sabato 23 novembre 2013

Pochi libri lasciano un segno profondo fra la narrativa odierna (Recensione di Tommaso Romano)

Il crollo della grande capacità di narrare dell’uomo, del mondo e dell’eterno, di indagare ragioni, di abbandonarsi all’immaginazione, di metastorizzare gli eventi, di fornire motivazioni, segni, punti di riflessione.
Certamente il romanzo di Piero Vassallo Un treno nella notte filosofante (Solfanelli, Chieti, 2013) è in totale controtendenza, in positivo stupore l’esito letterario che ci propone, in convincente sintesi l’architettura che regge tutto l’assunto.
Diciamolo subito, il romanzo filosofico di Vassallo non è adatto ai più, sconsigliabile per spiriti belli, ecumenici pacifisti e mistificatori di verità. Come una somma letteraria Vassallo – ormai consapevole della stazione alla grande Opera, dall’alto del notevole lavoro dottrinale, filosofico e di implacabile e acido polemista indomito – sciorina le sue certezze in un mondo che sospetta dominato da un leviatano abile, mellifluo e implacabile, un grande fratello che ci richiama ad Orwell ma anche alla Città del Sole di Tommaso Campanella, che di totalitarismi e controlli ne teorizzava non pochi.
La vicenda si snoda fra l’arresto di un treno che nella notte smette di correre verso una meta definita arenandosi nel neoparadiso delle schiavitù imposte dall’alto, da abili nuovi – vecchi filosofanti appunto, che gnosticamente imperano, imponendo a pochi prescelti le nuove iniziazioni a sfondo sessuale-orgiastico, per “illuminazioni” che conducono al sottosuolo dell’anima.
Un pugno di resistenti prima in modo volontaristico poi prendendo coscienza per una liberazione possibile, si fa guidare dalla determinazione di uno di essi, cosciente fino all’inizio del baratro e dell’inganno.
Vassallo sfodera gli artigli, come sempre sa fare, mostrando una fluente e accattivante affabulazione anche nel rischioso tessuto narrativo, ma appunto non rinunciando alle sue profonde convinzioni etiche, al travaglio metafisico che porta certezze nella trascendenza.
Smaschera gli inganni che trova nella realtà attuale trasfigurando i suoi personaggi, aguzzini e nuovi Rasputin compresi nell’avventura distruttiva del nichilismo senza orizzonti vitali.
Una risposta autorevole, forte, alla morte annunciata del romanzo schiavo adesso del pensiero debole e delle trame mortifere.
Opera di estremo rilievo, pietra miliare per ricomporre un tessuto slabbrato e in piena decadenza, Vassallo ci consegna un romanzo di lunga durata, paradigmatico, capace di suscitare vertigini e meditazioni metafisiche senza sfuggire alle urgenze e alle sfide terribili che la storia ci pone.


Tommaso Romano

venerdì 25 ottobre 2013

Giuseppe Bottai e lo spezzato filo della destra

 In questi giorni Daniela Pasqualini, giovane e brillante pedagogista toscana, ha pubblicato, nella collana "faretra", dell'editore Solfanelli in Chieti, "Giuseppe Bottai e la Carta della scuola", un saggio,  che rievoca fatti e idee che eclissano i giudizi degli storici liberali e conformisti sulla cultura del ventennio fascista.
 Imprigionati e coatti dalle dogmatiche parentesi di Benedetto Croce, gli storici di regime hanno prodotto e imposto l'immagine di un politica ventennale impegnata in una feroce guerra   contro la cultura e la storia italiana. 
 La puntuale revisione della Pasqualini, invece, dimostra che la pedagogia di Bottai, rappresentò il tentativo di costruire un ponte tra il passato e il futuro della patria italiana, coniugando le aspirazione dell'emergente e impaziente proletariato con i diritti inalienabili della tradizione cattolica.
 L'arduo progetto di Bottai, fascista anomalo e geniale, intendeva di stabilire una continuità tra l'Italia del passato e l'Italia delle avanguardie, e perciò fu demonizzato dai seguaci dell'affossatore Croce.
 Il filosofo di Pescasseroli fu un passatista, autore  del battesimo liberale dell'Italia  e promotore dello spaccio di quella filosofia a due, equivoche piste, che è consegnata al saggio "Perché non possiamo non dirci cristiani".
 La predicazione di Croce causerà l'inciampo dell'abbagliata Democrazia cristiana, prima di rovesciarsi nelle disgraziate e scellerate riforme libertine: legalizzazione di pornografia, divorzio e aborto. Conquiste incivili, che hanno infangato la repubblica italiana e spianato il cammino  all'alluvione tossica, sodomitica, gomorrita e thanatofila.
 Sul versante opposto a quello del guru a due teste, Bottai, dopo aver accertato che il liberalismo non aveva funzionato, affermava che le cicliche crisi dell'economia "si potevano risolvere attraverso l'unione di capitale e lavoro, unione che è diretta conseguenza del principio corporativo pienamente applicato".
 Nell'ultimo numero della rivista "Primato", in edicola il 15 luglio del 1943, Bottai, vinta ogni remora, scriveva: "Rivendichiamo una responsabilità storica fondamentale: quella di aver fatto venire alla luce, con il corporativismo, una profonda revisione etico-organizzativa del sistema capitalistico nell'interno degli Stati e nella società internazionale. ... La corporazione, proposta nel 1931 alla Società delle Nazioni come modello di collaborazione tra le classi e le nazioni, era ed è la leva per spingere l'ordine capitalistico verso gli inevitabili nuovi orizzonti, intravisti sia dall'economia che  dall'etica".
 Conforme alla dottrina corporativa, la riforma della scuola ebbe un indirizzo popolare e perciò divenne  l'oggetto di una profonda intesa tra regime fascista e Chiesa cattolica.
 Lo rammenta Pasqualini: "Bottai  intende riportare in primo piano l'educazione scolastica, rispetto a quella politica, e rivalutare la politica della famiglia, intenzione ampiamente condivisa dalla Chiesa".
 Pasqualini sottolinea altresì la profondità dell'analisi compiuta da Bottai della realtà familiare nella società industrializzata e rammenta che le organizzazioni giovanili fasciste, a differenza di quelle fondate dai sovietici e dai nazisti, "erano pensate non per prendere il sopravvento sulla famiglia ma per integrarsi con il lavoro educativo compiuto dalle famiglie operaie nel momento in cui queste fossero impegnate nel lavoro. ... La posizione assunta dal fascismo, infatti, è proprio quella di rafforzare la conoscenza del cattolicesimo attraverso lo studio"".
 Con inusuale audacia, Pasqualini viola la legge che definisce "infrequentabili" gli archivi, il contenuto dei quali smentisce e ridicolizza l'imperiosa dottrina crociana, che rappresentava un'incivile e vuota parentesi incivile della durata di vent'anni.
 La faticosa ricerca compiuta dalla sagace studiosa toscana rivela una notizia, che giustifica la storiografia proibita dai poteri forti e incoraggia la revisione del giudizio formulato dagli intellettuali immobilizzati dal vieto pregiudizio storicistico: "La Carta della scuola è il frutto di numerosi scambi segreti con il Vaticano per tramite del Cardinale Tardini, perché Bottai sa che per riformare in senso gerarchico e sistematico il mondo dell'istruzione è necessario l'appoggio delle istituzioni ecclesiastiche, che storicamente detengono un importante ruolo in campo educativo".
 Inoltre Bottai introdusse nella scuola l'ora di lavoro manuale, allo scopo di far comprendere agli scolari la difficoltà e la nobiltà della fatica finalizzata alla trasformazione delle materie prime e di far sperimentare la simultanea edificazione e nobilitazione del lavoratore.
 La coraggiosa impostazione della riforma scolastica, puntualmente ricostruita da Pasqualini, aiuta a comprendere le ragioni dell'intesa stabilita, nel dopoguerra, da Bottai con il movimento dei cattolici, critici della Dc e insofferenti dell'ideologia liberale infiltrata nella cultura cattolica.  
 I protagonisti dell'opposizione al liberal-progressismo si incontravano nella sede di Civiltà italica, la rivista di  Mons. Roberto Ronca e di Luigi Gedda, nella cui pagine pubblicavano articoli di altri illustri epurati, Camillo Pelizzi, Guido Manacorda, Edmondo Cione e Vanni Teodorani.
 Gli studiosi attivi nella sede di Civiltà italica e in seguito nella rivista di Bottai, Abc, disegnavano le figure di un partito di autentici moderati e di un movimento di convinti post-fascisti, due organizzazioni concordemente indirizzate al futuro in quanto capaci di stabilire un'alleanza patriottica finalizzata a riannodare quel filo della tradizione italiana, che l'errore liberale aveva spezzato.
 Il disegno politico, concepito da Bottai e dai redattori di Civiltà italica e condiviso (nel 1954) da Amintore Fanfani, fallì a causa dell'ostinata e miope opposizione dei nostalgici scalpitanti nel Msi.
 L'improvvido rifiuto degli estremisti Almirante e Rauti avviò  la politica italiana spianò la strada all'anacronismo storicista e laicista. E liquidò il progetto di sostegno alla famiglia, nucleo vitale della società, sostegno concepito e avviato dalla riforma della scuola secondo Bottai

 Il saggio di Pasqualini, pubblicato in una stagione politica segnata dalla perfetta estinzione del partito neofascista e dall'affondamento democristiano nelle acque dell'internazionalismo cravattaro, costituisce un invito alla riapertura dei coraggiosi ragionamenti avviati da Bottai intorno alla politica intitolata alla moderazione, virtù che ha una stretta parentela con la classica prudentia.

