domenica 28 settembre 2014

La cultura di massa contro la famiglia

1974-2014: quarant'anni di regresso sociale  

La cultura di massa contro la famiglia

 Nel 1974 l'infausto esito del referendum per l'abrogazione della disgraziata legge Fortuna-Baslini rivelò che la maggioranza degli italiani era in rivolta contro la dottrina sociale della Chiesa cattolica e finalmente risoluta a percorrere la strada del disordine sfascista e della violenza in famiglia. Iniziava l'oscuramento dell'Italia cristiana.
 Purtroppo la classe dirigente democristiana (fatta eccezione di Amintore Fanfani) si defilò per evitare il conflitto con gli alleati laici. Gli studiosi cattolici, fatta eccezione di Gabrio Lombardo, Sergio Cotta e Augusto Del Noce disertarono. Il clero postconciliare fece il possibile per raffreddare il clima del dibattito. I preti più aggiornati contestarono addirittura i motivi dell'opposizione al divorzio.
 A monte del divorzio agivano forze spumeggianti e festose: la giurisprudenza in bleu bas, la pseudo scienza psicoanalitica, il giornalismo d’ispirazione esoterica, il libertinismo a fumetti, la saggezza delle parrucchiere filosofanti, gli slogan incendiari delle femministe, i consigli uterini delle cartomanti, le pozioni delle maghe televisive, lo sfavillio dei rotocalchi aperti in tutte le direzioni della pornografia.
 A valle prosperavano gli alberi della rapinosa cuccagna, sui quali abitavano pagliette & psicologi ad alta tariffa e a bassa preparazione, gazzettieri incappucciati, pornografi da premio letterario, politicanti senza pudore, fedifraghi e fedifraghe omologati, cornuti d'alto bordo, preti di varia e squillante mondanità.

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 L'improvvisa dissolvenza delle cattedre marxiste e l'incenerimento dei pulpiti sovietici, avviò un breve cambio di scena: la cultura all'avanguardia in Occidente mise in dubbio la bontà del feticcio divorzista.
 I più aggiornati e coraggiosi sociologi contestano apertamente le leggi divorziste, a causa delle quali le senescenti democrazie (rovesciandosi stupidamente nell’etica dell’irresponsabilità) avevano sconsigliato e quasi vietato ai loro sudditi di contrarre matrimoni indissolubili e normali.
 Alla luce degli osservatori qualificati e disinteressati le leggi divorziste rappresentavano il risultato oscurantista della folle guerra contro la morale cristiana.
 Alla fine del 2001, le edizioni Ares pubblicarono un saggio di Amedeo de Fuenmayor, “Ripensare il divorzio”, dove si rammentava l’esigenza, particolarmente sentita dai più autorevoli giuristi americani, di rivedere le leggi divorziste alla luce del naufragio dell’utopia sessantottina nel mare dei disturbi mentali conseguenti alla trasformazione del matrimonio in “terreno fertile per esperire le potenzialità dell’Io liberato da ogni ruolo e obbligo”.
 La cultura giuridica professata dall'avanguardia americana, festante quando si credeva che il divorzio fosse un rimedio alle difficoltà della vita matrimoniale, dopo che il divorzio era scaduto al livello di un anodino e devastante capriccio individualistico, aveva proposto una ragionevole e graduale riforma.
 Nella brillante introduzione al saggio di Fuenmayor, Cesare Cavalleri ricordava che in alcuni states americani erano state introdotte leggi correttive, “che affiancano al matrimonio standard, agevolmente divorziabile, un convenant marriage, con il quale i contraenti si impegnano a sottoporsi ad un procedimento più difficoltoso prima di giungere all’eventuale richiesta di divorzio”.
 All'inizio del secondo millennio, la cultura stava abbandonando la tenda dei progressisti. Dalla autentica e non statuaria Libertà scendeva una luce ostile all'oscurantismo libertino.
 Gli ostinati seguaci della mitologia illuminista, pur vedendo lo scenario del progresso civile scendere nel taboga del nichilismo, rifiutavano di considerare le ragioni cogenti di quella cultura giuridica d’avanguardia, che, in obbedienza al principio di realtà, aveva avviato la necessaria e urgente revisione del sistema divorzista.  
 La foresta del disordine si agitava. Ad esempio, l’impetuosa Miriam Mafai, sulle colonne scottanti, graffianti e pontificanti di Repubblica si agitava come una gatta e, strappandosi le vesti legalitarie, inveiva contro Giovanni Paolo II, colpevole di “dettare (con reiterata insistenza) norme di comportamento che sono in contrasto con quelle della legge italiana”. In breve giro di tempo la primavera della sociologia si rovesciò nell'inverno del conformismo ritornante.

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 Oggi nell'eloquente/raggelante cronaca nera italiana, l'errore divorzista tradotto in legge grazie all'iniziativa libertina del duo Fortuna & Baslini, incontra, giorno dopo giorno, l'errore psichiatrico personificato dai liberatori basagliani.
 Tale sventurato incrocio genera le roventi/fiammanti tempeste mentali che armano il delittuoso delirio degli uxoricidi quotidiani.
 Ad uso di quanti ascoltano la parlante realtà, la cronaca nera sciorina, giorno dopo giorno, spaventosi argomenti contrari al sistema della menzogna instaurato dall'utopia libertina.     
 Purtroppo la luce della contrarietà all'abominio divorzista, ossia alla scolastica anarco-tanatofila promossa dai banchieri americani, è ultimamente abbassata dalla divagazione acrobatica della teologia sudamericana, maldestramente interpretata dal sommo teologo della liberazione dalla morale tradizionale.
 La teologia morale della Chiesa cattolica, infatti, ha iniziato un folle e ridicolo girotondo intorno alla salma della cultura divorzista. In obbedienza alla legge che obbliga i modernisti ad inchinarsi al cospetto del pensiero inattuale e cadaverico, il clero abbagliato dall'oscillante dottrina del Concilio ecumenico Vaticano II, chiude gli occhi ai messaggi trasmessi dalla cronaca nera e si lancia a capofitto nella giustificazione della cultura da cui hanno origine gli scismi mentali, che armano gli uxoricidi. 
 Nella parodia della misericordia serpeggiante nella Chiesa conciliare, l'infedeltà al Vangelo, l'incapacità di interpretare i fatti e il tradimento dei princìpi di ragione sono malinconicamente coniugati con la sordità alle richieste di soccorso urlate disperatamente da un corpo sociale infettato da quella violenza scismatica, che è generata dai fantasmi del libero amore e della "felicità" ad ogni costo. 
 Radaelli, nel magnifico saggio "La Chiesa ribaltata", sostiene che il clero cattolico giudica sconveniente parlare chiaramente al peccatore, "a partire dal dirgli che è peccatore (ovvio: come un pastore santo lo sa dire alla pecorella smarrita).
 Tale "sconvenienza si è infiltrata nella Chiesa avvelenandole da cinquant'anni la purezza di magistero, perché da cinquantanni la Chiesa ... ha timore del mondo, ha timore del peccatore, del suo giudizio e di passare per ossessionata, per non rispettosa della dignità dell'uomo, che sarebbe la dignità del peccatore".


Piero Vassallo

mercoledì 24 settembre 2014

GLI UOMINI SANI E GLI ALTRI (di Piero Nicola)

