nascoste e Le sette lampade accese (novelle del 1920); Il regno perduto (1927), romanzo premiato, riedito corretto nel 1941; Il poema del mare (1928); Leggende della Lunigiana (1931);  Isabella e altre creature (racconti drammatici del 1933); Un uomo (1936); Come visse e morì Vittorio Locchi (1937), in ricordo dell'autore di La Sagra di Santa Gorizia; Ceriù (1938), romanzo per i giovani; Vita di Guglielmo Massaia (1943), citato dalla Enciclopedia Cattolica nella bibliografia in calce alla voce dedicata al celebre missionario divenuto cardinale; Destini (1944).
  Nei corposi volumi Un uomo e Destini i protagonisti dei romanzi sono, il primo: un figlio delle Apuane, che intende risolvere la crisi dell'industria marmifera con soluzioni ardite e lungimiranti, non recepite dagli imprenditori, è costretto, a causa di pregiudizi e complicazioni dei rapporti sentimentali, a rinunciare alla direzione della cava affidatagli per darsi a un'eroica impresa agricola e d'allevamento sugli alti colli carraresi; il secondo: uno scultore genovese, sistemato nel sudato studio costruito tra il porto e un cantiere di demolizione, e presso qualche bicocca di pescatori sospesa tra la spiaggia scogliosa e la muraglia della circonvallazione cittadina, vuole raffigurare esseri umani ispiratori di nobiltà, ma resta incompreso. Poi plasma i lavoratori duramente provati, di terra e di mare, affinché le loro degne espressioni suscitino il loro riscatto, edificando bensì chiunque quei bronzi abbia apprezzato; e torna a scontrarsi con la critica disonesta e con gli interessi politico-economici della borghesia del primo dopoguerra. Quindi accetterebbe come committente un capopopolo, sorta di asceta rivoluzionario. Ma di fronte al conflitto di classe che sta dilaniando la società e rovinando la nazione, lo scultore perde la fiducia e ritira la sua opera. Allora trova lo sbocco ideale in un ritratto di Mazzini. Delibera di dedicarsi a un gruppo scultoreo che fa capo a  lui. Nel gruppo prevale il concerto dei vari soggetti, il senso del dovere, del sacrificio, senza che nessuno sia svilito e si snaturi.
  Le due trame sono ben articolate; ospitando svariati personaggi, vengono alimentate da visioni del mondo conformi alle differenti indoli e menti, e presentano intrecci amorosi, che, nel primo libro, si dipanano e culminano nell'unione attesa; nel secondo, alla fine, l'amata muore in un incidente, avendo dato vita al dramma della donna mal sposata e madre, onesta, e che un amore generoso avrebbe destinato ad essere la valida compagna dell'artista.

Piero Nicola   

  

UNA SOCIETÀ ISTERICA TRA LUPANARE E VESPASIANO (di Emilio Biagini)

Due anni: 1957, 2016. Due versioni di una stessa opera: Testimone d’accusa di Agatha Christie, testimoniano una trasformazione epocale vertiginosa. La prima versione, in bianco e nero, interpretata da Marlene Dietrich, Tyrone Power e Charles Laughton, è luminosa e perfettamente chiara; la seconda, prodotta dalla mitica BBC, è, o dovrebbe essere a colori, se non vi dominassero le tenebre.



