giovedì 31 luglio 2014

Le banane di Tavecchio e le spine del moralismo

Se la parola discende dal concetto il linguaggio inelegante e/o goffo è il sicuro distintivo di una personalità refrattaria all'alto pensare.
 Tale certezza, tuttavia, non esclude l'esistenza di ingenti fortune, procurate dal pensare raso terra e dallo squallido dire.
 Imbonitori semianalfabeti, chiacchieroni inclini alle filippiche politicanti, teologi aperti in tutte le direzioni della vacuità/futilità, piazzisti di fumo accademico, comizianti striminziti, ignari dell'abbondanza di parole raccolte nel vocabolario italiano, hanno scalato e scalano i gradini alti della mondana gerarchia.
 Scrosciano gli immeritati applausi e molti si scandalizzano. Gli altri si rassegnano, considerando che il trionfo della mediocrità non è il male supremo.
 La tolleranza della mediocrità predicante non può spingersi tuttavia fino all'approvazione del diluvio di accuse infamanti lanciate all'indirizzo di Carlo Tavecchio, abile presidente dei pedatori dilettanti sceso fatalmente in guerra con l'eleganza del parlare italiano. 
 Il goffo discorso sulle banane, infatti, associa Tavecchio al vasto popolo dei parlatori ignari delle regole dell'eloquenza (un tempo) propriamente detta.
 In quel passato le persone incapaci di volare sulle ali dell'eloquio elegante/forbito trovavano rifugio nell'avarizia di parola e nella brevità tacitiana di discorso.
 La democrazia ha sciolto le corde di quell'antica verecondia e ha dato ali alle ruvide lingue. Di qui le banane uscite dall'incauta bocca di Tavecchio, banane a ben vedere strutturalmente democratiche, alle quali l'ipocrisia e l'invidia aggiungono la infame buccia del razzismo (presunto).
 Lo scandalo non è Tavecchio. Tavecchio appartiene alla impetuosa/incontenibile fiumana dei parlatori senza qualità e con pochi pensieri. Lo scandalo è il pettegolezzo elevato alla potenza di ideologia buonista. Lo scandalo è il moralismo dei cialtroni. Lo scandalo è la metamorfosi pettegola e bigotta dell'ideologia progressista.
 Pettegola significa mediocre, stupida e invidiosa. Pettegola è la indignazione generata dalla copula della vecchia maligna con il mediocre arrampicatore, quello che vorrebbe poggiare le democratiche natiche sulla poltrona destinata all'infelice ma competente Tavecchio.

 Chi è vittima dell'anacronistico fascino esercitato dalla bella lingua ha difficoltà nel rapporto con l'eloquio da bar dello sport, la "casa" mentale e sociale di Tavecchio, in ultima analisi. E tuttavia il disgusto procurato dalla limacciosa e detestabile onda dei pettegolezzi lo spinge irresistibilmente all'iscrizione all'ideale partito bananiero di Tavecchio.

Piero Vassallo

mercoledì 30 luglio 2014

Autoritratto gnostico di un postmoderno a destra

"Taccuino di Talamanca", contraddizioni di una destra adelphiana

Autoritratto gnostico di un postmoderno a destra

 Quale curioso esempio di destino disfattista, Giano Accame citava la vicenda di un romanzo borbonico, “L'alfiere”, scritto da Carlo Alianello per celebrare l'eroismo dei resistenti a Garibaldi ma pubblicato nel 1944 dai comunisti infeudati nella casa editrice Einaudi, al fine di potenziare nell'animo dei repubblichini la rassegnazione all'inevitabile sconfitta.
 Parallelo alla fortuna di Alianello fra i fascisti perdenti è lo sconsolato entusiasmo, suscitato nei notai della capitolazione a destra da Emil Cioran (Rasinai 1911 - Parigi 1995), filosofo ultra nazista approdato al nichilismo puro attraverso il corridoio dell'antifascismo di circostanza.
 Con un’abiura scherzosa e acrobatica (“La Guardia di ferro passava  per una sorta di rimedio a tutti i mali, compresa la noia e perfino lo scolo”) e con una disinvolta auto assoluzione (“A quei tempi ho provato di persona come si possa cedere a una infatuazione senza essere minimamente convinti”) Cioran si era scrollato di dosso la scomoda e pericolosa nomea del militante nell'estrema destra rumena.
 Cioran, quasi per ingraziarsi il potere culturale, sosteneva di aver aderito alla Guardia di ferro in odio a re Carol: “cominciai a interessarmi a quel gruppo, e poiché combatteva la persona che odiavo di più al mondo, cioè il re, lo presi in simpatia”.
 Lo sguardo umoristico sulla destra di Romania non impedì a Cioran di scrivere, nel 1937, un rovente saggio razzista, "Trasfigurazione della Romania".
 A scanso di indesiderati compromissioni con il passato e di attriti con il potere culturale vincente, Cioran dichiarò che, a suo giudizio, il filosofo del movimento di Codreanu, Marin Stefanescu, era mezzo pazzo: “Faceva dei discorsi così: «Nessun essere cosciente può essere comunista. Platone era cosciente, quindi non poteva essere comunista». Ragionamenti assurdi, di cui deridevo la follia”.
 Cioran nel dopoguerra non fu del tutto infedele alle malsane suggestioni emanate da quel fanatismo teutonico, che ultimamente agita la sinistra postmoderna e no global: l’ecologismo forsennato (“la cultura e la civiltà non sono necessarie … un animale può essere più profondo di un filosofo”), e il culto della barbarie, “la nostalgia della barbarie è l’ultima parola di ogni civiltà… la follia [nazista] per quanto grottesca abbia potuto essere, testimoniava in favore dei tedeschi. Non dimostrava forse che essi erano i soli in Occidente ad aver conservato ancora qualche traccia di freschezza e di barbarie?”.  

