mercoledì 30 dicembre 2015

Le seduzioni moderne del demonio (recensione di Emilio Biagini)

Lo snello opuscolo di Cesare Ghinelli, Le seduzioni moderne del demonio (Fede & Cultura, Verona  2015), qualificato medico primario di Chirurgia Pediatrica a Parma, mette opportunamente in luce, con dovizia di documentazione, le atroci seduzioni moderne del demonio; filosofie e religioni orientali, tecniche e medicine alternative, mistificazioni e inganni miranti alla distruzione del cristianesimo, come previsto nei diabolici piani della massoneria e dei rosacroce.
Agghiacciante è il documento massonico riportato dall’autore (Informazione 95), che elenca i successi nel distruggere la fede e la Chiesa, mentre segnala come difficoltà ancora da superare persone e movimenti che attirano molta gente e i luoghi di apparizione come Medjugorje, che viene esplicitamente nominata come un grave ostacolo dai satanisti (si rallegrino i nemici di Medjugorje, che si dicono “tradizionalisti”: c’è un numeroso esercito a sostenerli, si chiama “Legione”); mentre, fra gli obiettivi ancora da realizzare, questi satanisti, che si vantano di poter già occupare il vertice di potere dentro la Chiesa, enumerano: annullare la dimensione verticale di ogni forma di preghiera, distruggere e svuotare i dogmi, conseguire l’antropocentrismo, relativizzare la morale, “liberalizzare” il sesso, introdurre il sacerdozio femminile e i preti sposati, eliminare la Messa (pp. 7-10).
Da questa brodaglia di satana, nemica di Medjugorje, scaturisce la New Age, all’insegna del sincretismo buonista (niente supera il demonio in buonismo, finché non vi ha tra le grinfie), che dilaga in tutto il deragliato Occidente, con mercati e negozi degli articoli più eterogenei per le attività esoteriche (ossia demoniache): cristalli, profumi, fiori, erbe, oggetti per pratiche magiche, manuali per l’autoguarigione, cassette audio e video, medicine omeopatiche e compagnia cantante. Alla New Age fa riferimento un verminoso proliferare di movimenti d’ogni genere, dall’ambientalismo al femminismo, dall’omocrazia al veganesimo.
Le medicine “alternative” sono innumerevoli: omeopatia, medicina ayurvedica, medicina antroposofica, agopuntura, cristalloterapia, iridologia, magnetoterapia, pranoterapia, radioterapia, bioenergetica, shiatsu, reiki. Sono spesso unite a pratiche orientali come ginnastica yoga e meditazione trascendentale.
Ogni seria investigazione scientifica su tale roba ha avuto esito disastroso per i ciarlatani: l’American Department of Health ha stanziato migliaia di dollari per studiare i pranoterapeuti, una categoria che si dice ricca di energia curativa. Attratti dalla forte somma offerta, 80.000 pranoterapeuti accettarono di sottoporsi all’investigazione, solo per prendere il largo appena appreso in che modo approfondito sarebbero stati esaminati. Solo otto si sottoposero agli esami, dai quali risultò che non emettevano nessuna energia, né elettrica, né magnetica, né radiante, né altra di alcun genere.
L’autore esamina in particolare l’omeopatia, inventata da Christian Friedrich Samuel Hahnemann (Meissen, 1755 – Parigi, 1834), ciarlatano massone che enunciò una serie di principi che altro non sono se non sciocchezze e vaneggiamenti, come il precetto di non curare altro che i sintomi, curare “le cose simili con cose simili”, diluire al massimo fino a che dei “preparati” non resta che acqua. Tali idee, riferisce lo stesso Hahnemann, gli furono suggerite da spiriti durante una seduta spiritica, cioè satanica. Infatti dev’essere ben chiaro che l’aldilà si manifesta, molto di rado, solo ai veri mistici, che sono persone umili le quali non cercano alcuna comunicazione, ma sono scelti dal Cielo per una qualche missione (di solito per invitare alla preghiera e alla conversione). Invece chi tenta, con somma arroganza, di forzare la comunicazione per acquisire conoscenze e potere mediante lo spiritismo non fa che stuzzicare il demonio e aprire “porte” che vanno lasciate ben chiuse.

Emilio Biagini

martedì 29 dicembre 2015

Museologia e tradizione (recensione di Emilio Biagini)

Il volume di Riccardo Rosati, Museologia e tradizione (Solfanelli, Chieti 2016), raccoglie scritti che hanno formato la rubrica de Il Borghese sui musei e i Beni Culturali dal luglio 2011 all’aprile 2014, un periodo durante il quale ha brillato, come sempre del resto, l’assoluta ignoranza, indifferenza, ottusità della classe politica della repubblica, nata dalla “resistenza” e fondata sul lavoro, nei confronti della cultura. Questa ha bisogno dei musei, essenziali portatori di memoria storica, non solo quelli artistici e archeologici, ma anche scientifici e naturalistici.
Gli italiani, per lo più, non conoscono i tesori dell’Italia, ma in compenso visitano i musei all’estero. Sembra che il Louvre rappresenti il massimo in fatto di cultura e storia: si tratta, argomenta l’autore, di una celebrità assolutamente eccessiva, senza contare che il museo parigino è importante soprattutto per le rapine che l’hanno arricchito, in prevalenza a danno dell’Italia.
L’Italia è in più di un senso il centro del mondo. Non solo ha un immenso patrimonio di cultura propria, ma anche un ulteriore gigantesco patrimonio accumulato nello studio di altre culture, grazie a benemeriti missionari ed esploratori. Giustamente l’autore si sofferma a questo proposito sulle ricchissime collezioni di arte orientale a Roma, a Genova e altrove.
Purtroppo il bilancio dei Beni Culturali è desolante. Spettacolari collezioni d’arte sono nascoste nei fondi, non studiate e non fruite da alcuno. L’Italia ha il maggior patrimonio culturale mondiale, ma non sembra minimamente capace di valorizzare ciò che possiede. Si aggiunga l’emarginazione degli studiosi più importanti, come Mario Praz e Giuseppe Tucci, vittime dei pappagalli politicamente corretti infeudati nelle cattedre universitarie del “Bel Paese”, dove è d’obbligo insegnare (e far ammirare) la cancerosa teoria del gender.
Non è solo questione di inettitudine delle (si fa per dire) “autorità” italiane. C’è un piano ben preciso dei delinquenti della grande finanza anticristica, la quale, anche mediante il delirio del controllo delle nascite, dello “sviluppo sostenibile”, dell’immigrazione incontrollata, mira ad annichilire l’Italia per omologarla nella grande palude mondialista globale.

Emilio Biagini


mercoledì 23 dicembre 2015

Il male radicale

 Sul Natale è calata l'ombra, laica, democratica e progressiva, di un “allegro” e gongolante suicidio nell'ospitale  Svizzera.
 Una rete televisiva ha mandato in onda l'intervista alla infelice signora che, grazie all'assistenza e al liquido contributo del partito radicale, stava per recarsi nella tombale repubblica calvinista, dove è legittimata l'eutanasia (dietro versamento di una robusta somma di denaro: l'avarizia è l'altra faccia della tanatofilia elvetica).
 Davanti alla macchina da presa una gongolante, radicale parodia della tragica, devastante illusione che ingiusto fece me, contro me giusto. Illusione confessata tardivamente e dolorosamente da Pier delle Vigne all'Alighieri.
 La vittima della passione obituaria ha ostentato in presa diretta quella raggelante, insistente, classica ridarella, che manifesta la moderna profondità della possessione nichilista.
 L'aspirante suicida ha pertanto meritato le congratulazioni di Emma Bonino, illuminata specialista in aborti procurati e in atti di acrobatica e untuosa empietà.
 La misericordia esige l'astensione dal giudizio sulla cieca allegria dei suicidi. Non si può nascondere tuttavia il disagio prodotto dall'ostentazione televisiva di una felicità associata all'immaginazione del nulla laico e democratico.
 Ora alla felicità quasi gongolante dell'aspirante suicida soggiace l'allucinata mitologia intorno all'uomo causa sui e perciò padrone assoluto della propria vita.  
 La decisione dei radicali di finanziare il viaggio di un'infelice verso la fabbrica elvetica dei suicidi è conforme a un'ideologia costruita intorno alla stolta irrisione, all'odio verso il creato e al folle   disprezzo del Creatore.
 Il vero, ultimo nome di tale ideologia è necrofilia, estremo traguardo della rivolta attuata dagli illuminati moderni contro la fede in Gesù Cristo e contro la retta ragione.
 Sulla lugubre scena laicista i radicali fanno irrompere l'oscuro, empio medioevo degli albigesi, i fanatici che praticavano il suicidio per sfuggire alla legge del Creatore (che il loro furente/rovente delirio teologico giudicava intrinsecamente malvagio).
 Il partito radicale, avanguardia del pensiero laico e lugubre/sinistra imitazione del nichilismo albigese, suggerisce e promuove l'unione ipostatica del progressismo illuminato con la capovolta e tenebrosa eresia del Medioevo obituario.
 La fortuna del disgraziato partito radicale, infatti, discende dalle purissime (catare, appunto) battaglie contro la fecondità  e contro la vita. Fortuna (duole rammentarlo) che è assecondata dalla pie, calde e incaute conversazioni telefoniche dell'autorità cattolica post- conciliare con gli esponenti del partito radicale.

 Il lugubre, cinereo incontro con il titanismo/nichilismo dei radicali è l'approdo finale del viaggio incauto/eterodosso (impropriamente detto ecumenico) intrapreso dalla gerarchia romana in vista di orizzonti gaudenti, gongolanti e felici.  

Piero Vassallo

lunedì 21 dicembre 2015

SAN FRANCESCO: IL FONDATORE DEL PRESEPIO (di Piero Nicola)

Il Signore perdonerà per l’immagine di San Francesco d’Assisi oggi offerta ai fedeli? Ciò appare impossibile senza ravvedimento e penitenza. Il Santo fu ben altro, testimoniò ben altro da quello che si vuol far credere.
  Colui che si fece poverello mistico e ricevette il sacro sigillo delle stimmate, volle per i suoi Frati minori (volontariamente umili) una Regola che, oltre ai tre voti canonici comuni agli Istituti di perfezione, prescrivesse sia l’assoluta povertà e la questua per supplire al difetto dei proventi procacciati con il lavoro, sia l’apostolato, consistente in opere di carità che includevano la cura della fede e delle conversioni; ossia tanto le opere di misericordia corporali che quelle spirituali. I frati che ne avessero avuto l’attitudine, dovevano accettare di votarsi alla missione evangelizzatrice presso eretici e infedeli. Egli così concepiva la completa attuazione dell’insegnamento e del mandato di Gesù Cristo.
  Il suo Ordine monastico mise in pratica la Regola, approvata da papa Innocenzo III. Sebbene per sua natura San Francesco fosse portato alla penitenza più cruda, alla mistica contemplazione, per ben tre volte intraprese viaggi le cui mete erano in terra musulmana, dove avrebbe recato il verbo divino e assolto la missione commessa da Nostro Signore.
  Una prima volta, nel 1212, la nave che lo portava in Siria naufragò sulle coste della Dalmazia. Negli anni seguenti si recò nella Spagna occupata dai Mori, ma un’infermità lo costrinse a far ritorno. Nel 1219 raggiunse l'Egitto, e vi incontrò il Soldano (al-Malik al-Kamil) con il preciso intento di convertirlo. Non vi riuscì; tuttavia ottenne da lui la licenza di illustrare il Vangelo nei suoi domini.
  I monaci col saio inviati in Spagna vennero arrestati, condannati a morte e graziati. Nel 1220, il Fondatore li mandò in Marocco. Ne conosciamo i nomi: Bernardo, Pietro, Accursio, Adinto, Ottone. Catturati mentre predicavano, furono flagellati e decapitati il 16 gennaio. I loro corpi traslati in Portogallo, contribuirono a suscitare la vocazione francescana di Antonio, dotto canonico regolare di Sant’Agostino, in breve entrato nell’Ordine serafico. Anche Antonio partì per il Marocco e avrebbe seguito le orme dei protomartiri francescani, se una malattia non l’avesse obbligato a imbarcarsi. Durante la traversata il veliero finì per approdare in Sicilia. Di là, egli raggiunse la Porziuncola e conobbe il suo restauratore (1221). Questi lo istituì maestro di teologia. Quindi, dispose che il futuro Sant’Antonio da Padova andasse in Francia a contrastare l’eresia dei Catari. Come il pastore non mercenario della Scrittura, egli si preoccupava delle pecorelle (non ancora modernissime e in grado di badare a se stesse…) avendo incaricando Antonio di difenderle dall’errore quanto mai contagioso e mortifero.
  In seguito, l'ideatore del Presepe (composto a Greccio nel 1223, con autorizzazione di papa Onorio III) perfezionò la Regola secondo le esigenze tuttavia umane, fu sempre attento al buon governo dei monasteri, fondò quello delle Clarisse.
  Tutti questi fatti dimostrano che il figlio del ricco mercante Pietro di Bernardone, rinunciando al suo stato di guerriero e al mondo, non fu rivoluzionario della società, né un quietista ante litteram, né un pacifista dialogante col solo risultato di scandalizzare o, peggio ancora, di persuadere della falsa dottrina per la quale il dialogo non deve essere diretto a fare proseliti, ma deve riconoscere la pari dignità degl’interlocutori, qualunque falsità professino come erranti, e deve, perciò, transigere in materia di verità, di giustizia, di diritti di Dio.
  Quand’anche bisognasse ammettere che sia scomparsa l’attitudine al martirio, non si giustifica l’annullamento del decreto divino: “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato” (Mc 16, 15-16). Si diventa apostati, allorché per evitare la persecuzione e illudersi su facili vie di salvezza si tradisce il Messia. Infatti: “Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi” (Lc 6, 26).
  Il Santo della fraternità universale – per nulla egualitaria e incondizionata (fratello dei lupi, che però, restando ribelli, meritano il castigo) - riconobbe semplicemente il valore delle doti e delle inclinazioni umane nell’ambito della fede, ricusò l’indulgenza verso gli erranti ostinati e combatté la peste delle eresie, rendendo ampio ossequio alla legge del Vangelo, al Re Salvatore (il quale accusa pubblicamente i cattivi maestri e rovescia i banchi dei mercanti nel Tempio), alla Chiesa e alla Tradizione cattolica di sempre.