Piero Vassallo


martedì 1 ottobre 2013

La storia dell'evo cristiano, tra reale e artificiale

Un intrigante saggio di Tommaso Romano

La storia dell'evo cristiano, tra reale e artificiale

 Qualificato studioso e impavido testimone della tradizione cattolica, il palermitano Tommaso Romano è apprezzato, oltre che per l'eleganza della scrittura, per l'equilibrio delle sue analisi e per l'originalità delle sue proposte.
 La sua più recente fatica, il saggio "La radicale antitesi tra reale e artificiale", pubblicato nel numero 79 (gennaio-agosto 2013) della rivista "Spiritualità e letteratura", ad esempio, solleva contro il pensiero post-moderno obiezioni indenni dalla pretesa, avanzata dai banditori di un ozioso e imparruccato passatismo, "di difendere acriticamente l'intero Ancien Régime" e di nascondere "la mondanizzazione del potere o degli stessi singoli esponenti della Chiesa Cattolica".
 Romano è consapevole che il mondo moderno, il cui inizio era, per astratta convenzione, stabilito nel giorno della scoperta dell'America, è finito nel 1989, sotto le macerie del muro di Berlino.
 Di conseguenza Romano afferma la necessità di riconoscere la svolta epocale e di aggiornare il giudizio sul mondo moderno, che si è intanto ridotto alle ultime e crepuscolari suggestioni, che trasmettono cascami e frattaglie delle ideologie ai fautori della depressione relativista, che colora di grigio l'età contemporanea.
 Dissolta la minaccia delle rivoluzioni concentrazionarie, nel nuovo orizzonte si profila la minaccia delle utopie negative, "miti senza relazione, incapacitanti simboli posti a rappresentare l'astratto e l'irreale, elaborazioni umane con pretesa di assolutezza, filosofica e antropologica, che hanno generato (e non certo soltanto dalla fine del Medio Evo) irreali sogni di potenza, domini antiumani, autoritarismi senza fondamento nell'autorità legittima, anarchia teorica e nichilismo pratico, ateismo diffuso, relativismo, indifferenza".
 Ora non è pensabile affrontare l'emergenza causata dalle utopie negative e dal loro codazzo di sciagure senza un progetto indirizzato a rinnovare le regole dell'indagine sulle cause profonde dell'eversione. 
 Romano, pertanto, propone, quale chiave di la lettura della storia inclinata alla catastrofe post-moderna, un detto del cristiano libertario Valerio Pignatta - "Il Cristianesimo di Gesù non ha niente a che vedere con il cristianesimo della chiesa".
 Secondo Romano la tendenza libertaria a interpretare il Vangelo secondo i personali desideri, inclinazione già presente quando Cristo era nel mondo, "è un fiume carsico che in nome della purezza evangelica, ha rifiutato costantemente il concetto stesso di tradizione, sacralità, autorità, obbedienza e di gerarchia, promuovendo una lunga incubazione che ha prodotto tanto le piccole chiese e comunità religiose medievali, quanto taluni sintomi che hanno poi generato ai grandi scismi della Chiesa Cattolica, a cominciare dall'Ortodossia dopo il primo millennio e con l'affermarsi dei profeti dell'utopia del mondo nuovo e i loro predicatori sempre però connotati dallo spirito rivoluzionario, a volte con caratteristiche spiccatamente politiche, non sempre di matrice gnostica, anche se l'approdo alla logica di capovolgimento della realtà naturale è stato, comunque, convergente".
 Gli storici delle eresia e i compilatori dei tossici effetti dell'errore, pertanto, non devono limitarsi all'elenco delle contaminazioni pagane, che, lo ha dimostrato un discepolo di San Policarpo, Sant'Ireneo da Lione (130-202 d. C.), hanno ispirato i banditori dello gnosticismo, ma indagare seriamente le fantasie ispirate da una lettura ribellistica e anarcoide del Vangelo.
 Quale esempio di interpretazione erronea della Sacra Scrittura, Romano cita due testi di Tertulliano, il De corona e il De idolatria, nei quali si afferma (in aperto contrasto con la sentenza paolina, Non est potestas nisi a Deo) che le leggi civili "sono esclusiva opera degli uomini e che nessun fondamento ha il diritto divino invocato dai governanti".
 E' evidente che, a differenza della suggestione gnostica, il libertarismo, circolante in ambienti clericali antichi e moderni, non ha origine dal pensiero pagano ma dalla incontrollata fantasia dei fedeli. 
 Di qui la puntuale analisi degli errori generati dalla superficialità clericale e l'impietosa denuncia dell'alluvione progressista, che ha avvelenato la stagione del post-concilio.
 La lettura del testo di Romano costringe a riflettere sulla fragilità dei giudizi improvvisati dai fedeli, dai sacerdoti e dai teologi che desiderano piacere al mondo piuttosto che obbedire allo Spirito Santo.
 A conferma della fragilità degli uomini di Chiesa, Paolo Pasqualucci ha rammentato che sono state giudicate eretiche e ritrattate perfino le opinioni personali di alcuni pontefici romani.
 La resistenza all'errore post-moderno, di conseguenza, deve conoscere e contrastare, insieme con le ricorrenti suggestioni gnostiche, anche i cedimenti  autarchici dei pensatori cattolici, laici (ad esempio Jacques Maritain) e clericali (ad esempio Karl Rahner).
 Senza una tale estensione dello sguardo critico il contrasto cattolico all'errore post-moderno arretrerebbe sulle linee di un trionfalismo senza altro fondamento che l'attribuzione dell'infallibilità alla chiacchiera dei teologi di giornata.  


 Piero Vassallo

venerdì 5 luglio 2013

La nascosta nobiltà dei ribelli romantici

 Di professione critico cinematografico, di vocazione raffinato romanziere e sagace esploratore di storie dimenticate e/o censurate, l'imperiese Enzo Natta appartiene all'aristocrazia degli studiosi sgraditi ai severi vigilanti sulla addomesticata memoria storica.
 Nel libro "Ombre sul sole", pubblicato dalla casa editrice Tabula Fati, attiva nella irriducibile Chieti dei Solfanelli, Natta propone tre profili di personaggi in disordine sfacciato davanti all'intoccabile  vulgata: Giuseppe Bottai, Folco Lulli e Frédéric Rossif.
 Bottai, geniale magister nella Normale di Pisa, autore di una riforma scolastica che allontanò l'ombra del neo idealismo dalla scuola italiana, fondatore e animatore delle ruggenti riviste Primato e Abc, ultimamente pensatore del quale la destra italiana fu orfana disgraziata, fino all'allestimento della comica finale a Montecarlo e il successivo rovescio nel Nulla.
 Co-redattore dell'ordine del giorno di Dino Grandi, che nella notte fra il 24 e il 25 luglio del 1943, provocò la caduta del regime fascista  e condannato a morte dal tribunale speciale di Verona nel gennaio del 1944, Bottai sfuggì alla polizia tedesca grazie all'accoglienza in istituti religiosi romani, allertati tempestivamente dal cardinale Giuseppe Pizzardo e da monsignor Giovanni Battista Montini.
 Con la divisa della Legione straniera, indossata per sfuggire al proprio passato, Bottai, ex ardito nella Grande Guerra, ex colonnello dell'esercito combattente contro la Grecia, nel 1944 fu protagonista di una singolare impresa di guerra in Provenza. 
 Natta ricostruisce la censurata avventura dell'ex gerarca: "Bottai si arruolò nella Legione a Sidi bel-Abès, in Algeria. Aveva quarantanove anni, già troppi per la Legione. Ne dichiarò quarantaquattro e il furiere commentò: Come d'abitudine ci si ringiovanisce".
 Bottai fu arruolato con il nome di Andrea Battaglia e assegnato alle mitragliatrici piazzate su una rischiosa vettura da ricognizione. I legionari, visto che il nuovo commilitone, teneva nello zaino tre libri lo soprannominato le professeur.
 Nel settembre del 1944 il legionario/professeur Andrea Battaglia partecipò allo sbarco dei francesi in Provenza. I demotivati territoriali tedeschi opposero una debole resistenza. Di conseguenza l'Alto Comando francese decise di agire in profondità mediante incursioni delle veloci pattuglie motorizzate. L'incarico esplorativo fu affidato a un commando di quaranta legionari. Il sedicente Battaglia faceva parte del gruppo.
 Il comandante della missione, incerto sul da fare, consultò Battaglia, che gli suggerì una efficace tattica. In esecuzione della tattica dettata dal professuer "il commando avanza senza difficoltà, penetrando sempre più in profondità nel cuore del territorio occupato dal nemico e liberando un paese dopo l'altro".
 Se non che lo straordinario successo ottenuto da quaranta legionari istruiti da un ex gerarca fascista turbò l'Alto Comando francese. Di conseguenza fu emanato l'ordine di di cessare l'avanzata legionaria. Bottai allora suggerì di continuare l'avanzata e di fingere la mancata recezione degli ordini lanciati dalla radio del Comando.
 Imposto da gelosia, superbia e orgoglio frustrato, il segreto sul successo dei legionari fu rotto da un commilitone di Bottai che si confessò a Frédéric Rossif e attraverso lui a Enzo Natta.