Tenebre che regnano in più di un senso, non solo perché lo schermo è buio e l’azione si svolge per lo più nella più impenetrabile oscurità, ma perché l’intera vicenda è immersa in una tenebra morale assolutamente satanica. Nel 1957 si contrapponevano il bene e il male, nel 2016 rimane solo il male, non vi è più un solo personaggio positivo; il male resta impunito e trionfa, e si permette pure di fare la morale, incolpando la “società”, mentre una innocente finisce sulla forca e l’avvocato che si è disperatamente battuto per l’accusato credendolo innocente, finisce suicida perché la moglie gli ha detto che non lo ama più.
La vittima del delitto, nel 1957 un’attempata vedova che ha la disgrazia di innamorarsi di un mascalzone, nel 2016 è diventata una ninfomane sempre a caccia di giovani uomini, la sua devota serva da simpatica vecchietta scozzese si è trasformata in una lesbica repressa, mentre abbondano scene di sesso che più esplicito non si potrebbe. Scomparso lo humour, che aveva una parte non piccola nel 1957, viene sostituito da uno horror assolutamente gratuito.
Per conseguire questo brillante risultato di vomitevole disordine morale, la trama del racconto è stata del tutto sovvertita. La sceneggiatura nel 1957 scorre in modo logico e coerente, quella del 2016 procede a singhiozzo, con ossessive ripetizioni della medesima scena e delle medesime battute. La recitazione del 1957 è misurata ed efficace, quella del 2016 è isterica e delirante; ogni dignità di comportamento è scomparsa, la maestà della legge è messa alla berlina, gli avvocati si agitano come istrioni da baraccone.
La recente produzione della BBC non è più Testimone d’accusa, non è neppure più un rifacimento moderno mal fatto, ma tutt’altra cosa, un prodotto di gran lunga più scadente, penoso, disgustoso: è rimasto il titolo per attirare gli estimatori dell’originale, e poco altro.
Mentre negli anni Cinquanta si avverte ancora la presenza di valori, nella versione odierna tutto è disintegrato: disintegrata la famiglia, devastata la stessa natura umana, perché l’uomo ha fatto un idolo di se stesso, non ha più nessun punto di riferimento, e gettando via la Fede ha perduto il suo centro, che è Dio, ed è solo, e gira a vuoto intorno a se stesso, distruggendo e distruggendosi.
Questo non stupisce affatto: cosa c’è in mezzo tra il 1957 e il 2016? Un anno diabolico: il mitico Sessantotto, quello della “liberazione” o meglio dello scatenamento degli istinti e dell’infamia, sulla scia di Cohn Bendit e di altri consimili pederasti confessi, con la tonaca pretesca (vedi don Milani) o senza tonaca. Si è così compiuta quella che Plinio Corrêa de Oliveira chiama la quarta rivoluzione (dopo quelle protestante, giacobina e comunista), la rivoluzione dove il disonore, da sempre compagno della rivoluzione, raggiunge il suo apice.
Nessuno può illudersi, naturalmente, che nel 1957 regnasse il bene e tutto fosse in ordine. Il marcio bolliva sotto la superficie, tre rivoluzioni avevano già compiuto le loro devastazioni; la cultura della morte, le trame gnostiche evoluzioniste, ambientaliste, abortiste, eutanasiche, mondialiste mandavano già i loro fetori, ma almeno regnava ancora una certa parvenza di ordine.
Nel rifacimento del 2016 ogni traccia di ordine è scomparsa, e questo caso non è che uno fra i tantissimi. Ogni volta che viene eseguita una riedizione (remake per gli anglofili) di un classico cinematografico, il crollo estetico, morale e di tenuta dei nervi salta immediatamente agli occhi. È lo specchio di una società isterica, sguazzante nel lupanare e nel vespasiano, che ha smarrito tutto quello che rende la vita degna di essere vissuta: fede, speranza, carità, onore, valori, civiltà, senso estetico, equilibrio, raziocinio, sanità mentale. Un mondo pienamente laicista, relativista, gnostico, putrefatto, in piena decomposizione, di cui i valenti anglosassoni, come sempre all’avanguardia nel “progresso”, ci indicano la strada, e mediante l’imposizione di storicismo e relativismo vorrebbero vietare qualsiasi giudizio morale.
Ma è col massimo disprezzo che vanno respinte le diffuse farneticazioni storicistiche e relativistiche, le quali tendono a minimizzare ogni condanna delle degenerazioni contemporanee additandola come effetto di incapacità dei “vecchi” di apprezzare le mirabilia del mitico “progresso”. No, la realtà è la realtà, i fatti sono fatti, la degenerazione e l’isterismo del mondo contemporaneo assatanato sono evidenti a chiunque abbia occhi e un po’ di ben dell’intelletto, compresi i giovani, almeno quelli non (ancora) instupiditi dalle deliranti “riforme” scolastiche, dai telefonini, dai vizi e dal frastuono mediatico mondialista.