Piero Nicola

  

martedì 15 dicembre 2015

I DEMOCRATICI DOC INSULTANO IL POPOLO (di Piero Nicola)

Da un bel po' i partiti sanguisughe della democrazia fallimentare, si giocano l'asso pigliatutto d'uno slogan che impressiona il popolo bove o ciuco - fate voi. La loro trovata propagandistica, denigratoria dei movimenti da cui vengono battuti, li chiama spregiativamente "populisti". Populismo e fascismo per loro vanno a braccetto. Essi li adoprano alternandoli, approfittando dell'ignoranza che le ultime generazioni hanno assimilato in primo luogo sui banchi di scuola, con rinforzo i capitali falsità spacciate per oro colato.approfittano dei cervelli esercitati a connettere mediante il computer.
Se non fosse così, anche un sempliciotto capirebbe che accusare di populismo un soggetto che ha conseguito il successo delle urne, significa disprezzare l'elettorato, la sua capacità di discernimento e, infine,la democrazia.
Anni addietro, quando un partito di destra strappava consensi oltre il gradimento dei partitoni e dei poteri forti, si parlava di voto di protesta. Come se quella protesta fosse soltanto emotiva e dunque poco assennata.I tempi non erano maturi per sfoderare un'altra definizione della demagogia con cui fare colpo. Ora il cittadino è cotto a dovere: la sua capacità di ragionare logicamente è ridotta allo stato larvale. Lo ripete il diffuso compiacimento accordato agli ecclesiastici imbonitori eterodossi.
E poi, i tormentoni vanno rinnovati, la tecnica pubblicitaria insegna, e ne offre la prova. Cianciano di demagogia soltanto i demodé. Anche l'etichetta di fascista bisogna affibbiarla cautamente, dosandola per non dare soverchia importanza alla fanfaronata irresponsabile, da un lato, e alla sventaggine di chi abbocca,dall'altro lato. Chi abbocca è stanco e sfiduciato, si butta sul buono e sul cattivo, in alternativa all'astensione.
Per noi il fenomeno è interessante. Le dimostrazioni della decadenza, figlia legittima di questo sistema politico, si sprecano; tuttavia è notevole il fatto che i custodi del sistema arrivino a demolirlo, sia pure senza volere. Infatti, se il popolo sovrano è così poco affidabile, una canna al vento ancora minorenne,suggestionabile dopo secoli di ammaestramento e di esercizio dei suoi diritti, delle sue consacrate prerogative, vuol dire che questa democrazia non sta in piedi: è nelle mani dei migliori imbroglioni. La qualcosa possiamo verificare giornalmente anche ne i discorsi di capi e capetti, forse ormai ascoltati con un certo scetticismo, e tuttavia ben tollerati, perché in essi agisce pur sempre la losca esca ammaliatrice.

Piero Nicola 

sabato 12 dicembre 2015

La conversione religiosa di Mussolini

“Quando in tempi recenti, prendendo a motivo una guerra sfortunata o colpe  politiche, si scatenarono ondate di rappresaglie, sconosciute finora nella storia  almeno per il numero delle vittime, il Nostro cuore fu invaso da acerbo dolore,  non solo per la sventura che moltiplicava le sventure e gettava nel lutto  migliaia di famiglie spesso innocenti,  ma perché con sommo rammarico vi vedevamo la tragica testimonianza  dell'apostasia dallo spirito cristiano. Chi vuole essere cristiano deve  saper perdonare.”
 Pio XII, Radiomessaggio per il Natale del 1949.


 Un ruvido e sfacciato scrittore, parafrasando e volgarizzando una sentenza positiva dell'illustre fisiologo e sessuologo Paolo Mantegazza (1831 - 1910), ha sostenuto che la democrazia di stampo atlantico/liberista è una corazza contro la dottrina corporativa e un velo contro l'usura e la sodomia.
 Va da sé che l'autore della suddetta parafrasi – scorretta/sospetta - marcia su una pista tracciata dall'incapacità strutturale di conoscere, stimare e amare il democratico ben di banca (proprio in questi giorni elargitore di vasti godimenti).
 La sfiducia nel al libero mercato (dai refrattari associato alla plutocrazia strozzina) è generata dalla rustica ma sana tendenza a screditare l'alta delizia procurata dalla mano magica del mercato e a ridicolizzare lo storico beneficio a stelle e strisce, donato agli italiani dai velivoli detti liberetors e - ultimamente – a vilipendere la felicità e il benessere elargiti dal duo americanista/antifascista, costituito da Monti Mario & Fornero Elsa.
 Senza recare offesa alla legge democratica, che vieta la qualunque rettifica della leggenda nera, si può finalmente consultare la nuova edizione del robusto e magistrale saggio di don Ennio Innocenti – La conversione religiosa di Benito Mussolini – libro che unisce estremi quali l'erudizione e la piacevolezza.
 Il testo, pubblicato in questi giorni da Fede e cultura in Verona, 330 pagine, 18 euro è suggerito quale dono natalizio, destinato a far felici i renitenti e i refrattari al liberalismo di banca, di cucchiaio malthusiano e di squillante vespasiano.
 L'autore non condivide le acrobatiche giustificazioni dei neofascisti naufragati nel neopaganesimo e perciò non non risparmia severe critiche alle leggi razziali, emanate (sotto schiaffo germanico) dallo stato fascista nel 1938.
 A differenza degli storici di scuola azionista e/o progressista, Innocenti riconosce che il razzismo italiano, in allontanamento dalla scolastica germanica, “metteva l'accento più sulla cultura che sulla razza biologicamente intesa, in quanto discriminava, ossia metteva al sicuro dalle conseguenze negative della legislazione razziale, gli ebrei meritevoli, (combattenti, fascisti della prima ora)”.
 Innocenti riconosce tuttavia che la legge ispirata dal razzismo italiano, quantunque refrattaria all'ideologia tedesca “fu una tragedia per gli interessati”.
 La strutturale differenza che corre tra il pensiero di Mussolini e l'ideologia di Hitler e, sopra tutto, le testimonianza di persone di santa vita, quali San Pio da Pietrelcina, la Beata Elena Aiello, fra' Ginepro da Pompeiana e padre Eusebio inducono, nondimeno, a credere che la conversione religiosa di Mussolini sia realmente avvenuta.
 In special modo, è doveroso rammentare che la testimonianza di padre Eusebio Zappaterra è confermato da una dichiarazione di Mussolini sul Concordato: “Lo desiderai e lo volli io. … nel 1923 proposti al cardinale Gasparri la soluzione della Questione Romana. Il porporato accettò la mia idea, osservando però che un nome della portata di Giolitti non era riuscito ad attuarla per le grandi difficoltà incontrate in seno alla Camera e per l'opposizione della massoneria. Assicurai il cardinale che avrei sciolto l'una e l'altra, eliminando così la vertenza”.
I segni della conversione sono numerosi e inconfutabili specie se si rammenta che Mussolini indenne dalla frenesia omicida che possedette alcuni fra i funesti protagonisti del xx secolo, quali Hitler, Stalin, Mao Tse Tung, Amin, Gheddafi e l'atomico Truman.
 Infine occorre rammentare che dopo aver sottoscritto il Concordato, Mussolini compì un gesto significativo della volontà di eliminare le muffe liberali, ossia separare l'Italia fascista dalla sgradita eredità della cultura laica e massonica, fomite dell'intossicazione del Risorgimento: “il 29 gennaio 1929 fece ricollocare sugli spalti di Porta Pia le statue dei santi già mutilate ed abbattute dai cannoni degli invasori e il giorno della firma [dei Patti lateranensi] vide il popolo in ginocchio: il popolo italiano ringraziava la Provvidenza. La Civiltà Cattolica commentava: l'uomo che doveva finalmente apprezzare la parola del Papa era venuto da strade assai lontane, forse perché meglio si scorgesse che veramente quest'ora auspicata veniva addotta da Dio”.

 La lettura del magnifico libro di Innocenti si raccomanda agli italiani. che desiderano uscire dalle strettoie di un laicismo potenziato dall'alibi antifascista e dalla confusione strisciante nel mondo cattolico.

Piero Vassallo

martedì 8 dicembre 2015

RUMORI DI GUERRA (di Piero Nicola)

Quando Bergoglio asserisce che c'è una Terza Guerra Mondiale sparsa sulla terra, chi sa che cosa sia un conflitto mondiale ride a suo talento. Dove sono gli eserciti che impegnano le grandi nazioni, dove i bombardamenti sulle città, dove gli affondamenti navali e i fronti lunghi migliaia di chilometri, che avanzano e retrocedono?
 Niente di tutto questo. E allora gli importanti ammazzamenti locali, gli armati ribaltoni di regimi, gli attentati, si sono sempre avuti, prima e dopo le conflagrazioni planetarie, ma sono ben altra faccenda. Si può concedere che il terrorismo islamico sia più temibile di quello anarchico o delle Brigate Rosse et similia. Sinora però questa specie di guerra dichiarata ai cristiani ha avuto esplosioni molto circoscritte e non ha coinvolto masse di immigrati e d'invasori in assetto di combattimento.
  Invece gli allarmi per un confronto armato tra le Potenze (Russia e America) si fanno pressanti.
  La stampa riferisce che la Siria ha fatto ricorso all'ONU per un attacco aereo subito da una sua base militare, attuato da forze della coalizione guidata dagli USA. Il rappresentante siriano specifica i mezzi distrutti e i soldati uccisi o feriti. Inoltre  accusa gli americani di fingere di voler distruggere i tagliagole dell'ISIS. È questa una denuncia propagata da più voci e, larvatamente da Putin, quando afferma che l'Occidente non vuol fare abbastanza per debellare lo stato islamico; laonde per cui egli è stato costretto a intervenire. Gli americani negano, dicendo che la loro incursione non ha colpito le truppe regolari siriane, essendo avvenuta altrove.
  Una nave russa ha provocato la convocazione dell'ambasciatore russo ad Ankara. La Turchia, membro della NATO,  ha avanzato formale protesta all'ONU per gli atteggiamenti ostili individuati a bordo dell'unità militare che attraversava il Bosforo. Dopo una pausa, in cui sembrava che ci fosse stato un certo accordo diplomatico fra di due Stati, e si arrestasse la spirale delle ritorsioni seguite all'abbattimento dell'aereo di Mosca presso il confine turco, ecco riaccendersi la contesa, mediante quello che ha tutta l'aria di apparire un pretesto.
  La questione ucraina, sopita da accordi che possono essere violati in ogni momento, con presunte ragioni di entrambe le parti, è una miccia pronta per far esplodere la bomba. Intanto le sanzioni di qua e di là hanno prodotto un aggravamento della crisi economica europea. Per fare un esempio, le associazioni di categoria dell'Emilia fanno sapere che mille aziende hanno dovuto chiudere i battenti a causa delle mancate esportazioni. Ma gli informatori dicono che potrebbero essere duemila le ditte emiliane gravemente danneggiate. Per non parlare della diminuzione dei turisti e degli investimenti di capitali in Italia. Ciò sempre in conseguenza dei conflitti in Ucraina. E si sa che crisi e malesseri predispongono alla guerra, che incrementa bensì la produzione industriale.
  Dunque, se i papaveri yankee ricevessero l'impulso, avrebbero agio di provocare la vera Terza Guerra. I motivi, basati sui pregiudizi inculcati nelle popolazioni europee ed extraeuropee, abbondano. La Russia si è annessa la Crimea - non importa che la popolazione vi sia per lo più russofona e che i crimei abbiano scelto una nuova patria. Lo stesso dicasi per l'appoggio che Mosca ha dato ai separatisti delle altre province, già ucraine. La spedizione in Siria a sostegno dell'esecrato regime dittatoriale di Assad costituisce un'altra ragione di rivendicazione di diritti umani, di campagna democratico-liberatrice. E ci vuol niente per un incidente sul campo, dove agiscono vicini vicini aerei e missili delle due Potenze rivali. Rivali, si badi, filosoficamente, moralmente, ideologicamente. Il che è grave minaccia per il mondialismo democratico-liberale.
  Forse i padroni del vapore (che intendono trasformare in transatlantico onnicomprensivo dell'orbe terraqueo) non ritengono che i tempi siano maturi. Nel Nuovo Continente non spira ancora un vento di mobilitazione.
  Però le circostanze fatali stanno dietro l'angolo. Esiste una faccia da salvare, ed è importante salvarla più che non si creda. La mente dei popoli ha un peso enorme. Già si è visto come il prudente Putin abbia reagito all'affronto recatogli dall'abbattimento dell'aeroplanone e dalle mancate scuse. Già in Europa ci sono movimenti, come quello della Le Pen e di Viktor Orban, che prendono piede: contrari all'afflusso di acque asiatiche e africane nel vino nazionale. Non è utopica l'eventualità che l'antieuropeista Le Pen divenga presidente della Repubblica francese. Ma l'UE - insegnano esperti neutrali e anche filoamericani - è creatura degli Stati Uniti, necessaria per loro al pari della corrispondente NATO. La faccenda dell'ingresso del Montenegro nella NATO - veduto dalla Russia come fumo negli occhi (l'estensione ad Est dell'Alleanza Atlantica è un piuttosto recente dato di fatto) - ha mostrato che per accedere all'Europa di Bruxelles si passa per quell'adesione militare.
  Tutto questo pasticcio può dare luogo in ogni momento all'incidente disastroso: con cui si soddisfa l'urgenza di scatenare il putiferio che salvi la faccia e garantisca l'egemonia.
  Mutatis mutandis, è forse sicuro che la dichiarazione di guerra alla Germania fosse inevitabile, non essendo intesa ad impedire l'estendersi dell'influenza ideologica, piuttosto che la tedesca estensione territoriale limitata a zone abitate da genti germanofone? 