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 L’influsso di Cioran nella neodestra, iniziò nel 1969, allorché le edizioni del Borghese pubblicarono "Storia e utopia", crebbe nel 1972, anno in cui fu pubblicato nella prestigiosa “Nouvelle Revue Française”, un incantevole saggio “dove dichiaravo ex abrupto che la rivoluzione francese, la cosiddetta Grande Rivoluzione era assurda anzi era stata estremamente nociva. La stessa opinione per quanto riguarda la rivoluzione russa”, e diventò irresistibile negli anni Ottanta, quando la ubiquitaria Adelphi cominciò ad editarne l'opera omnia. 
 Il pensiero di Cioran fu accolto come avvertimento della necessità d'insinuare il pessimismo radicale tra le righe della cultura della destra nuova e aggiornata ossia di propiziare un deciso allontanamento dalla tradizione religiosa degli italiani, che uno sbrigativo e abbagliato giudizio dichiarava ormai prigioniera dell'ottimismo progressista.  
 Le coscienze turbate e impazienti, che, durante gli anni Settanta, frequentavano i circoli di una destra sconcertata e desolata dal progressismo postconciliare, infatti, furono elettrizzate e quasi fulminate dalla lettura di Cioran.
 Iniziò allora una fase di riflessioni febbrili e disordinate, intese a collocare l’anticomunismo in un  orizzonte illuminato dall’idea della storia come conseguenza di “una caduta irreparabile, di una perdita che niente può colmare”.
 In vertiginoso equilibrio tra erudizione e civetteria auto-denigratoria, Cioran intanto frequentava il salotto iniziatico, luogo venerato dal margine destro perché vi  si delibano le squisitezze guénoniane imbandite dall’editore Roberto Calasso, “un uomo eccezionale, il suo ultimo libro è di primissimo ordine, è un uomo acuto”.
 Nell'area destra nessuno si era accorto che, a cominciare dagli anni Trenta, un'agguerrita falange di pensatori in uscita dalla sinistra classica (Walter Benjamin, Simone Weil, Teodoro Adorno, Max Horkheimer, Georges Bataille, Jean Paul Sartre, Ernst Bloch, Herbert Marcuse, Max Brod,  Jacob Taubes, Maria Zambrano, Hans Jonas  ecc.) aveva usato il pensiero di Stirner, di Nietzsche e di Heidegger per affondare l’illuminismo nel gorgo dell’irrealismo gnostico.
 Nell'università di Bucarest Cioran, infatti, fu affascinato dal superomismo di Nietzsche e dal pastore del nulla heideggeriano. In Germania, dove si era recato quale titolare di una borsa di studio, respirò l'aria tossica del trionfalismo nazista. In privato condivideva il pessimismo/irrazionalismo degli amici Mircea Eliade ed Eugene Ionesco, esponenti della scolastica, che anticipava il catastrofismo ariano di Julius Evola, futuro domatore/attizzatore di tigri in corsa verso il niente finale.
 Sulla condivisione della passione di Eliade per la mistica ariana non è lecito dubitare, giacché Cioran rammentava che, per lui “l’unico momento giusto della storia è stato quello dell’India antica, quando si conduceva una vita contemplativa, quando ci si contentava di guardare le cose senza mai occuparsene”.
 L'irrazionalismo di Cioran, peraltro, si evince  esaminando il pittoresco fastello di autori eterogenei e incompatibili, ai quali il pensatore rumeno attribuiva influssi decisivi nella formazione babelica del suo pensiero: Meister Eckhart e Teresa d’Avila, Nietzsche e Edith Stein, Heidegger e Kierkegaard, Leopardi ed Ignazio da Lojola, ecc..     
 Alla fine Cioran ha trovato denti adatti alla masticazione dei suoi piatti. Marcello Veneziani, raffinato notaio del tramonto a destra, ha infatti riconosciuto che [nelle opere di Cioran] "vedi lo spettacolo dell'intelligenza in rotta col mondo e la vertiginosa ebbrezza del cupio dissolvi, vedi l'allegria del naufragio e perfino l'umorismo che si nutre di umor nero".
 Pubblicata nel 2011 per i tipi di Adelphi (casa editrice nata dalla costola nicciana della Einaudi) il "Taccuino di Salamanca" di Cioran, costituisce un’eccellente occasione per riflettere sulle cause dell'accasciamento confusionario, che trascinò la cultura della destra antimoderna al naufragio nella palude ultramoderna.
 Cioran infatti confessa la dipendenza del suo irrazionalismo dalla ruggente avversione degli eretici alla verità rivelata dal Verbo: "Credo insieme allo gnostico Basilide, che l'umanità debba rientrare nei suoi limiti naturali, facendo ritorno a un'ignoranza universale, autentico segno di redenzione".
  Un segnale forte dell'influsso esercitato dallo gnosticismo nel pensiero di Cioran si vede nella pagina del Taccuino, in cui è citata una leggenda catara, che narra un Cristo estraneo al Padre: "Lucifero era stato adottato da Dio: il suo orgoglio crebbe per questo a tal punto che finì ,per ribellarsi; secondo i Catari anche Gesù era stato adottato; questo nuovo Lucifero, incapace di cadere doveva, umiliandosi, abbassandosi alla condizione umana, correggere gli effetti sinistri della prima adozione".
 Il naufragio nelle acque torbide del catastrofismo gnostico di cui fu interprete Cioran ha reso incomprensibile e indistinguibile la cultura della destra facilitando il successo della chiacchiera politichese e la prevalenza del rumore comiziale, scenari adatti  alla comica finale recitata da Fini & Bocchino. 
 In ultima analisi la riflessione su Cioran insegna che, senza la decisione di innestare la retromarcia per recuperare l'identità perduta nella libreria del delirio, il qualunque tentativo di rifondazione a destra è destinato alla comica finale. Comica che è già in scena nei raduni sparuti e acrobatici nei quali si celebrano le nozze degli errori in agitazione nel pensiero bicamerale di Cioran: "le persone di destra mi fanno disgustare della destra, quelle di sinistra della sinistra. Di fatto con un uomo di destra sono di sinistra, con un uomo di sinistra, di destra".

 Piero Vassallo

lunedì 28 luglio 2014

I fondamenti della persona in San Tommaso D'Aquino

Ai fedeli, tormentati degli spinosi problemi posti dalla babilonia anti-umana, che è inscenata dall'ateismo post-moderno per seminare errori nella Chiesa cattolica, l'instancabile e sagace editore Marco Solfanelli propone un eccellente saggio di Giovanni Emidio Palaia, "I fondamenti della persona in San Tommaso d'Aquino".
L'importanza del saggio di Palaia emerge dalla definizione dell'opera di San Tommaso, che indirizza alla comprensione della necessità urgente di ristabilire il rapporto di ordinata continuità tra tra ragione e rivelazione cioè tra filosofia e teologia: "le parti della filosofia tomista sono state elaborate tanto più profondamente quanto più direttamente esse interessavano la teologia tomista. La teologia di San Tommaso è quella di un filosofo, ma la sua filosofia è quella di un santo".
L'opera di Palaia è apprezzata e consigliata da due eminenti e prestigiosi studiosi della Lateranense, il rettore mons. Enrico dal Covolo e l'illustre politologo prof. Giulio Alfano, in quanto finalizzata alla scrupolosa lettura delle fonti teologiche dalle quali discende, per faticose vie, il riconoscimento della dignità, che compete alla persona umana.
Al proposito Palaia rammenta che "l'antico popolo di Israele - da cui provenivano i primi credenti - ha dovuto accettare forti novità. Difatti con il cristianesimo l'esperienza religiosa viene trasportata su un piano nuovo sotto tutti gli aspetti".
Un primo, importante contributo al consolidamento della teologia nella nuova dimensione fu offerto dal precursore Tertulliano che usò la parola latina persona nella definizione trinitaria.
Sant'Agostino, a sua volta, trattò del Verbo che unisce l'una e l'altra natura nell'unità della persona: "Cristo è Dio ed è uomo non per confusione della natura ma per l'unità della persona". Tuttavia Agostino "non ha definito il concetto di persona e non si è preoccupato di definirlo".
Severino Boezio stabilì che il termine greco persona (prosopon) indica la maschera: "L'allusione all'origine teatrale del termine (scrive José Angel Lombo, opportunamente citato da Palaia) rivela già implicitamente la dignità del soggetto di cui si predica, perché soltanto all'essere razionale diamo il nome di persona, in quanto di lui si possono narrare fatti rilevanti".
Di qui la definizione di Boezio: Persona est rationalis naturae individua substantia. Palaia condivide l'opinione di Lombo e dell'autorevole mons. Gianfranco Basti, secondo cui Boezio, correggendo la dottrina di Porfirio, ha definito la persona "una sostanza capace di pensiero, libertà, consapevolezza, autocoscienza, dialogicità".

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Prima di esaminare la novità introdotta dall'Angelico nella dottrina intorno alla persona, Palaia rammenta che "l'originalità della metafisica di San Tommaso è da individuare - secondo Cornelio Fabro - nel passaggio al limite dell'essere funzionale aristotelico all'esse subsistens supremo ovvero nella promozione metafisica dell'esse formale aristotelico, che non è ancora, all'esse reale subsistens (Dio) che sempre e anzitutto è e dà agli altri esseri tutti di essere e di esistere".
Di conseguenza "il diritto all'esistenza spetta soltanto a Dio, solo in Lui essenza ed esistenza coincidono. Nel De Anima Tommaso sottolinea come l'esse ipsum è l'atto ultimo, che non partecipa ad alcunché, mentre è partecipato da ogni cosa".
Ora nella Somma Teologica, l'Aquinate commenta la definizione di Boezio e formula la più classica definizione di persona: "L'individuo particolare si trova in modo perfetto nelle sostanze ragionevoli che hanno il dominio dei propri atti, che si muovono da se stesse e non già spinte dall'esterno come gli altri esseri, e le azioni si verificano proprio nella realtà particolare. Perciò tra tutte le altre sostanze gli individui di natura ragionevole hanno un nome speciale. E questo nome è persona. Nella suddetta definizione dunque ci si mette sostanza individua, per significare il singolare nel genere di sostanza e vi si aggiunge di natura razionale per indicare il singolare di sostanza ragionevole".
Di seguito l'Aquinate precisa che "l'anima in quanto forma del corpo non ha un essere separato da quello del corpo, ma con il suo essere è ad esso immediatamente unita".
Al proposito Palaia cita un puntuale commento di Giulio Alfano: "La perfezione specifica dell'uomo si realizza con essenziali note: l'animalità e la razionalità, che sono in rapporto metafisico tale che l'animalità viene intrinsecamente elevata dalla razionalità e questa limitata dall'animalità".
Infine l'autore indica una via d'uscita dalle suggestioni totalitarie propalate dall'idealismo intorno alla persona collettiva, e al proposito cita un testo di Basti: "l'essere ultimo della persona umana, il fondamento della sua dignità non è da ricercarsi nella dialogicità delle relazioni. Anzi, per salvare tutto il dinamismo psicologico della dialogicità, della intersoggettività, se si vuole che tutta l'esistenza della singola persona umana abbia sempre qualcosa di se stesso da comunicare, da porre in dialogo, da condividere, occorre che il fondo dell'essere della propria soggettività, l'io di quella persona da cui essa attinge per comunicarsi agli altri, sia senza fondo, inesauribile ed in questo senso della sua inesauribilità esso sia ultimamente incomunicabile, irriducibile".
La corretta interpretazione dei testi dell'Angelico svela il vero significato dell'umanesimo, dottrina ispirata dall'incontro della teologia cattolica con la innovativa interpretazione dell'aristotelismo, una conquista del pensiero cristiano purtroppo dissipata e invertita da Gemisto Pletone e da Marsilio Ficino, pensatori retrivi, in rovinosa discesa verso le aporie, che impedirono l'accesso dei filosofi greci alle più alte verità di ragione.
Giovanni Emidio Palaia, sapiente e scrupoloso ricercatore in Filosofia Politica lavora nel solco sapientemente tracciato da Fabro e perciò interpreta l'antropologia di San Tommaso quale fonte dell'umanesimo autentico, una dottrina incompatibile con le ideologie discendenti in vario modo dalla sincope fiorentina della filosofia cristiana
Nell'introduzione, l'autore rammenta le ragioni del titolo - Doctor Humanitatis - attribuito all'Aquinate da Giovanni Paolo II: "esse sono particolarmente l'affermazione della dignità della natura umana, così netta nel Dottore Angelico, la sua concezione dell'avvenuto risanamento ed elevazione dell'uomo a un superiore livello di grandezza in forza dell'Incarnazione del Verbo, l'esatta formulazione del carattere perfettivo della grazia, come principio-chiave nella visione del mondo e dell'etica dei valori umani così sviluppata nella Summa, l'importanza attribuita dall'Angelico alla ragione umana nella conoscenza della verità e nella trattazione delle questioni etico-sociali".
Allo studioso che conosce l'autentico significato dell'umanesimo appare dunque evidente che l'Aquinate ne fu il vero fondatore e l'interprete insuperato e che tutti gli altri umanesimi, fiorentini, ginevrini, prussiani o francofortesi, non son altro che smorte e ingannevoli parodie.
Puntualmente Palaia rammenta che "il dogma ha prodotto il concetto di persona, questo s'intende quando si evidenzia che tale nozione di persona è di provenienza cristiana".
A conferma di detta affermazione, Palaia cita una puntuale definizione di Fabro: dalla Rivelazione "l'uomo ottiene un nuovo rapporto con Dio, anzitutto con la Fede che gli offre la conoscenza della salvezza e dei mezzi per raggiungerla, e poi specialmente con la Grazia che gli procura l'inabitazione delle divine Persone, le cui arcane operazioni nell'anima rischierebbero di riuscire completamente infruttuose se non affiorassero mai alla coscienza".

