domenica 31 maggio 2015

LE QUASI INSENSIBILI INIEZIONI DI VELENO (di Piero Nicola)

Ricordate le persuasioni occulte, subliminali, inserite nelle svariate trasmissioni o registrazioni sonore e filmiche, senza che se ne avesse una percezione cosciente, e che avrebbero agito con subdola efficacia nella psiche?
  Qualcosa del genere avviene in chiaro con il reiterato impiego di questioni percepite generalmente come lecite, anzi benefiche, e che invece nascondono un abominevole abuso della benevolenza, del sentimento cristiano e del Vangelo. Tramite siffatta corruzione buonista, il suscitare intimi sensi di colpa volge al consolidamento d'una mentalità regredita nell'ignava e rea indulgenza, nell'amore d'una pace contraria alla pace di Cristo. L'invenzione del dialogo inaugurato dal Vaticano II ha aperto il varco dello stordito andiamo incontro a braccia tese verso chiunque si mostri disponibile e verso qualunque cosa abbia apparenza di bontà.
    Servi dell'operazione sono i giornalisti intervistatori, i quali agiscono all'incirca come automi valendosi d'un quesito d'effetto sperimentato, d'un mezzuccio che stuzzica la torbida curiosità del pubblico e arricchisce il servizio. La domanda divenuta di prammatica, avanzata a persone in lutto, vittime della perdita di cari congiunti uccisi da delinquenti, è se abbiano perdonato ai colpevoli, siano essi semplici negligenti o assassini matricolati.
  La domanda - spesso ripetuta, talvolta insistita - denuncia la corrente pessima educazione, risentita soltanto da pochi bennati. Non c'è dubbio che il quesito, indiscreto sollecitando la coscienza, crei imbarazzo in un essere ingiustamente afflitto e in ambascia, se non proprio in stato di disperazione. Ma il peggio sta nel giudizio implicito cui è soggetta la risposta, che si suppone felice, lodevole, equa essendo affermativa (io perdono, ho perdonato) e tutt'al più da compatirsi, quando sia negativa (non posso, non so se potrò o non desidero perdonare).
  L'impreparazione, l'ignoranza indotta nei cattolici da un clero incolto e latitante, producono il tacito consenso del grosso pubblico alla malefatta. I non cattolici tanto meno avvertono l'odore di zolfo.
  Dalla risposta, invece saggia e corretta, emerge il seme dell'errore piantato da un agente del maligno nella fede del fedele o nel buon senso del refrattario. Esagero? Credo di no. Essi non sono poveri malcapitati, aventi di che riprendersi dal colpo basso: hanno assimilato una caterva di menzogne presentate come oro fino, e viene loro affibbiato un'ulteriore imbroglio.
  Dunque, il povero interrogato dovrebbe rispondere che il quesito assomiglia a quello posto a Gesù dai farisei, che lo tentarono per sapere se egli stava dalla parte del Popolo eletto oppure con Cesare. Ed ecco la moneta da mostrare all'impertinente: su di essa figura la Giustizia (allo Stato, per volere di Dio, ne incombe l'attuazione). Sicché, rispettando la Giustizia, che punisce e non può assolvere, il cittadino nega il perdono al colpevole. Quanto al perdono personale e religioso, è faccenda privata, da risolversi con i mezzi della grazia e in confessione.
  In una comunità che ha perduto il significato di giudizio e di pena da scontare: dove la pena non si considera, come dovrebbe essere, espiazione della colpa, dove si crede che il ravvedimento, anche provato, possa sollevare il condannato dalla pena, ivi è facile confondere i peccatori e menarli all'eresia o all'apostasia rendendo loro ancor più inservibile la strada della ragione, cui si sostituisce un surrogato imbottito di errori melati e patetici.


Piero Nicola

sabato 30 maggio 2015

Irène Némirowsky: La misericordia oltre il moralismo

Dicendum est quod non est iudicandum de rebus sercundum exstimationem malorum sed secundum existmationem bonorum" San Tommaso d'Aquino, De malo.


 Dal vicolo cieco scavato dall'avventizia scuola teologica, che eleva lo stato d'animo buonista/pauperista al di sopra delle virtù cardinali e teologali, si esce percorrendo la tradizionale via della misericordia, in cui è visibile l'uguaglianza delle due avarizie, quella in agitazione perpetuo nella volontà dei ricchi, e quella che genera i sogni invidiosi degli aspiranti alla ricchezza.
 L'avidità, l'auri sacra fames, infatti, non è un accidente eliminabile dalle rivoluzioni sociali e pseudo religiose, ma una delle universali menomazioni causata dal peccato originale.
 La verità sull'avarizia fu compresa dai discepoli di Gesù, materialmente poveri e tuttavia atterriti   dall'affermazione "è più facile che un cammello entri per la cruna di un ago, che un ricco nel regno di Dio".
 La povertà materiale, infatti, non coincide con la povertà in spirito, non è misura della dignità spirituale della persona, non è un rimedio all'avidità: "All'udir ciò i discepoli rimasero sbigottiti e domandarono: Chi dunque riuscirà a salvarsi? Fissando su di loro lo sguardo Gesù rispose: Presso gli uomini ciò non è possibile, ma tutto è possibile presso Dio".
 Fedele all'insegnamento di Nostro Signore, Irène Némirowsky concepisce la sua opera come racconto dell'inutile, sterile conflitto tra le opposte anime della mondanità, Pilato e Giuda, il potere e la rivolta impotente, la destra e la sinistra dell'ideologia, la gongolante sicumera dei dominatori e il sanguinario, vano furore dei rivoltosi. 
 Il comunista Marcel Legrand, protagonista del romanzo L'affare Kurilov, ad esempio, ammette a malincuore e quasi allontanandosi dalla pascoliana truce ora dei lupi, che due esponenti del regime zarista, future vittime di un attentato, "con i loro errori, la loro incoscienza e i loro sogni, mi erano sembrati creature limitate e patetiche come ogni altro essere umano, come me stesso".
 Il medesimo stato d'animo muove il romanzo David Golder, dettato dalla pietà che osserva l'umiliante, implacabile vanità, associata alla frenesia, in corsa devastante nell'anima di uno speculatore spietato.
 Il ricco ebreo Golder rappresenta la vanità, che si agita in una solitudine gelida e affollata dagli insaziabili beneficiari dei guadagni spietati, familiari infedeli e untuosi cortigiani.
 Il racconto della  Némirowsky non gronda odio, come sostiene Pietro Citati, autore di un tetro risvolto, che suggerisce un'interpretazione incendiaria, ristretta alle categorie del moralismo obliquo e angosciante, professato dagli iniziati ai misteri adelphiani.
 Citati milita in una scolastica lugubre, contemplante l'azione implacabile di un destino oscuro e feroce, che trascina la vita degli uomini verso "fango, abisso, potere, violenza furore".
 In realtà la trionfale e disonesta carriera dell'affarista Golder è accompagnata e duramente punita dal disprezzo che avvelena e capovolge i suoi affetti familiari.

 David Golder, pubblicato nel 1929 anticipa il tema del malessere familiare, svolto nel 1932 nel romanzo Groviglio di vipere, da un futuro premio Nobel, il cattolico progressista/moralista François Mauriac. Se non che Némirowsky lascia cadere sull'eroe negativo la luce di una generosità che dimentica e oltrepassa le offese feroci dei familiari e quasi trascende le miserie di una vita consumata nella estenuante e vano inseguimento della ricchezza. La fine di Golder apre uno scenario che oltrepassa i contrapposti errori degli avidi e dei risentiti, della rivoluzione e della controrivoluzione. L'impalpabile figura di un "altro" dal conflitto che agita e avvelena il mondo moderno.