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 Prima di diventare attore famoso, eroe contro fu anche il fiorentino Folco Lulli. Reduce dalla guerra d'Etiopia e deluso dall'inefficienza dell'esercito italiano, dopo l'otto settembre del 1943 si arruolò, a dispetto della sua contraria fede politica, in una formazione partigiana costituita da monarchici.
 Lulli fu amico di Enzo Natta, il quale raccolse le sue straordinarie memorie. Esemplare la sua fuga da un campo di concentramento tedesco, un episodio rievocato dal suo biografo: "A ridosso delle prime linee, il campo di lavoro in cui si trovava Folco Lulli avvertiva sempre più vicina la presenza dei russi. Fu così che nella notte del Natale del 1944, approfittando del momentaneo calo di sorveglianza il futuro attore riuscì ad eclissarsi assieme a un centinaio di compagni di sventura e a dirigersi verso le linee sovietiche. Affondando nella neve, con un vento gelido che tagliava la faccia, Folco Lullipercorse chilometri e chilometri portando sulle spalle un compagno di prigionia che aveva perso i sensi".
 Raggiunta la linea sovietica Lulli riuscì a convincere gli ufficiali dell'Armata rossa che lo arruolarono insieme con gli altri prigionieri italiani, che, per salvarsi, avevano inventato una conveniente adesione all'ideologia comunista. La bravura di Lulli fu tale che alla fine della guerra fu congedato con il grado di generale dell'Armata rossa.

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 Fréderic Russif, nipote della Regina Elena, la moglie di Vittorio Emanuele III, fu combattente nella Legione straniera prima che raffinato regista cinematografico e televisivo.
 Enzo Natta lo conobbe nella primavere del 1987, durante le riprese di un documentario girato per conto della Rai e dell'Istituto Luce e dedicato al pittore bolognese Giorgio Morandi: "Le cose con il documentario su Morandi andavano per le lunghe e fu allora che per riempire tempi vuoti feci una luna lunga intervista a Rossif".
 Natta conobbe in quella occasione una vicenda segreta della seconda guerra mondiale: l'azione di un commando legionario (del quale faceva parte Russif) che spianò la strada agli alleati neutralizzando il treno sul quale i tedeschi avevano impiantato un micidiale cannone. L'impresa  straordinaria sventò il piano tedesco inteso alla cattura di Pio XII, ma non fu registrata dagli storici.

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 Le complessa storia della seconda guerra mondiale è in qualche misura oscurata dalla censura dei vincitori e dalle interpretazioni degli storici conformisti. Le vicende svelate dall'ironico revisionismo di Enzo Natta attraverso un viaggio nei paradossi delle scelte di campo, costituiscono un opportuno incentivo e un interessante contributo alla curiosità dei lettori refrattari alla storiogafia contemplante una sola indefettibile risma di credenti, di eroi, di buoni, di vincitori e di onesti.


Piero Vassallo

giovedì 4 luglio 2013

CRONACA DI UN VIAGGIO TRA “INCUBO” E “TEOLOGIA” (di Paolo Pasqualucci)


Presentazione di:  PIERO VASSALLO, Un treno nella notte filosofante, Solfanelli, 2013, pp. 195, E. 15.

