sabato 28 febbraio 2015

Note sulla resistenza di Matteo Salvini all'immigrazione selvaggia

 La Lega di Matteo Salvini promuove e conduce, insieme con i movimenti della destra radicale, una ferma e ragionevole opposizione alla politica pseudo umanitaria del governo italiano, responsabile di una scelta demagogica che sta facilitando l'immigrazione di stranieri dall'incerta identità e dalla oscura intenzione.
 Quantunque apprezzabile, l'opposizione di Salvini manifesta, purtroppo, i limiti di una proposta finalizzata a risolvere una emergenza infelicemente gestita dal governo Renzi ma  causata dalla pesante crisi demografica, ossia dall'allarmante discesa della popolazione italiana sotto la soglia di sostituzione.
 L'immigrazione è la infelice e drammatica risposta alla galoppante denatalità causata dalle disgraziate e infami leggi proposte, negli anni del ruggente delirio sessantottino, dal duo lib-lab Fortuna & Baslini e approvate dall'ignavia dei c. d. moderati. 
 Non è possibile contrastare efficacemente la sgangherata logica immigrazionista senza risalire alle sue nascoste cause - diminuzione e invecchiamento della popolazione italiana - e senza proporre adeguate contromisure, cioè leggi (di segno opposto per diametro a quelle dettate dal vaneggiamento sessantottino) a sostegno delle famiglie italiane.
 Per avviare un'azione finalizzata a sostenere le famiglie italiane occorre fare chiarezza sul dubbio contributo offerto dai vaghi frammenti di una destra inquinata dalle suggestioni del pensiero iniziatico/magico procedente nella direzione malthusiana indicata dai necrofili, che occupano i vertici del potere finanziario. 
 Purtroppo la cultura della destra è largamente inquinata dal pensiero di Julius Evola, un autore che ha condiviso e quasi anticipato gli argomenti terroristici dei neo-malthusiani.
 Discepolo di Reghini e di Guénon, Evola, nel 1952 osservava, con spavento e orrore, la crescita della popolazione mondiale e affermava: "ci troviamo al cospetto di una fiumana che avanza ingrossandosi  sempre di più con l'effetto di acutizzare crisi e disordini di ogni specie" [1].
 Nel 1952 Evola, capovolgendo la verità oggi sotto gli occhi di tutti, scriveva, nel saggio citato che "fra i fattori del disordine e della crisi dei tempi moderni, oltre a quelli dovuti a processi di sovversione ... ve ne sono altri aventi un carattere naturale e che hanno un'efficacia solo perché l'uomo non prende posizione di fronte ad essi. Un fattore particolarmente importante di questo secondo genere è costituito dall'incremento della popolazione".
 Di qui una tesi che anticipa le idee malthusiane della banca felice: "Non vi è dubbio che ove fosse possibile ricondurre il mondo alla densità di popolazione che si aveva tre secoli fa conservando il grado attuale di civiltà materiale le questioni sociali ed economiche che travagliano i popoli di oggi si renderebbero pressoché irrilevanti".
 Mescolate alle oscure verità della destra evoliana le buone ragioni di Matteo Salvini scendono al livello di una protesta circolante su se stessa.

Piero Vassallo
 




[1]             Cfr. Gli uomini e le rovine, a cura di Tommaso Passa, edizioni dell'Ascia, Roma 1952, pag. 207.

venerdì 27 febbraio 2015

A CIVITELLA DEL TRONTO, DOPO LA RESA, FU MASSACRATA L’INTERA GUARNIGIONE di 291 SOLDATI? NESSUNO NE AVEVA MAI SENTITO PARLARE, LE PROVE DOVE SONO? (di Paolo Pasqualucci)

Il dr. Pucci Cipriani, del quale ho sempre apprezzato i caustici interventi di critica del costume e in difesa della nostra religione, in un articolo intitolato “Non mi arrendo!” pubblicato su ‘Riscossa Cristiana’ del 27 febbraio corrente, nel quale annuncia il programma del 28mo incontro nella “Fedelissima” Civitella del Tronto, “grande raduno annuale della Tradizione”, rievocando molto sinteticamente i trascorsi fatti militari, scrive:  “Dopo la caduta dell’eroica Gaeta (dicembre 1860) ancora tre mesi resisterà la “fedelissima” Civitella del Tronto – e non saranno gli obici dei nemici a vincere la gloriosa Roccaforte ma, come sempre, il tradimento interno, come sempre – finché i bersaglieri non passeranno per le armi quel pugno di puri eroi che difesero “usque ad effusionem sanguinis” la bianca bandiera gigliata ricamata dalla Regina Sofia, etc.[…] La fucilazione sommaria avviene dietro la chiesa di Civitella.  Vengono “giustiziati” con la fucilazione alle spalle, come i “traditori”, dall’esercito dei lanzichenecchi piemontesi… padre Zilli da Campotosto […] cadrà sotto i colpi del plotone dei bersaglieri benedicendo, con lo sguardo rivolto al cielo degli eroi, al Regno celeste etc.” (p. 2 di 3, corsivi miei; i puntini non in parentesi quadre si trovano nel testo).
Da queste righe, cosa si deduce?  Se ho ben interpretato, che i bersaglieri fucilarono l’intera guarnigione arresasi, ivi compreso il loro cappellano.  Un’atrocità inaudita:  291 soldati, per di più valorosi combattenti! E come mai nessuno ne aveva sentito parlare, di una simile strage?  Sbalordito dalla notizia, ho cercato di ricostruire sinteticamente i fatti, cominciando con la “Storia militare del Risorgimento” di Piero Pieri, un’opera che resta fondamentale, anche se poco o punto amata dalla saggistica antiunitaria attuale (ma a torto, perché nel I capitolo intitolato “Il risveglio guerresco italiano (1796-1815)” l’autore dà il giusto spazio e riconoscimento alle “insorgenze popolari” dell’epoca) [1].  Ho poi integrato con quanto ho trovato su wikipedia e siti neoborbonici vari, alle voci “Civitella del Tronto” e “Padre Zilli da Campotosto”.
Civitella era una piccola ma massiccia fortezza, posta su un dirupo scosceso quasi imprendibile, in posizione strategica rispetto alla vie di comunicazione. I Piemontesi, nonostante i bombardamenti ed alcuni assalti non riuscirono a conquistarla.  Alle spalle furono anche attaccati (almeno) due volte da bande di civili armati “guidati da gendarmi borbonici”, che cercavano di rompere l’assedio e che furono ogni volta respinte.  Dopo la resa di Messina e di Gaeta (pervenuta la notizia a Civitella il 18 febbraio 1861), Francesco II di Borbone fece avere agli assediati l’esortazione ad arrendersi mediante il generale borbonico Morozzo della Rocca (forse è questo “il tradimento” del quale parla il dr. Cipriani?).  Il 17 marzo era stato proclamato il Regno d’Italia e l’assedio di Civitella era diventato una caso internazionale, esso rappresentava un ostacolo al riconoscimento del nuovo Regno da parte delle grandi potenze europee.  Il 21 marzo la fortezza capitolò e la guarnigione superstite fu presa prigioniera. Risulta una fucilazione, poche ore dopo la firma della resa e prima che lo Stato Maggiore dei vincitori vi prendesse possesso: quella del sergente Domenico Messinelli, che si era rifiutato di eseguire l’ordine di resa (insubordinazione, quindi).  Non sono riuscito a capire se sia stato fucilato per ordine dei generali italiani vincitori o del generale borbonico Della Rocca e se il suo rifiuto si sia concretato in qualche gesto ostile.  In un sito neoborbonico si dice che “Domenico Messinelli e Zopito Bonaventura venivano fucilati per rappresaglia sul piazzale Belvedere, senza formulazione di capi d’imputazione a loro carico e senza processo; poche ore dopo, sette partigiani venivano fucilati alle Ripe di Civitella; i cadaveri rimanevano insepolti.  Le fucilazioni proseguivano nei giorni successivi, dopo la costituzione di un consiglio di guerra composto da sei ufficiali.  Il 3 aprile veniva fucilato padre Leonardo Zilli da Campotosto, negandogli i sacramenti che aveva chiesto”.  I “partigiani” erano evidentemente degli irregolari catturati dai Piemontesi e la fucilazione di Padre Zilli deve molto probabilmente ritenersi collegata all’attivita’ di questi ultimi.  Da questi dati, di fonte neoborbonica, non risulta che le fucilazioni riportate  abbiano avuto di mira i soldati arresisi; colpivano invece gli irregolari che attaccavano con metodi di guerriglia (non ancora diventati “briganti”, scaduti cioè nel tradizionale – e feroce – banditismo centro-meridionale, fenomeno endemico e plurisecolare, non dimentichiamolo).
Da queste pur sommarie ricerche si ricava che:  1.  Non risulta alcuna fucilazione in massa della guarnigione arresasi.  2. Il cappellano della stessa fu fucilato in un secondo tempo, probabilmente in connessione con l’attività degli irregolari borbonici.  3.  Ci furono (molto probabilmente) fucilazioni di alcuni di questi irregolari presi prigionieri.  Si trattava di fucilazioni di rappresaglia, crudele contorno dei metodi spietati messi in genere in opera dai “guerriglieri”, come dimostra la storia.  Considerazione ulteriore: L’assedio di Civitella, fatto di per sé militarmente del tutto secondario, aveva assunto notorietà internazionale perché legato al riconoscimento del nuovo Regno:  lo sterminio della guarnigione dopo la resa non sarebbe di sicuro passato inosservato.  Lo scandalo sarebbe stato enorme.  
La guarnigione constava di circa 500 soldati (382 secondo alcune fonti) con pochi cannoni. Gli assedianti arrivarono ad un massimo di circa 3500 uomini (3379 secondo alcune fonti) con una ventina di cannoni, alcuni dei quali moderni.  I prigionieri furono 291.  Secondo alcune fonti un centinanio circa di difensori riuscirono a disperdersi nei boschi. Un centinaio circa sarebbero stati in totale i caduti borbonici.  In numero minore i piemontesi.  Le cifre sono approssimative.
Circa i prigionieri avviati al Nord, ho letto su vari siti:  “per non più ritornare”.  Sarebbero periti nei “lager dei Savoia”.  La saggistica antiunitaria ma anche antiitaliana (le due cose sono collegate, a mio avviso, perché chi vuole oggi tornare ad un’Italia divisa in regioni-Stato e staterelli, vuol tornare alle divioni e agli odi del passato, mosso evidentemente dall’avversione per l’italiano che non è del suo campanile, della sua regione) – questa saggistica dai toni troppo spesso imaginifici (quanto all’esaltazione del passato e alla demonizzazione dell’avversario), ha fabbricato il mito negativo dei “lager dei Savoia”, nei quali sarebbero stati fatti perire in gran numero i soldati borbonici prigionieri.  Per la documentata confutazione di quest’assurda vulgata, segnalo:  Alessandro Barbero, I prigionieri dei Savoia.  La vera storia della congiura di Fenestrelle, Laterza, Bari, 2012, pp. 366, e in particolare l’ultimo capitolo: Miseria della storiografia, pp. 292-316, che denuncia con validi argomenti il carattere unilaterale e violento di questa “storiografia”, adusa ad uno sconcertante linguaggio da guerra civile).