Piero Vassallo

venerdì 29 maggio 2015

L'IRRETIMENTO DELLA CATARSI (di Piero Nicola)

  Il bello estetico che esige per sé l'assolutezza, la beltà delle opere intelligenti, il non plus ultra della tragedia che purifica le passioni, gli studi che penetrano il fascinoso mistero artistico, menano tutti e ciascuno a porti infidi, a quello che non è, per cui l'oro viene eclissato e si eleva l'orpello. - Questione ellenica e sempre attuale.
  A scuola, al liceo, ragazzi s'infatuarono - tuttora variamente s'infatuano - d'un meraviglioso abbagliante, indottivi dai professori retori e dalla giovinezza. Diventati adulti, ricredersi sarebbe ostico, cattivo, un privarsi del primo amore che non si scorda mai, sarebbe un rinnegamento inconcepibile.
  Di modo che, troppi intellettuali, anche bene orientati, si trascinano addosso la remora magnifica, assoluta. E il mirabile assoluto vizia la loro esistenza, storce la loro produzione. Analogamente, alcuni miti della storia adulterata, eroi apparsi, lungo i secoli, nella scia dei campioni omerici, hanno occupato un posto regale nelle menti coltivate.
  Presso gli uomini di cultura è tenace l'impulso a creare, a immortalarsi, è fervida la persuasione di avere la capacità e il dovere di lasciare un segno memorabile, che sin d'ora deve far rumore. Creazione e orgoglio andando a braccetto, nondimeno le produzioni devieranno.
  La forza della sana coerenza di rado basta agli amanti della poesia per spezzarne il vincolo, per il sacrificio liberatore. La rinuncia para loro davanti un'indigenza insopportabile. Eppure è lo stesso distacco che il Signore ci chiede di attuare dal mondo malizioso e demoniaco; distacco naturale nei piccoli, nei poveri di spirito.
  L'idea di purificazione risale ad età ancestrali. In Grecia la catarsi trascorse dall'ambito religioso dei riti a quello etico e filosofico. Platone mantenne l'affrancamento dall'impurità preservato dalle suggestioni dell'arte, di cui accusava la lustra. Aristotele parlò di catarsi nella rappresentazione delle passioni malsane. Il significato da lui attribuito alla catarsi rimane incerto, essendo andato perduto uno suo scritto illuminante. La posterità ha comunque annesso alla poetica, alla narrativa, al teatro un potere di sciogliere il mistero della vita, essendo dato di contemplarla. Ma come può essere eticamente valido questo godimento di distillazione a prescindere dalla morale dell'opera? Basta mettere in scena i conflitti dell'umana difettosità per suscitarne un senso perfetto, edificante?
  Rispondiamo di no. Quanti libri, quanti dipinti e sculture, quanti drammi e commedie del palcoscenico e dello schermo commuovono, appagano sentimenti, destano ammirazione, pur offrendo una morale immodesta e cattiva! Inutile negarlo. Non si tratta di dolci musiche senza parole.
  Viceversa, è assai consueto che colui cui spetterebbe l'ufficio di maestro pregia un grande artista, un poeta maledetto (non c'è bisogno d'essere maledetti come Baudelaire o Rimbaud: gli scettici disgraziati e compatiti sono ben più pericolosi) e guai a chi glielo tocca! Guai ad applicarvi una critica che si riferisca alla veridicità.
  Allora, abbiamo ben intenzionati che in qualche modo camminano sulle tracce degli autori di testi scolastici e universitari, ove si sono esaltati certi artefici delle nostre lettere e delle nostre sorti, quasi fossero compagni dei santi, mentre quei manuali e i docenti che hanno decantato all'unisono con essi le glorie fasulle, hanno contribuito alla discesa della cultura e del popolo italiano nella cloaca massima.


Piero Nicola

giovedì 28 maggio 2015

Disobbedire alla stanchezza e votare

Agli elettori delusi, agli elettori nauseati dalla destra finiana & berlusconiana, agli elettori estenuati e rassegnati, ricordiamo che la loro eventuale astensione sarebbe conteggiata e valutata quale tacito consenso a riforme mirate alla corruzione e all'affondamento della Patria italiana in una fogna sodomitica.
 Non votare significa approvare l'ideologia radical-chic, ossia sostenere il progetto inteso alla corruzione della gioventù italiana.
 Non votare significa, in ultima analisi, attribuire potere alle minoranze urlanti e festanti nelle massonerie da pisciatoio.
 La maggioranza silenziosa non ha il diritto di conformarsi al silenzio clericale e/o di  tuffarsi nelle fantasticherie progressive del pio lettore di Repubblica.
 L'angoscia associata all'osceno futuro in visibile fermentazione negli alambicchi della sinistra, deve prevalere sulla delusione a destra, sulla stanchezza degli elettori e sulla rassegnazione dei cattolici.
 Oltre tutto nella Lega e in Alleanza nazionale stanno affermandosi nuove e vivaci personalità - Matteo Salvini, Edoardo Rixi e Carla Meloni ad esempio - attori che inducono a sperare in una seria evoluzione della destra. Sopra tutto nell''uscita dall'incapacitante ideologia liberale, errore anglo-americano, incompatibile con la genuina tradizione italiana. 


Piero Vassallo

mercoledì 27 maggio 2015

Exursus sull'Etica Nicomachea: Amicizia (di Domenico Rosa)