Emilio Biagini

venerdì 10 novembre 2017

IL SUGGELLO DEL FRANCOBOLLO (di Piero Nicola)

  Il 31 ottobre scorso, a distanza d'un anno, allorché l'anno venne dedicato dal Vaticano (usurpato) alla commemorazione della Riforma luterana, lo stesso Stato della Chiesa (sotto occupazione profanatrice) ha emesso un francobollo intitolato il V Centenario della Riforma Protestante. Ai piedi di un Crocifisso di maniera stanno, da un lato, Filippo Melantone che mostra la Confessione di Augusta (testo ufficiale del protestantesimo al suo inizio) e, dall'altro lato, Martin Lutero che regge la Bibbia. Sullo sfondo: il profilo della città di Wittenberg. Il quadro commemorativo è completo. E carta canta, a dispetto della malizia dei prelati che non vogliono definire per iscritto la loro dottrina e concilierebbero, rendendola elastica, la vera dottrina con i loro detti e atti di manipolazione e di impostura. Quale più definitiva qualificazione dell'insegnamento bergogliano di questo soggetto filatelico?  
  Nei nostri ambienti, il fatto non è passato senza commento, ma non so se qualcuno abbia osservato che si tratta di una misura colma, oltre la quale è perfettamente inutile guardare. Qualunque cosa si faccia ancora da parte di Bergoglio e dei suoi satelliti - senza che si cospargano il capo di cenere per ravvedimento - sarà inezia degna di un non ti curar di lor, ma guarda e passa. Dio tradito coram populo, qualsiasi misericordia accordi agli autori di adulterazione del Vangelo in seno alla Chiesa, avrà giudicato l'enorme affronto recatoGli. Un novello Giuda ha venduto la Sposa di Cristo per trenta denari. E se finora egli non se ne dispera, e sarebbe in tempo per pentirsi senza impiccarsi, il gesto rimane nella storia inaudito e incancellabile.
  Quale sia stata l'empietà oltremodo sacrilega, sta pure sotto gli occhi di tutti. È la giustificazione dell'eresia e il rinnegamento della Chiesa, dei Vicari di Cristo, dei Concili che fulminarono di suprema autorità tale eresia luterana. Ci vuole forse di più per gridare al maggior delitto che si potesse commettere contro lo Spirito Santo, al peggior scandalo che si potesse dare ai credenti e al mondo intero, provenendo esso dal Trono di Pietro? Quando il Messia, gli Apostoli e i loro successori condannarono chi abusò, prima, del Vecchio Testamento, e poi, del Nuovo.
  A questo punto non mette conto scendere nel dettaglio, né enumerare i vari errori spacciati per verità dal Vaticano II, dai suoi autori e dei successivi custodi di esso, né denunciare le attuali nefandezze commesse presso gli Altari. Questa misura colma sintetizza tutta l'opera diabolica precedente e contemporanea, come fu detto che il modernismo sintetizzava l'insieme delle eresie. Sennonché il modernismo ha scalzato il clero ortodosso e imperversa nel Luogo Santo.
  Di fronte a tanta enormità non pochi tradizionalisti rimangono perplessi o turbati, domandandosi come Dio potrebbe astenersi dall'intervenire, dal castigare. Ma essi stessi sono colpiti dal castigo che non riconoscono, perché un castigo grande, evidente, un incendio di Sodoma e Gomorra sarebbe ancora una grazia, una luce, un evento miracoloso. Invece la massima punizione dell'empietà è lasciarla alle sue proprie tenebre. Un Diluvio spirituale si espande sulla terra, prodotto dagli stessi uomini apostati e dagli increduli fornicatori. In esso annegano le anime immeritevoli della Strage materiale, in esso naufragano le anime tiepide e dubbiose.