Piero Vassallo
  

domenica 27 luglio 2014

Rivelazione e storia, il pensiero cattolico dopo lo storicismo

Nei giorni 7 e 8 del marzo 2014, per iniziativa di mons. Ennio Innocenti, autorevole teologo romano e instancabile organizzatore di manifestazioni anticonformistiche, si è svolto in Roma un convegno di studi su Rivelazione e Storia. Le coraggiose iniziative di Innocenti  hanno per finalità dimostrare che il pensiero cattolico sopravvive alla congiura del silenzio, all'autolesionismo del clero modernizzante, e alle esternazioni aeronautiche e telefoniche dell'alta gerarchia vaticana.
 Innocenti osa addirittura attaccare il card. Kasper, "cosiddetto teologo che è andato a scuola dal teorico del cristiano anonimo [Karl Rahner] e ora si mette a fare il teorico del cristiano medio, è in ginocchio, sì, ma davanti all'idolo. Ignora che il dovere di amare Dio totalitariamente è un dovere per tutti. E' stato preferito accucciarlo con l'incenso? Così sia".
 Al convegno hanno partecipato numerosi studiosi fra i più qualificati protagonisti della resistenza cattolica al nichilismo post-moderno, Antonio Livi, Christian Ferraro, Michele Malatesta, Pier Paolo Ottonello, Arturo A. Ruiz Freites, Paolo De Lucia, Ilaria Ramelli, Rafael Breide Obeid ecc.  
 Nella introduzione al volume Innocenti ricorre alla filosofia rosminiana (meditata in conformità con l'insegnamento di Pier Paolo Ottonello) per rispondere alla domanda sulla possibilità di pensare una rivelazione diretta e personale di Dio. 
 Sostiene Innocenti: "Dio lo posso pensare soltanto a partire da una sua qualche somiglianza con me. Comincio a pensare di Lui infinito per l'esigenza di fondare il mio essere finito. Nell'idea del mio essere colgo la concretezza del mio essere, la sua sussistenza e - insieme - la sua finitezza e la sua apertura all'infinito: è l'inizio ideale d'un viaggio all'infinito, ma subito penso al fondamento di questo inizio, all'essere assoluto. C'è evidentemente un'intesa tra la mia mente e il mio essere: l'essere pervade la mente e si svela alla mente come essere, è il suo oggetto mentale che si proietta su tutte le varie forme dell'essere".
 Il prof. Christian Ferraro definisce le fonti del suo avvincente intervento, "Rivelazione e Storia: note sulla possibilità di un incontro", dichiarando che la sua riflessione s'ispira a due scritti di Cornelio Fabro, "Sui presupposti del problema della storia" (datato 1952) e "Essere e storicità" (datato 1959).
 Ferraro esordisce rammentando che "la metafisica ha un punto di arrivo: l'esistenza di un ente che è l'ente per essentiam, vale a dire un ente che non è propriamente un ente ma l'essere stesso sussistente (ipsum esser subsistens) . Siccome però il nostro intelletto ha come oggetto l'ente, esso non sarà in grado di considerare questa nuova realtà emersa se non come causa e principio estrinseco dell'ente".
 Ora l'uomo non è in grado di conoscere che cosa sia in se stesso il principio estrinseco dell'ente: "non ha modo di saperlo a meno che questo stesso principio primissimo, che giustamente chiamiamo Dio, assuma l'iniziativa di darsi a conoscere così come Egli è. Quando questa decisione si attua ha luogo ciò che si chiama Rivelazione. ... La Rivelazione è tutta in funzione di una donazione di Sé stesso e di una comunione con Lui, che Dio stesso vuole instaurare ... Anche se la Rivelazione ha come protagonista sia nel contenuto sia nel suo attuarsi lo stesso Dio che si dà a conoscere, essa ha come destinatario l'uomo. Il destinatario però riceve questa Rivelazione nella Storia".
 La storia non è il semplice scorrere del tempo ma è propriamente  il divenire nel tempo della libertà umana.
 A ragion veduta Ferraro rammenta che nel pensiero greco "la Storia come tale non emerge come problema". E' nella, luce di Cristo, che annuncia il suo ritorno alla fine dei tempi,  che sorge il problema della Storia "in stretto collegamento con quello della libertà e della provvidenza. Qui abbiamo a che fare però con un elemento che è già teologico e soprannaturale".
 Di seguito Ferraro dimostra che il razionalismo cartesiano e quello spinoziano costituiscono un deciso regresso speculativo. La filosofia cartesiana, ad esempio,  riduce il mondo umano all'anima "e un'anima che risulta completamente estranea alle vicende del mondo esterno, tutto regolato secondo le più radicali leggi meccanicistiche. Il rapporto allora fra Dio e l'uomo accade soltanto a livello dell'anima, che è una realtà scarnata. E' chiaro che da questa prospettiva difficilmente possa emergere e farsi sentire il problema della Storia".  
 Hegel, dal suo canto, riconosce che l'idea di libertà è venuta nel mondo mediante il Cristianesimo e perciò tenta di restituire alla Storia la dignità che compete a un problema squisitamente filosofico. Se non che  la filosofia hegeliana, al seguito del pregiudizio immanentista, abbassa la libertà nella scena dell'assoluto immanente, ossia concepisce l'inabitazione di Dio nella ragione umana, "la Storia è allora concepita come il dinamismo stesso della Ragione che ritorna sempre su se stessa. ... Qui non c'è posto alcuno per un intervento di un presunto Dio che non sia la sostanza stessa vivente di questo nostro mondo, il mondo della Ragione".
 La libertà della filosofia hegeliana - intesa quale vertice speculativo della modernità - si è ultimamente rovesciata in quel nichilismo di matrice gnostica, da Hegel apprezzato e lodato nelle lettere a Schelling.
 Di qui il problema di scoprire la via d'uscita da una pensiero disperato, il cui orizzonte è l'assurdo cioè la negazione della bontà del Creatore e l'avversione al creato.
 Ferraro indica la via d'uscita dal vicolo cieco del pensiero moderno nella filosofia di San Tommaso, "che ha portato a fondo l'esigenza del primato dell'atto sul contenuto in un superamento radicale delle prospettive sia aristoteliche sia platoniche, sia dei predecessori che dei pensatori posteriori. ... Per San Tommaso l'esse è l'atto di tutti gli atti e perfino di tutte le forme: ipsum esse est actualitas omnium actuum etiam ipsarum formarum. La forza di questa sentenza è estrema perché qui l'Angelico fa un'affermazione che tradisce i principii più elementari dell'aristotelismo storico".
 Si comprende la straordinaria novità del tomismo quando si rammenta che il pensiero greco ignorava la creazione propriamente detta: nel mondo la filosofia greca contemplava l'opera di un demiurgo, che imprimeva sulla materia increata le idee abitanti in un aldilà superiore.
 San Tommaso, invece, stabilisce che "il genoma dell'ente fa capo all'esse che risulta allora l'unica forma di attualità di tutto l'ente, inclusa la forma".
 San Tommaso, inoltre, pone un limite alla contingenza della creature e afferma che le sostanze spirituali non hanno in sé stesse i princìpi della propria corruzione: "Dio è l'unico essere necessario a sé, perché è l'ens per essentiam, le creature spirituali, inclusa l'anima umana, sono esseri necessari ab alio, perché partecipano all'esse senza avere in se stesse principio interno alcuno di corruzione".
 La conclusione, tratta dal Prologo della Seconda Parte della Summa, è la seguente: "come Dio è principio delle sue azioni così anche lo spirito finito è scaturigine di quelle proprie".  
 Pertanto quando Dio crea uno spirito finito pone una libertà fondata sull'esse quindi totalmente dipendente ma nel contempo realmente libera: "nella partecipazione dell'uomo all'esse c'è una vera dipendenza dell'indipendenza ovvero indipendenza della dipendenza".
 Ferraro sostiene che tale è la costituzione primigenia della libertà: "Proprio perché sgorgante dall'umana libertà la storia conserva radicalmente la possibilità della novità e pertanto l'apertura a qualcosa di nuovo come strutturalmente sarebbe, infatti, una divina rivelazione. La storia poi, nella sua marcia non si fa avanti nella maniera completamente anarchica, ma neanche in nella forma della razionalità hegeliana e comunque si trova completamente sotto il dominio dell'Ipsum esse subsistens, che la governa con la sua Provvidenza rispettando e fondando l'umana libertà. ... Proprio perché Dio crea per manifestare e comunicare la sua bontà l'apertura originaria ad una Rivelazione costituisce la più profonda identità della Storia, che allora, alla luce della fede, si trasforma nel luogo specificamente umano per la conquista dell'eterna beatitudine".