L'opera di Aristotele, divisa in 10 libri, tratta il fine della vita dell'uomo e i mezzi per raggiungerlo (350 a. C.). Nel testo non compare mai una sola norma intesa come legge ma piuttosto un invito a percorrere la strada della virtù. 
L'indagine aristotelica chiarisce che il fine della vita non è altro che il bene e la scienza di cui si serve l'uomo è la politica, che il filosofo chiama scienza architettonica, cioè di comando, essa ha come obiettivo il bene più perfetto, quello della città (in greco polis da cui deriva il termine politica) che deve coincidere con quello dell'individuo.
Possiamo dire che l'etica è un'istanza superiore che conduce la politica al bene, ovvero “ciò cui ogni cosa tende” (Libro I 1094a). Tema che verrà ripreso anche da San Tommaso.
Aristotele però non si illude che le ragioni dell'etica possano bastare da sole a far sorgere nell'uomo comune la virtù. Tuttavia saranno assai utili almeno a quei pochi che hanno un'indole naturalmente predisposta ad accoglierla e a metterla in pratica. Ma un solido sapere morale è sicuramente necessario all'uomo politico, visto che il suo scopo è quello di ordinare lo Stato in modo da creare condizioni favorevoli alla nascita e all'esercizio della virtù. Mettere in pratica le virtù risulta per i giovani difficile perché considerati da Aristotele incapaci nel compimento di azioni concrete, essendo ancora inesperti della vita e incapaci di sottrarsi al dominio delle passioni. Poi però lo Stagirita cade in una 'felice incoerenza' quando afferma che giovani o non giovani tutti coloro che sono inclini a comportamenti razionali, cioè già abituati dalla legge a compiere azioni oggettivamente virtuose, possono avvalersi dell'etica.
Dal momento che i beni sono molteplici e legati a diversi generi di vita è necessario raggiungere l'equilibrio tra fini particolari e bene, e conseguire la felicità mediante l'esercizio della virtù. Quindi l'uomo non può appiattirsi sugli istinti al cui apice c'è il piacere altrimenti non sarebbe nient'altro che animale o per dirla come Aristotele schiavo perché obbedisce a degli impulsi di cui non è padrone. A questo proposito è importante ricordare che la responsabilità morale viene prima dell'atto. Pensiamo per esempio al drogato che sotto l'effetto della cocaina compie una rapina. Anche se in quel momento non era in sé nel preciso istante in cui ha assunto la sostanza stupefacente si è assunto la responsabilità morale della terribile azione.
Il compimento del trattato sull'etica dello Stagirita è la contemplazione come scopo ultimo dell'uomo, la perenne tensione al divino. Da qui si ha la virtù che sfocia nella saggezza e nella sapienza, quelle attività intellettive che, occupandosi della scienza suprema dell'essere in quanto essere, mettono in contatto gli uomini con la parte divina della loro anima. Felicità e bene dell'uomo si trovano nella riflessione su quel Motore Immobile al quale tutto il creato rivolge lo sguardo e che costituisce il fine ultimo e supremo di ogni cosa.
Passando alla trattazione dell'amicizia, il filosofo (le dedica ben due libri VIII e IX) la considera “una cosa non soltanto necessaria ma anche bella” (Libro VIII 1155a 30), in quanto “nessuno sceglierebbe di vivere senza amici, anche se fosse provvisto in abbondanza di tutti gli altri beni” (Op. Cit. 1055a 5). La definisce una virtù o qualcosa di strettamente correlato alla virtù: “assolutamente necessaria”. Senza amici – continua lo Stagirita – ricchezza e potere né si possono conservare né si possono adoperare bene. Precisa poi che le amicizie fondate sull'utile e sul piacere sono destinate a finire una volta che si ottiene lo scopo e si esaurisce il godimento. In questo caso l'amico è un mero strumento. L'amicizia destinata a durare è quella fondata sul bene quando cioè “l'amico è un altro se stesso”.
Nel libro IX dell'amicizia si approfondiscono i temi trattati nel libro precedente a cui strettamente si connettono. Ma che cos'è l'amicizia?
E' qualcosa di affine ma ben distinta dall'amore e dalla benevolenza. All'amore infatti si accompagnano eccitazione e desiderio, esso è generato dalla vista della bellezza (IX 5, 1157 b 30). La benevolenza invece si può provare anche verso gli sconosciuti, il filosofo fa l'esempio degli atleti. In realtà è un sentimento che può rimanere nascosto e diversamente dall'amicizia manca di reciprocità (Op. Cit. 1167 a 10).

Quest'analisi aristotelica è – secondo lo studioso Nicola Abbagnano – la più compiuta e bella che la filosofia abbia mai dato al fenomeno dell'amicizia. Si incardina sui seguenti punti: 1° l'amicizia è una comunità che condivide atteggiamenti e valori; 2° è collegata con l'amore e ne segue le forme ma non si identifica con l'amore; 3° si avvicina piuttosto alla benevolenza ed è perciò collegata con gli affetti positivi, cioè quelli che implicano sollecitudine, cura, pietà. La benevolenza infatti può trasformarsi in amicizia se il rapporto, perdurando nel tempo, diventa tra le persone di frequentazione. Nel caso dell'amore invece l'amicizia è più estesa di esso dal momento che è limitato e condizionato dal godimento della bellezza. L'amore spiega Aristotele è un'affezione (può modificare) mentre l'amicizia è un abito (habitus, disposizione ad agire bene).
Con l'avvento del cristianesimo la massima aristotelica dell'amicizia “comportarsi verso l'amico come verso se stesso” (IX, 9, 1170 b 5) si estende a tutto il prossimo. L'amico infatti per Aristotele se commette qualche piccolo errore va compreso e corretto ma se rimane indietro nell'evoluzione spirituale (potrebbe accadere con gli amici di infanzia) o si corrompe irrimediabilmente va abbandonato al suo destino. In questo caso è in aperta contraddizione con l'insegnamento evangelico. In Gv 15, 13 troviamo un versetto che oltrepassa per la sua assoluta radicalità la trattazione dell'amicizia nell'Etica Nicomachea: “Nessuno – si legge - ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”.

Il valore di scambio della amicizie

Quando c'è diversità nei rapporti d'amicizia il rapporto si interrompe nel momento in cui uno dei due non può più dare all'altro ciò di cui ha bisogno, e perciò non si mantiene più la proporzione nel reciproco scambio. Spetta a chi riceve il beneficio stabile il valore del contraccambio, chi dà è portato a valutare molto il proprio dono. I sofisti si fanno pagare prima perché consapevoli di non essere in grado di portare a termine il lavoro per cui si impegnano. Dal canto suo chi riceve deve dare secondo le sue possibilità con la consapevolezza che certi doni sono impagabili: per esempio quelli ricevuti dagli dei ( vedi parabola dei talenti Mt 25-14,30), la vita che danno i genitori e la filosofia che ci è insegnata dal sapiente.

Il dovere nei vari tipi di amicizia

Nell'amicizia ci può essere un conflitto di dovere. Aristotele specifica che quando si tratta di donare, restituire o contraccambiare bisogna distinguere tra padre, madre, fratelli, colleghi, anziani, concittadini e dare a ciascuno secondo il suo merito. Bisogna agire sempre secondo giustizia. Uno dei problemi che il filosofo pone è se si debba restituire un servizio ricevuto o piuttosto fare un dono ad un amico. Come regola generale vale sempre la restituzione di ciò di cui si è debitori ma ci possono essere alcune eccezioni. Per esempio se si è prigionieri dei sequestratori e lo è anche nostro padre, al dovere di restituire la somma a chi ci ha riscattati va anteposto il dovere di riscattare nostro padre. Un'altra possibilità di venire meno al dovere della restituzione si presenta quando una persone giusta ha avuto un prestito da un individuo poco raccomandabile e glielo abbia regolarmente restituito se poi quest'ultimo a sua volta richiede la cortesia, l'onesto non deve concedergliela. Il disonesto infatti ha prestato con l'assoluta certezza che il denaro gli sarebbe stato restituito.
Nemmeno al padre dice lo Stagirita si deve concedere tutto ma soltanto ciò che è adeguato in termini di onore, di sostentamento o di altri benefici alla figura di padre.

Rottura dell'amicizia

Come già abbiamo visto nel Libro VIII l'amicizia si fonda su tre livelli: sul piacere, sull'utile e sul bene. Nei primi due casi sappiamo che l'amicizia finisce quando uno non riesce più a dare all'altro quei piaceri o quell'utilità per cui avevano instaurato il rapporto sodale. Aristotele precisa che se siamo stati noi ad illuderci con la nostra ostinatezza che l'amico era diverso da quello che si palesava è solo colpa nostra. Invece se è stato lui a fingere di essere quello che non era abbiamo ragione di volergliene.
Quando l'amicizia è fondata sulla virtù la rottura è legittima se uno degli amici cessa di essere virtuoso e si è accertato che non può essere più recuperabile. E' legittima anche nel caso in cui il tempo abbia aumentato notevolmente le differenze tra gli amici e l'uno sia rimasto indietro rispetto all'altro nella virtù.
Sembrerebbe poi che Aristotele faccia una specie di apertura al perdono quando afferma che chi è stato amico non va trattato completamente da estraneo in nome della vecchia amicizia soprattutto se la rottura non è stata causata da un cambiamento notevole nella direzione del vizio.