Paolo Pasqualucci



[1] P. Pieri, Storia militare del Risorgimento. Guerre e insurrezioni, Einaudi, Torini, 1962, p. 726 per Civitella del Tronto.  Pieri non parla di fucilazioni a Civitella.  Se l’intera guarnigione fosse stata massacrata, non credo avrebbe potuto tacere la cosa.

mercoledì 25 febbraio 2015

SASSOLINI NELLA SCARPA (di Piero Nicola)

Anzitutto a proposito di miei recenti articoli, cerco di scaricare alcune pungenti obiezioni, giuntemi implicite o indirette, per le quali osservo il rispetto dovuto a chi combatte la comune buona battaglia.
  Dissi che per uscire dalle teorie e affrontare la realtà con cui fare i conti, occorreva rivolgersi alla storia nei suoi esempi buoni o cattivi, seppelliti disgraziatamente. Così facendo, però, s'incontra il Ventennio, intorno al quale si sono levate tante prevenzioni che fanno tralasciare valori preziosi, ovvero i mezzi con cui si riprendere quota.
  Tralascio gli ostacoli inesistenti dello storicismo e dell'evoluzionismo, sebbene non sia inutile ricordarli.
  Ma il fascismo - si dice - fu una dittatura totalitaria, istituì la statolatria (culto religioso dello Stato), che venne accusata da Pio XI, e pertanto la lezione fascista è resa invalida contraddicendo notevolmente la verità della Chiesa, sebbene la Chiesa non abbia condannato il regime di Mussolini, a differenza dell'attacco che sferrò al nazismo. Non bastano la giustizia sociale largamente instaurata, le provvidenze per i prestatori d'opera, le opere pubbliche, la salvaguardia dell'economia e della finanza dalle minacce della plutocrazia internazionale, a salvare lo spirito e le soluzioni di quell'epoca, cui viceversa io ritengo che si debba attingere, anche passando oltre. Certo non basta la riconosciuta concordanza con la dottrina sociale della Chiesa.
  Un appunto che si suole muovere è che lo Stato del Ventennio prevaricò sull'autorità dei genitori, ledendo i diritti della famiglia, e intese appropriarsi dell'individuo al di là del giusto.
  Nella Divini illius Magistri (31 dic. 1929) proprio Pio XI spiegava che "la famiglia [pur avendo una priorità di diritti rispetto alla società civile] è società imperfetta, perché non ha in sé tutti i mezzi per il proprio perfezionamento, laddove la società civile è società perfetta, avendo tutti i mezzi necessari al fine; onde, per questo rispetto, cioè in ordine al bene comune, essa ha preminenza sulla famiglia".
  Società perfetta, soprannaturale, suprema nel suo ordine è la Chiesa. In essa l'uomo nasce, tramite il Battesimo, alla vita della Grazia.
  Dunque, osserva il Pontefice, tutte e tre le società hanno il compito di educare. Esso appartiene in modo superiore alla Chiesa, che dal suo Divino Fondatore ne ha ricevuto il mandato: "Al quale Magistero è stata da Cristo conferita l'infallibilità col mandato di insegnare la Sua dottrina". E cita l'Enc. Libertas (1888): "Nella fede e nella istituzione dei costumi, Dio stesso ha fatto la Chiesa partecipe del divino magistero e, per beneficio divino, immune da errore;  ond'è degli uomini maestra suprema e sicurissima".
  Egli pone l'accento sul diritto della Chiesa di giudicare qualunque insegnamento, perché "al pari di ogni azione umana, ha necessaria relazione di dipendenza dal fine ultimo dell'uomo".
  Quindi allega una formula di Alessandro Manzoni. "La Chiesa non dice che la morale appartenga puramente (nel senso di esclusivamente) a lei, ma che appartiene a lei totalmente".
  Ora, il Concordato del 1929 prevedeva tali esigenze e le adempiva con bastante soddisfazione di Papa Ratti.
  Vedremo quando egli ebbe da eccepire e da protestare contro le infrazioni imputate allo Stato, che furono occasionali e rimediate. Diversamente, il Vaticano non avrebbe potuto tollerare oltre.
  A questo punto, conviene riconoscere che in qualche modo era stato negletto "il diritto inalienabile della Chiesa, e insieme suo dovere indispensabile" di "vigilare tutta l'educazione dei suoi figli, i fedeli, in qualsiasi istituzione pubblica o privata, non soltanto rispetto all'insegnamento religioso ivi impartito, ma per ogni altra disciplina e per ogni ordinamento, in quanto abbiano relazione con la religione e la morale" (Codex I. C,  cc. 1381-1382).
  In realtà, nelle scuole si insegnarono, senza la debita critica, la materia filosofica, quella delle religioni e la storia del Risorgimento.  Mancanze non lievi. Di questi scogli, bisogna prendere buona nota!
  Circa il diritto naturale educativo della famiglia, che deve precedere quello dello Stato (la patria potestà è di tale natura che non può essere né soppressa né assorbita dallo Stato), va nuovamente rilevato che la famiglia, se viene meno al dovere di educare secondo verità, il suo diritto decade. È sottinteso nel C.I.C., can. 1113: "I genitori sono gravemente obbligati a curare a tutto potere l'educazione sia religiosa e morale che fisica e civile della prole" (citato nell'Enc.)
 L'Enciclica prosegue: "Spetta allo Stato proteggere il medesimo diritto della prole, quando venisse a mancare [...] moralmente l'opera dei genitori, per difetto, incapacità o indegnità, giacché il loro diritto educativo [...] non è assoluto o dispotico, ma dipendente dalla legge naturale e divina, e perciò sottoposto [...] altresì alla vigilanza e tutela giuridica dello Stato in ordine al bene comune".
  Nel documento, indubbiamente rivolto a correggere o prevenire inizi di prevaricazione, il Papa intende convincere il Capo del governo che le istituzioni ecclesiastiche avrebbero formato cittadini e servitori della Cosa pubblica meglio di qualsiasi altro omologo istituto civile.
  Ma, come per i genitori e le famiglie soggette a sgarrare, nelle organizzazioni cattoliche laiche non potevano esserci deviazioni morali e dottrinali, per cui si agisse politicamente contro il potere costituito? Il Papa lo nega. Poiché nella chiesa serpeggiava ancora il modernismo - forse a insaputa del Vicario di Cristo - era verosimile che nell'Azione Cattolica agisse il sovversivismo e la diffusione di falsità ideologiche. E questo fu il motivo dichiarato della breve persecuzione - comunque eccessiva e ingiustificata - che essa dovette subire.
  Mussolini si lasciò andare a frasi infelici, che di fatto lasciarono il tempo che trovarono.
  Al di fuori da qualsiasi errore dogmatico, Papa Sarto non commise discutibili valutazioni riguardo all'opposizione armata dei Cristeros del Messico, negando loro un pieno riconoscimento?
  D'altronde, nell'Enciclica non si trascura di biasimare l'educazione permissiva e liberatoria, secondo i presupposti errati che abbandonano la legge divina e annullano la "nativa fragilità della natura umana", le conseguenze del peccato originale. Fin da allora, veniva avanzato il "pernicioso" "metodo della coeducazione": "confusione d'idee, che scambia la legittima convivenza umana con la promiscuità ed eguaglianza livellatrice".