Dando brillante saggio delle sue ampiamente sospettate capacità letterarie, Piero Vassallo, rinverdendo il nobile genere letterario del romanzo filosofico, ci offre “un viaggio satirico/nostalgico” nella confusa visione del mondo dei “perdenti” ossia della destra italiana, scomparsa nel nulla e, ciò che più conta, in quella distorta e demenziale dei “vincenti”: del “politicamente corretto” attualmente prevalente.  “Nelle sferzanti caricature – recita la presentazione dell’opera – il lettore attento non avrà difficoltà a riconoscere i protagonisti italiani del concorde delirio in atto tra il fantasma della rivoluzione e la parodia della reazione”. Satira, dunque.  In forma di “cronaca di un viaggo tra incubo e teologia”, come da sottotitolo. 
[L’incubo del Neopensiero] Il viaggio “nella notte filosofante” è dunque un viaggio nell’incubo.   I protagonisti si incontrano per caso in un treno notturno, che viene improvvisamente dirottato e bloccato in una stazioncina fuori mano, in zona rurale e montana.  I viaggiatori vengono sequestrati dalle Entità, che li sottopongono ad un corso di rieducazione-iniziazione alla loro ideologia, il Neopensiero.  Le Entità avrebbero preso il potere durante la notte, anche se  solo in una parte della nazione.  Dopo varie peripezie, il gruppetto dei viaggiatori – uomini e donne – riesce a fuggire dall’incubo, verso la realtà dove governa “l’Imprenditore d’Affori”, uomo nuovo pieno di buone intenzioni anche se il suo programma concreto troppo spesso sembra “ispirato alla canzonetta oggi qui domani là” (p. 175).  Egli rappresenta tuttavia un male sensibilmente minore a petto del dominio del Neopensiero.  In realtà, la vera salvezza viene solo dalla fede (pp. 193-194).  Questa in modo assai succinto la trama dell’opera.  Il protagonista principale, Simeone, accademico nella piena maturità ma non ancora anziano, prende il treno per andare a leggere una conferenza su Arnold Geulincx, filosofo fiammingo del Seicento, cartesiano sfegatato.  Ma il senso vero della conferenza è: “il declino della ragione occidentale”.  Alla stazione lo assalgono ricordi e riflessioni, che preludono a temi essenziali del libro, vertenti sull’implosione e lo sfarfallamento della cultura della destra (tema sul quale Vassallo ha dato negli anni un contributo rigoroso, fondamentale) e sulla crisi della Chiesa cattolica, argomento anch’esso da lui già indagato e qui approfondito.
[Un naufragio totale]  “Lo splendore dei sogni si rovesciava nel grigiore dei risultati. Ma…si profilava la maturità cioè la disposizione a contemplare la vita oltre la raggiante illusione” (p. 9).  Era tempo di bilanci, ormai, non scevri da nostalgie.  La vecchia stazione ottocentesca, grigia sotto la pioggia, che celebrava “con esoterica squisitezza la copula del romanzo gotico con la vertigine babilonese”, con il suo contorno di mendicanti malati e di “disturbati”, gli appare all’improvviso come una sinistra allegoria che “svela il soggiacente disastro”.  Quale?  “L’eclissi della Cristianità, la diserzione dei chierici, la discesa del rito nella farsa, lo scisma universale della cosa pensante, il naufragio del lavoro nella palude bancaria, il fiume del sangue versato dai pacificatori, la catastrofe antropologica, l’impero dei gabellieri insaziabili.  Agli occhi della mente attonita di Simeone apparve un sacerdote olandese, che saliva, travestito da Batman, all’altare improvvisato nella pista del Vaticano II….  La sempiterna, molesta vanità, vanitas vanitatum et omnia vanitas, l’uggia delle cattedre et giacobine et liberali et leniniste et qualunque altra cosa, riapparve nell’estensione lampante di un corpo di vagabondi alla deriva” (pp. 10-11).
Il naufragio di tutto, dunque.  Una delle cause principali “l’eclissi della Cristianità” provocata dalla “diserzione dei chierici” conseguita al Vaticano II, il Concilio “pastorale” che, senza proclamare nuovi dogmi, ha tuttavia rovesciato come un guanto l’immagine stessa della Chiesa Cattolica, della Chiesa visibile.
[L’incubo della Nuova Teologia, che fa rinascere la teosofia, il “Dioniso indiano”]  Ma l’incubo della Nuova Teologia, quella del Neomodernismo che ha invaso la Chiesa visibile dal Concilio sino ad oggi, riappare continuamente durante il “viaggio”, vero e proprio tema di fondo.  Nel vagone ristorante Simeone trova un vecchio compagno degli ideali di gioventù, ora avvocato professionalmente realizzato,  con il quale si inizia “il filosofare”.  Riandando innanzitutto al passato, che è quello dell’ambiente culturale e delle aspirazioni della destra italiana neo e postfascista, ma anche cattolica, nelle sue diverse sfumature, sottoposte ad impietoso vaglio critico.  Non dal punto di vista “democratico”, si capisce, ma da quello dell’intellettuale di destra tornato alla religione dei Padri, al Cattolicesimo fedele alla Tradizione della Chiesa.  Per tal motivo, l’amico avvocato lo accusa di “clericalismo”.  L’avvocato impersona in modo moderato il laicismo di destra.  E come risponde Simeone?
““Cattolico […] Cattolico Hyksos, se posso dire così.  Non clericale.  I clericali sono opportunisti e cleptomani.  Non tutti, voglio dire.  Ma…il mio trasbordo comunque è avvenuto in un periodo difficile per la Chiesa.  Osservatori esterni […]  non potevano valutare la gravità della crisi cattolica, in atto dopo l’ottobre del 1962 [mese d’inizio del Vaticano II].  Gli esclusi vedevano solo la baldoria democristiana.  Simeone, invece, aveva frequentato gli ambienti curiali, dove uomini di sofferta esperienza parlavano di sfacelo.  Simeone si era legato ad ambienti bersagliati dal sarcasmo di una folla intelligente e in perenne fregola.  La stampa a larga tiratura li umiliava con tiri feroci.  Gli assedianti replicavano riversando dotte citazioni greche e latine nelle pagine inarrivabili delle loro riviste […]  Vaticanisti, scolarchi bolognesi, spretati e teologi mittel-europei contestavano l’esagerazione tradizionalista.  Ma la piena del fiume calamitoso, sul quale il giubilante aspersorio dei progressisti versava la spumeggiante acqua della banalità, era davanti a tutti” (pp. 25-26).    E va meditato questo fulminante accostamento tra Giuliano l’Apostata e il Vaticano II:  “L’imperatore era un ellenista intento a ricostruire la sinagoga, in sfida a Gesù Cristo.  A modo suo Giuliano ha anticipato l’ecumenismo del Vaticano II” (p. 46).  Il concetto dardeggia all’interno della discussione nel vagone ristorante (si sono nel frattempo aggiunte altre persone) che raggiunge il suo punto chiave nella critica al falso concetto di tradizione di Julius Evola, al suo mefitico e nello stesso tempo risibile tradizionalismo neopagano, che tanti guasti ha prodotto nell’ambito della destra, soprattutto tra i giovani (pp.  39-47).  Ma Evola è rimasto nel ghetto culturale della destra mentre del suo ispiratore, l’ancor più tenebroso  Guénon – un logorroico ciarlatano erudito, uno che arzigogola su simboli ed “illuminazioni”, che sembra credere nell’esistenza dei teosofici “superiori occulti” nascosti nel Tibet – si è ora appropriata la sinistra del neopensiero, che ne pubblica le opere nelle serie pastello di Adelphi (ivi).  Sono lontani anni luce – sottolineo – i tempi nei quali György Lukács, il famoso filosofo marxista ungherese del secolo scorso, ne La distruzione della ragione poteva passare al setaccio con sprezzante sicumera l’irrazionalismo nel “pensiero borghese”, cominciando  da Schelling per concentrare poi il tiro su Nietzsche.  Non è proprio l’opera omnia di Nietzsche che hanno pubblicato gli intellettuali comunisti fondatori della Adelphi?  Una ben triste parabola discendente, anche se a ben vedere inevitabile, quella che da Nietzsche porta a Guénon e alla teosofia.  Una parabola che ben riflette il dissolversi della Rivoluzione sociale in quella… sessuale.
[Ricordi d’infanzia e di gioventù, purificatori]  Ma il “viaggio” non è solo “filosofico”.   Simeone è assalito anche dalla “nostalgia” ossia da ricordi d’infanzia, che non scadono nel sentimentale, come spesso accade in circostanze del genere, e rappresentano una pausa nel ritmo incalzante della critica e della satira.  Nel ricordo, anche l’autocritica di passati pregiudizi, come nel capitolo intitolato Il ragioniere Brambilla (pp. 115-121).  Tra le più belle del libro sono, a mio parere, le tre paginette e mezzo intitolate Una sognata ascensione all’infanzia (pp. 57-60).  “Ascensione” di chi nel 1945 aveva sì e no dieci o dodici anni e proveniva da una famiglia che si era trovata dalla parte “sbagliata” della guerra civile.  “Dopo i lunghi anni dello sfollamento” in un montuoso retroterra, “Simeone era ritornato alla vita di città.  Contrariamente alla speranza, a lungo coltivata, non accadde nulla di strabiliante.  Le strade urbane erano più larghe, orlate da marciapiedi lastricati e quasi puliti.  Belli i tram, il verde bottiglia, orlato del tricolore, correvano su rotaie scintillanti, ma, nell’afa, l’olio da freni emanava l’odore della formica arrosto.  Terminata la prima corsa nauseante, decise di evitare i tram, per quanto possibile”.   Chi non ricorda quei tram, nelle nostre città, che rinascevano lentamente dopo l’Apocalisse che si era abbattuta sull’Italia nel biennio tremendo del Castigo, della duplice, crudele invasione straniera e della guerra civile?  Quel verde bottiglia che ricordava lo sfavillare degli scarabei?  E quel terribile ed inspiegabile odore sui binari, l’estate?  La città è il luogo-simbolo del difficile ritorno alla pace, nella Nuova Era Democratica.  “Dopo l’ora della cena la gioventù si agitava in una danza sguaiata e funambolica, detta bughi-bughi.  Garrivano le rosse bandiere e quelle a strisce e stelle.  Gli alfieri della licenziosità avanzavano intrepidi.  Le malattie specifiche al seguito.  Si intravvedeva già l’inferno musicale di Theodor Wiesengrund Adorno.  Direttamente dal salotto iniziatico, entrò nella storia d’Italia l’umbratile figura di Ferruccio Parri.  Trasmesso per radio, il discorso del primo ministro spaventò la maggioranza degli italiani, ma il nuovo stile non tardò a diffondersi nella minoranza rivoluzionaria.  La piazza dava infatti segnali inequivacabili di democratica dignità:  quale ringraziamento per gli aiuti alimentari dall’Argentina, austeri cortei democratici gridarono:  “Puttana fascista!”, all’indirizzo di Evita Peron in visita di cortesia” (pp. 58-59).
Qualche tempo dopo, l’occasione di una partita di calcio fra ragazzi, in periferia, riporta Simeone in solitaria passeggiata sulle colline dove era vissuto da sfollato.  “La memoria risaliva con ansia alacre, fra cardi pungenti e erbe assetate”.  Dai ricordi dell’ingrato lavoro dei contadini “montanari ostinati nella valle a gola di lupo”, balza improvvisa l’immagine della “maestra giovane” nella scuola di montagna, che li infiammava raccontando le storie degli eroi italiani: Francesco Ferrucci, Ettore Fieramosca, Giovanni dalle Bande Nere, Veniero, Montecuccoli, gli studenti di Curtatone, via via sino al plumbeo presente del 1944.  Scomparsa improvvisamente nel nulla, la maestra.  Ma si seppe poi che i partigiani comunisti l’avevano messa al muro perché “spia fascista”, un mese prima della fine della guerra.   Era questa l’etichetta infamante che all’epoca si usava per giustificare esecuzioni sommarie e puri e semplici omicidi.  “Improvvisamente l’immagine della maestra lo raggiunse e gli camminò a fianco, persuadendolo a rallentare il passo.  Nevicava e un pallore mortale illuminava il viso della ragazza.  Al tempo della scuola non poteva misurare la bellezza maliosa, che adesso gli faceva battere il cuore infantilmente. “L’uomo non è stato creato per la morte, perciò, in alto, il dolore si estingue.  La neve attutisce i colpi della vita.  La neve è silenziosa, come la memoria dell’eterno”.  Simeone non poteva articolare parola.  I pensieri e le lacrime gli gonfiavano il cuore” (pp. 59-60).