I sentimenti dell'uomo verso se stesso e verso gli amici

L'essenza dell'amicizia si ritrova nei sentimenti che l'uomo virtuoso ha verso se stesso. Se non vogliamo bene a noi stessi non possiamo volerne agli altri. L'uomo virtuoso ama la propria vita e la difende, gli piace stare con se stesso, cioè con i propri ricordi e le proprie aspettative. Aristotele poi definisce i sentimenti d'amicizia nei seguenti modi: fare bene all'amico, augurargli lunga vita, trascorrere la vita insieme con lui, condividere le stesse opinioni e gli stessi gusti, partecipare delle sue gioie e dei suoi dolori. In pratica avere un sentimento di empatia nei confronti dell'altra persona. L'uomo vizioso invece si trova in situazione completamente opposta per questo oltre a non essere amico di se stesso non può essere amico di nessun altro.

La benevolenza

Aristotele parla della benevolenza come di qualcosa molto simile all'amicizia, il principio è lo stesso. Nasce dall'ammirazione per la nobiltà o la virtù di un altro uomo che però non si conosce, perciò non è accompagnata da un desiderio di vita con lui. Si tratta di un sentimento che può sorgere all'improvviso e può rimanere superficiale e per giunta ignoto a chi l'ha suscitato. Pensiamo agli sportivi. Può però trasformarsi in amicizia se, perdurando nel tempo, inizia una abituale frequentazione tra le persone.

La concordia

La concordia non è semplicemente avere la stessa opinione, cosa che ci può essere anche tra sconosciuti, ma avere le stesse vedute sugli interessi comuni della città. Così la concordia si realizza nel prendere insieme le medesime decisioni e nell'attuarle. Aristotele la definisce amicizia politica.
E' un sentimento che provano i virtuosi, coloro cioè che vogliono ciò che è giusto e si trovano d'accordo con se stessi e tra di loro. I malvagi invece possono essere concordi solo in minima parte dal momento che ciascuno insegue solo il proprio interesse a discapito della città. Per questo le città sono destinate ad andare in rovina prede di ribellioni.

Benefattori e beneficiati

Aristotele dimostra che i benefattori amino di più i loro beneficiati di quanto i secondi amino i primi. Per il filosofo risulta inadeguato il paragone tra creditore e debitore (il creditore infatti prega la saluta al debitore), cioè che si possa creare una sorta di rapporto psicologico simile tra beneficiato e benefattore. Invece non c'è nulla in comune, il donatore ha un rapporto di puro affetto verso il beneficiato. E' – spiega Aristotele – come un artista, un poeta che ama la propria opera più di quanto questa la amerebbe se fosse animata.
Nel beneficiare si trova una bellezza morale, nel ricevere benefici invece si trova solo utilità. Il bene si fa con disinteresse, viene in mente Matteo (6-1) "Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati". Il bello (bene) è più amabile dell'utile. Ama ed ha sentimenti d'amicizia chi agisce, non chi è passivo. Si ama di più ciò che costa più fatica. Fare del bene richiede sforzo, riceverlo no.

L'amore per se stessi

Viene affrontato il problema dell'egoismo. Poiché si deve amare chi più di tutti è amico: “si deve essere prima di tutto amici di se stessi”. Se dà una parte l'egoismo è vizioso e condannabile, dall'altra è proprio l'uomo virtuoso che ama se stesso in misura maggiore rispetto a ogni altro tipo di uomo. Per Aristotele la parola egoista nasconde un equivoco. Bisogna distinguere chi attribuisce a se stesso la parte più cospicua dei beni che sono oggetto delle passioni e delle brame e chi ama la parte razionale della sua anima. I secondi sono gli uomini, che strutturati come una città, si identificano con la loro parte direttiva, cioè la loro parte razionale. E poiché la parte razionale dell'anima persegue ciò che è moralmente bello, egoista in questo senso è colui, che, amando soprattutto questa parte ed operando secondo i suoi dettami, si dedica soprattutto alla bellezza morale. Ne consegue che il virtuoso debba essere egoista mentre il vizioso no.

Anche l'uomo felice ha bisogno di amicizia

Se l'uomo felice ha già tutto non ha bisogno di amici che gli allietino la vita. In verità non ha bisogno di amici piacevoli e utili ma dal momento che l'uomo è per sua natura socievole gode nel vedere negli altri la virtù perché la sente come propria. Quindi anche l'uomo felice ha bisogno di amici virtuosi. L'amicizia è strutturalmente connessa con la felicità, per questo il bisogno di amici deriva dalla natura stessa di quest'ultima.

Il numero degli amici

“I miei amici non sono certo parecchi, sono come i denti in bocca a certi vecchi ma proprio perché pochi sono buoni fino in fondo sempre pronti a masticare il mondo”. (F. Guccini). Il numero degli amici non deve essere elevato allo stesso modo del numero degli ospiti. Questo vale sia per gli amici utili perché sarebbe troppo faticoso ricambiare l'utilità a molti, sia per gli amici piacevoli perché come il cibo non bisogna eccedere.
Ma anche per gli amici virtuosi (il cui numero non può ovviamente misurarsi aritmeticamente, potrebbe però essere stimato in coloro con i quali si può intrattenere un rapporto di intimità).
1)Lo prova il fatto che il numero corretto dei cittadini di una polis debba essere né poco né troppo.
2) Non è possibile vivere una vita di intimità con molti, e l'intimità è il fattore essenziale dell'amicizia.
3) Avere troppi amici implica che siano tutti amici anche tra di loro ed è impossibile.
4) Un sentimento intenso è necessariamente esclusivo come dimostra l'amore.
 Le dimostrazioni per Aristotele sono diverse come per esempio le amicizie cantate dai poeti che sono sempre due. Chi si lega con tutti non è amico di nessuno ma solo un compiacente. Infine con molti si può avere una relazione come quella che lega tra di loro i concittadini, senza essere compiacenti, ma non è una relazione motivata dalla virtù.


Gli amici sono desiderabili in tutte le circostanze

In questo paragrafo si affronta il discorso se si abbia più bisogno degli amici nella buona o nella cattiva sorte. Si ha più bisogno – per lo Stagirita – degli amici nella cattiva sorte perché è allora che sono particolarmente utili, ma è più bello averli nella buona sorte. In una condizione favorevole si ricercano amici virtuosi per poterli beneficiare. Per quanto riguarda la piacevolezza la presenza dell'amico è piacevole in entrambi i casi.
Nella cattiva sorte dal momento che l'amico allevia la sofferenza. Allo stesso modo però non vuole dare troppo pensiero all'amico con la sua sofferenza e non vuole essere compatito. La sua natura virile non glielo permette.
Nella buona sorte la presenza degli amici dà solo piacere. Per questo bisogna farli partecipi mentre non bisogna chiamarli a partecipare delle proprie pene. Poi bisogna essere solleciti nell'andare in aiuto degli amici che versano nella sfortuna, senza aspettare che ci chiamino. Mentre si può andare con calma da amici cui la fortuna arride.

L'amicizia è comunione di vita

Il rapporto d'intimità costituisce il fattore essenziale dell'amicizia come la vista dell'amato è la sensazione preferita dagli amanti. Qualunque sia l'ideale di vita e di felicità che unisce due amici ciò che più di tutto essi desiderano è vivere insieme, in una concreta intimità di vita, in cui si attui la loro profonda comunione affettiva e spirituale.
La conclusione del filosofo è che se l'amicizia in cui hanno intimità uomini perversi è necessariamente perversa. L'amicizia invece in cui hanno intimità uomini virtuosi è necessariamente virtuosa.