  A proposito degli statali pretesti politici per strappare i fanciulli dal seno della famiglia e deformarne il carattere, l'accusa è, per ora, rivolta al "paese" dove di adottano "le estreme teorie socialiste".
  L'anno seguente (29 giu, 1931) compare l'Enciclica Non abbiamo bisogno. Il Pontefice volle far risonare in tutto il mondo la sua protesta per la chiusura di circoli dell'Azione Cattolica e lo scioglimento di altre associazioni di laici, presunte colpevoli di cospirare contro l'ordine stabilito. "Si è tentato di colpire a morte quanto vi era e sarà sempre i più caro al Nostro cuore di Padre e Pastore di anime... e possiamo bene, dobbiamo anzi soggiungere: e il modo ancor m'offende".
  Sottolineo questa affermazione: "Se tacessimo, se lasciassimo passare, che è dire se lasciassimo credere, Noi saremmo troppo più indegni, che già non siamo, di occupare questa augusta Sede Apostolica".
  Lo sdegno va al sopruso, alle maniere, alla menzogna della stampa non libera, agli impedimenti posti alla trasmissione dei mezzi di salute, e lancia l'accusa di voler "monopolizzare interamente la gioventù, dalla primissima fanciullezza fino all'età adulta", attacca l'istituto del regime basato su "una ideologia che dichiaratamente si risolve in una vera e propria statolatria pagana". Ma, rivolto ai Venerabili Fratelli, egli precisa che "con tutto quello che siamo venuti finora dicendo Noi non abbiamo voluto condannare il partito ed il regime come tale. Abbiamo inteso segnalare e condannare ciò che nel programma e nell'azione di essi abbiamo veduto e constatato contrario alla dottrina ed alla pratica cattolica e quindi inconciliabile col nome e con la professione di cattolici".
  Quelle denuncie non si ripeteranno, né avranno avuto occasione di ripetersi, dovendo noi prestar fede al dichiarato proposito papale di non mai tacere i fatti gravi.
  L'antifascista postillatore dell'Enciclica, dopo aver osservato che "il singolare documento" ha "lo storico valore di affermare l'inconciliabilità tra la dottrina cattolica e quella del fascismo", gli tocca mostrare la contraddizione pratica: "Il che non ha impedito che dopo questa enciclica per molti anni, dal 1931 al 1943, i rapporti tra la Chiesa e il fascismo si mantenessero costantemente cordiali; per cui è da ritenersi che fosse intervenuta una nuova segreta riconciliazione".
  Mussolini aderì "sostanzialmente alle perentorie richieste del Pontefice. Ne seguì infatti l'accordo di cui fu data notizia con un comunicato del settembre, che seguiva di due mesi l'enciclica".
  È innegabile che in alcuni documenti Mussolini abbia formulato concetti di statolatria, ma, come hanno sempre insegnato i Pontefici, conta poco la carta di un governo, se il governo stesso vi pone un concreto rimedio. Per converso, lo Statuto faceva propria la religione cattolica, e però la monarchia costituzionale l'aveva calpestata.
  Di volo, apprendiamo che c'era una "ecclesiastica assistenza delle Associazioni giovanili del regime e del partito", la quale, come l'"istruzione religiosa nelle scuole", non avrebbe potuto supplire all'opera delle altre Associazioni cattoliche.
  Quanto alla dittatura unita alla corona, non sono forse equiparabili ad essa i regni cattolici che ebbero bisogno di preservare la propria integrità? Del resto, il consenso popolare non mancò; tuttavia i nemici interni ed esterni, o anche soltanto gli ingenui seduttori, costituivano un pericolo notevole. Nessun sistema, nemmeno la democrazia può permettersi chi ne contesti il valore. La libertà vi è concessa a tutti, eccettuati quelli che si oppongono al convenuto concetto di essa. Eppure, si dimostra che certe libertà sono affatto abusive e rovinose.
  Il totalitarismo decade ugualmente con l'unanimità. E che cosa c'è di più proficuo per la vita pubblica che l'assenza di fazioni e di divisioni?
  E quale totalitarismo, quando si esprimono  voci differenti della cultura e anche tesi ideologiche - che il Ventennio ospitò, pur concedendo spazio a teorie fallaci e deleterie? La cultura fascista risulta variegata e indefinibile: va dalla fedeltà all'ortodossia cattolica, all'idealismo gentiliano, al ghibellinismo evoliano. Altra e d'indirizzo costante su punti essenziali, fu la realizzazione politica, che può definirsi meglio suddividendola per periodi storici, in cui vi furono cambiamenti anche notevoli.
  Il riferimento al periodo centrale è di certo il più istruttivo.
  Per avere la maggiore obiettività consulto l'Enciclopedia Cattolica. Nel 1950, a bocce ferme e archiviate, nello Stato del Vaticano si registrarono liberamente questi giudizi sul fascismo:
  Dopo il Concordato, in cui si rinunziò alla laicizzazione dello Stato rendendo attivo il 1° art. dello Statuto Albertino (la religione cattolica religione dello Stato), anche nella legislazione italiana dovevano ammettersi i diritti (inclusi quelli sulle materie miste) e la completa missione della Chiesa.
  Sul "contraccolpo che i patti lateranensi ebbero nelle correnti fasciste più anticattoliche", con consentimento ad esse e cedimento eretico e irriverente di Mussolini, troviamo: "la concezione totalitaria della vita dello Stato, di cui il fascismo dimostrò ben presto di non sapersi spogliare neppure nei confronti della Chiesa".
  La crisi, vista sopra, si risolse con il fascismo che si piega "di fronte all'autorità pontificia [...] e lo fece con gli accordi del sett. 1930".
  Fuori del temporaneo, "la politica del fascismo appare dominata dall'idea di uno Stato autoritario e gerarchico, in nome della quale la libertà del singolo poteva essere fino a un certo punto sacrificata".
  La definizione appare aurea: un sacrificio della libertà individuale in cambio della pace sociale e del libero operare per il bene comune, mirando a determinati valori, con le pecche e gli eccessi comportati da ogni umana attività.
  Dottrina ufficiale del partito: "una dottrina dello Stato autoritario e corporativo in contrapposto allo Stato democratico e liberale". - Il termine statolatria o altri simili attributi restano assenti.
  "Ma più che spinto da una propria originale dottrina politica, il f. sembra essere stato guidato da esigenze più immediate e contingenti": eliminazione di un sistema inetto a reggere lo Stato; valori della nazione da riportare in vigore e in onore nel mondo.
  "Questi due motivi del f. (la critica alla società liberale e alle istituzioni democratiche e la valorizzazione della tradizione nazionale) erano tali che potevano facilmente affermarsi anche fuori d'Italia: intorno al f. italiano si assisté così, nel periodo fra le due guerre, all'affermarsi di movimenti fascisti e di derivazione fascista in Europa (Germania, Spagna, Portogallo, Ungheria, Romania, Grecia) e fuori (Turchia, Argentina, Brasile): questo espandersi del f. oltre i confini d'Italia rivela che, a parte il valore intrinseco della formola, esso si presentava come un tentativo per superare una crisi che era in atto tra il 1920 e il 1940".