Piero Nicola

Dalla Francia i profili delle due incompatibili destre: Lo sconosciuto bene della scissione

L'osservatore che rammenta il tormentato cammino e la triste dissoluzione della destra di stampo almirantiano - l'ammucchiata polifrenica intorno al perpetuo, comizio, l'eterogeneo coacervo di uditori di un  pifferaio malinconico come i violini di Verlaine & neofascisti estenuati, monarchici da rotocalco, evoliani sul tappeto volante, gentiliani marginalizzati, neodestri di risulta, socializzatori onirici, tradizionalisti a mente plurima, massoni travestiti, liberaloidi in maschera - comprende l'inevitabilità di una proposta intesa a sciogliere il nodo delle convergenze innaturali e delle pittoresche radunate.
 La figura di una destra finalmente separata dallo straziante / devastante / perdente sincretismo, forse si intravvede nello scisma in atto nel Fronte Nazionale, dove la tradizione neopagana e libertina dell'attempata Marine Le Pen corre nella direzione opposta per diametro alla tradizione cattolica cui aderisce la giovane Marion Màrechal Le Pen.
 Prima delle elezioni francesi del 6 dicembre a destra imperversava un collezionismo ideologico ammucchiante, in frenetico casaccio, San Tommaso, De Maistre, Bonald, D'Annunzio, Pound, Guénon, Gentile, Hamsun, Bottai, Giani, Brasillach, Evola, Pallotta, Thibon, De Tejada, Junger, Accame, Bardàche, Gianfranceschi, Plebe, Drieu, Guidasci, Bocchino, Tulliani e Fisichella.
 La verità era umiliata e affondata nelle sabbie mobili dell'et … et – il delirio anti-aristotelico di Herbert Marcuse di cui si appropriarono gli inconsapevoli/fulminati neodestri di Francia e d'Italia.
 Era sconosciuta e/o dimenticata l'esistenza di due irriducibili indirizzi della destra, la rinascenza del cattolicesimo politico e il riflusso del laicismo di stampo illuministico e/o crepuscolare, non era conosciuta.
 Il tramonto della mitologia intorno alla inderogabile necessità di unire pensieri irriducibili in una destra intossicata dal sincretismo e/o dal pluralismo è chiaramente leggibile nel potenziale, latente conflitto, che oppone il pensiero neo-destro di Marine Le Pen alla destra vandeana di Marion Màrechal Le Pen.  
 All'orizzonte della destra europea si affaccia un dualismo a destra che trasporta le ragioni di un futuro segnato dal tramonto del sincretismo.
 L'ascesa di Marion Le Pen, infine, apre una finestra al dialogo tra la cultura della destra e la teologia tradizionale, una comunicazione che è stata finora impedita dalla confusione in tormentosa/tenebrosa circolazione negli ambulacri della destra francese e italiana.

 Alla destra latitante nel vuoto liberale generato da Foza Italia, la giovane Le Pen indica un nuovo percorso, una via indirizzata all'uscita dal politeismo spensante e all'ingresso nella vera scena della lotta politica.  

Piero Vassallo

domenica 6 dicembre 2015

Il Beato Rolando Rivi

 “Rolando Rivi è una delle tante stelle luminose del firmamento affollato dei martiri specie del xx secolo, che hanno testimoniato con il loro sangue la fede in Cristo seguendolo lungo il calvario”.
Antonio Borrelli


 La casa editrice Mariana, attiva in Frigento (Avellino), propone una pregevole e commovente biografia del beato Rolando Rivi (1931-1945), il seminarista di Castellarano (Reggio Emilia) che fu bestialmente torturato e assassinato in odio alla fede, (al pari di ottanta sacerdoti massacrati nel triangolo della morte) da criminali sanguinari, cani sciolti trionfanti nella radiosa (Palmiro Togliatti dixit) primavera del 1945.
 Paolo Risso, l'autore della avvincente biografia del Beato Rolando, scrive della infanzia del Beato: “ha un cuore grande e buono: non sopporta ingiustizie e protesta ad alta voce quando ne vede attorno a sé. E' di una tenerezza incantevole con i suoi cari e assai generoso con i compagni di gioco”.
 La scuola che Rolando frequentò con profitto non era intossicata dal laicismo. La religione non era censurata e messa al margine dal potere esercitato oggi dai miscredenti e dai cialtroni travestiti da pedagoghi.
 L'infezione laicista/ateista non aveva ancora infettato e alterato la pedagogia: “A scuola, Rolando sente che la maestra parla spesso di Gesù, come dell'unico della sua vita. Tutti i giorni, prima della scuola, la vede uscire dalla chiesa, dove ha partecipato alla Messa e ha ricevuto Gesù nella Comunione. ... La maestra Clotilde lo aiuta a crescere con una vera mentalità di fede, presentando Gesù come Maestro e Salvatore”.
 Benché tormentata dalla guerra la società italiana era rimasta fedele alla tradizione millenaria. L'eresia modernista era era stata debellata. Il cancro relativista era stato allontanato dal cuore della dottrina cristiana. La metamorfosi laica, confusionaria e conformista dell'ecumenismo non era all'orizzonte.
 Un sacerdote esemplare, don Olindo Marzocchini, parroco di Castellarano, insegnò al giovane Rolando che il cristiano deve essere fiero di appartenere al Divino Maestro e che “deve essere disposto a soffrire per Gesù ogni affronto e ogni pena”.
 La sapienza preconciliare suggeriva al buon prete di sostenere che l'esempio da imitare era quello dei cristiani martirizzati dal fanatismo imperversante nella Roma pagana, nel regno di Enrico VIII, nella Francia giacobina, nella Russia comunista, nel Messico massonico, nella Spagna anarchica, nella Germania neopagana.
 Due fratelli del padre di Rolando, intanto, chiamati alle armi, muoiono combattendo nei fronti della tragedia italiana, che si consuma in Africa Settentrionale e in Russia.
 Rolando consola la anziana madre dei caduti ricordandole che le porte del cielo sono aperte agli eroi: la vita sacrificata per amor di Patria (secondo l'indeclinabile dottrina cattolica) è implicitamente offerta al Signore.
 Ai poveri che bussano alla porta di casa, Rolando riserva una speciale cura. “Riserva a sé questo servizio come un onore. … Qualcuno gli fa notare che è troppo generoso, Risponde che la carità non impoverisce nessuno!”.
 Nella fede e nella misericordia matura la decisione di Rolando di farsi prete: “ne parla con papà e mamma, i quali gli rispondono che sono contenti della sua scelta”.
 Il 26 ottobre del 1942 entra nel seminario minore di Marola (Reggio Emilia): “quello stesso giorno veste con grande gioia l'abito talare”.
 In seminario Rolando si distingue per la rara capacità di vivere in felice equilibrio tra la letizia nello svago onesto e il profondo raccoglimento nella preghiera. Un suo compagno di studi dirà di lui: “Era l'immagine perfetta del ragazzo santo, ricco di ogni virtù, portata nella vita quotidiana all'eroismo”.
 Nel giugno del 1944 i soldati tedeschi occuparono il seminario di Marola, costringendo gli studenti a far ritorno alle loro famiglie. Congedandoli il rettore del seminario li esortò a condurre una vita virtuosa e a vestire la talare per rendere manifesta la loro appartenenza a Gesù.
 Il forzato ritorno alla casa paterna non alterò la vita del giovane seminarista. Rolando infatti portò con sé i libri per continuare lo studio della sacra dottrina e frequentò assiduamente la parrocchia: “La casa parrocchiale era il suo luogo prediletto. Si estasia a suonare l'armonium. Soffre ma si dimostra sereno e allegro. Non abbandona mai un istante la sua veste da prete”.
 Nella primavera del 1945 la guerra civile stava premiando i partigiani comunisti. A Rolando i genitori e gli amici consigliavano di non mostrarsi con le vesta da seminarista, invisa ai vincitori. Ai prudenti consiglieri Rolando rispondeva obiettando che la sua veste non era indossata per portare offesa. La pensavano diversamente i partigiani che lo sequestrarono e, dopo averlo sottoposto a torture per la durata di tre giorni, lo uccisero con un “classico” colpo alla nuca. Accecati dall'odio, pensavano che il risultato della morte di Rolando fosse “un prete di meno. Non compresero che il loro folle gesto generava un santo, un testimone della verità splendente nel sangue del giovane martire.

 L'arcivescovo di Modena Benito Cocchi a commento della biografia di Rolando ha citato un testo del profeta Isaia: “Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì' la sua bocca, era come un agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca”.

Piero Vassallo

lunedì 30 novembre 2015

Lettera a Papa Francesco (di Paolo Pasqualucci)

Beatissimo Santo Padre,

Sono uno dei 790.190 cattolici che hanno sottoscritto da tutto il mondo la Supplica rivoltaLe agli inizi di ottobre 2015, impetrante da Vostra Santità “una parola chiarificatrice”, che cioè dissipasse la grave confusione diffusasi nella Chiesa intorno a certi fondamentali insegnamenti, dopo le “aperture” avanzate nel Sinodo provvisorio dei Vescovi sulla famiglia, tenutosi nell’autunno del 2014.  Quelle “aperture” implicavano addirittura la legittimazione di fatto dell’adulterio e del peccato poiché miravano, tra altre cose, ad ammettere alla Santa Comunione i cattolici divorziati risposatisi civilmente.  Non solo: avrebbero potuto portare anche all’accettazione delle convivenze omosessuali, sempre categoricamente condannate dalla Chiesa in quanto espressamente contrarie alla legge divina e naturale.
Ma quella parola magisteriale, la parola del Sommo Pontefice, Vicario di Cristo Nostro Signore in terra, non si è sentita.  La Supplica è rimasta inascoltata.  È venuta invece, il 12 settembre 2015, la Lettera Apostolica, motu proprio data, Mitis Iudex Dominus Iesus, “sulla riforma del processo canonico per le cause di dichiarazione di nullità del matrimonio nel Codice di Diritto Canonico”.  Al titolo V questo motu proprio istituisce “il processo matrimoniale più breve davanti al Vescovo”, una novità assoluta per la Chiesa, che molto ha fatto discutere, attuata con esplicito riferimento allo spirito del Vaticano II. 
Il motu proprio abolisce l’istituto della “doppia sentenza conforme” (sempre difeso dai migliori canonisti) al fine di snellire le procedure volte ad ottenere una dichiarazione di nullità; snellimento che tuttavia non appare in armonia con la secolare tradizione della presunzione di validità del matrimonio, da difendersi con tutti gli strumenti del diritto. 
In aggiunta, la nuova procedura “più breve”, oltre ad attribuire ai Vescovi una inusitata competenza, presenta (all’art. 14 § 1) una elenco di “circostanze che possono consentire la trattazione della causa di nullità del matrimonio per mezzo del processo più breve”. L’elenco di tali circostanze è ampio:  tra di esse spiccano “la mancanza di fede degli sposi” all’atto del matrimonio e la “brevità della convivenza”.  L’ammissione di siffatte “circostanze” ha creato notevole sconcerto inducendo qualcuno a parlare di “divorzio cattolico” di fatto, garantito appunto da questa procedura “più breve”; tanto più che la lista delle suddette “circostanze” si chiude restando aperta, trovandovisi apposto un finale “etc.”, come se una lista di questo tipo potesse esser integrata all’infinito.  Modo di produrre il diritto, questo, alquanto singolare, tantopiù per il diritto canonico, in passato faro di vera e propria civiltà giuridica anche per il mondo laico. 
Questo informale modo di procedere viene da Vostra Santità giustificato con il ricorso al principio della misericordia.  Essa non può fermarsi alla lettera, deve cogliere e attuare lo spirito delle norme, delle leggi, dei Comandamenti divini.  Chi oggi difende tenacemente principi fondamentali della dottrina, viene da Vostra Santità bollato come un ipocrita, uno che vuole “indottrinare il Vangelo in pietre morte da scagliare contro gli altri”.  Certamente, come ricordato da Vostra Santità, “il primo dovere della Chiesa non è quello di distribuire condanne o anatemi, ma è quello di proclamare la misericordia di Dio, di chiamare alla conversione e di condurre tutti gli uomini alla salvezza del Signore (cfr. Gv 12, 44-50)”. 
Ma per l’appunto, mi permetto di osservare, ci deve essere “la conversione” per poter conseguire la salvezza.  Sappiamo bene cosa ciò significhi.  “Conversione” del cuore a Cristo con l’aiuto della Grazia e quindi pentimento e mutamento di vita in modo da poter diventare suo discepolo in fede e opere; in modo da diventare quell’uomo nuovo, rinato in Cristo, al quale solamente sarà concesso di “vedere il Regno di Dio” (Gv 3, 3).  Vivere in Cristo (e quindi secondo gli insegnamenti tradizionali della Chiesa) nelle opere della propria santificazione quotidiana non significa forse dover prendere la propria croce ad imitazione di Cristo?  È vero che la Chiesa ha la missione di condurre “tutti gli uomini alla salvezza del Signore”.  Tuttavia sappiamo che non tutti, anzi molti non si salveranno. L’ha detto il Verbo incarnato stesso:  “Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa.  Quanto stretta è la porta e angusta la via che conduce alla vita e pochi son quelli che la trovano!” (Mt 7,13-14).  
Tutti quelli che preferiscono “la via spaziosa” dei figli del Secolo ateo e miscredente hanno rifiutato la misericordia divina. Perseverando nel rifiuto, verranno dannati dalla divina giustizia, senza che ciò rappresenti contraddizione alcuna con la sua misericordia.  L’art. 55 della Relazione finale del recente Sinodo dei Vescovi sulla famiglia, ricorda una frase cara a Vostra Santità, della quale l’articolo stesso costituisce in pratica l’esegesi:  “La misericordia è il centro della rivelazione di Gesù Cristo”. In effetti, con il sacrificio della sua morte in Croce, Nostro Signore non ci ha ottenuto misericordia (propitiatio) per i nostri peccati?   E Vostra Santità cita anche san Tommaso il quale, nella Summa, ha scritto:  “È proprio nella sua misericordia che Dio manifesta la sua onnipotenza” (IIa-IIae, q. 30, art. 4).  Concetto esattissimo.  Tuttavia san Tommaso, mi permetto di aggiungere, dopo aver citato sant’Agostino, per il quale la misericordia è una virtù che deve sempre esser conforme a ragione e quindi  “conservare la giustizia”, ha anche scritto che “la misericordia, intesa invece come passione sottratta alla ragione, ostacola la deliberazione [razionale], facendo venir meno la giustizia” (ivi, art. 3 ad 1).
Come a dire:  una misericordia male intesa (anche se mossa dalle migliori intenzioni) conduce al latitudinarismo e al lassismo, istradando molti sulla “via larga” della perdizione.  E coloro che si servono del principio della misericordia propugnato da Vostra Santità per voler amministrare la Santa Comunione a persone che vivono nel peccato e continuano a viverci o per accettare le convivenze di fatto e di ogni tipo; presso costoro la “misericordia” non è diventata un principio irrazionale che li porta ad una “deliberazione” non conforme a ragione, violando in tal modo la giustizia? Che qui è in primo luogo la giustizia divina.  Per questo san Paolo ci insegna, a proposito di una Santa Comunione sacrilega:  “Perciò chiunque mangia questo pane o beve il calice del Signore indegnamente, sarà reo del corpo e del sangue del Signore” (1 Cr 11, 27), cadendo quindi sotto la scure della sua giustizia.