Andando oltre Aristotele, possiamo concludere dicendo che la vita buona, cioè virtuosa, è la vita felice. Se agiamo bene troveremo la felicità.


50° Anniversario della fine del concilio Vaticano II: ‘TIBI DABO CLAVES’ (di Lino Di Stefano)

   In quest’ultimo saggio – Pensieri filologicamente scorretti (Ed. Radio Spada, Milano, 2015) – lo studioso Piero Vassallo, che non ha bisogno di nessuna presentazione, affronta, da par suo, una tematica di grande rilevanza teologica e culturale, in genere; quella relativa, cioè, ai rapporti tra Ebraismo e Cattolicesimo in occasione, altresì, del 50° anniversario della fine del Concilio Vaticano II.
   Relazioni mai idilliache secondo l’Autore ad onta, egli sostiene, del noto ‘buonismo’ di estrazione concilarista. Prefato da Piergiorgio Seveso secondo il quale “se è vero che non si può uccidere Dio, si può tentare di ucciderlo”; prova ne è, a detta di Proenca Sigaud, che “il giudaismo internazionale vuole scardinare la Cristianità e sostituirsi ad essa” tant’è vero che, prosegue il citato autore, certe” ‘destre politiche’, quali il fascismo e il nazionalsocialismo non furono che fasi di una medesima guerra contro la Chiesa di Cristo”.
   E veniamo, adesso, al libro di Piero Vassallo giudicato dal Prefatore quale ricerca “con coloriture spesso felici e con accenti sovente fecondi”. Ora, per Vassallo, se è auspicabile il dialogo fra Ebrei credenti e Cattolici fedeli alla tradizione, è parimenti criticabile l’affermazione di Bergoglio volta a dispensare gli “Ebrei dalla conversione  a Cristo”.
   Al riguardo, l’Autore menziona Padre Giovanni Cavalcoli - il quale conferma che oggi la Santa Sede ha “nei confronti degli Ebrei un atteggiamento di eccessiva indulgenza e quasi di adulazione” - non senza far riferimento, inoltre, al Pontefice Benedetto XVI. Questi, a detta di altri teologi, non esitò, in polemica con la Sinagoga, a raccomandare le preghiere del Venerdì Santo per il ravvedimento degli Ebrei.
   Dopo aver respinto la posizione di Carlo Angelino diretta alla dichiarazione della morte del tomismo e quella di Eugenio Scalfari tesa ad esaltare l’Illuminismo contemporaneo basandolo su una “triade di anti-illuministi furenti, ossia Leopardi, Schopenhauer e Nietzsche”, l’Autore dà ragione ai teologi che, sulla linea tracciata dal Cardinale Siri, “nella centralità del problema costituito dal conflitto che oggi oppone le diverse correnti della cultura ebraica vedono un segno apocalittico”.
   Criticata, a questo punto, la posizione di Ben Gurion intorno al mondo musulmano perché incentrata sul principio della “comune origine biologica”, l’Autore riferisce anche sul cosiddetto ‘caso Mortara’, bimbo ebreo  sottratto alla famiglia per farne un sacerdote, non senza porre l’accento, ancora, sulla presa di posizione di Papa Ratzinger che, nella Sinagoga di Colonia, auspicò una sempre maggiore conoscenza fra Ebrei e Cristiani.
   Riferendosi, poi, a Gershom Scholem – facente parte insieme con Benjamin Bloch, Marcuse, Jonas e Taubes della schiera dei pensatori eterodossi sostenitori delle svolte sessantottine della moderna rivoluzione – l’Autore parla, appunto, di Scholem come conoscitore di autori e testi neo-platonici e quale commentatore, inoltre, del testo ebraico ‘Zohar’, ampia raccolta, di trattati scritti da un ebreo esule in Spagna tra il 1265 e il 1285.
   Estimatore, com’è noto, del grande Pontefice Pio XII, Piero Vassallo difende quest’ultimo dalle diffamazioni provenienti da più parti e relative alle presunte simpatie del Papa per il nazismo laddove è notorio che già dall’Enciclica ‘Mit brenner der Sorge’ (con pungente preoccupazione) – ispirata dall’allora Cardinale Pacelli – si evincono gli atteggiamenti anti-nazionalsocialisti ed anti-comunisti del futuro Vicario di Cristo. E ciò, in perfetta, opposizione alla diceria di Pio XII amico del Fuehrer. L’Autore affronta pure la problematica delle ‘mitologie intorno al delitto umanitario’ soffermandosi sul pensiero di Alexandr Solzhenitsin per il quale il regime di Stalin non era migliore di quello di Hitler.
   Da qui, l’equazione dei due ‘Leviathan’ di hobbesiana memoria, ma da qui, anche la concezione della studiosa ebrea Hanna Arendt  “la quale – parole di Vassallo – riconosceva che gli Ebrei, nel XX secolo, sono stati attori del gioco storico alla pari con gli altri popoli”, coinvolti in tali errori.
   Dopo aver prodotto i dovuti rilievi alla concezione del mondo del marxismo e reso i dovuti riconoscimenti al filosofo Carlo Costamagna con l’asserzione secondo cui “la condanna del lavoro di qualità è la condanna dell’intelligenza”, l’Autore si accomiata dal lettore menzionando sia Giovanni Paolo II – a detta del quale la “Shoah fu opera di un tipico regime moderno neopagano” – sia l’eresiarca Marcione inventore di una teologia dualistica di probabile stampo persiano pre-Islam.
   Le ultime pagine della ricerca di Piero Vassallo si chiudono con un ‘excursus’ sul pensiero di Simone Weil - proteso a dichiarare la propria estraneità alla teologia della Sinagoga e la consequenziale adesione al Cristianesimo marcionita – e col doveroso omaggio al pensatore e teologo  Cornelio Fabro secondo il quale “il popolo d’Israele sopportò con disagio l’altezza della sua eccelsa vocazione e preferì trasformare il regno spirituale nell’ambizione di un dominio temporale e politico”.

   Redatto con la consueta acutezza concettuale e con il solito brio letterario, il libro in questione si fa leggere tutto d’un fiato a conferma, se ve ne fosse bisogno, anche delle solide basi teologico-speculative dell’Autore.

Lino Di Stefano

L'ESTREMA SPERANZA (di Piero Nicola)