Piero Nicola

lunedì 6 novembre 2017

IL REGNO ECONOMICO (di Piero Nicola)

  Cadute le ideologie novecentesche, piovuto il discredito sulla politica e sulla classe dirigente, precipitate filosofia e religione nel nichilismo e nel solve ecumenico, lavoro e produzione in funzione della prosperità economica e del carpe diem edonistico, sembrano esaurire le aspettative popolari. Soltanto qualche popolo europeo, provocato dalla minaccia dell'immigrazione abusiva, ritrova la Patria e un poco Nostro Signore. In Cina, la Patria è quella colorata di mitologia comunista e provvida di efficienza economica. Se ieri cercarono di far attecchire laggiù la democrazia, stante la desolazione del maoismo, oggi il regime che funziona è diventato intangibile. Domani, a scadenza imprecisata, anch'esso andrà incontro alla sua decadenza. Ma in futuro potrebbe intervenire una guerra a ridare le carte ai contendenti, o a condurre all'ultima spiaggia.
  Per ora la Cina è il paese esemplare, essendo del tutto idoneo a svilupparsi materialmente. E la competizione mondiale si gioca affatto su questo piano materialistico.
  In un articolo pubblicato su Il Giornale il 29 ottobre, lo studioso Riccardo Ruggieri spiega il motivo dell'eccellenza cinese: la dittatura. Ciò non è per niente scandaloso, anzi risulta ragionevole. Poiché, a questo punto, lo Stato deve provvedere a soddisfare la mentalità e i desideri prevalenti dei cittadini, bisogna che esso agisca alla stregua di un'azienda. E l'azienda per sua natura è organizzata gerarchicamente, quasi come l'esercito: aliena dalla democrazia. Per dare frutto, l'impresa riposa su un solido organico e su un vertice avente pieni poteri; né sarà imbarazzata da scioperi e contestazioni dei dipendenti. Quando il vertice fallisce, la sostituzione diventa inevitabile, ma fintanto che regge, quasi nessuno trova da ridire.
  L'autore dell'articolo descrive lo stato-imprenditore e regolatore della società, vigente in Cina. Un unico Timoniere (Xi Jiuping), un Comitato ristretto, un solo partito monolitico, il potere giudiziario sottomesso al potere esecutivo. In tal guisa tutta l'economia e i bisogni sociali sono sotto controllo, ogni aggiustamento si attua con prontezza, la potenza militare (sempre necessaria) viene assicurata, le industrie strategiche sono in regime di monopolio. E i risultati appaiono evidenti.
  S'intende che un sistema politico efficace (giacché di politica sempre si tratta) non si giustifica con la sua sola efficacia. Anche il nazismo visse d'un successo cosiffatto, i tedeschi entusiasti o consenzienti. Il male può abitare nel totalitarismo in auge o in un regno assoluto comunque giustificato, come il Regno del Vaticano, istituito nientemeno che da Gesù Cristo. La Chiesa è pure uno Stato sovrano. Resta il fatto che il sistema strettamente gerarchico e autorevole, privo di contrasti  e di divisioni, assolve la sua funzione meglio di ogni altro. Del resto, le democrazie non hanno dato prova di sanare lo Stato e i costumi, semmai il contrario; tanto che oggi la maggioranza non vota alle elezioni o vota soprattutto per protestare.
  Ne viene che il male si rimedia soltanto con una giusta Costituzione, con leggi fondamentali e irrevocabili fatte rispettare da una potestà robusta, atta alla tutela del bene. Naturalmente il male pratico non sarebbe eliminato, data la debole natura umana. Ma lo Stato non sarebbe iniquo, quando i governanti dovessero per principio, volenti o nolenti, custodire la Verità (antidoto della corruzione), permettendo ai giusti di preservarsi e di contagiare gli iniqui, tenuti in soggezione.
  Riprendiamo l'esempio della Chiesa. I Pontefici inetti o corrotti (p.e. Alessandro VI) non poterono fare un danno eccessivo, avendo mantenuto il Deposito della Fede. Dopo di loro, la Sposa di Cristo ebbe modo di risollevarsi, maggiormente benefica. Soltanto gli occupanti del Trono di Pietro che hanno osato violare la Legge eterna, hanno prodotto la necessità d'un ripristino del Regno da essi usurpato: reso nocivo e inservibile, per quanto resti in piedi.