L’ideale di misericordia cristiana ispirante il motu proprio ha ovviamente influenzato (vedi art. 55 cit.) la Relazione finale del già ricordato XV Sinodo dei Vescovi, tenutosi a Roma dal 5 al 25 ottobre c.a. sul tema “La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo”. In questa Relazione, se le “aperture” all’omosessualità sono state nettamente respinte (vedi art. 76),  agli artt. 84, 85, 86, invece, che pur hanno avuto numerosi voti contrari, si stabiliscono i criteri per “il discernimento e l’integrazione” nella Chiesa dei divorziati risposati civilmente, anche nella liturgia.  Questi criteri sono esposti con un linguaggio elusivo che tuttavia, al Vescovo che lo voglia, permette di trovare spunti sufficienti ad inaugurare la “via larga” ossia ad “integrare” i divorziati risposati anche in quella parte della liturgia rappresentata dalla Santa Comunione.  Questa è l’interpretazione del criptico testo sostenuta da autorevoli cardinali e vescovi, sia tra la fazione che spinge per le “aperture”, sia tra il ceto di quelli rimasti fedeli al Magistero perenne.

Il motu proprio Mitis Iudex diventerà operante l’8 dicembre, festa dell’Immacolata, giorno di apertura del Giubileo indetto da Vostra Santità.  Per quel giorno, ci si aspetta anche che il Papa faccia o non faccia proprie diverse istanze di “apertura” individuabili nel Sinodo sulla famiglia, in particolare quelle racchiuse negli artt. 84, 85, 86 citati.
Lo scopo di questa Lettera, che mi sono preso la libertà di scrivere nella mia qualità di semplice fedele, è pertanto il seguente: 

imploro la Santità Vostra di respingere le avanzate istanze di “apertura”, comprese quelle ai divorziati risposati, e di soprassedere all’entrata in vigore del motu proprio sulla riforma delle procedure per ottenere la nullità del matrimonio:  di sospendere quel motu proprio o addirittura ritirarlo.

Tale richiesta al Papa da parte di un semplice fedele può apparire  del tutto irrituale, per non dire di un’audacia temeraria.  Posso assicurare Vostra Santità che non c’è nessuna particolare audacia o temerità da parte mia, ma solo l’ardente desiderio di difendere la vera dottrina e pastorale cattoliche in questi tempi di grave confusione, desiderio condiviso da tantissimi fedeli, a nome dei quali (pur non conoscendoli) credo di poter parlare, senza per questo dover esser accusato di superbia.        
Se quelle eterodosse istanze venissero accolte e se diventasse legge la riforma del processo nelle causa di nullità, il giorno dell’imminente Festa dell’Immacolata, l’8 dicembre 2015, inizio ufficiale dell’Anno Santo, sarebbe un giorno veramente infausto nella storia della Chiesa.  Infatti, si introdurrebbe una procedura per ottenere la nullità del matrimonio che di fatto può qualificarsi come “divorzio cattolico”, grazie anche alla straordinaria e atipica novità del “processo più breve”; si permetterebbero cosiddetti “percorsi di discernimento pastorale” a favore dell’integrazione nella Chiesa (liturgia compresa) dei divorziati risposati, “percorsi” che oggettivamente sfociano in una legittimazione del peccato, qui (per esprimerci nei termini espliciti della bimillenaria dottrina della Chiesa) manifestantesi in triplice forma: adulterio, fornicazione, concubinato, ai quali possiamo anche aggiungere, in certi casi, il pubblico scandalo.

Dixi et salvavi animam meam.

Prego la Santità Vostra di credere ai sensi della mia più filiale devozione. Che lo Spirito Santo La illumini, La sorregga, sempre La protegga,


Paolo Pasqualucci


30 novembre 2015

domenica 29 novembre 2015

Giano Accame: L'eredità del bankiller

Né della povertà avvilente mi curo né dei nemici che parlano  male di me.
Teognide di Megara



 Nell'aristocratica abitudine alle rinunce e nella refrattarietà all'avvilente/angosciante invidia, Teognide di Megara ha rivelato il segreto del vivere nella felice emancipazione dalla superbia dei ricchi.
 Tale era lo stile di Giano Accame (Stoccarda 1928 - Roma 2009), umanista cattolico imprestato all'economia. L'impero dell'egoismo fu trasformato da lui in occasione di gioire del bene altrui come la qualunque persona gioisce del bene proprio.
 Tale appariva Giano allo sguardo di un indagatore autorevole ed esigente, quale fu il suo amico Nino Badano.
 Giano restituiva gli sgarbi e le pugnalate alla schiena coniando battute soavi e devastanti, ad esempio “Gianfranco Fini? Un trovatello della storia”.
 L'altruismo di Giano era la conseguenza della studiosa fedeltà alla dottrina sociale, mediante la quale l'Italia del Novecento, addomesticando l'infelice dualismo capitale-lavoro, aveva spento il disprezzo e domato l'invidia delle opposte classi sociali.
 Fascista tradito dalla data di nascita, che gli impedì la partecipazione alla guerra, cercò e ottenne la rivincita nell'appassionato e faticoso studio e nel geniale incremento dell'eredità culturale del bieco ventennio.
 A Pietra Ligure, nell'immediato dopoguerra, Giano fu allievo di un illustre vicino di casa, l'epurato senatore Carlo Costamagna, un protagonista della scintillante scuola di Pisa. Costamagna gli indicò la via della cultura vivente a mal grado della sconfitta militare e oltre lo sterile nostalgismo.
 Di qui l'inizio dell'ingente produzione culturale, che costituisce il motore della possibile rivolta contro l'oscurantismo dei vincitori liberali.
 La biblioteca costituita dagli scritti di Accame è imponente. In essa sono esposti i criteri necessari a leggere e interpretare il Novecento attraverso le opere di statisti, filosofi, storici e poeti [1].
 Accame interpretò e attualizzò il pensiero dell'avanguardia impegnata nella ricerca delle ragioni a monte della scandalosa adesione dell'economia fascista ai princìpi della dottrina sociale della Chiesa. Alle sue intuizioni sono stati e sono tuttora debitori i più vivaci (e censurati) interpreti della destra post-fascista [2]-
 Di qui il risoluto allontanamento dal neopaganesimo professato dai giovani seguaci di Julius Evola e l'intrepida scelta di abitare nella terra abbandonata dalla retroguardia attiva nel Msi.
 Accame nel Msi ottenne la sfortuna politica che la sua intelligenza meritava. Nominato da Pinuccio Tatarella direttore del quotidiano Il Secolo d'Italia, ne elevò il profilo a tal punto che Augusto Del Noce lo definì il miglior quotidiano politico d'Italia.
 Licenziato dal segretario di un partito gestito da mediocri, incapaci di sopportare il peso dell'intelligenza, Accame collaborò con il settimanale cattolico Il Sabato, nel quale pubblicò Bankiller, una rubrica settimanale di ispirazione (cripto) corporativista.
 La rinascita di una destra indenne dalla incapacitante/paralizzante tarantola liberale non può essere immaginata e progettata senza l'ausilio della tradizione italiana, esposta nella Quadragesimo anno, il documento che Giano Accame ha riscattato e consegnato agli economisti del futuro.
 La passione invincibile della falsa destra, infatti, è la maschera usata dalla malattia liberale per nascondere la propria strutturale magagna. La maschera può cadere soltanto a seguito della insorgenza di una dottrina economica indenne dalla devastante suggestione emanata dal passato liberale.

 Piero Vassallo





[1] Benito Mussolini, José Antonio Primo de Rivera, Corneliu Zelea Codreanu, Ezra Pound, Robert Brasillach, Ernst Junger, Giuseppe Bottai, Werner Sombart, Pierre Drieu La Rochelle, Pierre Gaxotte, Niccolò Giani, Guido Pallotta.
[2] Attilio Mordini, Pinuccio Tatarella, Carlo Casalena, Pino Tosca e Primo Siena, Gaetano Rasi, Sergio Pessot, Aldo Di Lello, Tommaso Romano.

giovedì 26 novembre 2015

LE INGIUSTE PRETESE DELLA CATALOGNA CONTRO L’ITALIA (di Paolo Pasqualucci)

Non dobbiamo chiedere nessuna scusa per i bombardamenti di Barcellona nel 1938 né tantomeno per il fondamentale contributo dell’Italia fascista alla vittoria della Spagna cattolica.