Non guardo quasi mai i film della televisione, se non sono ben vecchi. Anche quelli proiettati nelle sale o multisale mi interessano assai di rado, salvo che costituiscano oggetto di un particolare clamore o che io venga a sapere che sovrastano decisamente il conformismo e la volgarità. Sono così nauseato da questi due ingredienti di quasi tutte le cucine, che trascuro il cinema contemporaneo nel suo insieme.
  Trovandomi, per motivi fortuiti, privo della raccolta delle scelte registrazioni che mi procuro e che sono solito vedere o rivedere sullo schermo televisivo la sera per rilassarmi, ho dato una scorsa ai vari canali e mi sono imbattuto in un gruppetto di soldati avviati al fronte di El Alamein; mi sono detto: vediamo un po’ dove il regista va a parare. L’uscita di questo El Alamein – La linea del fuoco era relativamente recente, lo attestavano i volti degli attori, sicché, per meglio dire, intendevo constatare fin dove si fosse giunti col discredito delle nostre armi e col pacifismo, con la retorica dell’antiretorica e con i compiacimenti dello stile elaborato.
  In sostanza, era tutto prevedibile e tutto tornò. Ma ho dovuto prendere nota della scaltrezza acquisita nella messa in scena, per lo meno riguardo alla tematica.
  La giovane recluta Serra, dal quale si desta quasi modestamente e ad ampi intervalli la voce del soggetto narrante, e con lui gli altri due principali protagonisti: il sergente e il tenente, non sono testimoni apertamente critici, delusi e rivoltati. Ma proprio la pacatezza del commento e una certa ignara ingenuità del sottufficiale, una fedeltà soltanto perplessa dell’ufficiale, il loro senso dell’onore sottilmente svalutato, iniettano la forte dose di veleno nello spettatore.
  Due sequenze farebbero annusare a un naso genuino, ancorché disposto favorevolmente, l’odore del tossico. Non so se vi fossero precedenti franche emanazioni di cattivi sentori, perché ho cominciato la visione quando la storia era circa a metà del primo tempo. Poco importa. Col primo episodio si indulge ai sentimenti dissacratori e al gusto dello scabroso. Chissà come, quei destinati al fronte, prima della battaglia decisiva vengono a trovarsi preso la riva del Mediterraneo. Stremati e accaldati, reduci da vari patimenti, essi si gettano come mamma li ha fatti nelle acque d’una spiaggia linda e sconfinata, che rappresenta il sogno degli odierni vacanzieri.
  Nessuno ha mai pensato che i fanti del Regio Esercito fossero dei pudichi collegiali, sennonché il senso del pudore di quel tempo rende improbabile un loro bagno in costume adamitico (alquanto ostentato dalla macchina da presa), e l’improbabilità rende gratuita e losca la rappresentazione.
  Il secondo episodio depone molto peggio. Durante la ritirata successiva al travolgimento della prima linea da parte dei carri armati inglesi, i pochi supersiti del Reggimento incontrano un generale occupato a seppellire il proprio attendente, dopo che anche la loro camionetta è stata colpita e messa fuori uso. L’alto ufficiale rifiuta ogni aiuto, resta sul posto, finito di ricoprire la salma con sabbia e pietrisco, fa il segno della croce e si spara.
  Il gesto dell’uomo adombra un attaccamento morboso al suo attendente; e l’umanità del suo volto è per rendere degno questo suicidio. La scena giustifica la ritirata solitaria dei due, interrotta dall’attacco nemico. Di nuovo, il caso proposto (la cui scelta, in un lavoro narrativo, assume inevitabilmente un valore generale) è falso sotto un duplice aspetto: perché non consta che comandanti di tal fatta ce ne fosse molti, e perché una condotta di quel genere non meritava la comprensione, tanto meno era suscettibile di apprezzamento.
  Passato attraverso le dure prove della dissenteria e dell’armamento, del cibo, dell’acqua troppo scarsi, nelle trincee ardenti per la calura diurna e gelide la notte, la recluta Serra si aggira sul terreno disseminato di morti e di feriti, dopo l’attacco travolgente e respinto una prima volta dalla nostra artiglieria.
  Siamo alla svolta cruciale, ideologica. “A scuola ti insegnano: fortunato chi muore da eroe, ma i morti non sono né fortunati né sfortunati, sono morti e basta”.
  Passiamo sopra la nota aggiunta subito dopo, che lo sceneggiatore mette in bocca al ragazzo circa il puzzo dei cadaveri, e sopra qualche scena truculenta di ferito e di amputato, ove tutto si riduce alla disgrazia. La negazione dell’eroismo - che a quella scuola veniva additato, in fondo, come l’ottimo atteggiamento da assumere davanti alla perdita della vita nel combattimento - giunge ancora una volta dal punto di vista del soldato ingeneroso, se non indegno.
  La questione è annosa, ma prettamente moderna. Che cos’è la guerra dei due schieramenti opposti, in trincea o altrove? Che cos’è per il combattente? Abbiamo testimoni e opere letterarie antitetiche. Di qui: un Henry de Montherlant, un Piero Operti (Il convito della speranza) e tanti altri che non inorridiscono, non tremano, non maledicono, non rinnegano né disertano. Di là: un E.M. Remarque (Niente di nuovo sul fronte occidentale), un Hemingway (Addio alle armi), cioè il contrario o meno del contrario, ma sempre qualcosa che pianta il seme dell’irrealismo fondamentale (la guerra può essere evitata e non è mai giusta) e del rifiuto codardo, dello scampo fellone. In genere, i sentimenti e gli argomenti pretestuosi sono gli stessi che negano la santità e il suo eroismo.
  Al riguardo, possiamo avere tre categorie di esseri umani, implicati o meno nella guerra: colui che bada al meglio, al sacrificio dovuto e nobile; colui che, pur avendo un’indole imbelle, pregia i valori; colui che li misconosce e disprezza. Certamente si può rappresentare artisticamente quest’ultimo individuo, ma si partecipa della sua misera falsità quando in qualche modo lo si condivide.
  La vicenda dei singoli, appartenenti a un reggimento della divisione Pavia schierata a lato della Folgore, si inserisce nella battaglia disperata, sostenuta a cavallo dei mesi di ottobre e novembre del 1942, contro le preponderanti forze avversarie. Essi, con un misero gruppo di sopravvissuti, seguono le tappe di un lungo ripiegamento compiuto quasi esclusivamente a piedi, secondo qualche sommaria disposizione dei comandi. Raggiunti dagli inglesi che li incalzano, i militari si arrendono senza che il tenente intervenga o possa intervenire. Tuttavia egli, il sergente e il fante Serra proseguono nella ritirata per raggiungere i reparti italiani, con la speranza di far ritorno in Patria. L’ufficiale ferito non regge alla marcia estenuante e il sergente resta con lui, mentre, sulla motocicletta trovata nel deserto e fatta ripartire, il ragazzo è inviato solo in direzione Ovest.
  Due parole sulla confezione artistica, che non smentisce l’uso corrente. La cura del mestiere è innegabile, però le sequenze ben variate e calibrate cedono al compiacimento formale. Dagli anni Sessanta si è perduta la misura del ritmo, dell’essenziale, e se oggi i cineasti hanno ovviato abbastanza alle lentezze esasperate (p.e. di Antonioni e Patroni Griffi), è tuttavia andata perduta la forte sobrietà richiesta dalla narrazione cinematografica.
  Su internet ho appreso i dati del film: uscito nel 2002, regista Enzo Monteleone, premiato con tre David di Donatello e un Nastro d’Argento, riconosciuto d’interesse culturale nazionale dalla Direzione generale per il cinema del Ministero per i Beni e le Attività culturali.
  Non ci resta che rimpiangere Divisione Folgore (1954) di Duilio Coletti e abbastanza La battaglia di El Alamein (1969) di Giorgio Ferroni, i quali, senza togliere nulla al realismo, guardarono al meglio e non al peggio, che non emerse in quella sconfitta gloriosa; né al peggio possibile aderirono in qualche maniera.

Piero Nicola

martedì 23 settembre 2014

La Chiesa ribaltata

Un saggio di Enrico Maria Radaelli

La Chiesa ribaltata

 Allievo del grande Romano Amerio e lucido interprete e continuatore della sua opera, Enrico Maria Radaelli è uno fra i più  efficaci, equilibrati e condivisibili oppositori al novismo, in libera, squillante, applaudita ma confusionaria e avventurosa circolazione nelle squillanti chiacchiere dei teologi postconciliari, nel linguaggio di legno dei predicatori trans-religiosi e perfino nelle incontrollate  e irruenti esternazioni private di Papa Francesco.