Piero Nicola

sabato 4 novembre 2017

Novantanove anni fa il 4 novembre 1918, giorno della nostra Vittoria nella Grande Guerra (di Paolo Pasqualucci)

Quand’ero ragazzo, negli anni Cinquanta del secolo scorso, il 4 di novembre era festa nazionale.  Allungava le festività religiose di Ognissanti e del Giorno dei Morti.  Si celebrava la vittoria nella I guerra mondiale:  correlativamente, il raggiungimento dell’Unità nazionale e l’opera valorosa delle Forze Armate.  Gran parte delle sinistre e parte consistente del mondo cattolico non l’hanno mai amata, questa celebrazione, troppo patriottica per i loro gusti.  La svalutazione progressiva, sul piano politico e culturale, dell’idea di Nazione, di Patria e di Vittoria militare, portato della decadenza generale dei costumi che affligge noi e tutto l’Occidente, fece sparire ogni riferimento alla Grande Guerra, riducendo la festa a Giornata delle Forze Armate, ed infine a cancellare la festività.  Oggi, in questa data, si rende omaggio, nelle dichiarazioni ufficiali, alle Forze Armate e all’Unità nazionale.  Della vittoria nella Grande Guerra si è persa definitivamente ogni traccia.
Si è pertanto avuta, in data odierna, giorno lavorativo, la consueta anonima cerimonia al Vittoriano, condita dai consueti messaggi di routine delle Autorità costituite. Il Presidente Mattarella ha ricordato “la conseguita completa Unità d’Italia” e “l’onore” che si deve rendere alle Forze Armate, con un “commosso pensiero a tutti coloro che si sono sacrificati sull’Altare della Patria e della nostra libertà, per l’edificazione di uno Stato democratico ed unito” (Corriere della Sera di oggi, 4 nov. 2017).
Il ministro della difesa, on. Roberta Pinotti, colei che vorrebbe istituire il “servizio civile” obbligatorio per tutti (sì, il servizio civile non quello militare) ha detto, sempre nell’estratto del Corriere della Sera, che “la comemorazione di quel doloroso periodo della nostra storia nazionale offre la possibilità per una riflessione più profonda sul valore della pace, anelito insopprimibile di ogni società civile, dovere ma anche diritto di ogni uomo, delle nuove generazioni, dei deboli e indifesi, di coloro che scappano dalle guerre, dei tanti rifiutati e oppressi.  Ed è in momenti come questo che dobbiamo rinnovare con forza il ricordo delle migliaia di Caduti sulle pietraie del Carso, sull’Isonzo, sul Grappa, sul Piave e in tanti altri luoghi entrati a far parte della nostra memoria collettiva”.
Avrà detto anche altre cose, l’onorevole ministro, nel suo messaggio.  Se questo ne è il nucleo, esso appare abbastanza singolare per un ministro della Difesa, delle Forze Armate.  Di quella terribile ma valorosa ed eroica epopea che fu la nostra Grande Guerra, sa dire solo che è stato “un doloroso periodo della nostra storia”.  Il dolore, dunque.  La riflessione sul dolore passato offre lo spunto per quella sul presente, rappresentato sempre dal dolore, che sarebbe quello delle categorie consacrate dalla retorica politicamente corretta dominante – le quali categorie si ritengono private del loro “diritto alla pace”:   ogni uomo in generale, i giovani, i deboli e gli indifesi, i profughi, i rifiutati ed oppressi.
C’è un po’ di tutto, nel materno abbraccio pinottiano, come si conviene ad una governante intrisa di “pluralismo”, anche sul piano strettamente culturale.  Un “diritto alla pace”, intrinseco ad ogni essere umano, non sapremmo per la verità come concepirlo, in termini propri, giuridici.  Ma tant’è. Il nostro bravo ministro, nel ricordare l’anniversario della Vittoria in una guerra mondiale di fondamentale importanza per la nostra stessa esistenza di popolo – se, nonostante tutto, esistiamo ancora come popolo e Stato unitario lo dobbiamo alla vittoria in quella guerra – sa parlare solo di pace e nei termini di quella  retorica sentimentale ed umanitaria con la quale si tentano oggi di occultare le gravi debolezze e lacune della nostra attuale classe di governo, incapace di difendere il territorio nazionale da una massiccia invasione afro-asiatica e musulmana, che nessuna emergenza cosiddetta umanitaria giustifica, dal momento che, nella massa che ci invade, i veri profughi sono solo una piccola minoranza.