Su Il Giornale del 22 novembre scorso campeggiava questa singolare notizia, in un articolo a firma Daniele Bellocchio:  “Barcellona vuole le scuse dell’Italia per i bombardamenti dell’aviazione fascista”.   L’articolo spiegava che nel marzo del 1938 Mussolini ordinò di bombardare Barcellona, in mano ai  “Rossi”,  cosa che procurò centinaia di morti fra i civili. Si era nel pieno della Guerra civile spagnola.  Ora, già nel 1999 i catalani avevano avanzato all’Italia democratica la richiesta di fare un gesto di riparazione nei confronti di quei (supposti) crimini di guerra, non ricevendo ovviamente alcuna risposta da parte delle nostre autorità.  Questo l’articolo non lo dice.  Ricorda invece che “nel 2013 l’associazione Altritalia (non meglio identificata) aveva  mosso denuncia contro 21 piloti dell’Aviazione Legionaria  per i bombardamenti in Catalogna”.  A due anni di distanza, “il comune di Barcellona ha deciso di costituirsi parte civile in due processi e uno riguarda proprio i bombardamenti italiani.  Oggi Barcellona oltre che portare alla sbarra franchisti e piloti a loro alleati, vuole anche le scuse dal governo italiano per i crimini commessi dal suo esercito in una guerra che simboleggiò l’inizio dell’orrore [etc., segue il consueto pistolotto antifascista di maniera, politicamente correttissimo”].
Chi si costituisce “parte civile” in genere non si limita a richieste di scuse, vuole anche cospicue compensazioni in denaro.  Ma dove si svolge questo processo?  E contro quali “piloti dell’Aviazione Legionaria”, nome sotto il quale (per ragioni politiche) operava la Regia Areonautica nel conflitto spagnolo, avendo come insegna la Croce di sant’Andrea?  Se ancora viventi, deve trattarsi di centenari.
La questione non è nuova, per la stampa italiana.  Infatti, nel 2013 il Corriere della Sera vi dedicò ampia attenzione, ovviamente in senso antiitaliano, dando cioè ragione a priori ai catalani, senza nemmeno tentare di verificare la fondatezza delle loro pretese.  Al tempo scrissi   per il sito Riscossa cristiana l’articolo che ora pubblico qui, sul blog dell’amico Piero Vassallo.  Lo ripropongo, dopo averlo aggiornato, modificato in diversi punti e ampliato, dal momento che mi sembra ancora perfettamente attuale.  Gli argomenti avanzati nel 2013 dai giornalisti italiani e catalani sono sicuramente gli stessi ripetuti oggi.      Come disse l’illustre storico tedesco Ernst Nolte:  siamo oppressi da un “ passato che non passa”; è il passato che non deve passare mai, ma solo per tedeschi, italiani e giapponesi, per quelli che hanno perso la seconda guerra mondiale.  
* * *
Due anni fa, il Corriere della Sera iniziò dunque una sorta di campagna di stampa (sostanziatasi in un paginone ospitante anche un articolo di Enric Juliana, condirettore del noto giornale di sinistra La Vanguardia di Barcellona)[1] a favore della richiesta di “scuse”  avanzate dai catalani nei confronti dell’Italia “democratica”, per alcuni bombardamenti compiuti “dagli aerei di Mussolini” sulla popolazione civile durante la Guerra di Spagna, in particolare per quello su Barcellona nel marzo del 1938.  “A Mussolini il progetto di trasformazione antropologica del popolo italiano [in una dura razza guerriera] non riuscì ma il fascismo portò “la brava gente” a macchiarsi di crimini di cui dobbiamo chiedere scusa”. Così terminava l’articolo del giornalista Dino Messina nel medesimo paginone.  Argomentare singolare il suo, poiché non si capisce in base a quale logica l’Italia “democratica” debba  chiedere scusa per “crimini”, veri o presunti che siano, che in ogni caso non ha commesso.
La richiesta di scuse è un tristo rito del “politicamente corretto”.   Da alcuni decenni è invalsa questa pratica del “chieder scusa” in pubblico da parte di rappresentanti di istituzioni o di popoli per misfatti veri o presunti non compiuti  da coloro che chiedono scusa né da coloro che essi al momento rappresentano. Il “chieder scusa” ha un senso se è fatto da colui che ha compiuto l’azione incriminata o da chi (genitore, tutore, superiore gerarchico) aveva istituzionalmente il dovere di impedire che il misfatto avvenisse.  Al di fuori di questi casi, appare del tutto assurdo.  Ma tant’è.   Questa pratica abnorme è diventata una liturgia essenziale dell’ideologia dominante: il democraticismo anticristiano, pacifista disarmista, libertario-libertino, femminista e omofilo, che trova ovviamente nei riti stantíi dell’antifascismo sempiterno ed onnipresente la vena iugulare che lo nutre.  Le odierne, inflazionate, “richieste di scuse” hanno in realtà lo scopo di umiliare e mettere alla gogna un individuo o un’istituzione o addirittura un intero popolo.  Ma non sono mai  prive di un risvolto mercantile, visto che le pubbliche dichiarazioni di scusa vengono in genere intese quali assunzioni di responsabilità anche in senso giuridico,  obbligando chi si è scusato ad erogare somme spesso notevoli a compensazione delle vittime o dei loro discendenti o di intere comunità.  Alcuni anni fa, il presidente statunitense Bush jr. respinse la richiesta di scusarsi a nome del popolo americano nei confronti degli afroamericani per via del periodo di schiavitù da loro passato in quel paese. La sua dichiarazione avrebbe avuto valore giuridico, significando esplicita assunzione di responsabilità per i torti trascorsi [sic],  autorizzando in tal modo tutti i neri degli Stati Uniti, in quanto discendenti degli schiavi di un tempo, a far causa al Governo Americano per ottenere individualmente un risarcimento a titolo “morale” per i “diritti umani” violati dei loro antenati.  Questa è l’aberrante prassi politico-giuridica che si è oggi instaurata, a livello internazionale.  La pretesa era palesemente assurda: la schiavitù fu abolita negli Stati Uniti nel 1866 ed i neri oggi sono ben inseriti nella società americana, checché ne dica la sinistra radicale. Inoltre, va ricordato che la schiavitù era per i neri africani di un tempo istituzione tradizionale e del tutto normale, sulla quale si basava in pratica l’economia primitiva della loro società tribale.  Erano poi quasi sempre gli stessi capitribù a vendere i loro schiavi o sudditi ai trafficanti arabi ed europei, ricavandone lauti guadagni.
I catalani ci provano dal 1999.  Come si è detto, la pretesa dei catalani viene da lontano, è stata messa sul tappeto ben 16 anni fa.  “Prendendo spunto dalle scuse tedesche per Guernica, il 19 marzo del ’99 la Commissione di Cultura del Parlamento regionale catalano ha invitato le Camere italiane a chiedere ufficialmente scusa per i bombardamenti di Barcellona da parte dell’aviazione di Mussolini.  Alla mozione, presentata dall’estrema sinistra, hanno aderito tutti i partiti ad eccezione dei popolari di Aznar, che si sono astenuti:  “Ora che faremo – ha domandato il [loro] capogruppo Escartin – chiederemo le scuse dei francesi per i danni inflitti da Napoleone?”[2].  Ma quale popolo non ha scheletri nell’armadio? Se poi, viene da domandarsi, per esser “democratici” bisogna “chiedere scusa” ed umiliarsi di fronte agli altri popoli per i misfatti del proprio,  non dovrebbero farlo tutti e senza limitarsi ad eventi recenti, scelti ad hoc in base all’ideologia dominante, che pretende le scuse (con accluso assegno) sempre dalla stessa parte?  Ma quando finirà questa prassi perversa del “chieder scusa politicamente corretto”?
La “bufala” di Guernica.  Perché i tedeschi odierni hanno dovuto chieder scusa per Guernica?  La vicenda è più o meno nota.  La nazista Legione Condor fu accusata di aver scientemente sperimentato nuove micidiali tecniche di bombardamento sulla pacifica cittadina di Guernica, di cinquemila abitanti, città aperta, centro spirituale dei Baschi, lontana dal fronte, scegliendo un lunedì giorno di mercato per far più strage.  A  Norimberga, Göring avrebbe pubblicamente ammesso l’esperimento delle nuove, micidiali tecniche, in Ispagna.  Quasi tutta l’antica cittadina fu distrutta dalle “bombe incendiarie” e i morti si fecero ascendere a cifre elevate che si stabilizzarono ufficiosamente (perché i Baschi non hanno mai fornito dati ufficiali) sul numero (non si sa perché) di 1.654, più 889 feriti.  Picasso avrebbe poi dipinto il famoso “Guernica”, su commissione dei Baschi stessi.  Un quadro per la verità singolare, visto che sembra rappresentare più una tauromachia che le vittime di un bombardamento (ammesso che si possa dare un senso alle demenziali tele del Picasso astratto, di sicuro un grande pittore ma nel periodo iniziale, quello figurativo).  Una trentina d’anni fa i Baschi chiesero un semplice “gesto di riconciliazione” ai tedeschi.  Si mobilitò la sinistra verde-rossa tedesca e alla fine, dopo varie vicende e anni di tam tam mediatico, il Governo tedesco dovette scucire gli immancabili quattrini, ossia 6 milioni di euro per costruire un “moderno ed attrezzatissimo centro professionale a Guernica”.  I Baschi e le sinistre tedesche lamentarono che i soldi erano comunque pochi e il governo tedesco dovette prosternarsi in scuse sempre più umilianti, sino alla formulazione che piaceva a Baschi e sinistre udire[3].  Mensurati dimostra altresì, con accuratissima ricostruzione, che  il perfido massacro intenzionale di Guernica è un mito, costruito dalle autorità basche servendosi delle colossali deformazioni operate dalla stampa anglosassone, in particolare dal giornalista inglese George L. Steer, morto nel 1944; personaggio la cui disinvoltura e malafede (si inventò di sana pianta una clamorosa e umiliante sconfitta italiana nella cittadina basca di Bermeo, mai avvenuta,) è stata ampiamente provata già all’epoca[4]
I veri fatti di Guernica.  Ma cosa successe effettivamente a Guernica?  Il bombardamento ci fu ma non con le modalità inventate dalla leggenda. Ed è da respingere “l’altra leggenda”, quella di fonte nazionalista, che negava il bombardamento stesso incolpando della distruzione della cittadina i dinamiteros anarchici asturiani in ritirata, che poco prima avevano effettivamente ridotto ad un cumulo di rovine la vicina cittadina di Eibar.  Ecco i fatti:  1.  Guernica non era “città aperta”:  c’erano tre fabbriche di armi (bombe d’aereo, spolette, pistole mitragliatrici) e vi erano acquartierati tre battaglioni baschi, per circa duemila uomini.  2. Non era nelle lontane retrovie.  Il fronte era ormai a 15 km. e si stava avvicinando rapidamente.  I baschi in veloce ritirata incalzati da navarresi (carlisti requetés) e da italiani e spagnoli (formazioni miste “Frecce Nere” e reparti della “XXIII Marzo”, famosa divisione di Camicie Nere), stavano transitando da alcuni giorni alla periferia nordest del paese, sul piccolo ponte (19,5 per 9,5 m)  posto sullo stretto Rio Oca, diretti verso Bilbao, piazzaforte situata  34 km. ad ovest di Guernica e capitale della regione. Per l’esercito basco minacciato di accerchiamento da sud, la strada che passava per quel ponte era l’unica via d’uscita dalla sacca.  Da qui il desiderio di distruggerlo con l’aviazione da parte dei Nazionali, per intrappolare il nemico in fuga. Il ponte di Guernica era improvvisamente diventato un obiettivo strategico di primaria importanza assieme al crocevia di strade ad esso immediatamente prospicente.   3.  Era il 26 aprile, giorno di mercato, ma il nuovo governatore, avendo capito la gravità della situazione, aveva vietato il mercato e rimandato indietro i contadini.    Inoltre 400 uomini, su 5000 abitanti, erano al fronte. C’erano sette ottimi rifugi antiaerei, uno dei quali però non ancora finito, con il tetto ancora debole (e per disgrazia fu colpito proprio quello, con la morte delle 45 persone che vi stavano dentro).  Quando arrivarono i primi aerei (uno tedesco isolato e tre italiani) l’allarme fu dato con le campane.  Parte della popolazione andò nei rifugi, parte scappò sulle colline circostanti.  4.  Si sono trovati gli ordini di volo con le relative istruzioni alla squadriglia tedesca (16 o 17 aerei + 1) e a quella italiana (3 aerei) che effettuarono l’operazione.  Quello italiano dice:  “ 26.4.37, XV, ore 12.30.  Oggetto:  bombardamento ponte di Guernica […] Il paese per evidenti ragioni politiche non deve esser bombardato […]  Bombardare la strada ed il ponte ad E di Guernica in modo da ostacolare la ritirata del nemico […] Azione di sorpresa con provenienza dal mare”.  Quello tedesco mostra un’impostazione simile.  La fotocopia riprodotta dall’ottimo Mensurati è sbiadita ma il testo si riesce comunque a decifrarlo .  Si tratta di cinque righe e due parole.  Dopo aver sinteticamente descritto la situazione sul terreno (“truppe bianche” cioè i Nazionali che “serrano sotto” etc.),  nell’ultima riga indica l’obiettivo degli aerei tedeschi:  “Angriff zur zurückgehenden Gegner auf Strassen nördlich Monte Oiz und Brücke und Strassen ostwärts Guernike”: “Attacco contro il nemico in ritirata sulle strade a nord del Monte Oiz [monte a sud-est di Guernica] e sul ponte e le strade in direzione Est rispetto a Guernica”. Né nei documenti italiani né in quelli tedeschi si trova dunque l’ordine di bombardare  la cittadina di Guernica:  l’obiettivo era solo il ponte situato nell’immediata periferia, a Nord-Est, poiché era solo per il ponte che stava passando l’esercito basco in ritirata[5] .  