 Nel recente robusto saggio "La Chiesa ribaltata" edito in Trento da Gondolin (www.edizionigondolin.com) e presentato da una puntuale nota dell'autorevole mons. Antonio Livi, Radaelli conferma la sua attitudine ad aggredire e confutare l'errore diffuso dai tifosi sparlanti nelle subdole curve del Vaticano II, senza venire meno al rispetto, che i fedeli debbono alla somma autorità ecclesiastica, quantunque essa si comporti in maniera curiosa e talora imbarazzante.
 La critica all'invasiva teologia in circolo nella Chiesa d'oggi è, infatti, sviluppata da Radaelli entro i limiti tradizionali, segnati da San Roberto Bellarmino (1542-1621), il Dottore della Chiesa che ha affermato la liceità della resistenza all'errore professato da un Pontefice mentre ha negato la liceità e addirittura la pensabilità della sua deposizione da parte dei fedeli: "Come è lecito resistere al pontefice che attacca il corpo, così anche è lecito resistergli se attacca le anime e distrugge l'ordine civile o, sopra tutto, se tenta distruggere la Chiesa. Dico che è lecito resistergli attraverso il non fare ciò che ordina e l'impedire l'esecuzione della sua volontà, Non è lecito, tuttavia giudicarlo [in un processo] punirlo o deporlo, perché questi sono atti di un superiore". Superiorità che, nella Chiesa militante, appartiene unicamente al papa.
 La tradizionale impostazione del giudizio sulla crisi in atto è apprezzata da mons. Livi, il quale, nella prefazione al testo in oggetto, dopo aver rammentato che un totale ribaltamento della Chiesa "non è non sarà mai la fine della storia", afferma risolutamente che il fedele consapevole che "qualcosa di tragicamente negativo per il bonum commune dei credenti in Cristo sta succedendo ... sente il dovere di adoperarsi, come fa Radaelli, per contestare con argomentazioni valide e solide il messaggio che, grazie a papa Francesco, si stia finalmente attuando una radicale riforma della Chiesa che porterà a non condannare più alcun errore dottrinale o pratico e a considerare buone e giuste tutte le opzioni esistenti, compresa l'irreligiosità e l'ateismo".
 L'indefettibilità della Chiesa cattolica, dunque, è fuori discussione. Non può essere invece taciuta la presenza del disordine dottrinale, che tormenta il pensiero cattolico e sfiora addirittura la mente del sommo pontefice, suggerendo allarmanti concessioni all'errore, ad esempio  all'ateismo vissuto in retta coscienza (o retta tracotanza/ultracogitanza?) e calato nella modesta statura del giornalista post-moderno Eugenio Scalfari.
 Livi denuncia "la progressiva de-dogmatizzazione della pastorale, che sta contribuendo a consolidare quella dittatura del relativismo della quale invano Benedetto XVI aveva invitato i credenti alla resistenza", Radaelli denuncia addirittura la de-ellenizzazione della sapienza cristiana e dimostra che la teologia conciliare e post-conciliare è avvelenata dal progetto, a suo tempo formulato dai modernisti, di riportare la dottrina cristiana alla (presunta) avversione alla filosofia professata dalle comunità cristiane delle origini.
 A ben vedere le avanguardie della teologia post-conciliare hanno sorpassato l'avversione modernistica alla retta ragione - ai preambula fidei - per gettarsi a capofitto in quel delirio sessantottino secondo cui (parola incendiaria e sconsiderata di Herbert Marcuse) il principio di identità e non contraddizione è il preambolo all'orrore nazista.    
 L'inesistenza di un primitivo disegno inteso alla de-ellenizzazione del Cristianesimo, ad ogni modo, è visibile nel primo volume degli Stromata, in cui Clemente Alessandrino (150-215) afferma: "la filosofia greca con il suo apparato non rende più forte la verità, ma siccome rende impotente l'attacco della sofistica e disarma gli attacchi proditori contro la verità la si è chiamata con ragione siepe e muro di cinta della vigna".
 La dignità della ragione, in età moderna minacciata dalle elucubrazioni dei sedicenti illuminati,  è  coerentemente e legittimamente riaffermata  dal Concilio Vaticano I: "la fede suppone e perfeziona la ragione anche se la fede è sopra la ragione non vi potrà mai essere una vera divergenza tra fede e ragione poiché lo stesso Dio che rivela i misteri e comunica la fede ha anche deposto nello spirito umano il lume della ragione: questo Dio non potrebbe negare se stesso né il vero contraddire il vero" ("Dei Filius", IV).
 Alla vigilia della rivoluzione francofortese, Pio XII, il papa refrattario all'irenismo, ha pubblicato l'Enciclica "Humani generis" per suggerire lo studio delle opere degli erranti (evoluzionisti, esistenzialisti, storicisti, nichilisti) "perché le malattie non si possono curare se prima non sono conosciute".
 La fede separata o addirittura opposta alla ragione rende il fedele incapace di valutare la fragilità degli errori che circolano nella desolazione moderna e di resistere al fascino oscuro emanato dalla loro decrepitezza.
 Privata del sussidio delle verità di ragione la fede cattolica si intenerisce e addolcendosi avanza fino al punto in cui si ode, nel borbottio crepuscolare/leopardiano di un qualunque Scalfari, il ruggito che mette in fuga il pensiero di San Tommaso d'Aquino.
 Si scambia una siepe nana per un tenebrosa foresta. Di qui le infantili paure, i grotteschi inchini, le comiche giravolte, le prediche sgangherate e le servili lodi all'indirizzo degli apostati sepolti nel cimitero delle catastrofiche e disgraziate rivoluzioni.
 Infine lo sguinzagliamento dei teologi conformisti, incapaci di vedere il tracollo, l'obitus  marcionita del moderno e perciò intesi a vantare la presenza di Hegel nei loro arruffati pensieri.
 Con ragione Radaelli sostiene che stiamo assistendo a una guerra "alla cose per quello che sono, la guerra tipicamente sudamericana dell'uomo Jorge Mario Bergoglio ben prima di essere chiamato al Sacro Soglio: pseudo-francescanesimo, semplificazione, informalità, velocità, sono tutti obiettivi che van visti alla luce di una prospettiva terzomondista, alla luce di una destrutturazione della complessità metafisica dell'essere, come la intuisce Martin Mosebach col suo libro, straordinario fin nel titolo, "L'eresia dell'informe".
 L'intenzione dei combattenti contro la metafisica è nascosta sotto il mantello di un'untuosa e incappucciata fedeltà. Al proposito Radaelli rammenta  che "il Bonaiuti, modernista lungimirante, diceva 'Non contro Roma né senza Roma, ma con Roma e in Roma. Se davvero vogliono conquistare l'inespugnabile Trono, Modernismo e Liberalismo debbono aggirare le difese naturali della sacra Città, devono sapersi infiltrare oltre le muraglie".
 Effetto dell'infiltrazione suggerita da Bonaiuti e attuata dai suo uditori è il cristianesimo di pancia, predicato da papa Francesco, una novità di cui Radaelli descrive le cinque componenti: la grandiosa, felice e totale riforma della Chiesa, la conclusiva e fedele attuazione del Concilio Vaticano II.
 Radaelli di seguito analizza i contenuti dell'enciclica "Lumen Fidei", scritta da Benedetto XVI e firmata da Francesco.  Il suo giudizio è devastante: "Colpisce in questa Lettera enciclica sulla fede, l'assenza totale della parola dogma, di un concetto, cioè, ormai bandito dalla Chiesa da tempo: esattamente da cinquant'anni. Nella Humani generis, per esempio, essa compare sette volte e altre tre in parole derivate, e nella Pascendi Dominicis gregis diciassette volte più cinque in derivate". 
 Quando si pensa che dogma significa decreto emanato dall'autorità religiosa per definire un principio fondamentale non è difficile misurare l'allarmante vastità della confusione che si è introdotta nella Chiesa cattolica a causa della teologia soggiacente ai documenti del Concilio Vaticano II.
 L'autore dell'Enciclica in questione, d'altra parte riconosce che la fede viene dall'ascolto (Fides ex auditu, Rm. 10,17) ma tace sul fatto che "ex auditu" è espressione che porta a un verbum, a una parola, a una testimonianza, a una dottrina, dunque a una verità, al dogma e senza l'udito non si ha e non si può avere nulla".

 Infine Radaelli definisce la grande magagna che discende dalla guerra che il buonismo ha dichiarato alla metafisica: "camminare verso forme comuni di annuncio e pure speditamente. Noi e gli eretici, la verità e la fandonia, il reale col mito e la fantasia, il Cielo e Belial. Ma: che rapporto c'è tra il fedele e l'infedele? (2 Cor., 6.25). Nei termini tomasiani la risposta è: nessuno". Questo induce a sospettare che la Chiesa governata da papa Francesco corre in direzione di Nessuno.

Piero Vassallo

lunedì 22 settembre 2014

Elementi minimi per una critica a Karl Popper (di Luigi Copertino)