Piero Nicola

Serafino Sordi: La reazione cattolica al liberalismo

 Dalla tabula rasa, sulla quale strisciano gli ultimi valori della modernità, il liberalismo emana il flash di una doppiezza bonaria, che seduce e imbroglia il magistero cattolico, inducendolo a procedere in doppia fila: voce debole verso le patetiche suggestioni libertine e sodomitiche, predicazione stentorea in difesa dei poveri, da un pulpito pacifista, che rende incapaci di vedere le ruvide corde, che la cultura libertina, in figura di banca patibolare, stringe intorno alla gola dei popoli reietti.
 Con scelta coraggiosa, Amicizia Cristiana, casa editrice attiva, in controtendenza, a Chieti, propone un testo di padre Serafino Sordi s. j., Catechismo cattolico sulle rivoluzioni, prezioso sussidio all'orientamento dei cattolici smarriti e sconcertati dal tenebroso scenario allestito dagli strozzini, bifidi banditori del liberalismo, motore schiavistico delle perversioni sessuali.
 Teologo geniale e fedele interprete della filosofia di san Tommaso, il padre Sordi (Piacenza 1793 - Verona 1865) fu autore di puntuali confutazioni del liberalismo, figliastro della tenebrosa e maledetta eresia luterana e motore delle sanguinarie rivoluzioni e delle guerre, che tormentarono il XIX secolo [1].
 Nel saggio sulle rivoluzioni, pubblicato dalle Edizioni Amicizia Cristiana, padre Sordi rammenta, anzi tutto, che i cattolici "non amano più una forma di governo che un'altra: essi sono disposti a coscienziosamente seguire ed obbedire a qualunque governo si succeda, purché ciò segua legittimamente, come legittimamente passammo dalla Monarchia assoluta alla costituzionale".
 Fedele alla tradizione cattolica, irriducibile all'assolutismo sia monarchico che democratico [2], padre Sordi sostiene risolutamente che non si deve credere "che il monarca terreno sia un padrone assoluto e indipendente, il quale non abbia nessuno sopra di sé; che anzi egli non è tanto padrone, quanto ministro del Supremo Signor dell'universo. Dei enim minister est. E come Dio è un bene infinito, senz'ombra di male, così il principe è suo ministro per promuovere il bene fra le genti e non il male. Dei enim minister est in bonum"
 Di qui l'apprezzamento sincero dello Statuto albertino, che "dichiara Religione dello Stato la Religione Cattolica, e quindi induce in tutti i sudditi l'obbligazione di rispettarla".
 Padre Sordi deplora tuttavia la debolezza e l'infingardaggine del potere, esercitato nel segno della doppiezza, dal governo di Vittorio Emanuele II, sovrano in perpetua oscillazione tra fede e fellonia. Il re infatti, rammenta padre Serafino, esercitò un potere ipotecato dai liberali, che tolleravano l'esistenza di "giornali infami, che non cessano di fare orribile scempio della Religione a danno dei fedeli, e loro non si pone alcun freno".
 Di seguito padre Sordi afferma un principio, l'illiceità della diffamazione a mezzo stampa, ieri ed oggi sistematicamente violato dal giornalismo di cialtronesco conio liberale: "La stampa è libera, ma non si può con essa creare odio ad un ceto di persone qualunque: e intanto i fogli [liberali] non rifiniscono di versare il disprezzo sul ceto ecclesiastico: da che ne viene che il suo ministero non ha più sui popoli tutta la salutare sua influenza con temporale e spirituale loro detrimento; e niuno pensa a rattenere un tanto male".
 Notevole e quanto mai attuale è anche l'auspicio, formulato da padre Serafino e rivolto ai liberali affinché "il denaro che i cittadini sudano a raccogliere per i loro bisogni, non si sciupi, non si disperda inutilmente, e i milioni non svaniscano e non si sappia dove siano iti".
 Attuali sono altresì le obiezioni che padre Sordi indirizza contro i fautori dell'allora albeggiante perdonismo radical chic. Quasi per smentire le ragioni della chimera svuota carceri, è proposta una lode della vera clemenza "quella il cui esercizio non torna in danno della società, non quella clemenza inumana, che coll'impunità del delitto rende più audaci i delinquenti e fomenta le violenze, le rivolte, i disastri, gli sconvolgimenti e le stragi delle intere nazioni. ... sarebbe inumanità nel principe se lasciasse periocolar tutto il regno per risparmiare un pugno di scellerati. ... vera clemenza è usare della giustizia".
 Il testo di padre Sordi è pertanto suggerito ai lettori cattolici quale efficace antidoto al buonismo e al suo strascico di velenose illusioni, in corsa al seguito dei governi progressisti e/o di falsa destra.

Piero Vassallo




[1] Serafino Sordi fu strenuo protagonista della nobile battaglia per l’osservanza delle primitive costituzioni ignaziane (che contemplavano la fedeltà alla dottrina di san Tommaso). Prima di entrare nell’ordine dei gesuiti aveva studiato nel seminario di Piacenza, sotto la guida illuminata di padre Vincenzo Buzzetti. Fu autore di due pregevoli manuali, “Ontologia” e “Theologia naturalis”, pubblicati postumi. E’ il caso di segnalare che il nome di Serafino Sordi è cancellato dal bianchetto purificatore, usato dagli storici conformi alla teologia dominante nella Chiesa del post-concilio.
[2] A proposito di assolutismo democratico cfr. Pio XII, Radiomessaggio nel Natale del 1944.

domenica 22 febbraio 2015

QUESTA NOSTRA RELIGIONE E LA SOCIETÀ (di Piero Nicola)

  Ci si chiede quale sia l'azione feconda che i cattolici odierni possano svolgere nella vita civile, quale il loro apporto costruttivo nella società. Ebbene esso è nullo, anzi negativo.
  La religione cattolica risulta viziata da gravi errori permanenti, sicché essa è diventata inservibile agli effetti del rimedio da apportare alla crisi etica da cui il mondo è affetto e reso folle agonizzante.
  L'apparato che rappresenterebbe la Chiesa ha assimilato nella sua dottrina certi principi del secolo. Primo fra tutti quello per cui la Chiesa non è la sola custode della Verità e della via di salvezza. Infatti si è acconsentito che le diverse religioni o filosofie possano, pur con alcuni difetti, servire agli uomini per fare il bene necessario ed anche condurre al fausto destino ultramondano.
  Che questa affermazione sia eretica non ci vorrebbe molto a dimostrarlo con dogmi inconcussi; dunque lo diamo per acquisito.
  Altre lesioni della Verità e della Legge di Dio si connettono alla precedente: l'aver stabilito il diritto a corrompere le coscienze e le anime con false dottrine; l'eliminazione della condanna di tali dottrine o eresie (sempre accusate dalla Chiesa come peste per le anime); il dialogo ecumenico o amicizia con eretici e infedeli; il laicismo consistente nella separazione degli stati dalla Chiesa e la rinuncia di quest'ultima a proclamare illegittime le leggi inique ed empie; il non essere generalmente necessari il Battesimo e l'ingresso nella Chiesa (errore del pelagianesimo, implicitamente affermato ponendosi una facoltà di trovare Dio, della quale tutti disporrebbero), ecc.
  Inoltre, ultimamente, sulla scia di tutto questo si è introdotta l'ammissione del dubbio profanatore: circa l'indissolubilità del matrimonio, la Comunione da conferire ai divorziati risposati e ad altri pubblici peccatori, ecc.
  È inevitabile che questo complesso di gravi deviazioni dogmatiche comporti una grave immoralità, sia della parola sia dell'esempio. Ne deriva l'inettitudine dei credenti consenzienti al nuovo magistero a influire positivamente sulle legislazioni e sui governi.
  La Religione si compone di Verità e di una Legge ad essa attinente. Corrotte la prima e la seconda, il credo, l'insegnamento, non sono più cattolici e sono uno strumento guasto.
  Non si tratta di semplice rilassatezza dei fedeli o del cero, di incapacità di reagire in presenza del male, essi risultano, in radice, inabili a contrastarlo. Non è indulgenza buonista o mero travisamento della carità, debole fiducia nell'umana bontà o prudenza eccessiva. Convinzioni errate, fissate da una dottrina eretica si trasmettono via via in modo irreparabile.
  La stessa tolleranza delle infrazioni agli ancora riconosciuti articoli del Decalogo o della Legge ecclesiastica, l'inammissibile silenzio di fronte a proposizioni tuttora censurabili profferite da membri della gerarchia o del laicato, sono diretta conseguenza degli errori suddetti e della relativa prassi consolidata: Oggi la Sposa di Cristo preferisce far uso della misericordia piuttosto che della severità (Giovanni XXIII) e Chi sono io per condannare i pubblici peccatori? (Bergoglio),
  Se i peccati mortali non richiedono più l'indispensabile assoluzione conseguita al confessionale, se la grazia comune è sufficiente insieme all'ausilio della coscienza (che ognuno sarebbe capace di rendere sana), se della Grazia santificante, di regola ottenuta soltanto con i Sacramenti, si può fare a meno, come si deduce dal suddetto errore del diritto alla libertà religiosa e da quello della salutare efficacia delle false religioni e della libera ricerca di Dio, se la morale della situazione e il relativismo morale (lasciati in pace) ne ricevono avvallo, di quale etica cattolica da trasmettere alla comunità andiamo ancora cianciando?
  L'evidenza ci insegna che promuovere la bontà, predicare un'onestà sostenuta da alcune rovine della Legge, non solo è inutile, è un vero e proprio tradimento del Vangelo.


Piero Nicola 

venerdì 20 febbraio 2015

RECENSIONE: Icone della falsa destra (di Luciana Serafino)

E’ con  lo stile sobrio  ma diretto, che  contraddistingue  la sua personalità, che il filosofo e saggista Piero Vassallo ha imposto il titolo di  “Icone della falsa destra” (Edizioni Solfanelli).
L’analisi critica evidenzia  un ventaglio di tesi sul crollo del sogno americano e mussoliniano da considerarsi in quell’arco temporale ideologico che va dall’annuncio del Cardinale Siri, nel 1968, alla caduta dell’MSI,dal saggio provocatorio di Giano Accame che lo definisce “fascismo immenso e rosso” alle dichiarazioni del Ministro Calderoli sulla opportunità  o meno di festeggiare il 5 maggio e si sofferma sugli  accadimenti che hanno determinato le diverse epoche delle correnti attraverso i diversi periodi, decidendo per una suddivisione in XV capitoli.
Ma, se gli scritti di Giano Accame si presentavano dal tono provocatorio, questo di Piero Vassallo non si perde certo in prolusioni di generosità, basti pensare ai capitoli dedicati a Gòmez Davila (ribattezzato un pitigrilli senza sorriso ), e su quelle dell’Unità d’Italia, dal titolo “figure della mala unità” quali il tricolore e l’inno di Mameli.
L’articolazione del saggio  attira l’attenzione del lettore in ciò che concerne  storia e filosofia e politica, azione didattica e pedagogica, della cui ricaduta sul piano degli esiti sociali mi piace riportare le stesse parole dello scrittore: la pochezza mentale dei velleitari e degli intellettuali – fai da te – che si pongono quali guide della destra sedicente aggiornata non consente di andare oltre la radunata di attivisti impresentabili.
La causticità del filosofo e ideologo è protesa a mettere in luce il proprio disagio, nato  dalle mescolanze tra destra e sinistra e dall’intento a restituire le posizioni originarie , così come egli le ha vissute.A tal proposito mi soffermerei sui due voci femminili  presentati nel volume quali quelli di Cristina Campo (Vittoria Guerrini ) e Simone Weìl.
Cristina Campo che, spinta da  Elémire Zolla, scrive una lettera a Paolo VI con lo scopo apparente di voler difendere la lingua latina ma che, nella realtà, riesce a creare nuovi dissidi e ben sapendo che,  la propria posizione di attivista di destra non avrebbe potuto essere riconosciuta : ricorrere ad un referendum pur se sottoscritto da personalità mondane diventava, dunque, d’obbligo. Ecco  come agli occhi dello scrittore, Cristina Campo diventa una falsa icona.
La seconda,Simone Weil, nata e cresciuta ed educata alla luce dei valori più tradizionali, decide, a un determinato momento della sua vita, di interrompere la sua carriera di docente e di diventare un’attivista di sinistra.
Sia l’una che l’altra, nel ripristino della verità , rappresentano gli opposti che si attraggono ma che, al cospetto della stessa, risultano essere fuori dalla destra e dalla sinistra politica.
Piero Vassallo raggiunge il suo obiettivo  attraverso la ricerca trasversale  di enunciati, rigorosamente riportati in quella parte dedicata alla bibliografia, cui attribuisce la responsabilità di essere stati strumentalizzati a seconda degli interessi del momento , appartenessero essi alla destra o alla sinistra. Dunque, quel che mi pare di poter definire  il sapiente contributo dello scrittore alla storia della politica italiana, potrebbe essere configurato  anche come  un compendio da consultare per chi desiderasse ampliare  le proprie conoscenze nel settore e, comunque, da consultare magari nei vari atenei a indirizzo politico. La parabola di questo trattato si conclude con una riflessione attorno a un possibile ritorno di una destra tradizionale.