 5.  L’attacco al ponte non riuscì. I ponti sono notoriamente un bersaglio difficile. Prima un isolato aereo tedesco, poi i tre italiani, infine i 16 o 17  tedeschi  a gruppetti di tre, in rapida successione, mancarono tutti il ponte, anche a causa di un forte vento trasversale.  Le bombe venivano sganciate da una quota di quasi quattromila metri con i sistemi di puntamento approssimativi di allora e si faceva un solo passaggio.  Si è favoleggiato di ore di bombardamento e di ordigni enormi di spaventosa potenza.  Tutte fandonie.  Gli aerei dell’epoca non avrebbero mai potuto portarli.  Ogni azione durò pochi minuti, come avveniva per operazioni simili, anche da parte dei Repubblicani, con impiego della caccia di scorta (qui cinque o dieci aerei) che si attardava brevemente a mitragliare sull’obbiettivo, nella fattispecie rappresentato soprattutto dal ponte e dalla strada, piena di soldati e mezzi nemici in fuga.  E non dai civili di Guernica sopravvissuti.  Nessuna testimonianza dei locali menziona mitragliamenti diretti specificamente sul centro del paese, dove erano cadute le otto bombe che lo colpirono.  Questa la successione degli eventi:  Alle 16.30 arrivarono i tre Savoia-79, che videro un aereo tedesco isolato allontanarsi.  Mirarono al ponte tirando 36 bombe da 50 kg, senza colpirlo.  Le bombe caddero nei campi, tranne alcune che centrarono edifici posti ai lati della stazione ferroviaria, posta a sud-ovest del ponte (la direttrice dell’attacco era da nord-est a sud-ovest) ma non i binari, che rimasero intatti.     I 16 o 18 apparecchi tedeschi sganciarono alle 18.30 in prevalenza bombe da 250 kg. e un certo numero di spezzoni incendiari alla termite (e non bombe incendiarie al fosforo, come si è pure scritto, molto più potenti).  Gli spezzoni erano in genere usati contro le fanterie.  La maggior parte del carico bellico finì nei campi, tiro troppo lungo o troppo corto, da 3.800 metri di altezza.   Si sono contate 39 buche di bombe da 250 kg.  Otto bombe colpirono il centro del paese.   6. Nelle vecchie case di Guernica si trovavano numerosi balconi, travature ed intelaiature di legno. Dopo l’attacco risultavano in fiamme 51 di esse solamente. Però il telefono era interrotto, i servizi locali di spegnimento insufficienti e i pompieri arrivarono da Bilbao troppo tardi, verso le 22.00, quando l’incendio, alimentato dal forte vento, era ormai incontrollabile.  Così quasi tutto il paese andò distrutto, ma dall’incendio sfuggito di mano non dalle bombe, presentando il giorno dopo la visione spettrale delle foto note in tutto il mondo. Le case distrutte o lesionate in modo irreparabile furono 721.  Va notato che la popolazione non colpita dal raid fu evacuata il giorno dopo con sette treni giunti da Bilbao. Anche questo dettaglio, mi chiedo, non dimostra che la “spaventosa ecatombe” non c’è stata? E difatti, i morti effettivi, accertati nel 1981 con nome e cognome, furono, secondo le minuziose ricerche dello studioso spagnolo indipendente J. M. Salas Larrazabál,  125 o 126.  Sempre tanti, anche per quei tempi, ma lontanissimi dai numeri della supposta strage.  Questa è la vera storia del bombardamento di Guernica.  Il resto sono solo invenzioni.  Dovrebbe esser noto che  in privato i capi baschi parlavano di 200-250 morti mentre lasciavano che in pubblico si farneticasse di circa duemila e anche di più.   Il governo tedesco è stato turlupinato, dovrebbe riavere i soldi: ha dovuto scusarsi e pagare per le inesistenti “2000 vittime della barbarie nazista” a Guernica.  Un episodio cruento come tanti altri di una guerra cruenta.  Ma non ci fu nessun diabolico piano nazista per sperimentare non si sa quale nuova e micidiale tecnica di bombardamento sugli indifesi abitanti della cittadina.  È poi falso che a Norimberga Göring abbia fatto le dichiarazioni su Guernica attribuitegli dai media.  Nei verbali di quel processo non ve n’è traccia[6].  
Mi sono dilungato sul falso di Guernica perché il giornalista  Enric Juliana ovviamente menziona l’episodio e nei consueti termini retorici, citando ancora come fonte attendibile il sunnominato Steer [sic] e lamentando che dei bombardamenti di Barcellona non si sia mai parlato perché non hanno avuto la fortuna di esser celebrati da quadri famosi come quello di Picasso.  Chi non sa come sono andate veramente le cose potrebbe allora credere (dato il paragone) che l’Aviazione Legionaria  abbia praticamente raso intenzionalmente al suolo gran parte di Barcellona, emula di ciò che l’aviazione nazista avrebbe fatto a Guernica.  Nulla di più errato.  Come sono andate effettivamente le cose a Barcellona? 
L’ordine di bombardare Barcellona. Mussolini, il 16 marzo, fece effettivamente dare, all’improvviso, l’ordine di “iniziare da stanotte azione violenta su Barcellona con martellamento diluito nel tempo”[7].  E come mai?  Uno scatto d’ira? Un raptus di onnipotenza?  Si sono date le interpretazioni più varie, accusando il dittatore di spietato cinismo.  Tuttavia, Mussolini si era sempre adoperato, tramite Ciano, l’ambasciatore Cantalupo e persino un “duro” come Farinacci, affinché Franco limitasse il più possibile le fucilazioni di rappresaglia con le quali i suoi tribunali militari punivano implacabilmente le sistematiche atrocità e le barbare stragi dei “Rossi”, colpendo però nel mucchio, mandando al muro anche persone per bene, colpevoli solo di trovarsi “dall’altra parte”.  La documentazione sul punto è ampia[8].  E adesso all’improvviso se la prendeva con la popolazione inerme di una grande città come Barcellona, ordinando di bombardarla, per giunta all’insaputa di Franco?  Errati calcoli di prestigio o il desiderio di impressionare qualcuno (Hitler, che si era appena incamerato l’Austria o la Francia che sembrava voler riprendere in grande stile gli aiuti alla Repubblica, via Catalogna)? O voleva forzare la mano a Franco, che procedeva sempre troppo lentamente, a detta di italiani e tedeschi, ansiosi di chiudere al più presto la sanguinosa partita spagnola?  I generali tedeschi, pur mostrando rispetto per il valore del soldato spagnolo, nei loro rapporti sottoponevano alle critiche più roventi l’alto comando nazionalista[9]. Mussolini temeva in particolare che il conflitto spagnolo deflagrasse in uno europeo, che egli come sappiamo non desiderava affatto.  Nemmeno Franco, che tuttavia aveva le sue ragioni per procedere senza troppa fretta, desiderava un allargamento del conflitto.  Ci sperava la Repubblica.  Se fosse scoppiata una guerra europea, già da tempo nell’aria grazie anche al conflitto spagnolo, la Francia “democratica” avrebbe potuto intervenire massicciamente e allo scoperto in Ispagna, salvando la Repubblica.   La guerra di Spagna finì l’1 aprile del 1939, solo cinque mesi prima dell’inizio della guerra in Europa (1.9.39).  Quale sia stato il motivo dello sventurato quanto isolato ordine mussoliniano, va comunque ricordato, per la necessaria obiettività storica, che  Barcellona non era affatto una città inerme ed indifesa, estranea alla guerra, come vorrebbe far credere il sig. Juliana.  E come si vuol far credere con l’intentare il processo all’aviazione italiana.
Barcellona era un obiettivo militare, come altre città spagnole.  Protetta da una forte contraerea, la città si era dotata di numerose installazioni militari (caserme, depositi, fabbriche di armi e munizioni) e nel suo porto erano alla fonda navi da guerra della Repubblica.  Il suo centro urbano era   intessuto di officine e laboratori attivamente impegnati nella produzione bellica.  C’erano più di duecento siti militari in esso sparpagliati.  Ciò lo rendeva un obiettivo militare legittimo per attacchi di precisione, comunque difficili a farsi senza colpire la popolazione.  E difatti l’art. 24.3 della Convenzione sulla guerra aerea invitava i belligeranti a non bombardare in queste circostanze, per non provocare un massacro tra i civili.  Non proibiva di bombardare, esortava a  non farlo, per ragioni umanitarie.  Ma, in circostanze simili, i Repubblicani avevano attaccato più volte  e senza problemi gli obiettivi militari[10]. Da mesi le installazioni portuali di Barcellona e quelle di altri porti in mano ai “Rossi” venivano bombardate dall’Aviazione Legionaria di stanza alle Baleari, che mirava in particolare alle navi da guerra disseminate in essi.  Il 7 marzo del 1938, a Cartagena, con bombe da 250 Kg. a scoppio ritardato, l’Aviazione Legionaria danneggiò gravemente l’incrociatore Libertad e affondò un cacciatorpediniere.  Il 21 maggio 1937 fu centrata nel porto di Almeria la vecchia corazzata Jaime I, che affondò per esplosione interna dopo esser stata rimorchiata ai conseguenti lavori.  Dal 15 gennaio al 10 marzo il porto di Barcellona fu sottoposto a 16 incursioni, sulle navi alla fonda e sulle attrezzature portuali.  Erano tutti obiettivi militari. Purtroppo, si verificavano sempre errori di mira, spesso a causa del vento, e bombe isolate colpivano un quartiere prossimo al porto, chiamato Barrio Gotico.  Ma i bombardamenti erano, al limite del possibile, di precisione.  Non si trattava di attacchi a città indifese, a scopi terroristici, come si cerca di far credere oggi[11].   Riporto un episodio tipico, in questo senso (nel senso della pratica del bombardamento di precisione) tratto dalla battaglia per la conquista di Bilbao:  “due Savoia-79 italiani, che erano riusciti a eludere i caccia sovietici, centrarono in pieno un’aviorimessa dell’aeroporto di Bilbao distruggendo o mettendo fuori uso 7 caccia nemici e dimezzando così le difese aeree della base”[12].
Per tutta la guerra, da una parte e dall’altra, si usò colpire con artiglieria ed aviazione città dove si combatteva, anche se ciò provocava l’ira e le recriminazioni della popolazione civile, com’è ovvio, e le proteste internazionali.  Mensurati riporta in Appendice i bollettini dei guerra dei Repubblicani, concernenti il loro assedio di Oviedo, capitale delle Asturie passata ai Nazionali, dall’1.9.1936 al 5.10.1936:  “la nostra artiglieria bombarda senza sosta la città”; “la nostra aviazione ha incominciato il bombardamento a tappeto della città di Oviedo, dopo aver lanciato nella giornata di ieri esattamente 2.000 proiettili e producendo un panico enorme” e così via[13].  Madrid, con il fronte addirittura alla sua periferia, fu bombardata più volte dai Nazionali e la popolazione ne soffrì duramente. Si effettuavano poi, a volte, bombardamenti aerei di pura rappresaglia su obiettivi lontani dal fronte.  Questi bombardamenti terroristici furono “pratica corrente” presso i Repubblicani, che alla fine del maggio del 1937 colpirono ripetutamente “città aperte, lontane dal fronte, come Pamplona, Palencia, Zaragoza, Burgos, Valladolid, Palma de Maiorca”[14]
Il giornalista Messina, che sembrava far da spalla al collega catalano, aveva il coraggio di scrivere che noi italiani dovremmo chiedere scusa per il bombardamento di Durango, in Biscaglia, “che il 31 marzo 1937 venne attaccata da squadriglie italiane che distrussero case e uccisero 289 persone” (articolo del Corriere della Sera, cit.).  Il fatto viene presentato isolato dal contesto, come se si fosse trattato per l’appunto di un bombardamento che mirasse solo ad uccidere i civili e a distruggere centri abitati, seminando così il terrore (alla maniera degli Alleati nella seconda guerra mondiale).  Ma l’autore si dimentica di precisare che a Durango c’era il fronte, che proprio contro questa cittadina, uno dei cardini della linea difensiva dei baschi, si era aperta quel giorno la Campagna del Nord, l’offensiva nazionalista che avrebbe portato alla conquista di Bilbao (19.6.1937).   “Al bombardamento di Durango parteciparono anche due squadriglie di Savoia-81 italiani, che quel giorno ricevettero precise istruzioni: ‘Bombardare reiteratamente Durango e Elorrio nella giornata 31/3/37 allo scopo di distruggere i depositi e colpire le truppe presenti negli abitati”[15].  Precise ricostruzioni effettuate incrociando i registri parrocchiali ed elenchi di vittime pubblicate dai giornali baschi dell’epoca danno una lista di 99 morti, compresi anche i feriti deceduti negli ospedali, lista mai modificata da alcuno.  Sempre tanti i morti, anche per i mezzi di distruzione di allora.  Ma lontanissima, questa cifra, dai 289 di Messina, che evidentemente si affidava acriticamente alla vulgata diffusa dai catalani[16].
Il bombardamento del centro di Barcellona.   Solo un accenno ad altre inaccettabili dichiarazioni del suddetto giornalista, tra le quali l’immancabile riferimento alla “disfatta” di Guadalajara, che fu invece una dignitosa e contenuta sconfitta (l’unica della guerra) con appena 650 morti, 1.994 feriti e 275 prigionieri, su circa 30.000 soldati impiegati e non registrò il crollo del fronte ma solo la perdita di venti dei circa 35 km. inizialmente conquistati (marzo 1937) .   La sconfitta tuttavia impedì l’accerchiamento di Madrid.  “La mal concepita quanto ambiziosa offensiva italiana contro Madrid era fallita, stroncata dalla tenace resistenza repubblicana e dalle condizioni atmosferiche [che impedirono il consueto appoggio dell’aviazione].  Era fallita pure la controffensiva dei repubblicani che, come era stato clamorosamente annunciato, aveva lo scopo di annientare il corpo legionario”[17].  