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 Formulata con magistrale chiarezza e sostenuta da una straordinaria sapienza teologica e filosofica, la relazione di monsignor Antonio Livi, è concepita quale confutazione delle avventurose tesi proposte da teologi, che "conservano il lessico tradizionale mentre eliminano materialmente e formalmente i princìpi primi dai quali discende la specifica maniera di argomentare della teologia".
 Al proposito dei teologi modernizzanti, Livi sostiene che "abbandonando il metodo specifico della vera teologia, la falsa teologia perde di vista il rapporto intrinseco e pertanto necessario che esiste tra il dato rivelato - identificato formalmente nelle definizioni dogmatiche - i praeambula fidei, ossia quelle verità naturali, sia metafisiche che morali, che Tommaso d'Aquino aveva individuato come premesse razionali dell'atto di fede nella nella rivelazione (fides qua creditur) e condizione logica per comprendere l'annuncio dei misteri soprannaturali". 
 Il criterio, che abbaglia i teologi modernizzanti è un'opinione del monaco tedesco Elmar Salmann, "un luogo comune relativistico per il quale il cristianesimo ha bisogno di diversi approcci apparentemente antagonistici".
 In realtà, obietta Livi, "sono compatibili con la verità della Rivelazione solo quegli schemi concettuali che rispettano di fatto la razionalità del messaggio rivelato e il suo rapporto intrinseco con le verità naturali accessibili a ogni destinatario della Rivelazione stessa, ossia con ciò che la filosofia moderna denomina il senso comune".
 "In un contesto ecclesiale di perdita dei criteri fondamentali della recta ratio e di ingiustificata avversione alla razionalità metafisica" è inevitabile l'avvio di un una precipitosa gara alla conquista del primato nel settore del bicameralismo mentale. 
 Risultato della diserzione dal senso comune è "lo sviluppo di una teologia con le medesime modalità concettuali e a volte con i medesimi procedimenti dialettici con i quali Hegel e Schelling avevano praticato la loro filosofia religiosa  ... che pretende di trasformare la Rivelazione in un teorema razionalistico".
 Livi avvia un serrato confronto tra l'unica vera teologia e la filosofia pseudo-cristiana dell'idealismo, fonte delle bizzarre/sontuose opinioni diluvianti nei testi diffusi dall'editoria d'indirizzo neomodernista e accolti festosamente da una sbigottita e desistente gerarchia.
 Infatti i nuovi teologi, ispirati dal sofisma di Salmann, "dialogano disinvoltamente con tutti i pensatori atei del loro tempo e si vantano di trovare sempre maggiori spazi di condivisione con essi, riconoscendo anche di avere, al pari di essi, una diretta dipendenza dai capiscuola della filosofia religiosa di stampo idealistico".
 Conseguenza della contaminazione idealistica e l'affondamento della teologia sedicente ecumenica nelle sabbie mobili del relativismo: "l'impiego delle categorie dialettiche dello storicismo hegeliano rendono impossibile la pretesa cristiana di una dottrina religiosa definita una volta per sempre (semel pro semper) e annullano la premessa metafisica della trascendenza assoluta di Dio come creatore del cielo e della terra, la cui Parola è allo stesso tempo verità assoluta e mistero insondabile".
  Nel dialogo con gli aggiornati interpreti dello hegelismo i teologi modernizzanti sono costretti ad abbassare le difese immunitarie e a sottovalutare l'indirizzo nichilistico dei più rigorosi continuatori dell'idealismo. In Massimo Cacciari, in Andrea Emo e in Eugenio Scalfari la dialettica hegeliana si rovescia nell'affermazione del "primato del nulla, da quale l'essere proviene e al quale necessariamente fa ritorno, il che comporta l'identificazione del progresso con la nientificazione".
 Il disarmo della teologia, la confessata capitolazione al cospetto della nuova frontiera dell'ateismo, è ben visibile nei testi di Hans Kung e Klaus Hemmerle, gli ispiratori delle acrobazie vernali travestite da teologia, che sono applaudite e incensate dal giornalismo progressista e tollerata e talora perfino incoraggiate da vescovi paradossalmente consacrati al non vedere e al non sorvegliare. 
 Nell'inflessibile mirino di Livi, sono gli escandescenti catto-hegeliani-severiniani, Giuseppe Barzaghi, Aniceto Molinaro, Piero Coda e Vito Mancuso. 
 Di Barzaghi, esegeta di Emanuele Severino, un alluvionale paroliere, che Fabro definì traduttore del linguaggio filosofico in "abracadabra", Livi cita una inquietante/surreale affermazione della possibilità di parlare di Dio dal punto di vista di Dio: "posto che la filosofia è l'esercizio prospettico che mira a un punto di fuga ... e che anche Dio cade in questa fuga di sguardo la filosofia è costretta a un capovolgimento: perché il punto di fuga è lo sguardo di Dio nel quale ci accorgiamo di essere guardati e in cui guardiamo il nostro essere visti". 
 Livi, a proposito di Coda osserva: "il teologo ignora di proposito ogni differenza epistemologica tra filosofia e teologia e poi anche le differenze dottrinali tra cattolicesimo ortodossia e protestantesimo; inoltre pur non potendone fornire alcuna giustificazione scientifica ... azzarda giudizi storiografici del tutto inaccettabili: come quando racconta di un filone speculativo che unirebbe Meister Eckhart a Hegel, quando si sa che senza Spinoza e senza Kant non si comprenderebbe la genesi dell'idealismo tedesco".
 Di Mancuso, un autore che nel 1997 aveva pubblicato una lucida critica del monismo hegeliano, Livi scrive: "Di fronte al mistero del male, il teologo che all'inizio cercava ostinatamente uno spazio concettuale che valga a riportare in un quadro logico di necessità gli eventi della storia, alla fine non trova di meglio che rinunciare ad ogni razionalità; il mistero della storia diventa così l'assurdo e dall'assurdo del dato rivelato si passa a definire come assurdità, come aporia e come contraddizione tutta la realtà naturale, ragione per cui la metafisica e la logica vanno eliminate dalla teologia".
 Il magistrale intervento di Livi svela l'indirizzo catastrofico del cattolicesimo modernizzante, una scelta avviata dall'evoluzionismo cosmico di Pierre Theilhard de Chardin, "che è quanto di più lontano dalla vera filosofia", e indirizzata al compromesso con il delirio postmoderno, "basti pensare che, da un principio scientificamente errato come quello che Mancuso enuncia affermando che, nel caso di una vita colpita da una grave malattia o da senilità acuta, l'anima razionale-spirituale non c'è più, deriva la legittimazione dell'eutanasia".
 Nel suo puntuale intervento Pier Paolo Ottonello, profondo investigatore della crisi della filosofia contemporanea e geniale inventore di fulminanti neologismi, ci ricorda che "senza la Trascendenza non ha senso né la persona né il cosmo tutto, così senza la rivelazione la storia perde ogni senso sostanziale, smarrendo la sua intrinseca finalità di progresso ... Le risse scientistiche predominanti nella contemporaneità si riducono ben presto a infimi cascami dell'autentico progresso: a passi di più o meno ampia gittata, sotto il captante alibi delle razionalizzazioni, corrono verso la pancaotizzazione". 
 La vastità del prolasso mentale/morale in atto nella frazione moderata del movimento pro-vita, coraggiosamente analizzato e denunciato da Roberto Dal Bosco ed Elisabetta Frezza, si comprende osservando la parabola discendente della teologia in libera circolazione nelle università cattoliche.