[L’Ultrarivoluzione per restaurare la “Cultura Originale”] Dai ricordi, che si sovrappongono alla discussione sulla crisi dei valori, di colpo nell’Ultrarivoluzione.  Niente sangue e ammazzamenti, almeno all’inizio.  Un sequestro.  Un terzetto di rivoluzionari, indossanti un bracciale con la falce, il martello, la swastika, porta Simeone e i suoi compagni in certe costruzioni (chiamate Collana d’Armonia) vicino ad un vecchio paese, dove cominceranno la loro rieducazione.  Nel paese, pieno di imposto simbolismo rivoluzionario, c’è una statua a Pol-Pot,  “l’ecologico massacratore asiatico”; una piazza dedicata a Wilhelm Reich, lo “psichiatra deragliato”, sessuomane morto pazzo, che farneticava di “energia orgonica”; la Finestra panoramica Gilles Deleuze, etc.  L’insieme dà un’impressione surreale e dadaista.   “Questa notte, prima dello sciopero, c’è stato un cambiamento radicale. […] È in atto un processo di restaurazione della Cultura Originale.  L’Occidente cristiano è al tramonto.  Lo dice la parola stessa, occidente-cadente […] La radio, intanto, ha annunciato che la schiavitù dei consumi è abolita.  Le Entità stanno scrivendo il nuovo codice dei valori.  Per il loro adattamento gli specialisti hanno studiato ogni dettaglio…un programma virtuoso e piacevole.  Oggi stesso ascolteranno la prima lezione di ecologia dura” (p. 67).  Naturalmente Simeone tenta di protestare.  Nascono discussioni.  Un rappresentante delle Entità, così apostrofa Simeone.  “Lei è un caratteristico prodotto del kalî-yuga! Perciò rimane sordo al suono del neo pensiero.  Noi propiziamo il ritorno all’età dell’oro.  Noi la correggeremo, noi la ricreeremo.  La faremo uscire dalla caverna teista, a calci se sarà necessario! Ne parleremo, il tempo per aggiornarla non ci mancherà.  Domani s’inaugura il corso di educazione metapolitica.  Inizieranno i professori Gamballarghi e Ceneretti, che commenteranno la grande opera di Gilles Deleuze, Diventare molteplici” (p. 81).  La Nuova Età è ormai alle porte.  “Le forze reattive saranno eliminate dalla trasmutazione.  L’unione di Dioniso ed Arianna è prossima.  Noi scioglieremo il crampo di tutte le muscolature genitali.  L’uomo guarirà dalla lue monoteista.  Diventerà un’onda nell’oceano divino.  Anche lei si arrenderà alla nostra arte” (ivi).
Comincia la “rieducazione”.  Assistiamo ad un’esposizione in chiave brillantemente satirica dell’ideologia strampalata che sorregge il “politicamente corretto” dominante, il cui scopo ultimo tuttavia non fa per niente ridere, visto che mira a fare degli italiani tanti “scettici illuminati ed integrati” (p. 74).  Tale scopo si può raggiungere solo sradicando del tutto il Cristianesimo dai cuori e dalle menti.  Ma non siamo alla riedizione delle campagne ateistiche della Rivoluzione Francese o dei regimi comunisti di un tempo.  Elemento essenziale della lotta contro la vera religione è lo scatenamento della superbia dell’uomo, per spingerlo (alla maniera degli gnostici) alla rivolta contro l’ordine naturale istituito da Dio.  I sequestrati devono indossare “una tuta color coloniale”, abitare in baracche dal tetto di lamiera, prendere orribili pasti “biologici” in comune serviti da “inservienti scalzi e vestiti d’arcobaleno”, sotto lo sguardo delle Entità o comunque di loro rappresentanti, con le relative “omelie” di “professori” all’uopo designati; sorbirsi “seminari” che illustrano il neopensiero.
[Apologia della Trasgressione]  Il “sovrano della mensa” sta appollaiato su di un sedile rialzato dal quale, circondato da ospiti d’onore, controlla la comunistica refezione:  un piccolo uomo non più giovane, dal viso scarno, cupo e distante, coltissimo e celebre intellettuale, critico letterario e famoso editore.  Il tutto sembra una sinistra parodia dei pasti in comune nei conventi di un tempo.  Le letture fatte ad alta voce durante la refezione non sono tratte dai Vangeli ma dai testi di Nietzsche, mentre “l’omelia” di un iniziato, che saluta i nuovi ospiti, esalta “le nozze di Nomos e Adikia” ossia l’incontro degli opposti e contrari:  della Norma e della sua Trasgressione, alla maniera degli gnostici antichi.  “Ora sappiamo che qualsiasi separatezza delle due dimensioni è dia-bolica.  Il segreto dei nostri cuori muove verso l’accogliente donarsi, che accende il fuoco della promessa.  I nostri cuori hanno formato un arcipelago che sovrasta le tempeste cristiane e naviga verso l’eterno…”(p. 88).  I compagni di mensa già residenti nel centro di rieducazione svelano ai nuovi arrivati le fonti della filosofia che ispira il centro stesso:  le ricette della pessima cucina loro somministrata sono state scritte nel XVIII secolo dall’abate Deschamps, uno dei teorici del comunismo utopico, nemico del matrimonio.  “Affinché nessuno potesse godere i favori esclusivi di una bella, concepì un regolamento che rendeva obbligatorio esercitare al buio il comunismo sessuale e/o bisessuale” (p. 90).  E difatti la cerimonia di iniziazione (per soli volontari, peraltro sempre numerosi) che avrà luogo in forme farsesche e granguignolesche quale momento clou dell’educazione al nuovo pensiero e stile di vita, si terrà in modo simile, riproponendo “l’incubo” degli “usi deplorati dall’Alessandrino negli Stromata, gli usi del paganesimo più decadente (p.93; pp. 153-159).
   [Fonti del Neopensiero]  Al di là delle allegorie e dei simboli, degli eventi simbolici che popolano con indubbia efficacia descrittiva e polemica l’incubo, che vive di dottrine e stati d’animo e non di fatti realmente accaduti (p. 187), è necessario (anche senza poter esaurire i molteplici spunti presenti nel viaggio) presentare al lettore le principali dottrine che, in un apparente disordine  vengono a costituire il mosaico del neopensiero.  Innanzitutto, l’utopismo a sfondo materialista e sensista del Settecento illuminista, con la sua intrinseca, volterriana irreligiosità.  Poi, l’immancabile Marcuse, che “ha riciclato il delirio di Nietzsche coprendolo con un’etichetta di sinistra” (p. 91).   Marx, in quanto “posseduto dall’ebrezza del nulla” (ivi), ovvero il nucleo nichilista e distruttivo del marxismo, dottrina che esalta l’odio di classe, la violenza come metodo di lotta e di governo, nemica acerrima del matrimonio, della famiglia, della religione, di una visione normale della società, che proclama destinata a dissolversi nell’impossibile società senza classi del futuro; nucleo nascosto in una filosofia della storia apparentemente positiva, perché auspica il riscatto delle classi più umili e si mostra ottimista sulla “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità. La teosofia, impersonata dal mito del Tibet (“la tecnica tibetana trasporta al di là delle regole morali, perfino al di là della fantasia più accesa”, p. 93), e quindi dal buddismo tantrico, quello della “magia sessuale”, dal ripescaggio di autori come Guénon, con i suoi vaneggiamenti sull’uomo che si ricrea liberandosi della fede nel vero Dio con l’appropriarsi una nascosta sapienza (orientale) originaria, supposta madre di tutte le religioni positive, sapienza che in realtà non è mai esistita, se non nelle menti di gnostici, massoni, occultisti, venditori ambulanti di ogni sorta di esoterismo.
[La ribellione “germanica” contro Dio] Ma con queste ultime pseudofilosofie e laiche pseudoreligioni siamo già al momento terminale dell’involuzione che conduce al neopensiero.  Il contributo principale sarebbe stato quello offerto dal “pensiero germanico”.  Inteso come?  Come quel pensiero che ha posto, più di altri, l’esigenza della necessità della libertà dell’uomo di fronte a Dio (p. 99).  Ora, questa “libertà” piena di superbia e spirito luciferino, viene esposta (nel seminario “psicoattivo” organizzato dal prof. Gamballarghi, noto “psicopompo” al servizio delle Entità) in modo  solo apparentemente bizzarro, cioè attraverso l’opera di Wagner. Il quale “fa dire a Wotan che ‘è ridicolo asservire i servi del destino:  divino sarebbe creare un uomo libero, che solamente compisse quanto io voglio’.  Ecco svelati i protagonisti della commedia teologica messa in scena dagli autori dell’Antico Testamento e dai metafisici:  un dio che vuole obbedienza e un uomo che può obbedirgli o disobbedirgli […]  Avendo intuito la radice dell’inganno, Marcione [l’eretico padre degli gnostici e dell’antisemitismo] postulava una divinità silente e abissale, cioè opposta al dio che ha dettato la legge a Mosé.  Solitamente non ci pensiamo, ma la civiltà cristiana è nata dall’inganno svelato da Marcione e dalla divina diade Bakunin-Wagner.  La finalità dei nostri seminari è per l’appunto liberarvi dall’inganno teologico […] Le leggi stesse con le quali un dio afferma la sua sovranità, lo traducono in prigionia della libertà concessa alla creatura […] Wotan vuole che la creatura libera voglia liberamente quello che lui, Wotan, vuole tassativamente e infallibilmente […] L’eventuale rifiuto di obbedire abolirebbe la trascendenza degli dèi” (pp. 99-100).  Abolirebbe in realtà gli dèi e la religione stessa, la sua necessità:  “Wotan, gli dèi e i semidei del Walhalla si dissolvono per l’eternità, schiantati dall’ignoranza invincibile e santa di Sigfrido” (p. 102).  Wagner si incontrerebbe allora con Spinoza.  Continua a spiegare lo psicopompo:  “il cammino della libertà spirituale comincia quando si coglie l’ispirazione marcionita (dove marcionita significa anticattolica) della dottrina wagneriana.  Il problema dell’umanità contemporanea è capire che il bene e il male sono destini.  Ovvero che il male consiste nell’essere. In questo senso è decisivo l’audace accostamento, osato dall’editor mirabilis Rosati, della sensualità pagana di Wagner all’irenismo etico di Spinoza […]  Spinoza aveva dimostrato che è sufficiente un atto del pensiero per spezzare le catene della dipendenza dal dio.  Questa è la grande scoperta dello spinozismo e del wagnerismo:  il fato esclude  che la libertà dell’uomo conosca l’ineffabile volontà divina, dunque postula una libertà ignara, e perciò impossibilitata sia a obbedire che a disobbedire […] Tramontati gli dèi, l’uomo si ritrova nella perfetta solitudine e nella gioiosa indifferenza al bene e al male.  L’orizzonte decreazionista ultimamente disegnato da Simone Weil ”, in altro luogo del romanzo definita con rara efficacia “pitonessa neocatara”(pp. 100-102; p. 85).