Su "Avvenire", il quotidiano cattolico, Dario Antiseri ha pubblicato, il 16.09.2014, un ricordo di Karl Raimund Popper e del suo pensiero per indicare quale è, per il noto pensatore, amico di Friedrich August von Hayek, la linea di demarcazione tra una “società aperta” ed una “società chiusa” (1). Antiseri è, notoriamente, innanzitutto un liberale che poi si fregia di professare la fede cattolica. Le basi, però, del pensiero di Antiseri sono in Ludwig Wittgenstein che è come dire nel soggettivismo gnoseologico ed etico. Il che dovrebbe porre ad Antiseri qualche serio problema in ordine al suo cattolicesimo.
Ma, tornando a Popper, è interessante constatare quanto egli abbia frainteso Platone, assimilandolo ai pensatori immanentisti che hanno preparato, nella modernità, la via al totalitarismo politico. Noi non possiamo, in quanto cattolici, gettare alle ortiche il grande ateniese sia perché, con le sue intuizioni circa la Trascendenza, è un anticipatore – certo con molte deficienze dal momento che non conosceva ancora la Rivelazione che stava per giungere da Gerusalemme – della filosofia e dell’etica cristiana, sia perché la sua teoria politica non è affatto totalitaria proprio in quanto essa è aperta verso l’Alto, verso l’intuita Trascendenza della Verità, laddove, invece, a ben osservare, è proprio la “società aperta” popperiana, aperta piuttosto verso il basso quindi effettivamente chiusa alla Trascendenza delle basi teo-antropologiche della vita sociale, a rivelarsi, alla prova storica dei fatti, compiutamente totalitaria ossia compiutamente immanentista, nel senso nel quale, ad esempio, Augusto Del Noce riteneva l’Occidente liberale come un perfetto sistema di reificazione, sotto forma di mercificazione, dell’uomo e quindi come la sconfessione, per eterogenesi dei fini, dell’etica kantiana, fondativa dell’Occidente, per la quale l’uomo deve essere sempre trattato come un fine e mai come una mezzo (2).
Se proprio vogliamo usare una terminologia moderna, la teoria politica di Platone, lungi dall’essere totalitaria, è casomai, perché non immanentista, una filosofia “autoritaria”, meglio sarebbe dire “autorevole”, dello Stato, il quale è certamente posto, come Comunità Politica, al di sopra della “società civile” ma senza che gli sia lecito – e laddove trasformandosi in senso immanentista, ossia decadendo, tentasse di farlo tradirebbe illegittimamente la sua natura e vocazione – assorbirla. Allo Stato non è lecito assorbire i corpi intermedi, che in esso, nella sua orbita e circoscrizione spazio-temporale, vivono liberamente, ma ha il diritto/dovere di coordinarli e tutelarli.
Popper non comprende Platone perché per l’austriaco al centro di tutto vi è – si badi! – non la persona ma il fantoccio astratto ed inesistente dell’individuo, entità irreale che pretende di darsi solipsisticamente come unità matematica interagente meccanicamente, ossia contrattualisticamente, con le altre unità individuali. Al contrario, la persona, in una concezione squisitamente personalista e comunitaria che, a meno di non equivocare come fa Popper sul significato autentico dell’“organicismo”,  non può assolutamente prescindere dal fondamento trascendente, non è mai data in astratto ma sempre concretamente in relazione organica, e non contrattuale, con le comunità di appartenenza, dalla famiglia fino alla professione, dal comune fino alla nazione, dalla classe sociale fino alla patria.
Per Popper, come ci ricorda Antiseri citandolo dal primo volume della sua opera capitale (3), la società aperta è quella in cui «gli uomini hanno imparato ad assumere un atteggiamento in qualche misura critico nei confronti dei tabù e a basare le loro decisioni sull’autorità della propria intelligenza (dopo discussione)». Di contro, la società chiusa «è caratterizzata dalla fede nei tabù magici», «assomiglia a un gregge o a una tribù […]», «è una società che si aggrappa alle sue forme magiche rinchiudendosi in se stessa». Sicché per Popper «la società magica o tribale o collettivistica sarà chiamata anche società chiusa, e la società nella quale i singoli sono chiamati a prendere decisioni personali società aperta. Una società chiusa può essere giustamente paragonata ad un organismo. La teoria organica o biologica dello Stato può essere applicata in larga misura ad essa».
L’avversione di Popper per la “teoria organica dello Stato” dimostra la sua incomprensione totale dell’antico pensiero organicista che la fede cristiana – vorremmo ricordare ad Antiseri – ha fatto proprio sin dall’inizio se è vero che san Paolo parla della Chiesa appunto come “corpo” e se la Chiesa stessa si è sempre concepita come “Corpo Mistico di Cristo”. Si dirà che l’Apostolo  parlava di Chiesa e non di Stato ma non si deve dimenticare che per i grandi teologi e filosofi politici cattolici – da Agostino a Tommaso d’Aquino, da Suarez a Rosmini (quest’ultimo troppo facilmente derubricato a cattolico liberale), per non parlare del Magistero – vi è un rapporto di analogia tra la Prima ed il secondo. Analogia fondata sulla stessa analogia che sussiste tra la Trascendenza, che la in-forma, e l’immanenza, tra ordine sovrannaturale ed ordine di natura.
La questione sta, piuttosto, nel fatto che Platone non poteva conoscere la distinzione tra “ciò che è di Dio e ciò che è di Cesare” sicché per lui la Trascendenza, non ancora perfettamente colta anche come Santità, forgia la sacralità dell’Ordine Politico rimanendovi in qualche modo “incastrata”. In altri termini l’ateniese, non conoscendo la Chiesa come luogo e veicolo della Trascendenza quale Santità che tuttavia riflettendosi nel creato è fondamento della sacralità del medesimo, tendeva a fare della Repubblica il “luogo santo” nonché l’immagine stessa dell’Ordine Cosmico.
Il Cristianesimo non ha affatto negato l’intuizione platonica per la quale “esiste nei Cieli un modello perfetto” ma ha negato la possibilità che tale modello archetipico possa identificarsi con lo Stato benché quest’ultimo, cristianamente parlando, deve, pur nelle inevitabili manchevolezze e deficienze dell’umanità ferita dal peccato, a tale archetipo tendere per quanto è umanamente possibile. “Per Me reges regnant et legum conditores iusta decernunt; per me principes imperant et potentes decernunt iustitiam” (Pv 8,15-16).
Questo significa che se è vero che la Comunità Politica è di natura, è altrettanto vero che essa dipende da un Ordine Etico che la trascende e che sta agli uomini attingere, o meno, nell’organizzare la loro convivenza associata, fermo rimanendo che l’unica scelta ad essi possibile, pur nella libertà delle forme, è quella tra riconoscere e tentare di attuare quell’Ordine, supplicando ed implorando l’aiuto dall’Alto senza il quale ogni tentativo sarebbe prometeico ed in tal senso sì “totalitario”, oppure negarlo. Sicché se è vero che gli uomini conoscono anche le libere associazioni, e non solo quelle naturali, è certamente vero che l’associarsi non corrisponde alla mera regolazione contrattualistica ed utilitaristica dei reciproci e spesso contrapposti interessi materiali, benché anche questo aspetto, tuttavia solo all’ultimo livello della gerarchia ontologica, fa parte dei rapporti umani, ma risponde innanzitutto al moto naturale dell’uomo che, come diceva Aristotele e dopo di lui Tommaso d’Aquino ed hanno ricordato tutti i Pontefici nel loro Magistero sociale, è creatura sociale per natura e non per contratto.
Ecco il motivo per il quale la “teoria organica dello Stato”, nella sua accezione cattolica sorgente dall’incontro tra la Rivelazione ebraico-cristiana e l’ellenismo filosofico, incontro provvidenzialmente preparato dalla Koiné alessandrina, teoria che riconosce la persona come soggetto unico, amato da Dio, ma sempre costantemente in relazione con l’altro nelle diverse forme – per usare gli ideal typus di Ferdinand Tönnies – comunitarie e non societarie, ovvero non meccaniche, non ha nulla a che fare né con la concezione biologica, né con quella magica e tribale, né con quella totalitaria delle forme del Politico. Perché se è vero che esiste un “organicismo pagano”, che guarda alla comunità umana come ad un aggregato etnico e razziale con una proiezione religiosa “magica” e panteisticamente “sacrale”, nel senso feuerbachiano-marxiano di struttura sociologica che proietta una sovrastruttura, e se è vero che la forma moderna di questo organicismo pagano sono stati i totalitarismi, sia quelli ideocratici sia quelli statolatrici sia quelli etnolatrici, non è assolutamente vero, anzi è falsissimo, che l’organicismo etico e morale posto alla radice della “teoria organica dello Stato” nell’ambito del pensiero teologico e filosofico cattolico, che concepisce la Comunità politica come “organismo morale di natura”, possa essere assimilata al tribalismo biologico e magico-vitalista. Questa indebita, erronea ed anche intellettualmente scorretta e disonesta assimilazione, alla quale il pensiero liberale è portato a causa della sua matrice razionalista e contrattualista che vede soltanto l’individuo e non la persona – i cattoliberali poi confondono anche terminologicamente individuo e persona – costituisce esattamente l’equivoco introdotto dal pensiero popperiano nella filosofia politica contemporanea, foriero di tante e gravi confusioni, soprattutto tra i cattolici. Pertanto non è stato un caso l’entusiasmo nutrito da von Hayek, che è maestro dell’individualismo contemporaneo pur condito di anticostruttivismo (forse per far dimenticare gli aspetti assolutamente costruttivistici della teoria economica classica), per l’opera capitale di Popper, che l’economista austriaco volle prefare e che si adoperò per far pubblicare in pompa magna.
In realtà, Popper è un presocratico, è un novello Protagora, un antropocentrico, che non crede a nessuna Verità oggettiva. Se un Ratzinger lo annovera, senza citarlo ma esaminando attentamente le aporie della cultura filosofica di cui egli è espressione, tra i “relativisti”, Platone direbbe di Popper che non è un vero filosofo ma un sofista ossia un maestro della “doxa”, dell’opinione soggettiva la quale quando, come accadeva nella sua Atene, prende il sopravvento getta inevitabilmente la Repubblica in un vortice di conflitti caotici preparando il terreno per la nascita e la crescita della mala pianta della tirannia (4). In effetti il destino della democrazia ateniese e delle altre città greche sue alleate, ma la cosa si è ripetuta sovente ed in epoche diverse dai comuni medioevali ai regimi liberali ottocenteschi, dimostratisi sia gli uni che gli altri incapaci di resistere al “cesarismo” di ritorno, fu proprio quello di cadere nella tirannide.
«Io sostengo – scrive Karl Popper – che una delle caratteristiche di una società aperta sia di tenere in gran conto … la libertà di associazione, e di proteggere ed anche di incoraggiare la formazione di sotto-società libere, ciascuna delle quali possa sostenere differenti opinioni e credenze». Il problema qui sollevato è quello appunto della Verità e se la Verità abbia o meno il diritto di imporsi nell’agone politico. La risposta di Popper è negativa: la Verità non esiste ma esistono solo “differenti opinioni e credenze”. Appunto la “doxa”.
Un cristiano, per il quale la Verità esiste ed è una Persona, è il Verbo di Dio ovvero la Seconda Persona della Santissima Trinità Incarnata in Gesù Cristo, non può però pretendere di sottrarsi, senza affrontarlo, al problema posto da Popper, rifugiandosi, troppo facilmente, nel dogma, che tuttavia tale certamente rimane nella sua indiscutibilità teologica, e rifiutandosi di dare una risposta corretta alla questione del rapporto tra Verità e libertà. Problema risolvibile, cosa che a Platone non era concesso, grazie alla mediazione della Chiesa, Corpo Mistico di Cristo, la Quale mai confondendosi, propriamente parlando neanche ai tempi della Cristianità, con la Comunità Politica – sicché le pretese sia teocratiche sia statolatriche, sempre tendenti ad imporre una “religione civile”, non possono avere nessuna autentica cittadinanza in ambito cattolico – disegna la linea di confine tra Fede e Politico ma anche la necessità di un corretto rapporto non del tutto estrinseco tra queste due dimensioni entrambe proprie dell’uomo e quindi entrambe essenziali alla natura umana come creata da Dio.
Qui, infatti, si svela l’errore cattolico liberale: pur nel rifiuto cristiano della sacralizzazione di Cesare, non è possibile affermare che tra la Fede ed il Politico, quindi tra la Chiesa e la Comunità politica, vi sia una distanza ed una assoluta indifferenza, che è poi quell’“indifferentismo”, sempre unito al “latitudinarismo”, ampiamente bollato dal beato Pio IX nel Sillabo. Condanna riproposta da Benedetto XVI quando ha lamentato la “dittatura del relativismo”.