Piero Vassallo                                                                  
 


[L'invio del volume degli atti, edito in questi giorni può essere richiesto a fraternitasaurigarum@gmail.com - tel. 065755119]

mercoledì 23 luglio 2014

Maria Guarini, la continuità della tradizione cattolica

 Insidiosa e mutilante novità, surrettiziamente introdotta nella cultura cattolica dallo spirito del Concilio, l'oblio del pensiero di San Tommaso d'Aquino attiva un sentimentalismo, che trasforma i fedeli in frequentatori di cerimonie socializzanti, e i preti in  delicati conversatori, cuochi sociali e fervidi perdonisti.
 L'oblio del tomismo indebolisce anche le difese immunitarie degli studiosi cattolici e li rende incapaci di comprendere e  fronteggiare l'insidia costituita dal rovesciamento del pensiero moderno nelle antiche suggestioni dello gnosticismo.
 In ambiente cattolico, peraltro, circola indisturbata e talora approvata da esponenti del clero, la gioconda convinzione che il Concilio abbia elevato l'amore puro e spensante al di sopra dei princìpi conosciuti dalla ragione e definiti dai dogmi.
 Inutilmente Romano Amerio ha confutato l'illusoria opinione: "No, non c'è l'amore, perché sopra l'amore c'è un pensiero che afferma Sopra tutto c'è l'amore e che esclude con la sua affermazione che sopra tutto ci sia un sentimento impensato".
 Il primato del pensiero sul sentimento, lo sostiene anche un discepolo di Amerio, Enrico Maria Radaelli, è stabilito dal magistero affinché "il moto più santo e deiforme, l'amore, non si muti in mera materialità incosciente: se non è pensato neanche l'amore può esistere".
 Nella Chiesa cattolica, società che ha radice e fondamento nella rivelazione del Logos increato, rammentare l'ovvia tesi sul primato del pensiero, sarebbe superfluo e quasi imbarazzante, se non fosse continua la gridata esternazione di teorie sentimentali da parte di fedeli e sacerdoti emozionati e confusi, ultimamente inclini a festeggiare l'avvenuto transito della carità verso la tolleranza o addirittura la gaudiosa condivisione dell'errore.
 La sagace scrittrice Maria Guarini al proposito afferma: "Il problema è che il cristianesimo ha abbandonato la philosophia perennis anche per un'inedita via: quella dei movimenti. E si è persa la consapevolezza che, in mancanza di un serio impianto teoretico-dottrinale si cade in un sentimentalismo e devozionismo che non portano da nessuna parte perché mettono in secondo piano sia la ragione, massificata da slogan e atteggiamenti e comportamenti indotti, che la volontà, scaduta in volontarismo sostenuto da metodi accattivanti e coinvolgenti l'emozione". 
 Alterata dal movimentismo, l'amicizia cattolica si rovescia nella smanceria e nel suono sgradevole delle chitarre ecclesiali, che accompagnano insulse rime. Di qui la caduta delle difese immunitarie dall'antropocentrismo, che, infatti, diluvia dai pulpiti della teologia modernizzante ed erompe nelle liturgie canterine, messe in scena per procurare deliziose vertigini agli ecumenisti senza rete.
 Per contrastare la diffusione della teologia debole e della sciatta  liturgia, Maria Guarini ha pubblicato, nella collana delle Diffusioni Editoriali Umbilicus Italiae, "La Chiesa e la sua continuità Ermeneutica e istanza dopo il Vaticano II", un volume che raccoglie suoi scritti insieme con puntuali interventi di autorevoli pensatori quali Brunero Gherardini, Antonio Livi, Francesco Colafemmina, Enrico Maria Radaelli, Gianni Battistini e Curzio Nitoglia. 
 I testi scritti o proposti da Guarini costituiscono un puntuale commento alle parole dettate dalla caritatevole intransigenza al cardinale Giacomo Biffi: "La prima misericordia di cui abbiamo bisogno è la luce impietosa della verità".
 Il sequestro della verità negli ambulacri del buonismo vieta purtroppo di cogliere il profondo significato dell'ermeneutica della continuità predicata da Benedetto XVI.
 Causa dell'incomprensione diffusa è l'oblio o il rifiuto del principio secondo cui "non è il dogma che muta o si evolve, ma la capacità della Chiesa e in essa del singolo credente di approfondirlo, estrarne come lo Scriba del Regno le inesauribili ricchezza: nova et vetera".
 Ora è un fatto incontestabile il baluginio, cenni fra le righe, nei documenti redatti dai padri del Vaticano II, di pensieri aperti a una teologia inquinata dallo hegelismo.
 Il ricorso all'espressione cenni fra le righe poiché, è suggerito dalle indicazioni di Romano Amerio e di Antonio Livi, autori la presenza dei quali, dimostra che il tentativo degli eversori teologici, grazie a Dio, non è riuscito.
 Non si può negare tuttavia che la presenza in alcuni testi conciliari di formule imprecise o confuse genera legittime perplessità e giustifica richieste di autorevoli chiarimenti sulle definizioni oscillanti.
 Valga ad esempio Gaudiun et spes 24. Il testo latino afferma che l'uomo "in terris sola creatura est quam Deus propter seipsam voluerit". Se non che la traduzione ufficiale recita:  "l'uomo è stato voluto da Dio per Se stesso".
 In quale fra le due contrarie definizioni deve credere il fedele? Chi è nell'errore, l'estensore del testo antropocentrico scritto in latino o il traduttore teocentrico? In quale corno del dilemma risiede la rivendicata infallibilità del Concilio Vaticano II?
 Chiedere il chiarimento, pertanto, non è un atto irriguardoso, tantomeno un attentato all'autorità  che incoraggia e benedice l'escursione di Scalfari nei pii anfratti del relativismo.
 Si chiede il chiarimento perché si desidera la chiusura della parentesi confusa aperta dalla nuova teologia, quella che Pio XII ha severamente condannato nell'Enciclica Humani generis e che Paolo VI ha definito "fumo di satana".
 Solamente una rumorosa fazione di novatori irriducibili nega l'urgenza del chiarimento. L'irritata e superciliosa reazione dei teologi progressisti alle osservazioni critiche dei difensori della tradizione, e severamente contrastata da Antonio Livi, che scrive: "Si potrebbe osservare sconsolatamente che la critica da sinistra, ossia da parte dei progressisti, è recepita come lecita e sempre utile al progresso della comunione ecclesiale, mentre la critica da destra, ossia da parte dei conservatori è recepita come illecita e sempre dannosa per l'unità della Chiesa". 