  Probabilmente la maggioranza dei cattolici irlandesi ha optato per la legge che parifica il matrimonio tra omosessuali e quello tra uomo e donna. Di certo, essi non vi si sono opposti secondo il loro dovere. Da quasi tutti gli organi d'informazione è trapelato il plauso per l'esito del referendum, altrimenti ne hanno dato l'annuncio come si trattasse d'un inevitabile riconoscimento dello sviluppo dei diritti umani. Qualcuno ha notato che ancora pochi anni or sono la sodomia, laggiù, era punita dalla legge.
  Il primate di Dublino ha osservato, senza disturbo, l'ineluttabilità dell'adeguamento alle insopprimibili istanze sociali. In sostanza, egli si allinea con quei vescovi e cardinali indisposti ad ammettere d'essere malati di storicismo, i quali, pure al sinodo sulla famiglia, piegherebbero la pastorale misericordia alle esigenze del divorzio e delle altre unioni illecite dei fedeli, considerate intangibili,  non sanabili mediante i superati rimedi dogmatici.
  Roma è pure brillata per la sua diserzione. Vero è che ultimamente Bergoglio e la Cei avevano ricordato che il matrimonio dev'essere quello di sempre, ma si sono astenuti: prima dall'intervenire affinché il referendum in Irlanda non prendesse la brutta piega, poi dal condannarla.
  In tempi normali, quando vennero scomunicati gli aderenti al comunismo, si sarebbe prevista la scomunica per quanti avessero acconsentito empiamente col proprio voto all'unione civile tra persone dello stesso sesso. Infatti, non si vede la differenza tra chi professa una dottrina sociale atea ed iniqua, e chi sancisce col suo potere elettorale l'esercizio di un peccato che grida vendetta al cospetto di Dio.
  Però occorre rammentare che già in occasione del referendum sul divorzio in Italia, avvenne un'analoga inammissibile omissione.
  Il figlio della Chiesa militante, che ubbidisce al Catechismo irreformabile di San Pio X, deve preoccuparsi dei membri viventi della Comunione dei santi, non solo pregando e chiedendo orazioni per gli afflitti dai vizi e per le conversioni, ma facendo esteriormente tutto quello che è in suo potere di fare.
  A tal fine, necessita avere contezza della condizione in cui stanno i presunti credenti: quella massa resa sorda da un magistero destituito d'autorità, conformatosi all'andazzo del mondo, e da un conformismo ignavo, rassegnato al peccato, quand'anche il senso del peccato non sia per essa smarrito.
  Predicare ai non aventi orecchie per intendere può talvolta non essere vano; tra loro ci sarà qualche indeciso, qualche recuperabile. Tuttavia illudersi riguardo agli altri sarebbe irragionevole. Dovremmo sperare contando sui detti di Gesù: "Se non avessero sentito, non sarebbero colpevoli", oppure "Perdona loro perché non sanno quello che fanno"?
  C'è da chiedersi se davvero in molti non abbiano sentito la voce della verità e non sappiano quello che stanno facendo. La dottrina cattolica ammette la buona fede e l'ignoranza invincibile. Sono due stati difficili da appurare quanto è difficile che si verifichino. Inoltre, quando essi non menassero alla salvezza - e della salvezza delle anime occorre preoccuparsi - sarebbero inutili. Se i peccatori (tutti lo siamo) sono stati redenti per mezzo della Chiesa Madre e Maestra e per mezzo dei Sacramenti che procurano la Grazia, non è dato presumere che i molti si salvino diversamente.
  Adesso, la veridica predicazione scompare, i confessionali sono disertati, le comunioni sacrileghe abbondano. Dunque, si riduce a niente la speranza che si apra una retta via e che la contrizione possa supplire agli efficaci Sacramenti per quegli sconsiderati e pedissequi elettori che, partecipando ad un suffragio universale, intendono ottenere l'approvazione d'un'orribile rivolta contro la Divina Volontà. Interrogato l'uomo della strada dal solito galoppino televisivo, il passante risponde che giustamente da noi le strane coppie saranno equiparate a quelle eterosessuali, essendo ciò avvenuto, allargandosi a macchia d'olio, nei paesi progrediti. E questa volta c'è da credere che sia probante il campione preso sul marciapiede.
  Anziché benedire l'ignoranza, beata o no (l'essere umano è per natura inclinato al male) e promettere una grazia salvifica piovuta dal cielo, il Salvatore ordinò di pascere le pecorelle e la missione recante la Buona Novella. Perciò ben vengano gli ancor timidi risvegli di prelati dimoranti nella deviata gerarchia, ben vengano i contrasti nel sinodo che sarà ripreso in autunno.
  Confidiamo specialmente che essi possano sentirci, noi semplici laici sottoposti a pastori non mercenari, dando noi estensione ai loro intendimenti affinché siano sollecitate le coscienze più atte a convertire, trovandosi nel suo interno, il corpo morto e pestifero, che dovrebbe e potrebbe essere vegeto e vivificante.


Piero Nicola

martedì 26 maggio 2015

IL DRAMMA E’ CHE LA DESTRA E’ DIVENTATA ANTIITALIANA (di Paolo Pasqualucci)

(Dialoghetto che si spera indigesto a baciapile, austriacanti, neoborbonici ed antiitaliani di ogni tipo, sciolti e a pacchetti) 