Proprio Benedetto XVI/Ratzinger ha, del resto, ammesso che sul piano politico il relativismo, cristianamente impossibile su quello teologico, deve essere riconosciuto ma solo fino ad un certo punto. «… il relativismo – scrive il Papa emerito – è divenuto il problema centrale per la fede della nostra epoca. Esso però non appare affatto solo come rassegnazione davanti all’incommensurabilità della verità, ma si definisce anche positivamente, movendo dai concetti di tolleranza, di conoscenza dialogica e di libertà, che sarebbe limitata dall’affermazione di una verità valida per tutti. Il relativismo appare così contemporaneamente come il fondamento della democrazia la quale, secondo esso, poggia appunto sul fatto che nessuno possa pretendere di conoscere la strada giusta, vive della condizione per cui tutti i cammini si riconoscono reciprocamente come frammenti del tentativo indirizzato al meglio e nel dialogo ricercano la comunanza, mentre ad essa appartiene però anche la competizione tra le conoscenze, che è impossibile in ultima analisi siano portate a una forma comune. Un sistema della libertà per sua essenza, secondo questa filosofia, deve essere necessariamente un sistema di posizioni relative che si accordano e inoltre dipendono da combinazioni storiche e devono restare aperte a nuovi sviluppi. Una società liberale (freiheitlich) è una società relativista, solo per questo presupposto essa è in grado di rimanere libera e aperta ad un ulteriore cammino. Nell’ambito politico questa concezione ha ampiamente ragione. Non esiste un’opinione politica che sia l’unica giusta. L’elemento relativo, la costruzione della convivenza umana ordinata secondo libertà, non può essere assoluto – il crederlo fu appunto l’errore del marxismo e delle teologie politiche. Però anche nella sfera politica con il relativismo totale non se ne viene a capo. V’è dell’ingiustizia che non può diventare mai giustizia (per esempio uccidere innocenti; negare ai singoli o a gruppi il diritto alla loro dignità umana e a condizioni corrispondenti); v’è giustizia che non può diventare mai ingiustizia. Di conseguenza non si può disconoscere un certo diritto al relativismo nell’area politico-sociale. Il problema sta nel suo concepire se stesso come illimitato» (5).
Un riconoscimento, questo, al liberalismo o non piuttosto una posizione apertamente agostiniana, quindi perfettamente tradizionale, nella distinzione tra Città di Dio e Città degli uomini? Sergio Cotta ha infatti dimostrato che in Agostino tra le due Civitates sussiste sempre lo spazio per una terza dimensione, quella più specificatamente politica, che consiste nella Città politica perennemente sospesa tra l’una e l’altra (6). Anzi, dal momento che la Città politica è, in sostanza, nient’altro che la Città degli uomini, la quale nell’Ipponate non equivale affatto a Civitas diaboli benché molto, soprattutto in età medioevale ed in ambito protestante, si è in proposito equivocato, dipende appunto dalla scelta dell’uomo se la Comunità politica tenderà verso la Città di Dio, sempre certamente nell’impossibile divario, per essa solo parzialmente colmabile anche laddove la Grazia assistesse costantemente sia chi governa sia chi è governato, che la separa dal “modello archetipico che è nei cieli”, o finirà per trasformarsi nella Civitas diaboli che è – attenzione! – fondata sulla “doxa” e sul conflitto soggettivista anche quando – attenzione di nuovo! – tale conflitto è normativamente e contrattualisticamente, ma sempre precariamente, composto o moderato.
Popper, ebreo esule dall’Austria occupata dai nazisti, ha di fronte a sé l’orgoglio prometeico e gli orrori delle Teologie Politiche moderne e si preoccupa di disincantare gli “assoluti umani”. Preoccupazione che è anche del cristiano. Ma quest’ultimo evita, come un’altra mortifera pestilenza ideocratica, anche l’assolutizzazione di quel relativismo latitudinarista che invece è essenziale al liberalismo e che, appunto, Benedetto XVI ha qualificato, con terminologia nient’affatto casuale, “dittatura del relativismo”. La nostra proposta cristiana, alternativa al quella liberale di Popper, non è un ritorno alla Teologia Politica quanto invece, nel solco della Tradizione, alla Teologia della Politica, di cui quella agostiniana, sopra accennata, è uno degli esempi massimi. Una proposta del tutto conscia che si tratta di una via, quella cristiana, ardua a percorrersi richiedendo una continua ascesi personale, rara a riscontrarsi nell’agone politico. Tuttavia, il cristiano sa anche che la strada larga porta alla perdizione. Anche alla perdizione politica.
La Verità, quella Verità che è la Persona di Cristo e verso la quale Popper è sostanzialmente indifferente riducendola ad una delle tante e differenti opinioni o credenze, non si può certo imporre con la violenza e la forza – come purtroppo è stato fatto molte volte in passato benché per giudicare i fatti si deve sempre tenere presente il contesto dei tempi – ma non può neanche essere relativisticamente gettata fuori dalla Città politica, negando ad Essa diritto di cittadinanza. La Verità si impone al cuore umano per sua stessa intrinseca forza, per il suo fascino mistico, per il Mistero che essa comunica all’uomo il quale non può davvero sottrarsi al suo richiamo se lascia la propria coscienza libera all’azione della Grazia. Cosa che, del resto, non è automatica né facile come la narrazione biblica della lotta tra Giacobbe e l’Angelo – nel linguaggio biblico l’angelo altro non è, pur essendo una creatura, che il messaggero, dunque il veicolo, della Forza stessa di Dio – ci ricorda. Quindi se violenza c’è, ed essa c’è senza dubbio, nell’imporsi della Verità si tratta della “violenza mistica” che, attratto dal fascino irresistibile del Volto del Signore, al quale l’uomo, ferito dal peccato, tenta comunque di sottrarsi, patisce su di sé chi è giudicato degno del Regno dei Cieli. Dio che rispetta la libertà dell’uomo – perché non è vero Amore quello che pretendesse di essere coatto e non libero – pur facendo all’uomo tale ”violenza” non gli si impone per forza se egli alla fine, nonostante tutto, Lo rifiuta.
Lo stesso vale per la Città politica il cui fondamento che è certamente naturale comunque “passa” per il cuore degli uomini che in quella Città, per natura e non per contratto, vivono. Sia per il cuore dei re che per quello dei sudditi, sia per il cuore dei governanti che per quello dei governati. E’ il diritto non scritto che i popoli hanno chiamato diritto naturale e che il Signore ha, Egli, scritto ma nel cuore degli uomini e non in altisonanti e sempre caduche carte dichiarative di presunti “immortali principi”.
Popper vede la linea di demarcazione tra democrazia e dittatura, che per lui equivalgono rispettivamente, ed invero alquanto schematicamente, alla società aperta ed alla società chiusa, nella limitazione istituzionale che nella società aperta viene esogenamente imposta al potere politico: «Si vive in democrazia quando esistono istituzioni che permettono di rovesciare il governo senza ricorrere alla violenza, cioè senza giungere alla soppressione fisica dei suoi componenti. È questa la caratteristica di una democrazia» sicché «le democrazie non sono governi del popolo, bensì, prima di ogni altra cosa, istituzioni attrezzate contro una dittatura. Non permettono nessun governo di tipo dittatoriale, nessuna accumulazione del potere, tentano piuttosto di limitare il potere dello Stato […]. La democrazia consiste nel mettere sotto controllo il potere politico. Non ci dovrebbe essere alcun potere politico incontrollato in una democrazia» (7).
Purtroppo per Popper ed i popperiani oggi sappiamo che le cose sono ben più complesse, come riconosce anche un liberale quale è Jurgen Habermas, da come sono poste nel frettoloso schema “società aperta/democrazia vs società chiusa/dittatura”. Proprio la depoliticizzazione liberale che ha preparato la strada alla post-moderna “società liquida”, come la chiama Zygmunt Bauman con definizione che calza perfettamente alla società aperta di Popper, quella depoliticizzazione che ha preso storicamente avvio formale con Reagan e la Thatcher a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, è responsabile dell’esito “dittatoriale” del liberalismo nel senso della “dittatura globale della finanza apolide”, la “dittatura dei mercati finanziari”, conseguita alla liberalizzazione e deregolamentazione degli stessi, capaci di piegare alla loro irrazionale e famelica volontà persino gli Stati e le Federazioni di Stati e di letteralmente triturare i popoli tutti della terra nel grande frullatore della globalizzazione speculativa in uno scenario che sempre più ricorda il profetico ammonimento circa quel Potere, appunto globale, il quale «Faceva sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi, ricevessero un marchio sulla mano destra e sulla fronte; e che non potessero comprare o vendere senza avere tale marchio …» (Ap. 13, 16-17).
Un Potere Ofidico che, nonostante sia chiaramente annunciato come un Potere Finanziario (“ un marchio senza del quale non si può comprare o vendere”), un sodale filosofico di Antiseri, Flavio Felice, si ostina tuttavia ad identificare soltanto nelle soluzioni non mercantili, ossia non liberiste, tipo eventuali novelle “Bretton Woods” almeno europee, degli squilibri delle bilance dei pagamenti tra i diversi Stati, squilibri inevitabilmente creati dalla asimmetria del libero mercato – asimmetria ad esso connaturata ma non etica – che, mondializzatosi, ha svelato in verità il suo più autentico volto ossia quello del Nuovo Leviatano Globale (8).
La “Dittatura della Finanza” è stata resa possibile, secondo una dinamica ed una logica storico-filosofica ben evidenti, dalla deregolamentazione liberista dei mercati finanziari, ossia dall’abolizione, appunto iniziata negli anni ’80 dalla destra economica e portata a compimento nei decenni successivi dalla sinistra ex socialdemocratica, della previgente legislazione nazionale ed internazionale di “repressione finanziaria” che era volta al controllo del movimento dei capitali con lo scopo di mantenere il capitale finanziario al servizio degli Stati e dell’economia reale ossia di una economia sociale che aveva per obiettivo primario la crescita civile nella crescita dignitosa del lavoro e dell’occupazione.
Come, giustamente, annota Antiseri, vi è sicuramente un nesso indissolubile tra il Popper epistemologo, che dimostra come ogni scoperta scientifica sia anche una falsificazione (rilievo che vale anche per il suo “Platone totalitario” che è, appunto, una chiarissima falsificazione ermeneutica) sicché nessuna scoperta scientifica può assurgere al rango di Verità assoluta, e il Popper teorico della società aperta fondamento della quale è proprio la fallibilità della conoscenza umana.
Certo, Antiseri, da cattolico, gioisce di tale riconoscimento laico della non infallibilità della scienza, una prospettiva ermeneutica che ha avuto il merito di smontare le pretese scientificamente dogmatiche del vecchio determinismo positivista aprendo la strada al probabilismo epistemologico postmoderno, perché egli, e noi con lui se questa è effettivamente la sua posizione, correttamente identifica l’ambito dell’Assoluto soltanto con la Trascendenza, con la Metafisica, ma poi noi, a differenza di lui, ammettiamo che, tuttavia, il relativo immanente non può darsi senza riferimento ultimo all’Assoluto Trascendente.
D’altro canto, però, Antiseri – e questo ci pone forti perplessità sulla sua effettiva posizione – sembra dimenticare che Popper non avrebbe concesso credibilità alcuna neanche alla conoscenza metafisica, nella quale del resto il filosofo austriaco non riponeva nessuna fiducia come in una inesistente pretesa foriera di illiberale autoritarismo gnoseologico e violento dogmatismo intellettuale. A meno che – in questo stanno le nostre perplessità sulla sua posizione – anche Antiseri, sulla scorta di Wittgenstein, non ritenga che, sì, in effetti neanche la conoscenza metafisica ha validità assoluta, che neanche la Trascendenza sia normativa, sicché tutta la questione della fede, per lui, si riduce, luteranamente, ad un mero “fideismo” il quale sottende, in fondo, l’irrazionalità della fede medesima. E’ questa, del resto, l’unica posizione coerentemente liberale se si vuol fare professione di liberalismo, anche sul piano teoretico. Conciliare poi tale posizione con l’asserita fede cattolica è cosa certamente alquanto complicata, se non addirittura impossibile.