Per il bombardamento di Barcellona resta fondamentale lo studio del citato Prediali.  In ottemperanza agli ordini mussoliniani, la sera stessa del del 16 marzo Barcellona fu bombardata da quattro Savoia-81.  Durante la notte  altri sei S-81 colpirono il centro della città.  Il giorno dopo, con inizio alle 7.30, attacco diurno in tre fasi, rispettivamente di sei, cinque e infine altri cinque S-79.  Durante il terzo attacco diurno, iniziato alle 12.45 da Maiorca, ebbe luogo una fortuita quanto tragica coincidenza.  Il comando repubblicano aveva ordinato ad un camion militare di andare a prelevare un carico di tritolo alla polveriera del Castello del Montjuich.  Stipato il camion con cassette di tritolo di 40 kg. l’una, il mezzo, con diversi soldati seduti sull’esplosivo, stava ritornando per la via più breve alla caserma di partenza ossia attraversando (in modo del tutto insolito ed irresponsabile, da corte marziale) il centro di Barcellona.  Si trovava sulla larga Avenida de las Cortes Catalanas.  Mancavano pochi minuti alle due e proprio in quel momento cominciarono ad arrivare le bombe degli aerei italiani sull’Avenida suddetta.  All’incrocio con Calle Balmes il camion fu colpito e saltò in aria con una tremenda esplosione che scosse l’intera città.  Si alzò un’enorme colonna di fumo dalla forma di fungo, alta circa 250 metri e larga 100.  I piloti italiani in volo di disimpegno pensarono che fosse esploso un deposito di munizioni.  L’esplosione aveva fatto crollare un certo numero di palazzi alti sei piani, sventrandone altri, uccidendo tutti i militari del camion (all’andata erano 23) e un numero presumibilmente alto di civili nelle abitazioni. I bombardamenti continuarono, sempre con pattuglie di pochi aerei, la notte dello stesso giorno e il giorno dopo, con l’ultimo di essi sulla stazione ferroviaria, alle 15.10.  La notte stessa del 18 furono sospesi d’ordine del Generale Franco, irritatissimo per tutta la vicenda. 
La colossale ed insolita quanto casuale esplosione di Calle Balmes aveva terrorizzato l’intera città, provocando un fuggi fuggi generale dalla città stessa.  La stampa internazionale si lanciò nelle speculazioni più azzardate. Questa volta, bisogna ammettere, non del tutto a torto, data l’eccezionalità dell’esplosione verificatasi e l’ignoranza della sua vera causa:  ora erano gli italiani che avevano “sperimentato” nuove e straordinarie bombe sulla popolazione civile indifesa.  Il governo catalano, tacendo per ovvie ragioni il fatto del camion di tritolo, lasciò accreditare la tesi dell’inesistente “superbomba”.  Nel suo articolo il signor Juliana accenna al camion ma senza dargli il dovuto rilievo.  Osserva Prediali:  “secondo informazioni ufficiali repubblicane, i tre giorni di bombardamento avevano causato 670 morti e 1.200 feriti, 48 edifici distrutti e 71 danneggiati.  In seguito il numero delle perdite umane fu aumentato per ragioni politiche [nel suo articolo Juliana parla di oltre 900 morti e 1.500 feriti][…]  Resta comunque il fatto – continua Prediali – che molti civili furono uccisi nel corso delle dodici azioni aeree fra il 16 ed il 18 marzo, tuttavia le vittime avrebbero potuto essere molte di più se tutte le bombe fossero state deliberatamente lanciate in pieno centro abitato secondo le istruzioni ricevute dal comando dell’Aviazione Baleari [in ottemperanza all’inconsulto ordine di Mussolini].  In realtà le squadriglie avevano mirato di preferenza alla zona portuale ed alla stazione ferroviaria, cosicché le distruzioni non uscivano di molto dalla abituale rosa di obiettivi strategici, più volte battuti in precedenza”[18].   Mettendo in rapporto il tonnellaggio di bombe scaricato in quei tre giorni (44 tonnellate in 41 ore), il numero relativamente basso delle case distrutte, nonostante l’esplosione fortuita del camion di tritolo, che  ha fatto sicuramente  aumentare di non poco il numero delle vittime, se ne dovrebbe concludere, direi, che l’applicazione  dell’infelice ordine di Mussolini da parte dei piloti italiani sia stata, nei limiti del possibile, piuttosto contenuta.    
“Sull’estrema correttezza degli aviatori italiani, di gran lunga più sensibili dei colleghi tedeschi della Legione Condor alle raccomandazioni di Franco [di risparmiare il più possibile le infrastrutture e i civili], esiste comunque una vasta letteratura.  Se si esclude il caso di Barcellona, dove l’aviazione di parte nazionale colpì duramente la città – peraltro zeppa di obiettivi militari (depositi di armi e munizioni, caserme, fabbriche di armamenti) criminalmente sparpagliati in pieno centro – può essere tranquillamente sottoscritto il giudizio dello studioso spagnolo Alcofar Nassaes: ‘ Gli aviatori italiani effettuarono i loro bombardamenti con moderazione, cercando di colpire unicamente obiettivi militari e tentando di danneggiare il meno  possibile le città e le popolazioni civili’”[19].
Gli strani ragionamenti del Signor Juliana, giornalista “catalanista”.  Alla fine del suo articolo, il Signor Juliana, così concludeva:  “Oggi [2013] ricorrono 75 anni da quell’evento.  La Repubblica italiana, nata dalla vittoria sul fascismo, non ha colpe per un attacco tanto crudele.  E Mussolini, il dittatore, è stato giustiziato.  E non si può dimenticare che nel 1946 il nuovo governo italiano, su proposta del leader comunista Palmiro Togliatti, varò un’amnistia generale.  Barcellona e le altre città catalane bombardate, però, aspettano ancora un gesto dall’Italia democratica”.   Prima stranezza:  il giornalista afferma che il dittatore è stato “giustiziato”.  Egli non sembrava ben informato dei fatti.  “Giustiziato” è chi viene condannato a morte in un regolare processo (da giudizi imparziali) e poi messo pubblicamente a morte in esecuzione della sentenza, emessa ed eseguita con tutti i crismi di legge.  Non vi fu alcun processo per Mussolini.  Egli fu ucciso di nascosto, in una stradetta di campagna, sembra con una raffica a bruciapelo, apparentemente da partigiani comunisti non si sa ancora se da soli o se accompagnati e da chi.  Fu uccisa anche la signora Petacci, che non c’entrava niente.  Si trattò di un’esecuzione di tipo criminale, come fanno i gangsters quando vogliono eliminare testimoni scomodi.  Chi è che aveva interesse a che non vi fosse una “Norimberga italiana” nei confronti del “Duce del fascismo”?  Seconda stranezza:  il riferimento all’amnistia Togliatti.  Il suo senso sembra esser il seguente:  ma come, l’Italia democratica ha amnistiato i fascisti e non è capace di fare “un gesto” verso la Catalogna “martire”? Ma concedere un’amnistia significa condonare pene e perdonare; chiedere scusa, invece, significa riconoscere delle colpe per esser perdonati.  L’accostamento sfugge, pertanto, ad ogni logica.  Inoltre, il sig. Juliana   sembrava ignorare che quella famosa amnistia, oltre a tirar fuori dalle carceri i fascisti condannati come criminali di guerra secondo la giustizia dei vincitori, impedì anche che vi finissero a decine i partigiani, soprattutto comunisti, denunciati dai parenti delle vittime delle loro efferatezze.  È vero che il pesante clima di allora rendeva molto difficile un esercizio imparziale della giustizia.  Tuttavia, sarebbe stato politicamente deleterio, per il PCI, se, grazie ai processi, si fosse mantenuto aperto il discorso sui gravi e numerosi fatti di sangue provocati dalla Resistenza.  I grandi massacri perpetrati dai partigiani, soprattutto da quelli comunisti, appena terminata la seconda guerra mondiale in Italia, dovevano esser rimossi dall’attualità e rinchiusi al più presto nella memoria collettiva.  La “lezione” da essi impartita era stata perfettamente recepita.  Bisognava quindi chiudere ogni indagine giudiziaria su di essi con un’amnistia generalizzata, le cui norme vennero in effetti sempre invocate nei tribunali per procedere ad assoluzioni o a condanne pro forma di partigiani accusati delle peggiori atrocità.   L’ultima stranezza dell’esimio giornalista era la seguente:  farci credere che la Catalogna tutta non dormisse la notte al pensiero di non aver avuto soddisfazione dagli italiani, che vivesse nell’attesa di “un gesto” di scuse che l’Italia democratica non aveva ancora avuto il coraggo di fare!  Via, non siamo così ingenui.  Le richieste del sig. Juliana grondavano retorica "catalanista".  Il “catalanismo”, abbiamo imparato, è l’ideologia indipendentista e secessionista catalana, sostenuta soprattutto dai partiti di sinistra ed estrema sinistra.  I “catalanisti” cercano evidentemente visibilità internazionale affidandosi ai riti e alla retorica del politicamente corretto più smaccato, con la complicità di giornali come il Corriere della Sera attuale, che di italiano non ha più nemmeno la lingua, imbastardita da una continua profluvie di termini tratti dall’inglese “digitale” e da anglicismi avventurosi (basti pensare che ancora vi si traduce a volte “conspiracy” con “cospirazione”, anche quando è termine giuridico di origine medievale  che va tradotto con “associazione a delinquere”).  
Una questione di civiltà, oltre che di sopravvivenza nazionale.   Inoltre, l’affermazione del Sig. Juliana, secondo la quale “la base di Maiorca, istituita nel 1936 dal leader fascista Arconovaldo Bonaccorsi, il “conde Rossi”, rappresentava l’ambizione di creare un impero mediterraneo”, è del tutto ridicola.  Il “conde Rossi” fu mandato da Mussolini con il maggiore Gallo, abile stratega, e pochi aerei a galvanizzare le demoralizzate forze nazionaliste locali. Sotto la sua energica e coraggiosa guida e grazie agli aerei italiani, esse riconquistarono tutte le Baleari in poco tempo, tranne Minorca (causa veto inglese).  Ebbe però il torto di non opporsi   alle  fucilazioni  nei confronti dei prigionieri repubblicani, effettuate per rappresaglia dai Nazionalisti vincitori.  O addirittura di approvarle, come sostengono gli antifascisti.  La storiografia più seria, ad esempio quella del prof. Coverdale, americano, ha comunque messo in rilievo da tempo, documenti alla mano, che Mussolini non ne voleva sapere, all’inizio, di impegnarsi seriamente in Ispagna.  Cominciò ad intervenire per gradi solo dopo che la Francia del Fronte Popolare aveva iniziato a mandare aerei e altri mezzi alla Repubblica spagnola e in seguito a numerose pressioni di vario tipo, soprattutto cattoliche. Poi dovette impegnarsi a fondo di fronte ai massicci aiuti forniti da Stalin, che avrebbero potuto far vincere la Repubblica.  Ed infine per riuscire a chiudere la sanguinosa guerra.  Non andò in Ispagna per costruirsi alcun “impero mediterraneo”.   Vi andò perché non poteva giustamente consentire la formazione di una Spagna “rossa” e antiitaliana che avrebbe fatto blocco con la Francia “rossa” e antiitaliana del Fronte Popolare.  Una Spagna comunista non piaceva nemmeno agli inglesi, tramite essa Stalin avrebbe potuto minacciare per interposta persona Gibilterra.  Nonostante il formale non-intervento e periodiche proteste per l’azione italiana, gli inglesi fecero robusti prestiti sottobanco a Franco e lasciarono sostanzialmente fare Mussolini, avendo del resto ottenuto le necessarie assicurazioni per le Baleari[20].   
Combattere per la Spagna cattolica era poi una questione di civiltà, per quanto giustamente odiosi potessero essere a Mussolini i latifondisti spagnoli (che gli toccava nei fatti difendere) e poco simpatico Franco, “l’astuto galiziano”, che voleva solo crediti, aerei e cannoni e, in quanto agli uomini, o nessuno o solo volontari sotto il suo comando, magari da usare come carne da cannone.  Non c’era scelta.  Bisognava battersi a fondo contro la Repubblica spagnola, dominata sin dall’inizio dalla follia sanguinaria ed antireligiosa di massoni ed anarchici, comunisti e socialisti, i quali si vantavano proprio dalle pagine de La Vanguardia di allora di aver distrutto la religione cattolica chiesa per chiesa, altare per altare, convento per convento (6832 furono alla fine i religiosi di ambo i sessi trucidati dai “Rossi”, spesso nel modo più barbaro).  Il famoso leader anarchico Andrés Nin, poi assassinato dai comunisti, proprio su La Vanguardia, il 2 agosto 1936 scriveva:  “La classe operaia ha risolto il problema della Chiesa semplicemente, non lasciandone in piedi neppure una”.  E in un comizio dell’8 agosto successivo ribadiva il concetto:  “Il problema  della Chiesa…noi lo abbiamo risolto completamente, andando alla radice; abbiamo soppresso i sacerdoti, le chiese e il culto”.   Il 20 luglio 1936, tre giorni dopo lo alzamiento dei generali nazionali, Radio Barcellona (la città era dominata dai “Rossi”) enunciava questo programma come soluzione finale della questione religiosa:  “È necessario distruggere la Chiesa e tutto ciò che ha un rapporto con essa.  Che importa che le chiese siano monumenti dell’arte?  Il buon miliziano non si fermerà di fronte ad esse”[21].     
Il “buon miliziano”, oltre che assassino, doveva essere, per i suoi capi, nemico dell’arte, della cultura, insomma della civiltà.  La “democrazia” della seconda Repubblica spagnola, usando come alibi le ingiustizie sociali da riformare, lavorava alacremente all’edificazione di una società materialista, senza Dio e senza famiglia, che esaltava l’uguaglianza dei sessi, il divorzio, il “libero amore” in ogni direzione, il libero aborto; ovvero quella Rivoluzione Sessuale che le forze anticristiane, in una singolare simbiosi di sfrenato edonismo capitalista e sinistrismo libertario e nichilista, stanno imponendo oggi alle nostre nazioni: ieri in Ispagna, oggi in Italia ed anzi in tutta Europa e nelle Americhe.   Mussolini garantì sempre lo statu quo delle nazioni mediterranee agli spagnoli prima e agli inglesi  poi (preoccupati per la presenza italiana a Maiorca, che durò solo finché durò la guerra) con il Gentlemen’s Agreement del 2.1.1937, tra l’altro richiamando in patria il Conde Rossi a conquista di Maiorca ultimata[22].  Non chiese mai contropartite territoriali a Franco, checché ne dicesse la stampa “democratica”, soprattutto francese.  Il Sig. Juliana ha voluto ricordare  il noto quanto infruttuoso intervento  di Mussolini (la lettera sopra citata) a favore degli ufficiali baschi presi prigionieri dagli italiani a Bilbao, affinché fossero trattati con moderazione dai tribunali del Caudillo, cercando tuttavia di svalutarlo affermando che il dittatore lo fece solo “per far cosa gradita alla Santa Sede”, a Pio XI (art. cit. del CdS).  Invece, come si è ricordato, interventi di quel tipo furono una costante da parte delle autorità fasciste italiane in Ispagna, militari e civili.  Il giornalista catalano, a questo punto, avrebbe anche potuto rammentare che Mussolini si era attivamente impegnato, unitamente alla S. Sede, nelle trattative segrete tra Franco e i Baschi per giungere ad una loro onorevole pace separata, gradita anche all’Inghilterra, che nei paesi baschi aveva enormi interessi. Trattative che fallirono anche per colpa dell’atteggiamento dilatorio dei Baschi.
L’intervento in Ispagna  ci costò notevoli sacrifici:  quasi 6000 caduti, 16.000 feriti e mutilati, grandi quantità di materiale militare in perfetto stato lasciate alla fine in dono agli spagnoli, una spesa di 12 e forse più miliardi di lire di allora (equivalenti in potere d’acquisto – credo – a non pochi miliardi di euro), miliardi per metà condonati da Mussolini agli spagnoli e per metà pagati da Franco dopo la II guerra mondiale, con moneta fortemente svalutata[23].  Ciò ebbe il sapore di una beffa ma è anche vero che l’Italia “democratica”e “antifascista” lanciava contro la Spagna franchista ogni sorta di contumelie e si batteva per il suo isolamento internazionale.  C’è poi da chiedersi se la Spagna immiserita di allora ce li avesse i soldi per pagare quel debito.  I nazisti si fecero pagare da Franco subito in materie prime preziosissime per la loro industria bellica; la Russia di Stalin si prese in pegno gran parte dell’oro della Banca di Spagna, e non mi sembra l’abbia mai restituito; i piloti stranieri “volontari” che combattevano per la Repubblica, si facevano pagare ricchi stipendi in dollari; l’Italia fascista nulla chiese e nulla prese.  Oggi, la sua partecipazione a quella guerra si suol casualmente ricordare, anche da parte nazionalista, principalmente per la “disfatta” di Guadalajara, lasciando nell’oblio le tante vittorie cui essa contribuì attivamente e a volte in modo determinante:  la presa di Màlaga, di Bilbao, di Santander, le avanzate travolgenti in Aragona, nel Levante, la conquista della Catalogna.  La verità è una sola:  piaccia o no,  l’Italia fascista ha dato un apporto fondamentale alla vittoria della Spagna cattolica nella sua durissima lotta per sopravvivere all’attacco terrificante dell’Avversario.  Questo suo merito storico nessun “politicamente corretto” può cancellarlo.