- Ma no, che dite, antiitaliana? Antiunitaria solamente…
- Chi è oggi contro l’unità per tornare all’Italietta preunitaria detesta evidentemente gli altri italiani, non vuole avere nulla a che fare con loro; vorrebbe tornare ad un paese nel quale c’erano (nell’Ottocento) otto dogane interne, otto sistemi monetari…
- Suvvia, non esageriamo…
- E in aggiunta la sudditanza perenne, diretta ed indiretta, all’Austriaco, all’Inglese, al Francese, a chi più vi piace.
- Si vuol solo riparare a ingiustizie storiche con un giusto federalismo.
- Fesserie sesquipedali e bugie.  Il federalismo ha funzionato in Italia solo ai tempi della Repubblica degli antichi romani.  Guardiamo alla storia:  i vari Stati italiani non sono mai riusciti a coalizzarsi contro lo straniero.  E nemmeno tra di loro per realizzare comuni sfere d’influenza.  Pensiamo a Genova e Venezia. Nel Medio Evo avevano due formidabili flotte.  Dividendosi le zone d’influenza mercantili e alleandosi avrebbero messo insieme un possente potere navale, capace di dominare l’intero Mediterraneo.  Invece si sono sempre fatte spietatamente la guerra, dimostrando una cecità politica assoluta.   Bugie, poi, poiché oggi il “federalismo” serve solo a mascherare egoismi locali (i succulenti posti di governo e nell’amministrazione delle regioni) e aspirazioni secessioniste.  La Giunta Veneta ha richiesto non molto tempo fa alla Corte Costituzionale di poter effettuare un referendum per  l’“autonomia differenziata” ossia per la secessione.  Quando si dice l’ipocrisia…
- Ma la Corte di sicuro non accoglierà una richiesta così demenziale…
- Con la Corte di oggi non si può mai dire.  Se l’accogliesse, la pronuncia della Corte dovrebbe ritenersi comunque nulla perché attenterebbe alla forma repubblicana stessa, che la Costituzione dichiara non passibile di modifica costituzionale, se non erro.  La “forma repubblicana” include l’unità dello Stato. L’unità della Repubblica non può pertanto esser oggetto di revisione costituzionale.
- Giusto.  “Ma non ebbero ragione anche Pio IX, Francesco II e quanti altri sino ad ora rivendicano i loro diritti e adducono i motivi  per cui il Risorgimento fu indegno del suo nome”?  Così dicono gli antiunitari.  Vi sembra che sbaglino?
- Ebbero ragione il Papa e il Borbone a protestare, anche se avrebbero fatto meglio a dotarsi di uno Stato e un esercito efficienti, dimostrandosi capaci di difendersi da soli, invece di ricorrere sempre alle potenze straniere per restare a galla.  Era dal Sacco di Roma (1527), provocato dall’inettitudine e pusillanimità di Clemente VII, che il Papa non era più in grado di difendere il proprio Stato, i cui confini i re e imperatori “cattolici” e “cristianissimi” violavano tranquillamente, con vero e proprio martirio delle disgraziate popolazioni, ogni volta che dovevano combattere le loro “Guerre d’Italia” per spartirsi la roba nostra.  Ma quelli che tuttora rivendicano  “i loro diritti” vogliono evidentemente sfasciare l’Italia.  Perché, che altro significa o g g i  “rivendicare i loro diritti” se non auspicare il ripristino dello Stato della Chiesa, del Regno di Napoli, di ducati e granducati et similia, naturalmente in forma ammodernata?  Vogliono un ritorno all’Italia del 1859, camuffato da regionalismo o federalismo all’insegna della modernità e della democrazia.
Ricordo poi agli smemorati che con i Patti Lateranensi il Papa ha espressamente perdonato il popolo italiano e lo Stato italiano per le spoliazioni e angherie subite al tempo della realizzazione dell’Unità…
- Il Papa ha perdonato, voi dite…
- Signorsì, leggetevi i documenti.  Ha tirato un rigo, chiudendo una pagina dolorosa, per la soddisfazione e la gioia di tutti…Lui ha perdonato, non hanno invece perdonato ultramontani, neolegittimisti, neopapalini, sedevacantisti e neocatecumenali…La loro avversione per l’Italia è ontologica, eterna ed immortale, come l’antifascismo dei nostri sciagurati Costituenti…
- Vi sembrano faziosi come gli antifascisti? Voglio dire, non quelli (molto pochi) che hanno coraggiosamente affrontato l’autoritarismo mussoliniano durante il regime ma quelli dello spirito “resistenziale”, gli azionisti, i dossettiani, i comunisti, insomma “i partigiani” in servizio permamente ed effettivo…    
- Non si tratta di pesare con il bilancino del farmacista chi sia più fazioso tra costoro.  È un fatto, che l’avversione all’Italia e agli italiani da parte della galassia antiunitaria coagulatasi in questi ultimi anni appare davvero impressionante, di una faziosità che rasenta l’odio. 
- Addirittura…
- Bastare leggere una saggistica che tutti ben conosciamo…Sembra scritta da indemoniati…
- Be’, questo non l’accetto proprio…Indemoniati, via…Perché non ammettete, invece, che questa saggistica, per quanto assai polemica e forse anche faziosa, ha comunque reso giustizia ai vecchi Stati italiani, trattati come subumani e retrogradi dalla storiografia dei vincitori, appestata dal verbo massonico del progresso e della democrazia, nonché dall’anticlericalismo.
  - Lo ammetto tranquillamente.  Ma anche storici liberalconservatori come Gioacchino Volpe (un grande storico) hanno sempre messo in rilievo il difetto di fondo del nostro Risorgimento e le sue manchevolezze:  l’unità è venuta come di colpo e per il Sud nella forma brutale di una conquista militare seguita al crollo interno dello Stato, alle prime cannonate tirate da Garibaldi.
- E allora?
- E allora, cosa?  Per via dei difetti iniziali, dobbiamo sfasciare tutto e consegnarci per metà all’Unione Europea dei banchieri e delle lobbies gay, femministe e abortiste, e per metà all’Africa?
- I veri federalisti vogliono un federalismo che mantenga lo Stato unitario, rendendolo più agile, migliorandolo…
- Bravo, ma ce ne sono in Italia?  Tornando poi alla rivalutazione del passato preunitario, affermo che si sono fabbricati miti di segno opposto a quelli imposti dai liberali unitari.  Gli Stati unitari appaiono una sorta di isole felici, di incontaminata Arcadia, che Papi, Borbone, duchi e Granduchi, dogi e gondolieri avrebbero tenuto per secoli al riparo dai mali del progresso, dell’industrializzazione…
- Be’, almeno in parte, non era vero?
- Quand’anche lo fosse stato, si dimentica a bella posta o per ignoranza della storia l’altra faccia della medaglia, quella sulla quale si sono concentrati invece gli unitari, i liberali di un di’: nella seconda metà del Settecento l’impressionante decadenza dei due più antichi Stati italiani, Venezia e il Papa; l’Italia afflitta dal brigantaggio endemico per secoli dalla Romagna alla punta della Calabria, dall’analfabetismo, dalla malaria, economicamente sempr fragile e succube delle Potenze, con le coste devastate per secoli dai pirati arabi musulmani (che ancora alla fine dell’Ottocento facevano qualche incursione dalla Libia, essendo stata l’Algeria occupata dai Francesi, per nostra fortuna); abitata da un popolo che non poteva coltivare nessun vero, grande ideale, rinchiuso nel provincialismo più gretto, disprezzato da tutti per il suo carattere imbelle…Non bisognerebbe rileggere il saggio di Leopardi sui costumi degli Italiani?
- Quale Leopardi, Monaldo?
-Ah, lo sapevo…Ma si tratta di Giacomo, suvvia!  Il grande poeta, che ha scritto un bel saggio sui costumi degli Italiani del suo tempo, pagine che andrebbero meditate.
- Leopardi, il gobbetto pessimista, imbrattacarte, condannato a soddisfarsi con le meretrici perché nessuna donna se lo filava, a causa del fisico disgraziato…
-  Ma posso io continuare a discutere con voi, anzi con lei, che preferisce a Leopardi poeta Leopardi padre, un caso classico di ottusità reazionaria, spinta a livelli demenziali nel suo ben noto Catechismo politico?  Uno che diceva esser la Patria nient’altro che il campanile del villaggio natio, la cui difesa doveva affidarsi agli stranieri cioè agli Austriaci?  Uno che non riusciva a vedere non dico lo Stato ma nemmeno la Nazione?  Certo, è uno dei misteri della Natura come un padre così fesso abbia potuto generare un figlio così geniale, sicuramente un grande poeta, comunque lo si giudichi a causa del suo pessimismo cosmico.  Il merito deve attribuirsi interamente alla madre.
-  Non continuiamo, guardi, se no veniamo alle mani…


Azazello
(Paolo Pasqualucci)