[La scomparsa dei “problemi morali” dal nostro orizzonte]  Ma come può l’uomo, dotato da Dio del ben dell’intelletto, non rendersi conto dell’esistenza di una volontà divina le cui leggi devono esser comunque rispettate?  E il mondo, con tutto il suo meraviglioso ordine, si è forse creato da solo?  Non esiste una morale naturale, iscritta nei nostri cuori?  Il peccato originale ha indebolito la nostra mente, rendendola succube delle passioni, non l’ha distrutta.  Volendo, siamo sempre capaci di ragionare.  Ma i sequestrati cercano invano di contraddire lo psicopompo, un torrente in piena, che alla fine crede di metter tutti a tacere sentenziando:  “Ma perché ci perdiamo in sciocchezze?  I problemi morali sono caduti insieme con gli errori della metafisica” (p. 102).   Dalla singolare dottrina del neopensiero esce comunque una constatazione che risponde al vero, nel senso che oggi (e da tempo) non si parla più di “problemi morali”.  Vassallo coglie qui un punto essenziale. Dalle nostre università non sono forse di fatto scomparsi i corsi di “filosofia morale”?  Erano corsi dignitosi, a volte di altissimo livello, che fornivano un quadro esauriente dello sviluppo del pensiero etico, dai Greci in poi.  L’etica, quella vera, è inseparabile dalla religione e dalla metafisica.  Scomparse l’una e l’altra, come può mantenersi un’etica?  Non se ne parla nemmeno più, è evidente.  Anche se, a ben vedere, non si tratta solo di una carenza speculativa e teologica.  Il discorso sui “problemi morali” non può più farsi anche a causa del femminismo, del quale il romanzo (senza prenderlo di petto) evoca tuttavia i presupposti “culturali”, disseminati nelle “omelie” del neopensiero:  l’esaltazione dell’androginia, dell’indistinzione erotica tra il maschio e la femmina, di Apollo e Dioniso in quanto “divinità bisessuate”; il disprezzo della fecondità e quindi del matrimonio, articolato nell’esegesi di oscure e decadenti mitologie orientali (pp. 107-114).  Il femminismo, infatti, ha reso trasgressivi (il termine è usato oggi con compiacimento) i costumi delle donne della nostra epoca, di una parte di loro talmente ampia da sembrare netta maggioranza.  Riaprire il discorso sui “problemi morali” vorrebbe dire (suscitando violente reazioni) esser costretti, tra l’altro, a sottolineare la scomparsa di valori fondamentali della femminilità, intesa (come dev’essere) in senso etico e non meramente estetico: mi riferisco all’assenza evidente di modestia e pudore che, ormai da diversi anni, caratterizza il comportamento di molte donne sin dall’età giovanile.  Come dimenticare le studentesse che nei nutriti cortei invocanti il “diritto” ad abortire o celebranti la “giornata della donna”, riunivano ritmicamente le mani sopra la testa a mimare oscenamente la forma della vulva, che gridavano per l’appunto di voler “gestire” come piaceva a loro? E che dire della singolare ambizione che spinge oggi tante donne a disprezzare il matrimonio, la famiglia e la maternità, per poter competere con gli uomini in tutti i campi, al fine di dominare nelle professioni e nella politica attiva sì da prender un domani nelle proprie mani il governo degli Stati?
[Padre Sergio, il buon sacerdote]  La denuncia del “pensiero germanico” quale protagonista  principale (certo non il solo, bisogna ricordare) dell’attuale decadenza, viene ripresa, nella parte finale del libro, nei ragionamenti affidati a Padre Sergio, figura del sacerdote rimasto fedele alla Tradizione della Chiesa, a cominciare dalla Messa di rito romano antico, e per questo perseguitato e ridotto allo stato laicale.  Sono molto belle le pagine nelle quali viene ricostruita la sua vocazione sacerdotale, fanno rivivere la Chiesa cattolica della nostra infanzia, non ancora inquinata dagli “aggiornamenti” alla modernità (Una vocazione d’altri tempi, pp. 129-135).  Padre Sergio vive in semiclandestinità presso due anziane e distinte sorelle reazionarie, tollerate dalle Entità (pp. 123-127).  Le autorità religiose hanno, infatti, instaurato un “dialogo” anche con le anticristiane Entità.  L’Ordinario competente riteneva “Rosati un non credente aperto al dialogo e alla ricerca della verità.  Al funerale della mamma fu visto piangere […]  Egli mi confidò che stava addirittura pensando di creare una speciale cattedra di testimonianza da affidare a Rosati…la cattedra dei credenti atei” (p. 147).  La parodia della bizzarra e sconclusionata “cattedra dei non credenti” allestita dal defunto cardinale C.M. Martini è efficacissima.  E Padre Sergio non esita a mettere il dito sulla piaga:  “Il malessere ha messo radici nella nostra Chiesa.  Pio XII aveva indicato il pericolo, nella Humani generis.  Troppo tardi.  Intorno a lui molti, e non dico i peggiori, erano già preda delle suggestioni[…] Sua eccellenza ritiene che criticare esaspera i giovani e tradisce la loro sete di giustizia. Forse è per questo che mi hanno destituito e confinato qui:  irritavo i giovani, frenavo i loro impulsi generosi.  La paura, il fumo di Satana, fa apparire gli inesistenti lati buoni delle Entità.  Questi sono i pastori pigolanti al cospetto di un mondo che avrebbe bisogno di udire ruggiti” (pp. 147-148).  È il pigolare e lo squittire di un cattolicesimo che sembra sul punto di esalare supinamente l’ultimo respiro, se non sapessimo che il Capo effettivo della Chiesa è Nostro Signore, il quale saprà ben Lui come intervenire, al momento opportuno.
      [Heidegger pensatore “germanico”, come Heine]  E proprio Heidegger, in una lettera del 1933, riprendendo il tema centrale della rivoluzione conservatrice, “dichiara di voler condurre la cultura nazionalsocialista alla lotta contro lo spirito morente del cristianesimo” (p. 149).  Heidegger non è forse la figura più rappresentativa del “pensiero germanico”?  Ma è giusto dire “germanico” invece di “tedesco”?  Il termine sembra in realtà appropriato poiché indica l’emergere nel pensiero tedesco della  componente “germanica”, così come appare ad esempio nell’invocazione di Heinrich Heine, raffinato poeta e saggista del primo Ottocento, mirante a togliere gli dèi dei Germani (e dell’antichità classica) dall’esilio nel quale li aveva cacciati il cristianesimo trionfante:  toglierli per riproporli contro lo stesso cristianesimo.  Nella sua battaglia contro l’odiata religione, Heine voleva utilizzare in senso culturalmente rivoluzionario “le potenze nascoste del paganesimo classico e germanico”(Reimar Klein).  L’israelita Heine incautamente si adoperava ad esorcizzare gli spiriti tenebrosi della foresta nibelungica.  L’ispirazione “germanica” e quindi irrazionale è evidente in Heidegger, filtrata attraverso Hölderlin e Nietzsche.  “Heidegger – continua Padre Sergio – a chi sa leggerlo attraverso Hölderlin, si rivela l’autore di una mistica vaneggiante. Concepito l’essere primordiale come il Nulla dall’idealismo, immagina la creazione come caduta degli enti nell’inautentico, dove si squadernano le situazioni dell’inganno e della vanità […]  L’imperativo vivere per la morte, significa anzitutto che si deve vivere nel disordine.  Di qui la biografia di Heidegger [e di Sartre e Simone De Beauvoir, aggiungo, la celebre “coppia aperta” che lo considerava un maestro]. L’ontologia negativa genera il culto degli eroi negativi e dei popoli viziosi” (pp. 149-150).  Ma bisogna riaffermare la verità: “Dio è l’ipsum esse”.  Non è l’indifferenziato divenire. Né il Tutto. Né può concepirsi la “morte di Dio”, idea a dir poco ridicola.  “Importante è uscire – dice nelle pagine finali un altro personaggio positivo del libro – dal dilemma dell’imbroglione tedesco in braghe alla zuava:  perché l’essere piuttosto che il nulla”(p. 183).  Alla mortifera spiritualità di Heidegger, orientata verso la morte e il nulla, bisogna contrapporre, afferma audacemente (ma giustamente) Vassallo, la cattolica Edith Stein, “il più luminoso spirito della Germania moderna, che parla di coloro che l’azione santifica [in senso cristiano] strappandoli dalla comunità degli uomini cosiddetti naturalmente ben pensanti” (p. 184).
[L’irriverenza di Vassallo è giustificata] Ma non avrà esagerato Vassallo con l’irriverenza della sua satira, che comunque va sempre a colpire concetti e stili di vita ben precisi, bersagli ben difesi?  Heidegger, considerato ancor oggi il più grande pensatore del XX secolo, non ha forse analizzato in profondità i meandri esistenziali dell’uomo contemporaneo, riscrivendo l’impianto stesso della metafisica, delle “categorie”?  Il fatto è che, nonostante la profondità di certe sue analisi, tutto il suo discorso sembra viziato da un incredibile paradosso, quello di voler dimostrare che “il Nulla è qui”, contro il Dio creatore.  Pertanto, il suo discorso teoretico si avvita su se stesso, avendo bisogno di una terminologia che esprima l’inesprimibile e l’indimostrabile, ossia che “il Nulla è qui”, terminologia fatalmente intrisa di neologismi, alcuni dei quali del tutto incomprensibili persino per i tedeschi.  Ma la montagna partorisce l’inevitabile topolino poiché la dimostrazione dell’esistenza del Nulla viene alla fine trovata nella sensazione del timor panico, dell’incontrollabile smarrimento esistenziale; nel timore, nell’angoscia che spesso senza causa affliggono gli uomini nella loro “cura” quotidiana: tutti stati d’animo che presuppongono per l’appunto l’essere, dimostrando essi con la loro stessa esistenza dentro l’animo nostro che il Nulla non esiste.
Non esagera quindi Vassallo, a parte (a volte) qualche sberleffo di troppo.  E nemmeno quando sembra mancare di irriverenza nei confronti della scienza contemporanea.  “La prossima lezione si terrà domani alle ore sei in punto.  Alla luce della nuova fisica, che osserva il pallone entrare in porta prima che il calcio sia sferrato, il chiarissimo prof. Idro Lapo Ceneretti confuterà il principio di causalità” (p.104).  In effetti, non mancano di certo tra scienziati e filosofi della scienza le elucubrazioni sull’inversione del principio di causalità nell’ambito degli eventi fisici o sull’inesistenza del tempo.  Si tratta di speculazioni che riflettono, in modo a volte per l’appunto bislacco, la crisi nella quale è caduta la fisica da quando, penetrando nel mondo subatomico è giunta a scoperchiare il sostrato della materia, non riuscendo più ad applicarvi le categorie della scienza classica (di Galileo, di Newton) fondate sul senso comune e quindi sul principio di causalità. 
[Leopardi però non c’entra con il neopensiero]  Nell’includere anche Leopardi nella filosofia dello “odio gnostico contro la vita” a causa del suo desolato pessimismo (p. 150), mi sembra, invece, che Vassallo abbia esagerato.  Non direi proprio che il pessimismo di Leopardi esprima lo spirito di ribellione contro Dio e il desiderio di rovesciare tutti i valori che si riscontra nel Nichilismo contemporaneo, del quale il Neopensiero è l’ultima incarnazione. In Leopardi, come sappiamo, v’è una nota del tutto personale: l’infelicità di un individuo piccolo, storto, gobbo, malaticcio, che le donne non degnavano di uno sguardo. Leopardi soffriva anche del clima opprimente dell’Italia della Restaurazione. Non bisogna certamente lasciarsi sedurre dal pessimismo leopardiano che, nella sua radicalità, è del tutto negativo, e inclina a far perdere la fede.  Ma è vissuto dal poeta come uno stato d’animo provocato dalla natura matrigna, che si deve subire, e non si muta in ribellione verso Dio. Anzi gli ispira profonde e poetiche riflessioni sulla caducità delle passioni e delle vicende umane; sulla vanità e falsità delle religioni secolari:  gli ispira insomma la condanna anticipata di tutto ciò che al neopensiero sembra positivo.
La mia è comunque una critica su di un aspetto minore dell’opera.  Che resta validissima, nella sua coraggiosa e più che fondata polemica, per di più letterariamente pregevole, contro il “politicamente corretto” che ci opprime.