La difficoltà liberale a trattare con e del Politico si manifesta nel letterale terrore del liberalismo nei confronti del Potere, del Comando, indipendentemente dalla natura di tale comando e dei modi “endogeni” di esercitarlo. Problema, questo, della natura del potere, che invece, onde distinguere il potere tirannico da quello legittimo, è sempre stato l’oggetto, ed anche l’assillo, della riflessione filosofico-politica sin dai tempi, appunto, di Platone, riflessione alla quale poi i pensatori cristiani hanno apportato ulteriori acquisizioni fino alla teorizzazione, con tutti i suoi aspetti controversi e partigianamente strumentalizzabili, della legittimità, a certe condizioni, del tirannicidio.
Infatti, la questione del rapporto tra Verità e Potere non è stata, per quanto riguarda la sua critica a Platone, correttamente impostata da Popper che attribuisce al filosofo ateniese la volontà di creare, all’interno della Città politica, una gerarchia di casta, se non di razza, poi ripresa dai totalitarismi moderni, ponendo l’aristocrazia degli “illuminati” al vertice della società nel tentativo di rispondere alla basilare domanda “chi deve comandare?” Questa è la colpa principale che Popper imputa a Platone che avrebbe in tal modo prodotto « … una durevole confusione nel campo della filosofia politica» (9) dal momento che, ignorando la fallibilità dell’umana conoscenza, l’ateniese pretende che il comando sia riservato ai “filosofi” in quanto essi, e solo essi, sanno cosa è il bene e cosa è il male e quindi cosa sarebbe bene per la Comunità e cosa male. Senza che gli altri possano interferire in questa sapienza. Popper, in tal modo, vede in Platone l’iniziatore non solo dei totalitarismi ma anche della tecnocrazia.
Antiseri concorda con questa critica antiplatonica. «Da qui – egli scrive nell’articolo su Avvenire –  l’inconsistenza della domanda in cui si chiede “chi deve comandare?” (…). Per Platone devono comandare i filosofi, perché sono loro che sanno cosa è il Bene e cosa è il Male. E la stessa domanda ha in seguito ricevuto, di volta in volta, le risposte più disparate: devono comandare i religiosi, i militari, i tecnici, i “migliori”; no, deve comandare un re per grazia di Dio, un re per grazia di Dio e volontà della nazione, un re per volontà della nazione; deve comandare questo o quel ceto, questa o quella razza, questa o quella classe. La domanda “chi deve comandare?” sembra razionale e le risposte paiono, a prima vista, plausibili. Ma non è così, poiché andare alla ricerca di chi deve comandare è andare alla ricerca di ciò che non esiste: nessun individuo o razza o classe o ceto è venuto al mondo con l’attributo della sovranità sugli altri. E alla domanda “chi deve comandare?”, Popper sostituisce questa altra ben differente domanda: “Come possiamo organizzare le istituzioni politiche in modo da impedire che i governanti cattivi o incompetenti facciano troppo danno?”. È questa la domanda sottesa alla società aperta. Non chi deve comandare?, ma come controllare chi comanda: ciò è quanto vogliono sapere uomini fallibili che costruiscono, difendono e perfezionano le istituzioni democratiche, il primo vero bonum commune».
Troppo facile! Popper sorvola, appunto con troppa facilità, sotto il profilo sia storico che filosofico, sulle differenze sussistenti tra la Repubblica platonica, nella quale i “filosofi” sono sacerdoti, quasi “iniziati”, della Verità, ed i totalitarismi e le tecnocrazie che detta pretesa iniziatica e sacerdotale piuttosto imitano, essendoci di mezzo la secolarizzazione, e nei quali i militari, i capi partito ed i tecnici sono stati di volta in volta la parodia del “filosofo” platonico, se non altro perché quest’ultimo, nel pensiero dell’ateniese, aspirava alla conoscenza archetipica, iperuranica, quindi metafisica e trascendente, mentre gli altri solo al potere o tutt’al più alla pretesa di scientificità dell’ideocrazia di umana invenzione. Sicché è improprio paragonare ai totalitarismi del XX secolo, ed alle tecnocrazie bancocratiche che sembrano il nuovo emergente Potere in questo inizio del XXI secolo, la concezione certamente aristocratica dell’ateniese, che però altro non faceva che idealizzare la dumeziliana tripartizione funzionale, non solo indoeuropea ma propria a  tutte le società antiche, avendo quale esempio coevo concreto l’oligarchia guerriera di  Sparta, di sicuro affatto tenera ma non meno dell’imperialistica e colonialistica nonché guerrafondaia democrazia ateniese.
Senza dubbio in Platone sussiste ed è evidente l’idea di una gerarchizzazione castale legata in qualche modo al sangue ossia alla trasmissione ereditaria delle “virtù” – l’ideale di “bellezza e bontà” ossia la καλοκαγαθία –, o perlomeno delle basi potenziali di tali “virtù”, che, secondo il suo pensiero, abilitano sia alla conoscenza metafisica sia al comando, sicché senza detta trasmissione nessuno potrebbe invero aspirare alla conoscenza ed al potere legittimo. Questo è il “Plato antichristianus”, quello pagano e gnostico che svaluta da un lato la carne come ontologicamente nefasta, troppo valutando l’iperuranio come eccessivamente distante dal mondo, concependo la Trascendenza sconnessa a tal punto dall’immanenza da esserci un abisso incolmabile se non per chi è dotato appunto, per nascita, del potenziale iniziatico.
Tuttavia già la questione della comunanza delle donne, sicché i filosofi dovrebbero assicurarsi una discendenza indipendentemente da una sequenza rigidamente dinastica, sta lì a dimostrare che Platone intravvede la mobilità sociale e persino una potenziale eguaglianza tra gli uomini con relativizzazione dell’ordinamento castale, anche in ordine all’accesso alla conoscenza metafisica, che non sembra più esclusivamente riservata ad aristocrazie di sangue ma – si tratta indubbiamente di una idealizzazione tipicamente platonica – a chiunque sia nato da un filosofo, dove nel concetto di nascita inizia a profilarsi quella “nascita spirituale”, se vogliamo già sacramentale dal momento che i sacramenti possono anche concepirsi come iniziazione al Mistero, che è tipica del battesimo cristiano il quale, appunto, non conosce preclusioni di casta o di razza. Insomma non è possibile negare che in Platone sussistano, insieme a posizioni “pagane”, intuizione già profondamente cristiane sia riguardo, al netto dell’eccessiva svalutazione idealistica della materia presente nel suo pensiero, alla Trascendenza sia riguardo al modo di concepire la Comunità politica. Ecco perché i Padri della Chiesa hanno potuto recuperare un “Plato christianus” e farne un precursore, quasi un profeta o un preparatore, della Rivelazione cristiana tra i gentili.
Ora, non è a quanto di pagano c’è nel pensiero platonico che si dovrebbe far riferimento. Non è certo l’ordinamento per caste, per quanto aperto ad una certa mobilità sociale, che dobbiamo rivendicare del pensiero platonico e neanche la pretesa che un tale ordinamento corrisponda ad una tripartizione cosmicamente predeterminata che si rispecchia nella tripartizione dell’anima dacché l’umanità sarebbe rigidamente suddivisa, secondo una concezione evidentemente gnostica, in uomini spirituali, destinati solo essi alla salvezza iperuranica, uomini psichici, di incerto destino, e uomini tellurici, inevitabilmente dannati, senza alcuna possibilità di commistione tra tali categorie, – va comunque ricordato che in Platone la prevalenza di una o dell’altra parte del’anima, dell’anima di ciascun uomo che è per tutti tripartita indipendentemente dal rango sociale, sembra, in certi passaggi della sua opera, qualcosa che ha a che fare più con l’ascesi personale che con l’appartenenza di nascita: ed anche questa è una intuizione pre-cristiana dell’ateniese.
Quel che deve essere tenuto presente del pensiero filosofico-politico platonico è, piuttosto, se si accetta il “Plato christianus”, l’Ordine Etico che è sotteso alla tripartizione in questione e che solo in quanto etico può rivelarsi anche come Ordine Cosmico, e viceversa. Infatti la tripartizione platonica dice una cosa del tutto cristianamente sottoscrivibile ossia che il fondamento dell’Economico è nel Politico ed il fondamento del Politico è nel Teologico intendendo quest’ultimo come rivelazione dell’“Amore di Dio e del prossimo” che è l’essenza della Legge divina e, conseguentemente, naturale (Mt. 22, 37-40; Lc. 10, 25-28).
Questo postula il riconoscimento – che, come abbiamo detto, è libera scelta del cuore umano, sia di ciascuno nella sua singolarità personale sia, nello stesso tempo, di tutti gli uomini viventi nella Città politica – di un superiore fondamento tanto della Comunità politica quanto della società civile, quest’ultima coincidente con l’ambito delle relazioni di scambio (perché questa, in fondo, e non altro come pure credono i liberali ma anche i sostenitori dell’“economia civile”, è la società civile), quindi di un superiore fondamento tanto della Giustizia distributiva, che presiede verticalmente al Politico, quanto della Giustizia commutativa, che presiede orizzontalmente all’Economico.
Questo superiore fondamento è squisitamente teologico ed è attingibile, nell’Amor Dei mediante lo Spirito, la preghiera ed i sacramenti, da ciascun uomo e da tutti gli uomini senza distinzioni castali o di razza, pur nel riconoscimento delle naturali ed innegabili differenze vocazionali e di talento che li distinguono. Sicché nella distinzione tra Dio e Cesare, distinzione che oltretutto si manifesta nell’Universalità spirituale dell’Ecclesia a cospetto della particolarità e pluralità naturale delle nazioni, trova conferma, benché nella nuova Luce apportata dalla Rivelazione, la gerarchica tripartizione platonica tra Teologico, Politico, Economico, esattamente in questo ordine e non al contrario, e trova conferma la sovra-ordinazione, non però teocratica ma pre-politica e morale, della Chiesa sulla Comunità politica e sulla sfera economica.
Infatti, nonostante i cortocircuiti di tipo appunto teocratico, storicamente manifestatisi dalla svolta costantiniana in poi (benché si dovrebbe piuttosto dire dalla svolta teodosiana), e provvidenzialmente ormai superati, la Chiesa mai potrà rinunciare al proprio diritto-dovere, che è parte essenzialmente del mandato che ha ricevuto dal Suo Signore, di indicare all’umanità la giusta via da percorrere sia nella sfera politica sia nella sfera economica, quindi sia alla Comunità politica sia alla società civile. Un diritto-dovere che è inevitabilmente esercizio di un potere, benché morale, di giudizio in Nome di Colui che, essendo insieme Giustizia e Misericordia, non è venuto per condannare ma per salvare il mondo ma la cui parola è già automaticamente condanna, ora e nell’ultimo giorno, per chi la rifiuta (Gv. 12, 44-50).
Ma, a questo punto, la questione nodale che viene al pettine del cattolico liberale, il quale sposa il pensiero di Popper e quello di Hayek, è quella, dirimente ed insormontabile, dell’inammissibilità tanto per Popper quanto per Hayek, nonostante ogni contorsionismo dialettico, della possibilità stessa della Verità oggettiva – ed anche laddove i due grandi pensatori liberali la ammettessero non potrebbero che restarvi deisticamente indifferenti – e quindi dell’inammissibilità della legittimità di un preteso Ordine etico tripartito platonico-cristiano. Come pure dell’inammissibilità della pretesa ecclesiale di guidare moralmente gli uomini anche nella loro dimensione relazionale e pertanto politica e civile. Infatti, da un punto di vista coerentemente liberale, anche se da parte cristiana viene chiaramente rifiutata la teocrazia, che non è affatto cristiana, non potrà mai essere accettato il diritto-dovere della Chiesa di indicare la via agli uomini, in quanto poi, in concreto, tale diritto/dovere comporta inevitabili inferenze e riflessi, le cui modalità sono e devono essere senza dubbio storicamente condizionate e modulabili, sul Politico e sul Civile. Inferenze che un liberale puro non può ammettere. Nella pretesa docente della Chiesa Popper ed Hayek non possono non vedere che un arbitrario autoritarismo, un dogmatismo, che fa violenza alla libertà dell’individuo assoluto, ab-solutus, che per essi è l’unico metro di valutazione del reale. Ed è questo il punto insormontabile, dall’una e dall’altra parte.
                                                                                                        Luigi Copertino