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 Nessuno ha mai pensato seriamente di denunciare l'esistenza di eresie nei testi del Vaticano II. Da parte dei tradizionisti (opportunamente Maria Guarini propone l'uso di questo termine, che esclude la discendenza da un termine abusato e inquinato - dai seguaci di De Maistre - quale tradizionalismo) è avanzata la legittima proposta di chiarimento sui testi nei quali è evidente una certa ambiguità o anfibologia, derivata dall'influsso dei teologi neo modernisti, costituiti in fazione rumorosa nei corridoi del Concilio Vaticano II e intesi a sovvertire la tradizione.
 Antonio Livi scrive: "La posizione di Amerio non è un rifiuto degli insegnamenti del Concilio, anzi corrisponde sostanzialmente a quello che Benedetto XVI avrebbe poi denominato ermeneutica della continuità; infatti la denuncia del presunto tentativo di rottura e di discontinuità che sembra risultare dalla lettura di alcuni testi del Vaticano II va unito alla certezza che tale tentativo è di per sé irrealizzabile e che quindi il sensus fidei della comunità cristiana può sempre interpretare le novità dottrinali alla luce di ciò che è sempre stata, nella sua essenza, la fede della Chiesa".
 Nella dichiarazione di monsignor Livi è impossibile cogliere l'intenzione di giustificare la rivolta all'autorità del Concilio, specialmente quando si considerano le ammissioni di un onesto progressista quale è padre Giovanni Cavalcoli o. p. sugli errori riscontrati nelle istruzioni pastorali contenute nei documenti del Vaticano II.
 Per ristabilire la pace intorno alle verità cattolica, sarà quindi necessario (giusta l'osservazione formulata da Roberto De Mattei in una nota pubblicata nel sito Corrispondenza Romana) intraprendere un difficile e spinoso cammino indirizzato a stabilire quali sono i testi dogmatici del Vaticano II (e se esistono, dal momento che il Vaticano II è stato ufficialmente definito concilio pastorale).
 La cultura cattolica pertanto deve essere finalizzata alla chiusura di una stagione infelice e tormentata, ossia al pacifico riconoscimento che i testi del Concilio pastorale Vaticano II  non alterano il depositum fidei e. ad ogni modo, non esigono il consenso dei fedeli. 
 Sembra che si possa sostenere in conclusione l'utilità del lavoro amorevolmente compiuto da Maria Guarini in ideale continuità con le opere di Romano Amerio, di Antonio Livi, di Paolo Pasqualucci e di Roberto De Mattei.

 E' dunque condivisibile il giudizio dell'autorevole Brunero Gherardini, che definisce l'autrice "apis argumentosa, che lancia ai quattro venti, con la costanza dei forti, i frutti della sua intelligenza, del suo studio, del suo impegno per la sana dottrina e la Santa Madre Chiesa".

Piero Vassallo

lunedì 21 luglio 2014

"Julius Evola, antimoderno o ultramoderno?" Un intrigante saggio di Paolo Rizza

 Primo Siena, uno fra i più autorevoli protagonisti e interpreti della vicenda culturale a destra, nella presentazione del magistrale saggio "Julius Evola. Antimoderno o ultramoderno?", scritto da Paolo Rizza,  e pubblicato in Chieti da Marco Solfanelli, afferma che l'autore, scavando nella concezione metastorica di Evola "incontra le contraddizioni moderne dell'antimoderno nel magismo, che accoglie ed esalta i risvolti più ambigui della modernità ultima".
 Il saggio di Rizza conduce a felice e perfetto esito i numerosi precedenti tentativi, compiuti da critici d'ispirazione cattolica, quali, ad esempio, Pier Vittorio Barbiellini Amidei, Fausto Belfiori, Ennio Innocenti, Francisco Elias de Tejada, Giovanni Torti, Pino Tosca, intesi a dimostrare la presenza nell'opera evoliana, dell'abbagliante confusione di estrema modernità e pseudo tradizione. Tale analisi era ed è finalizzata a liberare la cultura della destra italiana dall'infestante/incapacitante sincretismo di stampo magico/eleusino. 
 Il saggio di Rizza rivela, infatti, la non celata presenza, nella evoliana "Metafisica del sesso", di un inequivocabile segnale del cedimento all'arroventata immoralità del mondo moderno.
 La frenesia sessuale, in corsa disordinata e talora grottesca nell'opera evoliana, imprime l'inconfondibile sigillo del disordine libertino sull'esoterismo e ne rivela "una prossimità speculare alle tendenze pansessualistiche di Herbert Marcuse" (un autore anarcoide, la cui ideologia, negli anni convulsi seguiti al Sessantotto, fu paragonata e non senza motivo a quella di Evola).  
 Lettore scrupoloso ed esegeta dotato di una solidissima base filosofica, oltre che elegante padrone della lingua italiana, Rizza approfondisce e sviluppa le tesi di Roberto Melchionda, evoliano estraneo ai venerati abbagli della scolastica esoterica e autore di fedeli ricostruzioni del cammino di Evola, dal tumultuoso esordio nella corrente dadaista, scoppiettante motore della rivolta contro il senso comune, alla parodia gnostica della tradizione, messa in scena sul canovaccio proposto dai massoni René Guénon e Arturo Reghini - gli ispiratori di una simulata/finta rivolta contro il mondo moderno, ossia della controrivoluzione apparente e perciò destinata a fluire nelle pubblicazioni ultramoderne degli adelphi della dissoluzione.   
 Rivisitata, corretta e aggiornata da Rizza, la spirale evoliana, disegnata da Melchionda, svela "il nodo cruciale e irrisolto di un pensiero costantemente percorso da una viva tensione tra la critica rigorosa della modernità e la riproposizione del suo fondo più intimo [e tenebroso]".
 Nel saggio in questione Rizza dimostra che "la concezione di una storia risolta nell'insensatezza di una processualità variamente interpretata e sottratta alla verità dell'Incarnazione redentrice del Verbo, rivela una singolare specularità tra le posizioni di Evola e il pensiero moderno". 
 Tale specularità è ben visibile nell'avversione al realismo metafisico, "che rappresenta il cardine della philosophia perennis", una refrattarietà che avvicina lo stato d'animo evoliano a quello dei modernisti e dei battisti (che Evola frequentò nel periodo della sua collaborazione, negli anni 1924-1926, con la rivista Bilychnis) oltre che al furore californiano di Marcuse, che nella filosofia aristotelico-tomista vedeva l'origine del male fascista.
 Le schegge rivoluzionarie vaganti/nascoste nell'opera evoliana hanno persuaso Rizza a formulare un giudizio severo sull'indirizzo ultimo dell'esoterismo infiltrato a destra: "Occorre rilevare che gli esiti catastrofici generati dalla progressiva accelerazione del moto turbinoso che accompagna il corso della modernità, appaiono ad Evola suscettibili di una considerazione positiva: benché non si possano rigorosamente prevedere le attuazioni dei loro concreti e particolari sviluppi, in essi sono riconoscibili le prospettive anticipatrici della rinascita"
 Da tale dichiarazione Rizza deduce, senza ombra di dubbio "la connotazione gnostica [marcionita] e moderna di siffatto orientamento, che riconduce alla dissoluzione i prodromi della ricostruzione di un ordine politico, pur sempre condizionato dalle degenerazioni relative al dramma della temporalità".
 A conferma della sua opinione, Rizza cita una lapidaria sentenza di Gennaro Malgieri, "secondo Evola il nichilismo non lo si può superare che assecondandolo" e una tagliente definizione di Marcello Veneziani, "una teologia senza Dio, una Tradizione senza tradizioni viventi".
 Il movimento della storia in direzione del nichilismo, secondo il pensiero evoliano, è il risultato "di una trama di principi arbitrariamente sottratti  alla loro costitutiva e originaria dipendenza dal primato della verità": i fatti storici sono considerati il risultato di una inesorabile necessità, "che si rivela contrapposta al Verbo di verità e di salvezza". 
 La lettura dei febbrili saggi dello svizzero Jean Jacques Bachofen aveva destato in Evola un'insensata avversione al diritto naturale, uno stato d'animo che prorompeva da quei furori anti-platonici e anti-cristiani, che avevano turbato e oscurato la mente di Nietzsche.
 Puntualmente Rizza cita un testo in cui sono condensati i fulminanti abbagli, che colpirono Evola, sedicente e fittizio erede e continuatore della filosofia della storia di Giambattista Vico: "Il diritto naturale non è per nulla il diritto al singolare, valido ed evidente dovunque e per chiunque, ma è solamente un diritto, la speciale concezione che del diritto ebbero un determinato tipo di civiltà e un determinato tipo umano".
 Lanciato il sasso della superstizione antropologica contro la filosofia vichiana del diritto, Evola si avventa contro gli ordinamenti conformi al realismo tradizionale e perciò sostiene che "l'esercizio della vera sovranità politica risulterebbe gravemente pregiudicato da un potere che avvertisse l'esigenza di uniformarsi al rispetto di un ordine ontologico, estraneo ad ogni arbitraria opzione soggettivistica".
 Di qui il suggerimento, rivolto alla giovane destra italiana, "di cavalcare la tigre del caos e della dissoluzione spirituale", una soluzione che nasce dall'illusione di preparare la rinascita inseguendo il disordine praticato dai rivoluzionari ultimi. Opportunamente Rizza afferma che nell'opera evoliana è leggibile "una considerazione tendenzialmente positiva di fenomeni inseparabili da una forte pregnanza nichilistica".
 A questo punto Rizza pone la questione del reale rapporto di Evola con gli autentici valori tradizionali attivi nella cultura del movimento fascista in special modo nella scuola milanese di mistica fascista, nella quale (lo ammette Tomas Carini, nel saggio sulla Scuola di mistica fascista) prevaleva l'idea del fascismo motore della rinascita della tradizione romana e cattolica. Un indirizzo culturale, quello impresso dal regime alla scuola milanese, che Evola contestò duramente, affermando che il fascismo, quanto ai valori spirituali, "rimase sul piano di rinvii vaghi e conformistici alla religione dominante".
 L'analisi di Rizza sviluppa sagacemente un giudizio formulato dallo storico Enzo Erra, secondo cui la dottrina evoliana contribuì a irrigidire l'area umana che l'aveva assunta, insinuando il sospetto che l'azione politica fosse un'insidiosa palude, da evitare per non sprofondarvi: "Veniva così a cadere anche se a quel tempo era difficile rendersene conto, proprio la natura peculiare del fascismo, che si era identificato fin dalla sua prima origine nell'interventismo, nell'impulso cioè ad aggredire il reale per modificarlo, per ribaltarne le regole, per dirottarne il corso".
 Evola ha destato nei giovani militanti nel Msi uno stato d'animo refrattario all'azione politica e ultimamente incline alla rassegnata sequela del lugubre corteo sessantottino.
 Assunto il giudizio di Erra quale motore d'avvio alla ricerca, Rizza dimostra che il tradizionalismo evoliano fu irriducibile all'attivismo fascista: "Evola ha valutato in termini assai critici il peso che negli anni del regime rivestì la preoccupazione per la piccola morale al posto della grande morale, specie nei riguardi sessuali, con relative misure di censura e di interdizione statale".  
 Al seguito di Evola la giovane destra italiana si è trasformata in uno stormo di farfalle, destinate a spegnersi nella rete dell'almirantismo e a subire l'egemonia dell'avventizio filosofo Armando Plebe. 