Paolo Pasqualucci


giovedì 27 giugno 2013

Acclamazioni neodestre al radical chic

Dal nido delle aquile cocchiere

Acclamazioni neodestre al radical chic

 Dalla lapide massiccia, che copre la neodestra finiana e bocchiniana, fanno capolino, in ordine sparso e litigante, micro associazioni di attivisti effervescenti e gruppuscoli di pensatori domenicali, radunati in vista di un'urgente rifondazione del partito radical-fascistottardo.
 Aspiranti alla corsa nella golosa arena dell'insignificanza, gli umbratili replicanti sono tormentati da un estro ecumenico, che li stordisce prima di trascinarli all'imitazione del vaneggiamento che soggiace al radical chic e all'orazione strepitosa sugli incensati palcoscenici del pensiero bicamerale, in feroce guerra contro il fascista Aristotele.
 Di qui l'obbligo di demistificare il minaccioso progetto della restaurazione finiana-bocchiniana e l'impegno a recidere le tossiche radici di un programma concepito da replicanti, che intendono svigorire e umiliare la tradizione italiana prima di sottometterla al loro delirio.
 Ora è necessario rammentare che il primo atto dell'inquinamento a destra si compì nel lontano marzo del 1974, quando una temeraria sfida al principio di identità fu suggerita ai missini da Alain de Benoist, il banditore francese della rivoluzione conservatrice.
 De Benoist era stato convocato in Roma da Armando Plebe, al fine di aggredire e capovolgere i (fino ad allora) indeclinabili e intatti capisaldi della detestata tradizione e del pensiero normale.
 L'oratoria di De Benoist toccò il cuore del disagio in circolazione fra i giovani cavalcatori di tigri evoliane e i delusi dall'inconcludente moderatismo comiziale dell'oratore Giorgio Almirante.
 La giovanile insoddisfazione diede ali al volo dei militanti nel circolo Onan & Thanatos, costituito da avanguardisti ribelli ma destinati alla preparazione della comica finale messa in scena dagli eredi di Almirante.
 Per risalire alla fonte della disfatta occorre rammentare che, nel corso della surreale radunata plebaica del 1974, uno sbigottito e spaventato Francisco Elias de Tejada rammentò agli astanti che il marchingegno esibito e lodato dal divulgatore francese era stato inventato dal tedesco Arthur Moeller va der Bruck, un interprete dilettante e temerario di Hegel.
 Finalità della rivoluzione conservatrice era, infatti, il trascinamento in politica delle coppie di opposti - Dio e anti-Dio, affermazione e negazione, bene e male, felicità e dolore, essere e nulla, azione e reazione - uniti in matrimonio nell'alto cielo dell'irrealismo hegeliano.
 Se non che, sottratto al firmamento in cui sono consentite e tollerate le dialettiche acrobazie e fatto precipitare nel rozzo mondo della politica in carne e ossa, il matrimoniale pensiero di Hegel si comportò come l'albatro di Baudelaire e barcollò ridicolmente.
 L'influsso della dottrina di Moeller van der Bruck fu pertanto circoscritta all'area degli intellettuali curiosi e avventurosi e dei politicanti deboli di pensiero.
 La trionfale apparizione sulla scena tedesca di un apparato politico conforme al sogno dei conservatori rivoluzionari - il partito nazionalsocialista - destò giustificato allarme e fece arretrare i più celebri sostenitori del progetto di Moeller van der Bruck, gli scrittori Ernst Von Salomon, Ernst Junger, Thomas Mann, Stefan George, Oswald Spengler.
 I residenti nel fratto orfanotrofio di Fini & Bocchino, probabilmente, ignorano che la rivoluzione conservatrice, sconfitta a Berlino nel maggio del 1945, si era già riversata nel protetto contenitore francofortese [1], una scuola acrobatica, allestita da acerrimi e indiscussi nemici di Hitler, che sventolavano la bandiera neopagana e gnostica dello hitlerismo.
 E' credibile che l'affinità francofortese fosse sconosciuta anche ai volonterosi precursori neodestri, ad esempio al nomade ideologizzante Jean Thiriart [2], che suggerì a Dominique Venner, la stesura di un manifesto neo-nazionalista ispirato al "Che fare?" di Lenin.
 Inconsapevole e incolore imitazione del pensiero francofortese, la neodestra francese stabilì il suo fondamento nel disprezzo del Creatore e nel rifiuto della tradizione cattolica, sul conto della quale Venner rovesciò una rumorosa e grottesca sentenza: "Derrière une façade inchangée, il y a le néant. ... La société traditionelle est un cadavre refroidi dont les oripeaux sont encore utilisé par le nouveaux maitres. Tant pis si cela est difficile à entendre, il faut etre lucide".
 Sulla strada dell'avversione chic al Cattolicesimo la neodestra francese incontrò il pederasta dichiarato e festante Pierre Gripari (1925-1990), il quale, si legge nella rivista "Le sel de la terre", "multiplie les attaques antichretiennes et antijuives, notamment dans son petit ouvrage "Le devoir de blaspheme", que la Nuovelle Droite mettra un grand zèle à réediter e diffuser".
 Bizzarra e per certi versi spassosa è la tesi del neodestro Gilles Fournier, poligrafo di stretta osservanza positivista, secondo cui la (detestata) metafisica ebbe origine in una particolare zona del globo terrestre: l'area afro-orientale, che va dal Maghreb al golfo del Bengala.
 L'intrepidezza di Fournier avanza fino al punto di affermare, in tutta tranquillità, che la filosofia fu il prodotto di un trauma psichico subito da uomini di razza inferiore (i meticci) al cospetto degli ariani: "la métaphisique est née du choc psycologique que subirent ces métis lors de l'invasion indo-européenns".
 Il disinvolto pregiudizio positivista del neodestro comandò, pertanto, l'aggiramento dell'ovvia, consolidata verità intorno all'origine greca (ossia indo-europea) della metafisica.
 Di qui un acrobatico volteggio storico-linguistico: il vocabolario dei vinti, camiti e semiti, non era adatto ad esprimere i concetti della metafisica, ma la nobile e ricca lingua d'Omero e di Eraclito offrì agli inferiori un adeguato strumento d'espressione.
 Il risultato di tale ibridazione, secondo Fournier contro natura, fu un meticciato filosofante, "un système batard, à mi-chemin entre le psychisme magico-religieux et l'esprit scientifique: l'aristotelismo et sono sous produit, la scolastique thomiste".
 Di bizzarria in bizzarria la società neodestra approdò infine alla definizione di società finalizzata allo studio e alla propaganda della metapolitica, una fumosa scienza generata dalla rilettura e dalla riscrittura della c. d. concezione europea del mondo.
 Per avvalorare il loro fantastico programma i neodestri sfoderarono un vecchio arnese del neopaganesimo e del neoliberalismo, il poligrafo Louis Rougier (1889-1982).
 Geoffroy Daubuis ha dimostrato che il pensiero di Rougier si può riassumere in due assiomi: l'immotivato rifiuto di ammettere l'esistenza di realtà che oltrepassano l'esperienza sensibile (empirismo) e la drastica negazione del soprannaturale (naturalismo).
 Il contributo scientifico di Rougier tuttavia si ridusse alla formulazione di un'avventurosa tesi su San Tommaso d'Aquino traditore dell'ariano Aristotele. Un'opinione, quella dell'incensato Rougier, sostenuta da notizie scopiazzate e deformate dalla mancanza di una seria preparazione: "l'ouvrage [di Rougier] c'est une érudition en trompe l'oeil. Rougier s'est contenté de copier par paragraphes entiers les ouvrages des specialistes".
 Uno studioso autentico, il professore Augustin Mansion (1882-1966), infatti, ha dimostrato che l'opera di Rougier è un coacervo di fraintendimenti, di argomenti arbitrariamente dedotti da testi che recitano l'opposto, di storpiature di termini filosofici, e di ridicoli capovolgimenti delle sentenze di Aristotele. Per l'assenza di serie fonti scientifiche il destino della neodestra era diventare un arnese della scolastica post-moderna. La mosca cocchiera del partito radicale di massa.
 Uno strumento tanto utile - si pensi al soccorso prestato dallo scismatico Fini al disordine intellettuale e morale - quanto disprezzato e tenuto a distanza a causa del pregresso odore di fascismo.
 In ultima analisi la figura di un movimento antitetico alla storia nazionale, la parodia dell'avanguardia.