Allora, perché il 4 novembre?  Cos’è successo il 4 novembre?  Lo sa l’on. Roberta Pinotti? Immagino che siano in pochi a saperlo, visto che da anni non se ne parla mai, anche perché si insegnano da tempo falsità di ogni tipo sulla nostra partecipazione alla Grande Guerra.  Per esempio, che per noi essa sarebbe finita con la pesante sconfitta di Caporetto, dopo la quale saremmo arrivati alla vittoria, un anno dopo, solo perché sorretti dai nostri alleati franco-britannici, che ci avrebbero tolto le castagne dal fuoco.    
Invece, a due settimane circa da Caporetto, il nostro esercito (allora Regio Esercito) risuscitò sul Piave, sul Grappa e sugli Altipiani, contenendo da solo gli ultimi furiosi e decisivi assalti austro-tedeschi, sorretto alle spalle da undici preziose divisioni franco-britanniche accorse in riserva strategica, ridotte poi assai presto a cinque, le quali subentrarono  in linea dopo circa un mese, quando avevamo stabilizzato il fronte.  Risuscitò, con grande sorpresa del nemico, ma in realtà non era mai morto.  Aveva incassato un colpo da K.O., portato con estrema maestria dalle migliori divisioni tedesche e austro-ungariche, e tuttavia era riuscito ad assorbirlo.  Era stata distrutta a Caporetto l’ala sinistra della II armata, mal schierata nelle montagne isontine del Friuli del Nord-Est. Parte di quell’armata, dislocata più a sud, si ritirò in ordine, assieme alle altre due armate nostre, la III e la IV, non intralciate dalla marea dei profughi friulani.  I circa trecentomila prigionieri e molti fra gli altrettanti sbandati (poi recuperati) appartenevano in numero consistente alle sterminate retrovie caratteristiche di tutti gli eserciti moderni.
Dalla nostra vittoriosa “battaglia d’arresto” del novembre-dicemtre 1917, come si giunse al 4 novembre 1918?  Nel giugno del 1918, la Duplice Monarchia, uscita dalla guerra la Russia travolta nel gorgo della rivoluzione, in appoggio alle poderose offensive con le quali i tedeschi stavano tentando di vincere la guerra anche a Ovest, prima che si consolidasse il sempre più massiccio apporto americano in Francia,  tentò a sua volta di sfondare contro di noi, raccogliendo le sue logorate forze per un ultimo formidabile sforzo.  Si ebbe la grande Battaglia del Montello o seconda del Piave, che si concluse con un completo insuccesso austro-ungarico.  La testa di ponte larga 8 km e profonda 5 costituita al di qua del Piave, sulle alture del Montello, fu da noi contenuta in aspri combattimenti e l’Imperial-regio esercito fu costretto a ripassare il Piave.  Con quella fallita e sconsiderata offensiva, per di più mal condotta dall’inesperto imperatore Carlo d’Asburgo, l’Austria-Ungheria perse la guerra.  Dopo questa battaglia, cessarono del tutto i tentativi anglo-americani di indurre l’Austria-Ungheria ad una pace separata.  Gli Alleati avevano ormai la sensazione netta del crollo imminente del nemico.
La grave crisi interna dell’Impero, economica e spirituale, aumentò sempre di più.  L’esercito teneva ancora ma cominciò a disgregarsi nelle retrovie quando il fronte balcanico, tenuto soprattutto dalla Bulgaria, crollò all’improvviso alla fine del settembre 1918, aprendo agli eserciti alleati (tra i quali anche un corpo di spedizione italiano) dalla Grecia orientale la via verso Budapest, via che essi cominciarono ovviamente a percorrere,  non velocemente ma inesorabilmente.  A quel punto le divisioni ungheresi sul nostro fronte cominciarono ad agitarsi e a voler tornare a casa, per difendere la Patria in pericolo.
Con il nemico in crisi sempre più evidente, in condizioni di inferiorità anche per le munizioni e il vettovagliamento, e i tedeschi ormai in ritirata in Francia, ordinata anche se la loro linea non era più continua e mancavano riserve e munizioni, il nostro Comando Supremo si decise alla fine ad attaccare, in ritardo, il 24 ottobre e con il Piave in piena!  La Terza Battaglia del Piave o di Vittorio Veneto, durò cinque giorni effettivi, dal 24 al 28 ottobre, giorno nel quale l’VIII armata italiana, comandata dal generale Caviglia, appoggiata sulla destra dall’armata anglo-italiana del generale Cavan e sulla sinistra da quella franco-italiana del generale còrso Graziani, sfondò il centro dello schieramento nemico, puntando verso Vittorio Veneto e dividendo in due tronconi l’Imperial-regio.  Sul Grappa gli italiani non passarono e subirono le consuete, ingenti perdite, nei ripetuti assalti e contrassalti.  Ci riuscirono sul Piave, contro un nemico indubbiamente debilitato ma che si batté valorosamente sino all’ultimo, nonostante le defezioni di diversi reparti della seconda linea, soprattutto ungheresi e cèchi, a partire dal terzo giorno della battaglia, e nonostante la dissoluzione politico-amministrativa ormai inarrestabile dello Stato austro-ungarico.