Paolo  Pasqualucci




[1] Corriere della Sera,  17 marzo 2013, p. 17.
[2] Stefano Mensurati, Il bombardamento di Guernica. La verità tra due leggende, Ideazione Editrice, Roma, 2004, p. 388.  Si tratta di un ottimo studio che, con documentazione inoppugnabile, smonta il mito della distruzione di Guernica pianificata ad arte dall’aviazione tedesca per sperimentare nuovi sistemi di bombardamento.
[3] Mensurati, op. cit., pp. 375-389.
[4] Mensurati, op. cit., cap. IV, Come nascono le favole, pp. 153-224.
[5] Le fotocopie degli ordini di volo si trovano nell’inserto fotografico presente nel libro di Mensurati.  Esso consta di XXII pagine: il documento tedesco è a p. II, quello italiano a p. IV.  A p. VI si ha la fotocopia del libretto di volo di un pilota italiano (l’allora tenente Paolo Moci) nel quale, tra altre azioni della giornata, si elenca: “bombaramento ponte ferroviario di Guernica”. 
[6] Per tutta questa ricostruzione:  Mensurati, op. cit., cap. III:  Il bombardamento, pp. 95-126.  A titolo di campione delle numerose ricostruzioni di fantasia sui fatti di Guernica, l’autore cita un articolo a tutta pagina apparso su L’Unità, allora notissimo e seguito quotidiano del Partito Comunista Italiano, in data 18 luglio 1956, a firma Riccardo Longone, nel quale si legge che i nazisti uccisero 4000 abitanti su 6000 approfittando del fatto che si stava celebrando una festa popolare (che invece non ebbe mai luogo).  In un articolo de L’Unità del 26 aprile 1987 si ribadiva che quel giorno “la gente si stava preparando alla festa serale intorno all’albero [di Guernica, luogo carismatico dei baschi]”, festa però mai esistita, ignota da quelle parti (Mensurati, op. cit., pp. 101-102, nota n. 4).
[7] Ferdinando Prediali, Guerra di Spagna e aviazione italiana, Società storica pinerolese, Pinerolo, 1989, p. 335 ss.  Il libro, opera fondamentale in materia, è stato ristampato dall’Areonautica Militare Italiana nel 1992.
[8] Dopo la presa di Bilbao, Mussolini scrisse una lettera a Franco, invitandolo alla moderazione.  A Bilbao, le truppe italiane avevano catturato diecimila soldati baschi e concesso a ufficiali ed esponenti politici di fuggire su navi inglesi presenti nella zona.  Il generale Bastico, comandante italiano, voleva evidentemente sottrarre costoro ai plotoni di esecuzione di Franco.  Il quale, però, andò su tutte le furie e pretese, nel rispetto degli accordi e reciproche competenze, la consegna di questi ufficiali e politici, cosa che Bastico dovette fare.  Vi fu in proposito  un violento alterco tra Franco e Bastico, che dovette poco dopo esser sostituito su richiesta spagnola (vedi:  Sandro Attanasio, Gli italiani e la guerra di Spagna, Mursia, Milanno, 1974, p. 244, p. 170).
[9] Mensurati, op. cit., pp. 74-82.
[10] Mensurati, op. cit., pp. 70-71. 
[11] Per tutti questi dati e valutazioni vedi:  Ferdinando Prediali, op. cit., p.  332 ss.  Sulla vecchia corazzata Jaime I furono portati e sottoposti a maltrattamenti per due giorni, nell’agosto del 1936, per indurli (invano) a bestemmiare, il vescovo di Guadix e quello di Almería  (mons. Manuel Medina Olmos e mons. Diego Ventaja Milán, proclamati beati nel 1993), prima di esser fucilati sulla terra ferma assieme ad altri quindici religiosi. Vedi:  Bruno Lima, La Crociata nazionale di liberazione spagnola (1936-1939), Due Emme, Cosenza, 1999, p.92, nel capitolo II, Martirologio, pp. 83-102.
[12] Stefano Mensurati, op. cit., p. 76; p. 320.
[13] Op. cit., pp. 396-400.
[14] Op. cit., p.  72.
[15] Op. cit., p. 58, nota n.  14.
[16] Su Durango, che comunque fu bombardata anche dalla Legione Condor, vedi: Stefano Mensurati, op. cit., pp. 58-72.
[17] Sandro Attanasio, op. cit., p. 139.  Quest’autore si basa ampiamente sulla storia ufficiale di quella guerra da parte spagnola, dell’autorevole M. Aznar, Historia Militar de la Guerra de España, in più volumi,  non privo di elogi alle truppe italiane. Circa  Guadalajara, quest’autore mette in rilievo alcuni difetti nell’ impostazione e nella conduzione della famosa battaglia:  un’offensiva montata troppo in fretta, in condizioni atmosferiche difficili, con eccessiva concentrazione di truppe in prima linea, artiglieria in posizione troppo avanzata, eccessiva fiducia nelle proprie forze [dopo il decisivo contributo alla presa di Màlaga], l’errore di non aver richiesto in prima linea anche l’apporto di truppe spagnole, più esperte del terreno. Contro le bugie della propaganda repubblicana, che, con il supporto dell’immancabile stampa anglosassone, si era inventata una rotta apocalittica degli italiani (7000 morti mentre il resto dei “fascisti” fuggiva gettando le armi), egli scrive:  “Le operazioni di ritirata furono portate a buon fine con buon ordine generale, sebbene le circostanze di tempo e di esperienza favorissero i contrattaccanti.  Il valore con il quale si batterono le forze legionarie di assalto [cioè gli italiani] corrisponde a quanto i comandanti avevano sperato da esse”.  Attanasio rileva, tuttavia, che, secondo gli italiani, la causa principale della sconfitta fu costituita dal fatto che i Nazionali, che avrebbero dovuto attaccare dal lato opposto, dal fronte dello Jarama, per chiudere in una morsa i Repubblicani, o comunque tenere inchiodate le loro riserve, restarono del tutto passivi, nonostante le ripetute assicurazioni di Franco dell’imminenza del loro attacco por la mañana, lasciando che gli italiani continuassero in un’offensiva che appariva ormai senza speranza di vittoria, contro forze diventate nettamente superiori grazie all’accorrere delle riserve, dalle quali dovettero subire poi la controffensiva che li ricacciò indietro. Senza l’autorizzazione di Franco, il C.T.V. (Corpo di Truppe Volontarie, come erano denominati gli italiani) non poteva ritirarsi.  E Franco la diede in ritardo.  Il fatto è che i Nazionali erano esausti e in difficoltà.  Perciò:  “Il C.T.V. a Guadalajra un risultato l’aveva ottenuto, e determinante ai fini della guerra:  impegnando e fiaccando le forze repubblicane [che subirono perdite considerevoli, ben superiori a quelle italiane] nel momento della grave crisi dell’esercito nazionalista sullo Jarama.  Per Franco ne era valsa la pena” (Ferdinando Prediali, op. cit., p. 211; p. 209).  Per Attanasio, vedi:  op. cit., pp. 139-142; p. 143. 
[18] Ferdinando Prediali, op. cit., pp. 334-339, con le fonti ivi citate, compreso il libro di un ex aviatore repubblicano, piuttosto critico nei confronti delle autorità militari catalane:  J.J. Malaquer Wahl, El enigma del camion de trilita, Barcelona, s.d.
[19] Stefano Mensurati, op. cit., p. 112.  L’opera dello studioso spagnolo è del 1972.
[20] Stefano Mensurati, op. cit., p. 362 ss.
[21] Per queste citazioni:  Vitaliano Mattioli, Massoneria e comunismo contro la Chiesa in Spagna (1931-1939), Effedieffe, Milano, 2000, pp. 116-117; 119-120.   Alcuni esempi della follia criminale anticattolica dei Repubblicani, che in genere lasciavano stare i Protestanti:  a Barbastro, il gitano Ceferino Giménez Malla,  fu arrestato perché difendeva un sacedote ingiustamente portato via dalle guardie.  Gli trovarono in tasca un Rosario e questo fu sufficiente per metterlo al muro. Il 2 agosto 1936 fu fucilato al cimitero, “mentre teneva stretta la corona del Rosario, simbolo della sua fede, e gridava: “Viva Cristo Re!”.  Il suo corpo venne gettato nella calce viva” (Bruno Lima, op. cit., p. 94).  Giovanni Paolo II l’ha beatificato.  Mons. Eustaquio Nieto Martin, di 80 anni, “fu dato in mano alle prostitute, le quali lo portarono nudo per le strade, sputandogli in viso, colpendolo per poi bruciarlo vivo” (op. cit., p. 92).  In un paese presso Ciudad Real, “gli anarchici legarono insieme 47 preti e suore, tutti nudi.  Dai paesi vicini capitarono tutti i mascalzoni, uomini e prostitute, i quali cavarono alle vittime gli occhi e tagliarono loro le orecchie, il naso, prima di ucciderli con i fucili da caccia.  La necrofilia unita al sacrilegio fu una consuetudine assai praticata da queste bande di assassini e così non si contano le profanazioni di tombe e le esposizioni di cadaveri, specialmente di religiosi, offerti al pubblico disprezzo con ogni sorta di oscenità improvvisate sulle salme” (ivi, p. 95).  Sono noti i “processi” e le “fucilazioni” dei “Rossi” alle statue della Madonna e di Nostro Signore.  Il calvario della Chiesa era cominciato anni prima della ribellione dei militari nazionalisti.  La difesa e la restaurazione del cattolicesimo fu una delle cause della loro rivolta.
[22] Renzo De Felice, Mussolini il Duce, Einaudi, Torino, 1981, II, p. 356; p. 362.
[23] La valutazione del costo della guerra è dello stesso Mussolini.  Il quale si rendeva conto (a prescindere da certi atteggiamenti poco simpatici di Franco) delle oggettive difficoltà nelle quali si trovava la Spagna, dopo quella devastante guerra.  Ad Hitler che, nell’incontro di Salisburgo dell’aprile del ’42, si lamentava con lui dell’atteggiamento sfuggente del Caudillo (che giustamente non voleva esser coinvolto nella guerra mondiale), Mussolini rispose:  “È bene che la Spagna abbia simpatia per l’Asse ma non si può chiederle quello che non può dare” (Stefano Mensurati, op. cit., p. 367, nota n. 65, con l’indicazione delle fonti).