NOTE
1) Cfr. D. Antiseri “Una linea di demarcazione tra società aperta e società chiusa”; facciamo qui riferimento al testo trasmesso on line il 19.09.2014 dal Centro Tocqueville-Acton, che è il nome originario della Mont Pelérin Society ossia di quella sorta di “massoneria liberista” la quale, negli anni del keynesismo trionfante dell’immediato dopoguerra, lavorava alla preparazione della svolta neoclassica e monetarista attuata poi dalle amministrazioni Reagan e Thatcher, rispettivamente negli Stati Uniti e nel Regno Unito.
2) Cfr. A. Del Noce “Prefazione” a Marcello Veneziani “Processo all’occidente – la società globale e i suoi nemici”, Sugarco, 1990. Un esempio concreto di questa reificazione mercantile della dignità umana è dato dalle recenti modifiche, già in atto o sul punto di diventare tali in tutti i Paesi aderenti alla cosiddetta zona euro dell’UE, nella legislazione dei rapporti di lavoro. Modifiche che configurano, nella sostanza, un ritorno al tempo del “padrone delle ferriere”. Abbiamo assistito, di recente, in un programma televisivo all’intervista di un imprenditore italiano stabilitosi in Germania entusiasta del sistema lì già vigente di agenzie private le quali, come appunto si fa con una qualunque merce, forniscono lavoratori alle imprese che li utilizzano fino a quando ne hanno bisogno per poi disfarsene, senza altri indugi, come fossero cose o schiavi, ponendo inoltre i costi sociali dei periodi di disoccupazione a carico dello Stato ossia della spesa pubblica, tanto criticata dai capitalisti ma non quando è utile ai loro tornaconti. Si tratta di un sistema oltretutto assolutamente cieco circa gli effetti, destabilizzanti nel lungo periodo per una qualsiasi economia, dell’impossibilità di costruire tra imprenditore, impresa e lavoratore un rapporto consolidato di fidelizzazione e reciproca fiducia, a tutto vantaggio della produttività e dell’utile sociale dell’azienda il quale poi costituisce l’oggetto della ripartizione, che dovrebbe essere equa, tra capitale e lavoro del reddito derivante dalla produzione.
3) Cfr. K. R. Popper “La società aperta e i suoi nemici”, Armando, 1994.
4) La differenza tra filosofo e sofista sta, per Platone, nel diverso atteggiamento verso la Verità. Mentre il primo, il vero filosofo, ricerca costantemente ed infaticabilmente i principi della verità, senza tuttavia la presunzione di possederla, il secondo, il sofista, che in politica si rivela spesso un demagogo, si lascia guidare dall’opinione soggettiva, facendone l’unico parametro valido della conoscenza.  Come osserva G. Movia, nel saggio “Il ‘Sofista’ e le dottrine non scritte di Platone”, in “Verso una nuova immagine di Platone”, pag. 233, Vita e Pensiero, 1991, «La sofistica imita la filosofia nel suo interesse per l’“intero”. Tuttavia, mentre il filosofo … non presume di avere scienza di tutto, di possedere tutte le scienze e tutte le tecniche, ma si propone di esibire i fondamenti primi delle scienze e delle tecniche, il sofista, invece, pretende di conoscerle tutte». Ora, questa “umiltà” del filosofo platonico, per il quale la Verità non è cosificabile, non è reificabile, e quindi non è sofisticamente manipolabile, è la migliore confutazione del “Platone totalitario” immaginato da Popper.
5) Cfr. J. Ratzinger “Fede, Verità, Tolleranza – Il Cristianesimo e le religioni del mondo”, Cantagalli, Siena, 2005, pp. 121-122.
6) Cfr. S. Cotta “La città politica di Sant’Agostino”, Milano, 1960. Si veda in proposito anche il saggio di Maurizio Manzin “La dottrina delle due città – il sacro e il politico in Agostino e nell’agostinismo medioevale” ne I Quaderni di Avallon, Rimini, Il Cerchio, numero 5 – 1984, pp. 67- 90.
7) Le citazioni in questione sono riportate da Antiseri nel suo articolo di cui alla precedente nota numero 1.
8) Cfr. F. Felice “70 anni di Bretton Woods e la perenne tentazione del serpente” in “Europa”, 25 luglio 2014. In detto articolo, criticando le proposte favorevoli ad una soluzione politica, della attuale crisi economica, mediante strumenti di tipo keynesiano quali l’istituzione di un’Autorità confederale (non centralisticamente federale!) regolatrice degli squilibri delle bilance dei pagamenti tra gli Stati aderenti all’euro – attraverso la trasformazione della moneta unica in moneta contabile comune e l’applicazione di sanzioni sia verso le posizioni di deficit che verso quelle di surplus commerciale e finanziario – si riafferma la cieca fiducia nelle capacità auto-regolative del libero mercato e, quindi, nonostante l’evidente disastro provocato da detta liberalizzazione attentamente studiata nei suoi effetti destabilizzanti da Hyman Minsky,  la piena fiducia nella assoluta ed incontrollata libertà di circolazione dei capitali. La liberalizzazione della circolazione incontrollata dei capitali finanziari è, infatti, responsabile della colonizzazione economica, con contestuale esplosione degli squilibri commerciali, delle economie meno forti da parte di quelle che adottano un aggressivo approccio mercantilista. Colonizzazione causata, appunto, dall’asimmetria naturale del libero mercato che, come ha dimostrato un allievo di Minsky, Roberto Frenkel, si manifesta, con tutte le conseguenze di distruzione sociale ed economica che ne derivano per la Nazioni risultanti perdenti nella partita,  tra Paesi forti e Paesi deboli quando le loro economie vengono unite artificialmente nella rigidità di un cambio fisso o peggio nella rigidità di una moneta unica. Questo è esattamente quel che è successo, nell’UE, tra la Germania e gli Stati euro-mediterranei, con l’introduzione dell’euro.
9) La citazione è riportata da Antiseri nel suo articolo di cui alla precedente nota numero 1.