Luciana Serafino

SERVE FARE CONFRONTI TRA I POPOLI (di Piero Nicola)

L'astuto Renzino parlando dei vandalismi perpetrati a Roma dai tifosi olandesi, tra una condanna e un proposito di risarcimento, ha infilato l'osservazione per la quale noi italiani, che siamo soliti sottovalutarci, non abbiamo mai commesso scempi di tal fatta.
  L'occasione è ghiotta per dimostrare la stupidità degli ultimi proclami antirazzisti che vogliono l'uguaglianza, o equivalenza, di tutte le genti, e che esecrano qualsiasi discriminazione di un'etnia secondo differenze di valore, cioè attribuendole un particolare carattere negativo: ovviamente a un grado superiore rispetto ad altri, poiché tutti gli esseri umani sono affetti in qualche misura dai medesimi vizi.
  I più accaniti internazionalisti, egualitari, amanti del miscuglio delle diversità (caso strano, essi delle diversità vedono soltanto i pregi!), quei tali cui viene spontaneo il ritornello tutto il mondo è paese e si inquietano se uno chiama gli zingari con loro nome, oppure i sodomiti col vocabolo che li designa sul dizionario, tutti spontaneamente esclamano: "Questi crucchi, teste coi paraocchi!" o: "Si capisce, è un francese, ha la puzza sotto il naso!"
  Torno a bomba. Renzino ha detto bene, anche se la sua considerazione, rimasta senza commenti nel notiziario, probabilmente trascorrerà come una piccola meteora nell'aere in cui respiriamo. Però è interessante vedere gli annessi e connessi.
  L'Olanda passa per essere un paese esemplare per servizi civici e progresso in ogni direzione. Ha un'economia florida, sta nell'UE con tutti gli onori. Come mai allora (come l'Inghilterra) ha una tifoseria teppista, tracotante al massimo grado e tollerata?
  I tedeschi, famosi per la loro violenza, per la brutalità e la presunzione di superiorità esplose nel periodo nazista, non hanno sostenitori di squadre calcistiche così scatenati nell'orgia e nel disprezzo, né hanno orde vandaliche d'altra specie. Forse hanno un superiore senso della disciplina o della giustizia o della conservazione. Mah!
  Resta poco da commentare dopo i filmati dei telegiornali, dopo i lagni del sindaco Marino (che da parte sua poteva fare qualcosa e non ha fatto niente, giocando al solito scaricabarile), dopo le testimonianze di commercianti, spazzini e funzionari delle Belle Arti intervistati presso la danneggiata e deturpata Barcaccia di Piazza Navona, dopo le paure strabiliate dei passanti romani e stranieri, che hanno dovuto ritirarsi davanti a flussi (non gruppi circoscritti costituiti da delinquenti!) di sfrenati adepti di Bacco, a centinaia intenti a trascendere tutto, comprese le proprie urine rilasciate ovunque, anche entrando fin dove potessero arrivare.
  Eppure le spiegazioni ci sono. L'Olanda dei mulini a vento e degli zoccoletti, che ci venne dipinta come la terra dei contadini laboriosissimi, i quali gettarono dighe nel mare per mettere all'asciutto terreni di bonifica (i polder), che ebbero la capacità di procacciarsi un impero coloniale simile a quello inglese, questo fiorente regno ultrademocratico presenta i motivi del fenomeno incivile. Ivi le leggi consentono le droghe leggere, il matrimonio omosessuale con diritto di adozione, il divorzio rapido, l'aborto agevole, l'eutanasia, estesa ai bambini con l'approvazione del magistrato. La prostituzione è legalizzata. Forse non c'è angolo del globo in cui diritti e libertà abbiano maggiore sviluppo. Il 40% della popolazione si dichiara ateo. I cattolici, più numerosi dei protestanti, hanno tuttavia i vescovi più modernisti.
  Qual è il significato principale del teppismo orgiastico/vandalico? Il vuoto di valori e della possibilità di esercitarli generosamente. Se non si trascende con Dio, o con qualche ideale, magari in un corpo scelto dell'esercito,  si va a trascendere decisamente col diavolo.
  Diverse nuove generazioni furono dette perdute e si manifestarono soprattutto nei due grandi Dopoguerra, in regime democratico: specie in Francia e negli USA. Quei ragazzi erano portati alle rivolte e agli sfoghi violenti anche organizzandosi in bande e associazioni. Tuttora l'America ne soffre parecchio. Le liberazioni sessantottine ebbero pretesti culturali per sguazzare in una melma ancor più fetente. Esaurita la fiammata, si praticò, e sempre si pratica, la melma delle piscine o del bagno privato. Ma restano i giovani più esuberanti o portati dalle circostanze a formare la mandria.
  E dove più che nei Paesi Bassi il livello di fede, di moralità, di soddisfazione delle innate spinte all'onesto trascendimento è ridotto a zero? Così, vi sono normali sia la tolleranza nei confronti del delitto, sia la piega nichilista espressa da giovani spinti alla distruzione di tutte le regole, in fondo alla quale c'è l'autodistruzione.  
   Inoltre conviene non trascurare i precedenti storici. La rivolta delle Fiandre contro il dominio dell'Impero spagnolo rese i Paesi Bassi sempre più protestanti e mercantili. L'indipendenza li riversò nell'impresa della dura dominazione coloniale e nell'edonismo, del cui giogo non si sono più liberati.
    

Piero Nicola

La salita democristiana al "cielo" monetario (in un romanzo di Alessandra Fiori)