 Dal saggio di Rizza, in definitiva, si deduce la convinzione che l'eventuale, oggi problematica rifondazione di una destra italiana può cominciare solamente dalla preventiva/tassativa rinuncia all'uso delle ottenebranti suggestioni proposte da un abile seminatore di malintesi, quale fu Evola.

Piero Vassallo

mercoledì 16 luglio 2014

"Il tempo della svastica". Luciano e Simonetta Garibaldi narrano l'invertita sapienza del male

Narrate con i toni del giallo metafisico o sviluppate secondo i criteri dell'intrattenimento psichiatrico, le orribili  storie della politica criminale, insieme con i brividi, suscitano nel lettore la convinzione che la radice dell'eversione sanguinaria sia una grave e conclamata psicopatologia.
 La convinzione che Hitler, e nella sua risma Robespierre, Stalin, Pol-Pot e Mao furono malati di mente e non geniali/criminosi costruttori di patiboli applauditi da moltitudini fanatizzate, confondono e avviano le difese immunitarie delle società civili al combattimento contro marginalità furenti/deliranti, radunate di gruppuscoli privi degli strumenti indispensabili al qualunque progetto inteso alla conquista del consenso.
 Ora il delirio politicante va individuato, circoscritto e segregato, non confuso con la politica realisticamente ed efficacemente indirizzata al grande male.
 La perversione politica, purtroppo, non può essere associata facilisticamente alla figura dell'indemoniato, che la misericordia dei parenti e degli amici trascina dall'esorcista né a quella dello psicopatico chiuso nella camicia di forza.
 Il saggio di Luciano e Simonetta Garibaldi "Il tempo della svastica" (edizioni Agostini Wihte star, Novara 2014) è un prezioso contributo e un opportuno invito alla riflessione sulla natura fascinosa  (superstiziosa, secondo coloro che riflettono sull'etimo delle parole) e a suo modo intrigante della perversione politica.
 Nella introduzione, Luciano Garibaldi dichiara, infatti, l'intento di evitare la caduta nei due trabocchetti  della storiografia fantastica, l'esegesi psichiatrica del male storico e il revisionismo: "Abbiamo cercato di seguire fin dall'inizio la strada dell'obiettività, non omettendo nulla in ordine alla criminalità del Terzo Reich e del suo führer , a partire dall'infamia della persecuzione antiebraica, ma al tempo stesso, collocando la vita privata più intima del protagonista nei limiti del verosimile, senza cedere in facili demonizzazioni come quella relativa a una sua presunta omosessualità".
 Il problema dell'origine della violenza di massa non si risolve ricorrendo alla psichiatria dilettante o ai pettegolezzi sulla demenza del capobanda.
 Il saggio di Luciano e Simonetta Garibaldi, ad esempio, ricorda il giudizio negativo degli insegnanti di Hitler, da alcuni storici esibito come prova della alienazione del führer, ma rammenta che Hitler non aveva torto quando nel Mein Kampf definiva squilibrati i suo professori, che infatti finirono la loro vita in un manicomio.
 Guidati dalla convinzione  non ha senso attribuire alla demenza il successo di una politica visionaria e feroce, gli autori ricostruiscono la disgraziata carriera di Hitler escludendo le interpretazioni gialle e/o pseudomistiche. Ridisegnano pertanto la figura di Hitler e ricostruiscono le fasi della sua formazione e il contributo che ad essa fu conferito da personalità di alto profilo e collocano tale prodotto al centro di una folla tedesca arroventata dalle privazioni imposte dai vincitori della Grande Guerra e spaventata dalla minaccia costituita dai rivoluzionari comunisti.
 Nello scenario, fedelmente ricostruito dagli autori, la violenza esercitata con inaudita ferocia dai seguaci di Hitler si rivela criminosa ma non demenziale. E' peraltro noto che cause del successo nazista furono la cecità della vendetta francese e il fanatismo del fronte rosso tedesco.
 Gli autori dimostrano altresì che l'ideologia hitleriana era espressione di una fisima (anche in questo caso l'etimologia aiuta il lettore della storia, ricordano la stretta parentela di fisima e sofisma) e non di una cieca follia.
 La fonte del pensiero hitleriano era infatti la capovolta teologia gnostica, che nel primo dopo guerra era oggetto di studi talora appassionati e coinvolgenti di studiosi tedeschi. L'antisemitismo risuonava nelle oscure profondità di una cultura germanica avvelenata dalla lunga carriera compiuta dalla capovolta teologia da Lutero a Hegel fino ai tardi romantici a Nietzsche e a Heidegger.
 Abbassare il grande malvagio alla statura del demagogo  incolto e improvvisato, oltre a indirizzare la lotta politica alla repressione dei margini desolati e sparuti impedisce la corretta lettura delle catastrofi storiche e l'elevazione di argini sicuri alle catastrofi incombenti.
 Si pensi alla debolezza delle difese sociali contro il nichilismo predicato (e seminato nei cuori dell'Occidente liberale) dai nemici di Hitler che confessavano (pensiamo agli apostati Walter Benjamin, Ernst Bloch, Jacob Taubes, Herbert Marcuse, Hans Jonas) la medesima avversione nutrita dai nazisti nei confronti del Creatore. Oppure alle tesi ecumeniche di Sigmund Freud intorno alla religione biblica quale complotto egiziano contro il presunto politeismo degli ebrei. 
 Il saggio di Luciano e Simonetta Garibaldi ricostruisce sapientemente la personalità di Hitler e indica la via per posizionarla nel cuore di una Germania avvelenata dal risentimento e dalla falsa teologia. Una miscela la cui metastasi agisce indisturbata nella cultura oggi al potere nell'Occidente frastornato e inconsapevole del male oscuro, che lo affligge.
 Il libro dei Garibaldi, pertanto, si raccomanda quale lettura indispensabile agli aspiranti politici, che aspirano ad agire nel vuoto lasciato dalla destra italiana, e che perciò debbono recuperare il realismo storico indispensabile all'efficacia dell'agire nella oscurata complessità del presente.