Ho ricordato sinteticamente quei drammatici eventi, al fine di arrivare nel modo dovuto al punto che ci interessa: solo alle 7 di mattina del 29 ottobre, quando l’esercito era ormai in rotta sul fronte del Piave, i Comandi austriaci presero i primi contatti con il Comando italiano, chiedendo un armistizio.  Precedentamente avevano tentato invano con gli americani, perdendo del tempo prezioso.  Iniziarono in tal modo convulsi negoziati che si conclusero con la firma dell’armistizio a Villa Giusti, presso Padova, il pomeriggio del 3 novembre, a valere dal pomeriggio (dalle 15) del 4 novembre successivo.  Ora, gli austriaci speravano giustamente di poter negoziare con noi termini onorevoli.  Ma non ci riuscirono.  Le condizioni di armistizio non erano decise dal Comando Supremo italiano o dai politici italiani isolatamente: erano prese dal Consiglio di guerra interalleato che risiedeva a Parigi, in quei drammatici frangenti riunito in seduta quasi permanente.  Fu tale Consiglio, che ricomprendeva le alte cariche politiche e militari dei ‘Quattro Grandi’, ad imporre la resa incondizionata, poiché tale fu l’armistizio che l’Austria-Ungheria dovette sottoscrivere.  Certo, l’Italia non si oppose.  La Battaglia di Vittorio Veneto portò alla dissoluzione dell’esercito austro-ungarico, in parte già iniziata:  gli diede il colpo di grazia, impedendo il disegno austriaco e tedesco di riportare la componente nazionale dell’esercito sui confini naturali, cioè sulle Alpi da un lato e sul Reno dall’altro, per cercare di resistere ancora e ottenere una resa meno dura.  Sparendo l’Imperial-regio  dalla scena, la via dell’invasione della Germania da sud era aperta a noi e ai nostri alleati e i tedeschi non avevano in pratica più truppe da opporre.  In tal modo, la Germania dovette anch’essa piegarsi ad accettare una resa incondizionata, sottoscritta l’11 novembre 1918.  
Questo dunque, in estrema sintesi, ciò che accadde il 4 novembre 1918, data indubbiamente significativa per noi italiani e che dovrebbe esser ricordata in modo degno.  Senza retorica e senza animosità per i nemici di un tempo ma con il pathos che la ricorrenza richiede, osando magari pronunciare le parole probite di guerra e vittoria.  
 Era la fine della guerra in Italia, dopo tre anni e mezzo di tremendi sacrifici umani e materiali.  Soprattutto, era la Vittoria, conseguita con l’eroico sacrificio di un’intera generazione.  Dopo Caporetto ci fu in tutto il Paese, anche nelle classi popolari, un grande slancio patriottico, per resistere all’invasione straniera e per vincere.  Come disse Benedetto Croce, dopo quella cocente sconfitta, solo allora quella guerra diventava nostra.  