 La storia della seconda fila democristiana, è narrata in pagine ironiche e taglienti da Alessandra Fiori, giovane scrittrice capace di esprimersi in un italiano tanto gradevole quanto tagliente/irridente.
 Oggetto del racconto scritto dalla Fiori è la faticosa, stressante e umiliante fatica, che agitava gli spigolatori dei golosi frammenti di potere, abbandonati sul terreno appartenente ai cavalli di razza.
 Il romanzo narra, senza sbavature e senza concessioni al moralismo d'accatto, la commedia umana, ora grottesca ora malinconica, degli arrivisti democristiani, proverbiali cani da slitta, eccitati e tormentati da ambizioni inversamente proporzionate alle loro esigue qualità.
 Interprete ed emblema della commedia, in scena nell'agitato sottobosco democristiano, è l'arrampicatore politico Guido Bucci, la cui figura è disegnata con maestria nelle eleganti pagine del  romanzo Il cielo dei potenti (edizioni e/o, Roma 2013).
 Intorno a Guido Bucci e insieme con lui, scorrono, quasi in un cinereo caleidoscopio, le spirituali angustie, le meschinità e le passioni fameliche di una classe di mediocri aspiranti, tarantolati dall'avarizia, intossicati  dalla miscredenza ed estenuati dal continuo intrallazzo.
 Nell'ironico disegno del sottobosco democristiano si legge il confessato contributo del padre dell'autrice, Publio Fiori, uno dei rari politici capaci di osservare con distaccata e signorile ironia la desolante scena del morbo partitocratico infuriante nella casa dei cattolici.
 Lanciata la sfida a Pio XII e liquidati i princìpi indeclinabili della autentica tradizione, la politica d'ispirazione cristiana si è rovesciata nel parolaio democristiano, gongolante, proverbiale squittio dei topi nel pubblico formaggio.
 Acrobati del pensiero, impegnati nella fusione alchemica di cattolicesimo e anticattolicesimo, i democristiani hanno disatteso gli indeclinabili obblighi della morale prima di essere travolti  e ammanettati durante l'inseguimento di numismatici  traguardi.
 La loro eredità è la degenerazione della politica in azione intesa all'accumulo di mazzette, all'umiliazione e all'irrisione delle menti pensanti (si pensi all'emarginazione di Augusto Del Noce) all'avvilimento degli onesti e infine al capovolgimento del potere nel marchingegno dell'arricchimento, grottesco inflactus al servizio di una devastante/scialacquante  sete di ricchezza. 
 Alessandra Fiori dipinge con pennellate smaglianti e implacabili le mediocri, spensanti e goffe figure dei protagonisti della seconda fila,  in perpetua, penosa agitazione durante i quarant'anni segnati dalla fraterna, soggiacente discordia democristiana.
 "Il congresso nazionale si teneva ogni due anni e al suo interno ne conteneva sempre almeno un altro. Quello visibile e quello invisibile, la facciata e le fondamenta. Mentre sul palcoscenico si mostrava un solo e unico partito, saldo al suo interno, in cui le correnti non esistevano, nei sotterranei, sotto il palco si svolgeva una lotta fratricida. ... Era quello il vero congresso, era lì che si decideva il segretario, la linea del partito e i suoi delegati, che sempre venivano nominati in base alla logica e alla potenza delle varie correnti. Su quelli si concentrava la guerra".  
 L'implacabile, feroce rivalità, che opponeva le correnti asserragliate in immaginari/finti castelli ideologici, era un vizio tollerabile, al confronto della galoppante cleptomania democristiana: "Nel partito si spartiva ogni cosa", nel totale disprezzo degli interessi dei cittadini e degli astratti princìpi della democrazia.
 La democrazia è miracolosa, grazie all'efficacia dei suoi principii: un Marcel diventa ogne villan che parteggiando viene.
 Narra Alessandra Fiore: "I consiglieri delle Usl, ad esempio, gestivano tutti gli appalti, dividendoseli: mense, pulizie e via dicendo. Inoltre potevano assumere personale medico. Siccome i consiglieri erano nominati dai partiti senza bisogno di alcuna competenza specifica, si poteva prendere pure il netturbino, e piazzarcelo. Era una sorta di premio per quelli che portavano più voti, la coppa Usl del compare".
 I voti, i feticci della democrazia. "I voti come li porti? Nel Lazio con gli appalti, in Campania con le tangenti e la camorra, in Sicilia con la mafia e via dicendo".
 In filigrana, nel bel romanzo di Alessandra Fiore si legge il motivo della delusione del clero cattolico, ad esempio l'amarezza procurata al cardinale Giuseppe Siri dai baratti e dalle vergognose capitolazioni dei democristiani davanti alle furenti pretese degli alleati laici in materia di divorzio e di aborto. E si intravede chiaramente e senza maschere politologiche la palude di frivolezze e viltà in cui è affondato il partito dei cattolici italiani.     
 Con questo racconto, scritto in uno stile limpido e attraente, paragonabile a quello di Giovannino Guareschi, l'eccellente, giovane autrice conquista il diritto di figurare degnamente nella storia della letteratura italiana contemporanea.
 Di qui l'augurio che Alessandra Fiore scriva un nuovo romanzo per raccontare la storia dei degni successori dei democratici cristiani, destri e liberali e finalmente affaristi progressivi e senza bandiera.

 Nel capitolo finale del romanzo il profilo ridicolo e umiliante degli eredi della Dc, numismatici rampanti sotto la fiamma tricolore, fa sperare la stesura di una nuova storia della implacabile democrazia italiana, al galoppo verso la comica finale in scena a Monte Carlo e a Monte dei Paschi.

Piero Vassallo


giovedì 19 febbraio 2015

VIVA GARIBALDI! (di Paolo Pasqualucci)

Come, proprio in un sito di cattolici che vogliono esser fedeli alla Tradizione della Chiesa! Articolo provocatorio, dunque! Certamente. Ed ecco la provocazione: ridateci Garibaldi, però dalla parte nostra: un Garibaldi cattolico. Ma non è questa un’autentica bestemmia? E chi l’ha detto? Adesso vi spiego.
Garibaldi non fu “feroce bandito”, né “mercante di schiavi”, né “ladro di cavalli”, né strangolò la moglie in cinta e moribonda [ohèi!] per sfuggire più rapidamente agli austriaci che lo braccavano. Quest’ultima calunnia è nata da un equivoco, che certo spirito di parte vuol ancor oggi mantenere. Anita Garibaldi morì spossata dalle febbri, forse malariche, nella zona di Comacchio, nell’agosto del 1849, di fronte a diversi testimoni, tra cui il medico che stava tentando di salvarla. Data la situazione d’emergenza, fu seppellita in fretta e malamente, il corpo ritrovato per caso dopo sei giorni da una ragazzina, che lo vide affiorare in parte dal terreno. Un primo referto parlava di “morte da strangolamento”. Ma l’inchiesta giudiziaria ordinata dalle stesse autorità pontificie accertò alla fine che era deceduta di morte naturale per “febbre perniciosa” dopo un “breve eccesso convulsivo” e che ciò che era sembrato strangolamento era dovuto, invece, al piegamento del collo nella fossa mal scavata e dalla necrosi[1].
C’è una saggistica, dal taglio “carismatico” più che cattolico, che da qualche tempo ama rinverdire i crudeli quanto falsi stereotipi d’antan. Se il mito positivo di Garibaldi “eroe dei due mondi” ignora del tutto i suoi anche gravi difetti – la tendenza al cesarismo, la sua scarsa cultura, la sua scarsa comprensione della politica, l’anticlericalismo feroce da massone convinto quel era - quello negativo del “feroce bandito” ignora del tutto le sue indiscutibili qualità.
Cavour, che non lo amava perché vedeva in lui uno spirito rivoluzionario che aborriva, disse tuttavia: “Dobbiamo esser grati a Garibaldi perché ha riconciliato gli italiani con il mestiere delle armi”. In effetti, nell’Italia tisica, malarica, rammollita, incartapecorita ed inane del tempo, Garibaldi fu un vero capo militare. Combattente nato, fu bravo generale e valoroso soldato. Disinteressato, indifferente al denaro, onesto, con un forte senso dell’onore. Nella pratica delle guerre rivoluzionarie in Sud America apprese a meraviglia l’arte della rapidità nei movimenti, essenziale in battaglia, alla quale aggiunse la sua spiccata tendenza all’offensiva, all’attacco diretto e risolutore, alla testa dei suoi uomini. Sotto le mura di Roma, all’epoca della Repubblica Romana del 1849, Garibaldi attaccò d’impeto i settemila uomini del corpo di spedizione francese costringendoli ad una rapida fuga verso Civitavecchia. Sembra che sia stato Mazzini, per ragioni politiche (a Parigi era al potere una Repubblica non meno liberal-massonica della sua), a fermare Garibaldi, impedendogli di infliggere al nemico una sconfitta totale e clamorosa. Dopodiché i francesi dovettero impegnarsi a fondo, con un corpo di spedizione superiore ai 20.000 uomini e un regolare parco d’assedio, per aver ragione (con forze nettamente superiori) di Garibaldi e dei suoi.
La frase più famosa del Nizzardo è sicuramente la seguente: “la guerra es la verdadera vida del hombre”. La guerra gli piaceva: combattere, rischiare la vita, crescere in coraggio e disciplina, nei propri confronti innanzitutto, virilmente. Ma mai per denaro, sempre per una causa: la libertà dei popoli e in particolare di quello italiano. Libertà ma anche uguaglianza, secondo lo spirito rivoluzionario e utopistico dell’epoca. Combattere, che significa? non solo esser uccisi, significa anche uccidere il nemico, che viene preso prigioniero solo se è rimasto in vita. L’importante è combattere in modo leale, rispettando le leggi dell’onore. Sì, Garibaldi riconciliò la gioventù italiana con il mestiere delle armi: trascinava l’esempio di quest’uomo che, oltre a dimostrarsi abile, rischiava sempre di persona, attaccando alla testa dei suoi uomini. Affascinava con il suo coraggio personale e la coerenza tra vita e ideali, per certi aspetti da autodidatta ma intessuti ad un patriottismo sincero, fede granitica nella rinascita di un’Italia liberata dallo straniero e unificata. Ma soprattutto attirava i giovani con l’esempio dell’uomo d’azione disinteressato, che si batteva per un nobile ideale senza chiedere niente in cambio.
A noi italiani d’oggi, allevati nella pseudocultura del compromesso, della resa, del disfattismo, del tornaconto personale, della pace a tutti i costi; nel “pacifismo” molle e corruttore che imperversa in Italia, ma anche nel resto d’Europa, dal 1945 ad oggi, l’elogio del Nizzardo per la guerra ci appare del tutto inconcepibile, non è vero? Ci si ammanta di pubblico ed ostentato sconforto e ribrezzo al solo pensiero del sangue e dei morti in battaglia e non si batte ciglio di fronte ai milioni di aborti volontari che stanno distruggendo il sostrato etnico stesso del popolo italiano e degli altri popoli europei, del tutto indifferenti ed opachi di fronte alla sterminata distesa di quei minuti cadaveri, uomini e donne in miniatura, già formati e innocenti, distrutti e gettati nei rifiuti. Non temete, le loro anime, ce le ritroveremo tutte davanti il Giorno del Giudizio, Dio renderà loro giustizia!
Non ci vorrebbe oggi un capo con le qualità di Garibaldi, un condottiero, un trascinatore, che andasse all’attacco alla testa dei suoi uomini, per risollevare le sorti gravemente compromesse della nazione e della Chiesa? Sissignori, anche della Chiesa, rincitrullita da mezzo secolo di “pacifismo ecumenico”, quello della misericordia falsa e caramellosa che inghiotte sorridendo ogni sorta di cammelli e dromedari, inaugurata dalle ereticali “aperture” del Vaticano II. Un Garibaldi cattolico, voglio dire, capace di risvegliare gli uomini italiani, e in particolare i giovani, dal loro letargo, scrollandoli da questa loro vita senza ideali, senza scopo e senza speranza. Capace di guidare la c r o c i a t a che i tempi imperiosamente esigono contro il nemico di sempre, il mussulmano invasore e omicida, che ci sta puntando spavaldamente il coltello alla gola, forte anche della pavidità dei Senzadio che malamente ci governano? Viva Garibaldi, dunque, e che ne venga per volontà del Dio degli Eserciti uno cattolico; un Capo che ci inciti e guidi alla lotta per la vera Fede con la spada sguainata, diritti in faccia al nemico, sino a scorgere il bianco dei suoi occhi!