Piero Vassallo



  

Riflessioni sul cammino della filosofia italiana

Primo Siena su Gentile

Riflessioni sul cammino della filosofia italiana

 In occasione del settantesimo anniversario della morte di Giovanni Gentile, Marco Solfanelli, editore anticonformista in Chieti, propone un avvincente saggio di Primo Siena  (Giovanni Gentile Un Italiano nelle intemperie) che introduce un'antologia di testi del grande filosofo e le riflessioni sull'attualismo scritte da Padre Leonardo Castellani, da George Uscatescu e da Armando Carlini.
 Allievo di Silvano Panunzio, Primo Siena appartiene al numero ristretto degli studiosi (Lino Di Stefano, Antonio Fede, Gaetano Rasi, Franco Tamassia, Francesco La Scala)  che, nel tormentato dopoguerra, hanno tentato, con brillanti esiti, la rilettura e la riabilitazione del filosofo attualista.
 Gentile, rimosso dall'elenco dei fascisti, in obbedienza al dogma crociano, che nel bieco ventennio contemplava una vuota, antistorica e selvaggia parentesi, infatti, fu deportato nell'incredibile  elenco dei continuatori di Marx. Operazione che Siena liquida rammentando che il marxismo di Gentile fu definito da Roberto Mazzetti una barzelletta. Lino Di Stefano, opportunamente citato da Siena, dal suo canto, ha dimostrato la fragilità e la inclinazione al fallimento delle filosofie sedicenti ultime, neopositivismo, esistenzialismo ateo, costruttivismo, pensiero debole. Di qui la proposta di rileggere la filosofia gentiliana, collocandola nell'orizzonte post-fascista, quale alternativa alla catastrofe che sta travolgendo l'Occidente, vittorioso in guerra, perdente nella finta sua pace.
 Per evitare le insidie rappresentate dal politicamente corretto, palude chiacchierante, "in cui ha la peggio chi più ragiona e più si fa un dovere di procedere con metodo e con rigore" [1], occorre consultare, anzitutto, gli avvincenti testi proposti da Siena, testi che furono scritti tra il 1925 e il 1926 da Giovanni Gentile, il filosofo che sarà autore della Dottrina del fascismo, il documento che conferì al movimento delle camicie nere la dignità che compete a una vera avanguardia filosofica.  
 Ora Gentile, nel saggio appena citato, demistifica la vittoria delle potenze occidentali nella Grande Guerra, vittoria che puntellava un regime indirizzato "alla dissoluzione sociale dello stato, che seguirono immediatamente alla vittoria e che il fascismo troncò".
 La segreta causa del consenso alla nuova cultura italiana aveva origine "dal carattere schiettamente religioso dello spirito fascista" e in ultima analisi dalla volontà di capovolgere l'ideologia ateista,  insegnata da "quei teneri filosofi dell'illuminismo, così leggeri ma così filantropi, dei quali i massoni leggono ancora con riverenza infinita gli oracoli"- Tali erano gli errore che squalificavano e fiaccavano la vincente Internazionale dei liberali.
 Gentile sosteneva risolutamente che Benito Mussolini "ha tante volte espresso, con l'energia che è propria del suo pensiero intuitivo, il lato mistico del fascismo, come culto reso a tutta l'anima della nazione. ... E non c'è dubbio, che uno dei più potenti motivi, anzi il motivo più potente del fascino dal Mussolini esercitato dai giovani sulle masse e su tutti, deriva da questa corda, che egli sa far vibrare fortemente negli animi be che vibra prima di tutto nel suo, ogni volta che egli si abbandona all'ispirazione centrale del suo pensiero, e riesce veramente eloquente".
 Di qui una lucida interpretazione del programma di Mussolini: "Il fascismo che intende la necessità della vita religiosa dello spirito, fuori della quale non c'è se non il materialismo dell'individualismo liberistico o della socialdemocrazia, intende perciò innestarsi  nel tronco antico ma pur sempre vivo e poderoso della religiosità storica italiana, che per effetto dell'innesto getterà nuovi germogli e rinverdirà in novelle fronde".  
 Nella religione cattolica, Gentile, pur essendosi ancora liberato dalle suggestioni fatte cadere da Hegel dal vertice speculativo della modernità, vedeva la radice della combattività dei giovani fascisti e la ragione delle speranze che la rinnovata cultura italiani esercitava nella gioventù insofferente e pronta a battersi contro la piattezza cui è indirizzata la via al capitalismo perfetto e la falsa pace generata dal conformismo.
 Scriveva Gentile: "A me in verità leggendo il Vangelo, da cui tante cose ho imparato, han sempre fatto una vivissima impressione quelle parole divine di Gesù - Non veni pacem mittere sed gladium. Veni enim separare hominem adversus patrem suum et filia adversus matrem suam. ... Questo il patto divino e la storia di tutte le religioni che hanno acceso nei cuori umani le maggiori fiamme d'amore, ma anche i più vasti incendi di odio".
 L'anno successivo Gentile scrisse un nuovo articolo per meglio definire le radici filosofiche e teologiche del fascismo, un testo in cui si rammentava che "tra gli iniziatori memorandi della nuova Italia è il grande filosofo napoletano Giambattista Vico". E ai contraddittori, che sorridevano a sentire "che il buon filosofo cattolico della Scienza nuova è tra i maestri spirituali del fascismo" [2],  suggeriva di studiare la morale eroica di Vico, che contempla i primitivi in  fuga per pudore dalla Venera vaga "e con la forza e le loro violente passioni conformi ai disegni della provvidenza fondarono le famiglie e quindi la società e lo Stato".
 A Gentile è stata attribuita l'intenzione di rovesciare la filosofia di Vico nel pensiero hegeliano. Ma il testo citato da Siena sembra manifestare una intenzione del tutto diversa, cioè riconoscere che la Scienza Nuova contempla il primato della divina Provvidenza nella storia: "Perché pur gli uomini hanno essi fatto questo mondo di nazioni ... ma egli è questo mondo, senza dubbio, uscito da una mente spesso diversa ed alle volte tutta contraria e sempre superiore ad essi fini particolari, che essi uomini si (Scienza Nuova, Conchiusione dell'opera).
 Alla luce della Scienza Nuova, Gentile chiarisce il significato della deplorata barbarie fascista: "intendete il significato giusto di questa barbarie e noi ce ne vanteremo, come di sane energie frantumatrici di idoli fallaci e funesti, e restauratrice della salute delle nazioni nella potenza dello Stato. La nostra barbarie sdegnerà la falsa cultura intellettualistica traviatrice e falsificatrice, prona e indulgente alle velleità individualistiche e agli egoismi anarcoidi, come sdegnerà la falsa pietà e la ipocrita fratellanza e perfino le regole del galateo che divezzino dalla rude e sana franchezza e avvezzino al reciproco inganno e a tutte le intollerabili tolleranze".
 La lettura del testo gentiliano appena citato sollecita gli storici non prevenuti ad esplorare i lontani e nascosti orizzonti dell'attualismo, ossia, giusta l'acuta interpretazione di Primo Siena, a svelare l'intenzione di Gentile di uscire dalle strettoie della filosofia hegeliana.
 Vico filosofo del fascismo" [3], sarà infatti il progetto dichiarato da Nino Tripodi, un acuto studioso militante nella Scuola milanese di Mistica fascista. Quasi anticipando la tesi di Francisco Elias de Tejada, Tripodi dimostrò che la Scienza Nuova è l'ultimo e vero orizzonte della riforma avviata da Benito Mussolini e da Giovanni Gentile.
 L’indirizzo dell’avanguardia fascista, peraltro, era stato dichiarato già nel 1919. Al proposito Siena ha rammentato un'osservazione di Nino Tripodi: “È significativo che proprio a  Vico, e proprio il 23 marzo del 1919, si sia riferito Paolo Orano nel commentare, sul Popolo d’Italia, la fondazione dei Fasci di combattimento. Orano indicava nel filosofo della Scienza Nuova il precursore dell’interpretazione del tempo, chiamandolo maestro dei nostri orientamenti ed evocando la sua teoria del fatto come sede del vero[4].
 Siena ha indicato la via percorribile da una cultura italiana post-fascista e da una destra finalmente liberata dai paradossi e dalle suggestioni iniziatiche (ridicolmente dadaiste ed eleusine) di un'avanguardia prigioniera dell'ultra-antico.

Piero Vassallo





[1]             Giovanni Gentile, "Caratteri religiosi della presente lotta politica", citato da Primo Siena, "Giovanni Gentile Un italiano nelle intemperie", Solfanelli editore, Chieti 2014, pag. 71.
[2]             Giovanni Gentile,"Che cosa è il fascismo",cfr. Pagine gentiliane, in: Primo Siena, "Giovanni Gentile Un italiano nelle intemperie", op. cit., pag. 89 e segg.
[3]             Il saggio di Tripodi , "Il pensiero politico di Vico e la dottrina del fascismo", fu pubblicato da Cedam, Padova 1941.
[4]              Cfr.: Fascismo così, Ciarrapico editore, Roma 1984 pag. 21. Il filosofo Paolo Orano (Roma 1875 - Padula  1945) dopo aver militato nel partito socialista aderì al fascismo. Nel 1936 fu nominato rettore dell'Università di Perugia.  Sostenne che "i patti del Laterano chiudendo e risolvendo il dissidio tra Stato e Vaticano in Italia, pongono come obbligo assoluto al cittadino, alla scuola, alla cultura di non riaccenderlo". Nel 1945, Orano fu imprigionato dagli alleati e chiuso nel campo di concentramento di Padula, dove morì.