Combattevamo per la nostra terra, per riconquistarla e per l’onore nazionale, ingiustamente infangato da uno sciagurato Bollettino del Comando Supremo che, il giorno dopo lo sfondamento di Caporetto, ancora mal informato su quello che stava succedendo, diede la colpa del crollo locale ad una viltà dei soldati che in realtà non c’era stata (episodi di rese locali senza combattere ci furono dopo lo sfondamento, le cui cause furono soprattutto militari, nel clima di caos, di panico e di abbattimento subito creatosi, anche a causa della rivoluzionaria tattica del nemico, basata non più sui sanguinosi attacchi frontali ma sull’aggiramento veloce dei caposaldi e l’attacco di lato o da tergo, di sorpresa, condotto da truppe scelte).
Ma non si trattava solo della vittoria in quella guerra, fatto di per sé pur notevole per un popolo ed uno Stato di recente e tormentata formazione come il nostro.  Con quella prova, con quel sacrificio, riscattavamo moralmente noi stessi dalle dominazioni straniere che avevano infierito su di noi per tre secoli e mezzo.  Da quando, nelle sciagurate e crudeli Guerre d’Italia (1498-1559), Asburgo spagnoli e austriaci, francesi, svizzeri, da noi in nessun modo provocati, avevano fatto a pezzi il sistema degli Stati italiani indipendenti ma militarmente deboli e sempre divisi tra di loro.  Fu una grande tragedia, che non dobbiamo dimenticare. Riuscì a resistere solo la Repubblica di Venezia, spacciata alla fine del Settecento da Napoleone, dopo una lunga decadenza.  Le Guerre d’Italia le vinse su tutti la Spagna asburgica e quando il suo dominio finalmente si allentò, dopo altre guerre, si ebbe la prevalenza dell’Austria asburgica, rinnovatasi dopo l’intervallo napoleonico, che aveva annesso all’Impero francese parti consistenti del nostro Paese, riducendo le altre a Stati suoi satelliti.  L’Impero austriaco mai ci volle riconoscere il diritto ad essere non dico uno Stato indipendente suo alleato ma nemmeno un popolo degno di essere preso in considerazione. Eravamo, per tutti, solo una espressione geografica, “volgo disperso che nome non ha”, pascolo ubertoso per le politiche di potenza dei grandi Stati: e così avremmo dovuto rimanere, in eterno.   La lunga sequela delle “preponderanze straniere” (Cesare Balbo) fu per noi un’età di ripetuto sfruttamento economico e militare, di sudditanze umilianti, di umiliazioni a non finire. 
 Combattendo e vincendo la Grande Guerra, abbiamo pagato il prezzo di sangue che il nostro riscatto esigeva.  Perché quel sangue non sia stato versato invano, dobbiamo ora resistere con tutte le nostre forze all’ondata nichilista che vuole travolgerci, dall’interno e dall’esterno, ammantata di ipocrisie pseudo-umanitarie.  E tra i valori che dobbiamo recuperare, per resistere, il patriottismo, la fede nell’Italia patria comune e unitaria, da difendere in tutti i modi, occupa senz’altro un posto eminente.  In questo, ci ispiri, dunque, e ci sostenga il ricordo di questa data gloriosa, il 4 novembre, giorno della Vittoria della Patria, finalmente tutta unita nei suoi confini naturali.

Paolo  Pasqualucci,  sabato 4 novembre 2017 


Fonte:  iterpaolopasqualucci.blogspot.ie