Paolo Pasqualucci



[1] Per i particolari, vedi il documentato studio di A. Possieri, Garibaldi, Il Mulino, Bologna, 2010, pp. 131-137. Garibaldi diventò massone in Brasile, nel 1836. Sposò Anita a Montevideo in chiesa, il 26 marzo 1842, dopo che da circa due anni conviveva con essa, che già gli aveva dato un figlio, Menotti. La donna era stata infelicemente sposata senza figli ad un uomo che era sparito dalla sua vita poco prima che Garibaldi la conoscesse, avendo dovuto fuggire al seguito di uno degli eserciti in provvisoria ritirata nella zona, in quell’epoca di guerre e rivoluzioni continue in America del Sud. Molto probabilmente era già morto quando i due contrassero matrimonio. Garibaldi e la moglie erano ovviamente tutti e due battezzati dalla nascita. Per questi particolari biografici, vedi: J. Ridley, Garibaldi, Phoenix Press, London, pp. 88-93; 106-108.

LO SPIRITO E LA SUA OMBRA (di Piero Nicola)

  Nel nostro sistema planetario compaiono due soli. Uno rovente, posto lì a vivificare il regno dei minerali, delle piante, delle carni; l’altro, immateriale e ancor più poderoso - ma da noi oscurabile - è per la vita delle anime. Quando giunge l’eclissi degli amanti dello spirito, il suo sole sembra scomparso e la terra resta avvolta da un’ombra greve e mortifera.
  Oggi è questa la condizione dell’intero orbe terraqueo. Dove si vedono più i cultori e i praticanti dello spirito? Dove sono quelli che lo traggono dal passato, in cui esso di certo fece le sue apparizioni e lasciò le sue tracce? Se ve ne sono, stanno come sommersi in un mare di nubi.
  Non voglio trovare l’eccellenza nelle cose umane, né pretendo di riferirmi soltanto ai luminari della fede, alle meraviglie dei nostri cari santi; nelle stesse mondane vicende, negli uomini assai terreni delle varie epoche storiche, avviene che lo spirito brilli o almeno riluca tra la foschia. Su di esso è calata la dimenticanza, peggio: la negazione. Come sostenere che questo non sia avvenuto anche per opera di coloro i quali sembrano ancora militare dalla parte giusta, sul campo che fu dei cavalieri? La spiegazione si rinviene nel fatto che costoro hanno confuso l’apparenza del bene, il  suggestivo e allettante surrogato composto da qualche deteriore idealità, con la bellezza reale del bene, ben più che estetica.
  Inutile sminuire le antiche distinzioni di bello e di bene, di forma e di contenuto, di muse procaci e d’arte casta e veritiera, di sentimenti puri e di sentimenti spuri. Tanto gli oggetti ispiratori quanto l’ispirazione attiva e vissuta, o sorgono dal fango (almeno con loro importanti elementi) o restano da esso catturati; e in questo caso si resta i drudi d’una maga impastata di grazie lascive.
  Vedo subito chi arriccia il naso scetticamente davanti ai nomi verità e autenticità, davanti agli aggettivi sano e vero. Dobbiamo insegnargli che sia virtù e che sia vizio, e l'abisso che li separa? Egli si scosta seccato dalla differenza che noi facciamo tra sporco e pulito, fra carità e umanitarismo, tra orgoglio e dignità, tra sincerità veridica e dialogo, tra cielo e terra. Costui parla d'amore, di altruismo, di amicizia indolori, ma vede ovunque l’impurità, e il sale della vita soltanto in un miscuglio grigiastro, senza distinguere ciò che tende alla purezza e ciò che aumenta nella corruzione, per cui il primo è vero ed è falso il secondo. Egli non mette a fuoco l’albero e non bada ai frutti, se siano buoni o tossici, purché siano succosi.
  Posto che con spirito s’intenda quel moto interiore che propone o abbraccia i casti ideali e depura le passioni rettificabili, questa nostra larva di civiltà è spiritualmente cadaverica.
  Che lo spirito sia evaporato per un rinnegamento da parte dell’arte, della politica, del pensiero e dell’azione è ampiamente dimostrabile.
  Nella migliore destra abbastanza visibile e operante vige un convincimento sbagliato, presumibilmente dovuto a ignoranza e a pregiudizi radicati. Oso affermarlo perché, altrimenti, dovrei parlare di tradimento a ragion veduta.
  Di che cosa vado cianciando? Mi attengo alla logica elementare a cui non si sfugge, quella del contadino dalle scarpe grosse, discretamente informato e di buon senso indipendente. Quindi risponderò con un’altra domanda. Se da mezzo secolo siamo in decadenza (religiosa, filosofica, etica, demografica, ecc.) e tutti i rimedi hanno fallito, come risollevarsi?
  Le invenzioni sono esaurite, la post-modernità ha fatto naufragio, la società si è infognata nel nichilismo o nell'eresia che ad esso conduce (quando i popoli primitivi trascendevano questo mondo per dare un senso alla vita, col culto dei morti e con gli dei). C'è solo da prendere il filo d'Arianna che conduce fuori del labirinto, e il suo sbocco civile deve dare sul passato. Poiché l'uomo, scontrandosi con la dura e santa legge iscritta nel suo cuore, è inclinato al male, gli slanci dello spirito possono raddrizzarlo; e noi abbiamo la fortuna di avere una tradizione di slanci corretti, cattolici o pressappoco. Ma, volgendosi indietro, subito l'accesso ai valori specialmente nostri e rivitalizzanti è precluso da un ostacolo grande: il Ventennio.
  Si conviene che il Ventennio sia stato un periodo di totalitarismo  e di censura, di depressione culturale, di soffocamento, di mediocrità, di piatta omologazione o di forzate riserve mentali, di sterile retorica, di tedio nelle arti, privo di vaste atmosfere pervase da libera e genuina elevatezza. Ma si sono letti, conosciuti e ponderati gli scrittori, i pensatori, gli artisti, i realizzatori di opere d'arte e dell'ingegno di quell'epoca? O si è badato piuttosto al seppellimento, al mascheramento di tutto questo, ascoltando i pregiati voltagabbana che, caduto il fascismo, lo biasimarono come se non fossero stati anch’essi membri solidali di quella temperie? Costoro che, sprigionati, della libertà hanno fatto uno strumento con cui salvare capra e cavoli! Beninteso, creando fittizi lavori intellettuali, e infine per l'ottenimento di cose cattive: comuniste e liberali. Con essi, i politici salvatori di capra e cavoli hanno instaurato il regime della castrazione pacifica e terragna.
  Gli odierni uomini istruiti e che contano ricordano i D’Annunzio, i Pirandello, i Gentile, gli ottimi dizionari, l'Enciclopedia Treccani, ecc., riconoscono i pittori (figurativi e no), gli scultori fascisti, soprattutto l’architettura pubblica e privata, che fu nel complesso originale e eccellente in un nuovo stile neoclassico, nonostante l’odierna sua falsa attribuzione al movimento razionalista internazionale? Forse un poco. Ma le loro preferenze e le loro riserve tagliano le gambe allo spirito.
  Inoltre il gran numero degli onesti e bravi artefici di civiltà in quel periodo, resta affatto negletto.
  Si ricordano i musicisti di chiara fama, i tenori, i baritoni, i soprano, e gli scienziati illustri che, come Marconi, poterono svilupparsi in quel crogiolo? Per non dire dell’animo di intrapresa, delle grandi e spedite attuazioni, caratteristiche di allora, in terra in cielo e in mare, e che non hanno riscontro né prima né dopo, anche in quanto a sostanza imperitura. Di tali opere abbiamo poi tutti goduto e vissuto, volenti o nolenti, coscienti o inconsapevoli.
  Siccome questo insieme viene disconosciuto e poco valutato (è quanto mai significativo che dell'Eur si voglia fare un quartiere a luci rosse), bisogna che si sopravvaluti il parto dell’ideale democratico.
  Perché – si chiederà – toccare un argomento delicatissimo, che nemmeno uno storico insigne può trattare tranquillamente, senza tema di incorrere nella sanzionata apologia?
  Cari miei, dovremmo lasciare in piedi gli artefatti impedimenti che ci mantengono imprigionati? Dal momento che l’insieme di cui ho steso una succinta panoramica viene ridotto a un ferrovecchio e se ne rovina lo spirito, vengono chiuse sorgenti e ispirazioni della benefica idealità, si respingono valori insostituibili. Buttando alle ortiche una qual retorica, ci si priva del suo contenuto per niente retorico. Sotterrando all’ingrosso un certo ordine per il nome che porta, ci si priva di un ordine di certo costoso, ma necessario alla fioritura spirituale. Una volta messe le pietre tombali sopra la guerra e il valore guerriero, una volta cantato il de profundis alla specchiata cavalleria, lo spirito dell’abnegazione fedele va a farsi friggere, e con esso viene a mancare il terreno sotto i piedi. Il terreno franoso dell’idealismo d’accatto regge poco, non avendo sostanza di verità.
  Ieri un ministro si è permesso di denigrare le Crociate, adoprandole come sinonimo di ingiustizia. La calunnia degli storici e l'ignoranza di allievi o lettori non giustificano i fatti, che lasciano rovine.
  Nella Costituzione, l'Italia ripudia la guerra quale mezzo per risolvere le controversie internazionali. A ciò si aggiungano le sottaciute limitazioni della nostra sovranità imposte dal trattato di pace del 1947 e mai revocate.
  Quello stesso ministro che poco prima aveva affermato la necessità di intervenire militarmente in Libia, ha dovuto rimangiarsi quello che aveva detto.
  Oggi l'ONU esclude la guerra; in pratica, nega il nostro diritto alla legittima difesa. L'Italia deve restare alla mercé delle minacce islamiche e delle invasioni di infedeli, che infedeli rimangono, a differenza dei barbari antichi. Di chiacchiere più o meno rassicuranti se ne fanno dappertutto, in sedi alte e basse. E rimangono chiacchiere. Intanto qui il pacifismo imbelle, nichilista e zoofilo, alimentato dal Vaticano che non vuol convertire nessuno, continua ad addormentare le coscienze.
  Evviva papa Leone Magno che va incontro ad Attila!