da www.domus-europa.eu 

SI CONTINUA CON LA LEGGENDA DELL’INTOCCABILE ED INCOLPEVOLE CONCILIO VATICANO II (di Paolo Pasqualucci)

Sul sito Riscossa Cristiana, in data 20 settembre 2014, Cristina Siccardi ha presentato l’ultimo saggio del cardinale Giacomo Biffi, “Dodici digressioni di un italiano cardinale”, Cantagalli 2014. L’autrice rimarca che “il piccolo e saggio libro presenta variegati temi, distanti fra di loro, anche a livello cronologico, proposti con vivacità, dove il buon senso è l’arbitro della situazione. Si parla della lungimiranza di Pio IX, della sfida della castità, dell’ideologia della omosessualità, del connubio fra ragione e fede, dell’importanza della devozione mariana. Maria Santissima, nei momenti di confusione è la stella polare che indica la via”.
Come in altri precedenti testi dell’eminente porporato, il fedele troverà qui sicuramente molteplici spunti di ammaestramento e riflessione. Tuttavia, mi ha colpito il seguente rilievo di Siccardi, nella sua cristallina semplicità oggettivamente critico nei confronti dell’Autore:
“Un capitolo è dedicato anche al Concilio Vaticano II e al postconcilio. L’autore osserva unicamente gli aspetti negativi delle scelte pastorali postconciliari, senza considerare i tumulti di pensiero che avvennero fra i Padri dell’Assise e la problematicità dei testi che furono emanati”.

 Dispiace e rattrista dover constatare che anche una personalità stimata ed autorevole come il cardinale Biffi, sembri di fatto accettare la “vulgata” di coloro che, ancor numerosi, vogliono addossare esclusivamente al cosiddetto “post-concilio” la colpa della gravissima crisi che imperversa da circa cinquant’anni nella Chiesa, a cominciare dalla Gerarchia.
 Sua Eminenza si è mai domandato, mi sia lecito chiedergli, come mai né il Tridentino né il Vaticano primo abbiano dato luogo ad un “post-concilio” come l’attuale, che tutto ha messo sottosopra nella Cattolicità? E per quali motivi siano stati capaci, quei due grandi concili dogmatici, di promuovere una ripresa ed una rinascita della Chiesa tutta, nonostante difficoltà di ogni genere, di contro alla mondanizzazione e decadenza del clero e alle eresie pullulanti: quelle gravissime del protestantesimo scismatico e quelle non meno gravi del liberalismo e razionalismo, in piena fioritura all’epoca del Vaticano primo, successivamente combattute come di dovere anche dalle condanne fulminate da san Pio X contro il modernismo, che ne fu l’erede e il continuatore?
 Si è mai chiesto, mi sia permesso di insistere, se il ben diverso esito di quei due concili non sia per caso dipeso dal fatto che essi non hanno affatto allargato il concetto di Chiesa di Cristo sino ad includervi anche le comunità acattoliche, come ha invece fatto il “pastorale” Vaticano II (Lumen Gentium 8, Unitatis Redintegratio 3); non hanno inteso la Chiesa come una comunità non gerarchica sempre imperfetta, un “popolo di Dio” sempre in cerca della pienezza della verità (Lumen Gentium 4-8; Dei Verbum 8); non hanno tentato di insinuare una nuova dottrina dell’Incarnazione come “unione del Figlio di Dio in certo modo ad ogni uomo” (Gaudium et spes 22); non hanno introdotto una nuova dottrina della collegialità, mostruosità giuridica che ha prodotto due distinti titolari e due diversi esercizi della suprema potestà di giurisdizione sulla Chiesa: il Papa da solo e il Collegio dei Vescovi con il Papa (Lumen Gentium 22); non hanno voluto saperne di una “libertà religiosa” che sembra un calco di quella professata dalla laicità atea e miscredente (Dignitatis humanae, tutt’intera); non hanno gettato il dubbio sul dogma dell’inerranza biblica (Dei Verbum 11); né reso insicura la “teologia della sostituzione” che giustifica l’esser la Chiesa fondata da Cristo Nostro Signore l’Israele dello Spirito di contro a quello della carne, che ha rifiutato e ostinatamente continua a rifiutare il Messia (Nostra aetate 4); né affermato che i mussulmani “adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini” (Nostra aetate 3): patente falsità, dal momento che il loro libro sacro rifiuta esplicitamente il dogma della SS.ma Trinità, che essi non capiscono, considerandolo assurdamente idolatria (allo stesso modo degli ebrei) da punire con la morte. Né, infine – ma potrei continuare ancora a lungo – resa incerta la vera natura del matrimonio, facendo ambiguamente della procreazione ed educazione della prole non più il fine primario, assolutamente preminente, bensí il “coronamento” dell’istituto matrimoniale e dell’amore coniugale (Gaudium et spes 48).


Paolo Pasqualucci