Piero Vassallo




[1]             L'ispiratore dell'ideologia francofortese, Walter Benjamin, (1892-1940) sosteneva che i nazisti avevano rubato agli ebrei apostati (e comunisti) l'avversione al Dio dell'Antico Testamento e perciò promuoveva la fondazione di una sinistra nuova, capace di riappropriarsi della verità abusata dal nemico tedesco. Dal tale progetto ebbe inizio la trasformazione del partito comunista in partito radicale di massa.
[2]             Nella biografia di Thiriart (1922-1992) si può contemplare una metafora del pensiero neodestro: in gioventù militante comunista, durante la II Guerra mondiale Thiriart aderì all'associazione "Amis du Gran Reich Allemand", infine collaborò con l'Oas. Al riguardo cfr.: Geoffroy Daubuis, "La Nouvelle Droite, ses pompes et ses oeuvres D'Europe Action (1963) à la NHR (2002), in "Le sel de la terre", n. 60, Printemps 2007.

sabato 22 giugno 2013

Idee per il rinnovamento della politica italiana dopo il moderno

L'eredità di Luigi Sturzo

Idee per il rinnovamento della politica italiana dopo il moderno

 Nei giorni segnati dal verdetto elettorale, che ha frantumato e dissolto gli equivoci intorno alla destra polifrenica, esce dai torchi intrepidi di Marco Solfanelli "I fondamenti della filosofia politica di Luigi Sturzo", pregevole saggio di Giulio Alfano, docente di Filosofia politica e di Etica politica nell'Università Lateranense.
 Il testo di Alfano inaugura tempestivamente il dibattito sulle fonti di un pensiero politico adeguato alla tradizione italiana e perciò capace di ristabilire la giustizia cui aspira il popolo del disagio economico e dell'alienazione sociale.
 L'autore possiede in grado eminente le doti personali e le conoscenze necessarie a tracciare un cammino indirizzato alla rinascita della politica d'ispirazione cristiana e di indirizzo popolare: la salda fede in Dio, l'eccezionale padronanza della letteratura politologica, l'equilibrio nel giudicare i fatti della storia, la preziosa memoria delle testimonianze udite durante la frequentazione di protagonisti della recente storia cattolica, quali, ad esempio, il cardinale Angelini, e i professori Luigi Gedda, Aldo Moro, Raimondo Spiazzi, Antonio Livi, Francesco Mercadante.  
 Finalità della riflessione proposta da Alfano è la riforma della cultura politica "che fa dei partiti ideologici un sistema di diseguali ove il diverso tenore di vita dei dirigenti porta a un loro imborghesimento e a un allontanamento dalla base, con la conseguente difficoltà a comprendere e rappresentare le esigenze di questi ultimi".
 Il risultato di tale anomalia è la trasformazione dei partiti in partiti pigliatutto, organizzazioni autoreferenziali, nelle quali i vantaggi della casta sono regolarmente anteposti al bene comune.
 La degenerazione partitocratica, peraltro, è il risultato del "passaggio da una società omogenea, con appartenenze ben definite, ad una altamente differenziata e caratterizzata dal moltiplicarsi delle appartenenze e degli interessi", un fenomeno che causa la frammentazione del tessuto sociale e ostacola la politica intesa alla ricerca del bene comune.  
 Di qui l'obbligo di risalire alle fonti tomasiane e vichiane del cattolicesimo politico, operante nell'età moderna e di conseguenza di rivisitare le coerenti interpretazioni proposte da Luigi Sturzo in vista di un rinnovamento da attuare nel solco della nobile tradizione, che la provvidenza aveva intanto liberato dagli ingombranti gravami costituiti dall'assolutismo monarchico e del potere temporale dei papi.
 Ragione della scelta di iniziare il rinnovamento della politica da una riflessione sul pensiero di don Sturzo è "l'attualità del suo progetto e, soprattutto, della sua idea della politica, consistente nel fatto che si confrontava, già allora, col rifiuto moderno dell'idea di diritto naturale e comprendeva che tale rifiuto derivava da una malintesa idea della natura stessa dell'uomo, che viene concepita come qualcosa di esteriore alla libertà stessa, che è esasperata e posta come valore assoluto di fronte al quale vi è una sorta di vuoto ontologico e di nulla etico".
 La sfida lanciata da don Sturzo al positivismo giuridico quale fondamento della politica moderna contempla un puntuale giudizio sul mondo moderno "che ha raggiunto la sua apparente unità negando il fine naturale dell'uomo e dimenticando di subordinare la politica alla virtù".
 La proposta neotomista del sacerdote di Caltagirone contemplava, invece, la persona quale fine della società civile, "che per sua natura e origine non può non avere altra finalità se non quella di rendere possibile il perfetto sviluppo della persona umana, dato che questa, a ragione della sua natura specifica, non sarebbe in grado di perseguire altrimenti la perfezione della sua vita umana".
 Sulla traccia segnata da don Sturzo, Alfano approfondisce le obiezioni alla macchina legislativa attivata in conformità al mutilante pregiudizio laicista: "Il contrattualismo che sovente anima la giustificazione della legge, postula una situazione originaria senza doveri, esigendo, viceversa, che le regole vengano stipulate con accordi esclusivamente fondati su interessi, Fondamentalmente, c'è la concezione di una limitata razionalità come risultato di un confronto tra cittadini, considerando la politica come semplice accettazione delle procedure per la produzione delle leggi o regole, il cui contenuto va definitivo attraverso la comunicazione consensuale".
 Si costituisce in tal modo un circolo vizioso, nel quale la libertà è la fonte della legge assoluta cui essa stessa dovrà obbedire.
 La via d'uscita da un tale perpetua rotazione è la fiducia nella libertà concepita come dono di Dio finalizzato all'attuazione della legge naturale.

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 Opportunamente Alfano ricorda che "don Sturzo si confrontava anche con le diseguaglianza economiche proprie del passaggio dal vecchio al nuovo secolo e con la diffusione dell'ideologia socialista e massimalista e la contemporanea evoluzione di quello liberale dello Stato democratico i cui obiettivi erano quello dello sviluppo dei valori di solidarietà e cooperazione".
 Da tale presa di coscienza discende l'affermazione del principio di solidarietà, che diventa il terzo pilastro dell'autentica democrazia, accanto a quello di libertà e uguaglianza.
 In vista di una riforma dell'ideologia liberale, dominante nei primi anni del xx secolo, il pensiero di Sturzo accoglie, infatti, l'insegnamento di Leone XIII (che propone una convergenza tra capitale e lavoro) e i commenti del Beato Giuseppe Toniolo alla lezione del grande pontefice.
 Attuale è altresì il contributo di don Sturzo al chiarimento del concetto di nazione termine "che indica una popolazione che abbia sperimentato per parecchie generazioni una comunanza di territorio, lingua, cultura, economia e storia tale che i membri ne abbiano una coscienza precisa".
 Pertanto il carattere di vero risorgimento prima che all'impresa liberale compete "alla partecipazione vera delle masse popolari ai processi storici, da protagonista"
 Negli scritti di don Sturzo, infine, si possono cogliere i criteri di una ragionevole opposizione all'assistenzialismo statale, incautamente promosso da La Pira e condiviso dai principali esponenti dalla sinistra democristiana. Il fondatore del partito popolare, non era per principio contrario all'intervento dello stato nell'economia ma "poneva alla base di ogni comportamento umano un'estrema moralità, che non sempre si sarebbe mantenuta in seguito: la partitocrazia ... induceva alla corruzione e quindi all'immoralità, che non è caratterizzata solo dallo sperpero del denaro pubblico ma da ingiusti sistemi fiscali, da clientelismo, dall'abuso della propria influenza politica nel ruolo che si occupa nell'esame dei concorsi pubblici o anche nell'assegnazione di appalti".

 L'attualità di don Sturzo, in definitiva, dipende dal transito nella seconda repubblica dei vizi della prima repubblica e dal simultaneo abbandono delle virtù possedute, malgrado tutto, da alcuni banditori di errori, ad esempio da La Pira.  

Piero Vassallo