Piero Nicola

mercoledì 18 febbraio 2015

Ancilla Hominis. La Chiesa è il corpo mistico dell’uomo? (di Ilaria Pisa)

Appassionato e politicamente scorrettissimo, Danilo Quinto si appella al Pastor Pastorum perché non scenda a patti coi lupi. Un’opera imprescindibile per orientarsi negli odierni marasmi e miasmi pseudocattolici.

Premessa. Qui si parla di Chiesa, di Papi, di Cristianesimo. Se cercate libri sorridenti, accomodanti, se pensate di vivere nel meno peggio dei mondi possibili, se credete che il Cattolicesimo romano sia un sentimento, se da quell’acerba primavera 2013 vedete tutto più rosa e il vostro sogno è un selfie in Vaticano con il Pontefice regnante, non disturbatevi oltre a leggere: questo libro non fa per voi.  
Se invece preferite le mani giunte ai pollici che fanno “ok” e i “visi inespressivi” di chi recita il Rosario ai pasciuti ceroni televisivi, e se in questi ultimi mesi vi si è affacciato alla mente qualche scomodo dubbio cattolico poco mainstream, ecco il libro che fa decisamente per voi.
Anche l’autore fa per voi. Perché Danilo Quinto non è uno scrittore cattolico qualunque, ma un uomo che ha vissuto il dramma e la grazia, in tutta la ricchezza delle sue sfumature, di una conversione matura e radicale – sì, il doppio senso è voluto – che lo rende un testimone eccezionale, una costante fonte di edificazione per chi lo legge, ed anche un osservatore privilegiato per la situazione della Chiesa. Per lo zelo che gli dà la Grazia, e per l’acume che gli diede la Natura.
Danilo Quinto sa che la salvezza non è uno scherzo, e che l’àncora gettatagli, a cui si è saldamente appigliato, vale parecchio: quanto l’anima. Un valore infinito. Figuriamoci che valore possono avere tutte le anime di tutti gli uomini che in questo momento vivono, muoiono, credono o bestemmiano su questa terra: infinito, come infinito è il prezzo del Sangue di Nostro Signore. Ma se la Chiesa, questa Madre nel cui grembo l’Autore si è gettato riconoscente, è da decenni indebolita e strapazzata proprio da chi dovrebbe guidarla e proteggerla? Come si può tacere, se la propria Madre è tradita e umiliata? Se le è reso arduo badare ai suoi figli, salvare le loro anime?
Tutti i quadretti a tinte pastello che i mass media hanno creato intorno alla figura di Jorge Mario Bergoglio dopo la sua elezione al Soglio pontificio, sono da Quinto soppesati, comparati a millenni di Sacra Scrittura e di dottrina infallibile, e alfine smontati con metodo e pacatezza. La passione nel difendere la Chiesa non deve infatti rendere scomposti: e i nudi fatti, la trama sostenuta dall’ordito delle argomentazioni dell’Autore, disarmano anche il lettore prevenuto e gettano sulla “luna di miele” Papa-mondo un’ombra estremamente inquietante. Con radici tuffate nella storia ecclesiale di almeno cinquant’anni.
Alle strette maglie di Ancilla Hominis (Edizioni Radio Spada, Milano 2015) non sfugge nulla: dalla telefonata di Francesco a Marco Pannella agli imbarazzanti applausi dei massoni, dalle interviste su La Civiltà Cattolica alle strizzate d’occhio alla teologia della liberazione, dagli equivoci sul “dialogo” e sul “non giudicare” agli scivoloni in campo ecumenico. La realtà è impietosa e Quinto la razionalizza, ma non l’addolcisce.

Per alcuni il pontificato di Francesco ha realizzato una rivoluzione copernicana nella Chiesa, e finalmente un “eppur si muove” avrebbe scalfito il rigido immobilismo di questo “monolite” sopravvissuto ai millenni e alle persecuzioni. Ma il libro di Danilo Quinto indica che non c’è maggior rivoluzione di un “eppur rimane”, di un fulcro stabile del mondo, di una pietra angolare e di scandalo: stat Crux, dum volvitur orbis.

Ilaria Pisa

Un paese sulla via di un democratico auto-genocidio

Non senza rinnovare il disprezzo dovuto al parlamento democratico, che ha depenalizzato l'aborto alzando il vessillo del culocrate sessantottino Herbert Marcuse, rammentiamo ai politicanti oggi in tutt'altre [futili] faccende affaccendati, gli allarmanti numeri delle statistiche, che rivelano l'indirizzo all'estinzione del popolo italiano. 
 I democraticamente eletti chiacchierano in allegra, festosa continuazione. I severi numeri rivolgono all'illusione politica le parole scritte nel vocabolario dell'inquietante, dura e deprimente realtà.
 Ad esempio, le statistiche rammentano che, nel 1900, nacquero un milione di italiani, nel 2012 soltanto cinquecentomila. Il guru denatalista Georges Soros e Bill Gates gongoleranno. Il vespasiano si illuminerà. Gli ecumenisti contempleranno i celesti orizzonti di un mondo senza più prolifici conigli.
 Tuttavia le attuali cinquecentomila nascite - 8,4 per mille, contro il 23 per mille del 1946, secondo le statistiche ufficiali  - rivelano che la popolazione italiana si è stabilita sotto la c. d. "soglia di sostituzione", formula che significa l'avviamento di un vero e proprio auto-genocidio.
 Il triste futuro degli italiani si comincia a intravedere nelle allarmanti statistiche: cinquantaquattro milioni di italiani a bassa fecondità e a rapido invecchiamento e quattrocentotrentottomila immigrati giovani, prolifici e agguerriti. L'Italia inebetita e disarmata galoppa nella triste direzione di una fine bizantina. Il potere spirituale e quello politico ci stanno trasformando gli italiani in disarmati e castrati conigli.
 Se non cambia l'indirizzo autolesionistico della politica e della "cultura" di riferimento, nel giro di cinquanta/sessanta anni l'Italia diventerà una colonia islamica.
 La drammatica storia dei paesi cristiani invasi e dominati dagli islamisti non ha fatto scuola. Solo il buonismo fa scuola. Renzi minimizza. La Camusso approva. Bergoglio esulta. La marina trasporta. La malavita accoglie. Il terrorismo recluta. Gli italiani contemplano a bocca aperta.
 Il vespasiano gongola e rammenta le (inattuali e obliate) pagine dell'insospettabile Jean Paul Sartre sulla felicità dei pederasti francesi, in festa per l'occupazione nazista.
 (Per inciso: la descrizione sartriano del gongolamento pederastico nell'estate parigina del 1940 dovrebbe far riflettere i politici che non vedono lo stretto legame di pederastia e "amore" per gli invasori).  
 Disgraziatamente il futuro italiano è già cominciato nel segno del masochismo e della fragilità. Il pio ministro degli esteri risponde alla minaccia terroristica inchinandosi con stile Schettino.

 La stupidità politicante intanto si è schierata con gli americani e i cialtroni ucraini contro Putin, l'unico possibile, efficiente argine all'islam. La triste ombra di Maometto è sopra il futuro della delirante politica italiana.  

Piero Vassallo