Irène Némirowsky: La Russia cristiana nella morsa dei totalitarismi

 La scrittrice russa Irène Némirowsky (Kiev 1903 - Auschwitz 1941),  apparteneva a una famiglia di ricchi banchieri ebrei, che si erano rifugiati in Francia perché refrattari e ostili alle suggestioni dell'ideologia leninista. Prima di essere battezzata (2 febbraio 1939) Irène fu risoluta critica dell'ebraismo bancario e/o sovietico, e testimone di una fede cristiana ardente.
 Irène, dopo essersi laureata alla Sorbona, cominciò a scrivere rivelando una singolare attitudine alla narrazione. Nel 1931 la casa editrice parigina Grasset & Frasquelle pubblicò i suoi primi scritti, che furono apprezzati da Robert Brasillach, Pierre Drieu La Rochelle e Paul Morand. Nello stesso anno iniziò la collaborazione con il giornale di destra Candide. Il suo romanzo David Golder, è un veemente, splendido atto d'accusa contro il sordido culto del denaro. Un libro che non dovrebbe mancare nella biblioteca di una destra rientrata in sé stessa, dopo l'incauto viaggio nel capitalismo.
 I nazisti non capirono e non rispettarono la grandezza della scrittrice in rivolta contro la mitologia comunista. Nel 1941 Irène, morì di tifo ad Auschwitz, dove era stata deportata da fanatici  posseduti e accecati dal criminogeno delirio razzista.
 Dimenticata dal potere culturale esercitato ferocemente dalla lobby progressista, ostile alla fede cristiana e incapace di contemplare l'anima russa senza il filtro sovietico e antifascista, la narrativa della Némirowsky è stata riscoperta e pubblicata dopo il tramonto della mitologia marxista-leninista.     
 L'opera di Némirowsky è una magnifica testimonianza indirizzata ai fedeli risparmiati dai morsi velenosi della porno-banca, il potere che infuria a est e ad ovest del conformismo squillante e trionfante nella fedeltà al secolo sterminato.  
 La protagonista del suo avvincente romanzo breve, "Come le mosche d'autunno", è la serva Tatjana Ivanovna, vissuta nella luce di una fede che contemplava l'Onnipotenza del Signore - Tutto è nelle mani di Dio ripete ogni volta che si presenta una situazione difficile - una perfetta figura dell'anima russa, una credente simile a Matrjona, la protagonista del più commovente racconto scritto da Alexandr Solgenitsin. Serva fedele degli aristocratici padroni, i Karin, persone vulnerabili, trascinate dal vento impietoso della grande guerra e oppresse dalla rivoluzione sovietica, Tatjana è estranea e separata dalla storia che sciorina vane illusioni, inutili violenze e umilianti viltà. La sua fede nel Signore Gesù passa attraverso la cruna di una pietà eroica verso i suoi padroni, che escono dalla storia russa sconfitti ed esausti come le mosche d'autunno.
 Nei padroni solidi e ricchi prima di essere travolti dal furore rivoluzionario, Tatjana aveva rispettato, obbedito ed amato il suo destino di serva. Quando sui padroni scese l'ombra della sconfitta, la serva fece di loro l'oggetto di una misericordia senza confine. Rimasta in Russia per custodire il tesoro dei padroni emigrati in Francia, Tatjana, vista l'impossibilità del loro rimpatrio, affrontò un viaggio rischioso e faticoso allo scopo di consegnare i diamanti da lei custoditi. 
 Le pagine della scrittrice russa possiedono una bellezza sconvolgente, illuminata da una ammirevole semplicità. Narrano la fede e la lealtà degli umili e svelano le radici cristiane della loro refrattarietà all'odio di classe.
 Una privilegiata immunità, sconsiglia a Tatjana l'appropriazione rivoluzionaria delle ricchezze appartenute ai vecchi padroni, che l'anziana serva invece raggiunge a Parigi: "La vecchia Tatjana partì per Odessa con i gioielli cuciti nell'orlo della gonna. Per tre mesi camminò di strada in strada, come quando, ai tempi della sua giovinezza, andava in Pellegrinaggio a Kiev, salendo a volte su treni di affamati che cominciavano a scendere verso sud. Arrivò dai Karin una sera di settembre. Mai avrebbero scordato il momento in cui lei aveva bussato alla porta e aveva fatto la sua comparsa, sfinita ma tranquilla, con il fagotto sulla schiena e i diamanti che le sbattevano contro le gambe stanche". 

 La lettura dei capolavori di Némirowsky si raccomanda in modo speciale ai cattolici frastornati dalle alte prediche/chiacchiere, che nascondono sotto i fumi della teologia della liberazione dalla misericordia  le splendide risorse religiose della povertà vissuta e accettata cristianamente. E consigliata. infine, agli studiosi che ignorano o negano ostinatamente/colpevolmente l'abissale distanza che corre tra buona destra e nazismo.   

Piero Vassallo

IL DRAMMA DELL'UNITÀ D'ITALIA (di Piero Nicola)

I sostenitori dell'unità nazionale, realizzata assai col Risorgimento e compiuta con la Grande Guerra, hanno ragione. Non bisogna disconoscere i buoni motivi per cui si doveva comporre uno Stato del Bel Paese delimitato dal mare, in cui si protende, e dall'arco alpino. La Storia, le tradizioni, la cultura, bensì espressa dalla lingua scritta e la geografia deponevano favorevolmente per l'unione delle popolazioni italiche, in principio divise dalle invasioni barbariche, quindi arabe e normanne. Già nel 1002 una coalizione di vassalli contrari all'Impero germanico aveva eletto Arduino d'Ivrea re d'Italia. E questo titolo egli cercò di mantenere tra guerre e contese, sino alla sua definitiva sconfitta nel 1014.
  Come osservò il bravo storico Piero Operti nel suo Il condottiero - Vita eroica di Bartolomeo Colleoni (1937), all'epoca dei condottieri le forze italiane avrebbero avuto modo di allearsi, dando vita a un'indipendenza nazionale, a quella patria coesione giustificata da un comune sentimento di appartenenza che la distingueva dallo straniero.
  Ma non ebbero anche ragione Pio IX, Francesco II e quanti altri sino ad ora rivendicano i loro diritti e adducono i motivi per cui il Risorgimento fu indegno del suo nome?
  Il punto debole, se non debolissimo, dell'accorpamento di regni grandi e piccoli compresi tra l'orlo superiore e il tacco dello Stivale, incluse le isole, sta appunto nel modo, nel procedimento armato, irrispettoso, bugiardo e sovente empio. Fatto che giunge a noi tutt'altro che trascurabile. Per quanto a chi ricevette l'opera parzialmente incompiuta spettasse di terminarla, poteva ignorarne gli iniziali misfatti?  Dovremmo forse approvare il machiavellismo perpetrato dai Savoia?
  A cominciare dal Re Travicello le imposture non si contano. Seguirono le mistificazioni politiche (l'abuso della libertà) e le denigrazioni, raccolte e fatte proprie da cosiddetti padri della patria e da letterati e pensatori sedicenti cattolici o socialisti.
  Acquistò credito la diceria dell'arretratezza, dell'oscurantismo, della tirannia dominanti nel Regno delle Due Sicilie e nello Stato della Chiesa. Quivi, in particolare, si fece apparire schiacciata dall'ignoranza, dall'ingiustizia e dall'immobilismo una vita sociale ordinata e tranquilla, preservata dalle sopraffazioni della rivoluzione industriale e dalle corruzioni rivoluzionarie, estranee fin dall'avvento di Napoleone e risolte nel ripristino della normalità restaurata senza troppi inconvenienti.
  Tralasciamo i discorsi di Pio VII, le accuse di Gregorio XVI, le proteste di Papa Mastai Ferretti e di altri eminenti personaggi, che erano parti in causa.
  Spesse coltri di sprezzo e d'oblio furono a lungo stese su testimonianze ben più attendibili di quelle dei soliti retori, aventi il vento in poppa della parte vincente, traditrice o malata di dabbenaggine, purtroppo comoda. Trista e ben nota faccenda di liberatori votati a soccorrere gente che non ha bisogno d'essere liberata, né vorrebbe esserlo.
  Il verace e non sospetto di clericalismo Alfredo Panzini (Senigallia 1863-Roma 1939) introducendo il romanzo Il libro dei morti, ambientato in Romagna nella seconda metà dell'Ottocento, dice a proposito della ristampa: “Di quel malessere che confusamente provavo davanti alla civiltà nel 1890, di quell’amore che avevo allora di una vita più sana, più semplice, più umana (cioè più religiosa) non ho a pentirmi nell’anno 1920”.
    Diamo un'occhiata al Prologo: “Ai nostri tempi (nel secolo diciannovesimo) vi fu un uomo credente che aveva nome G. Giacomo il quale, non a malincuore, ma lietamente fece la sua scolta in questo breve periodo de la vigilia dei sensi, ed amò la vita e gli piacque di vivere. Egli era cresciuto secondo certe massime semplici, che sono il fondamento dell’Evangelo, perdurando in quelle più di settant’anni; ed inconsciamente le aveva contemperate con le leggi della natura, senza che queste si trovassero in disaccordo con quelle; anzi le une si avvalorarono per virtù de le altre con felice armonia. Ma ciò avvenne perché egli fu un uomo semplice […] e la sua fede era troppo viva per venire a contrasto con la ragione; la quale era molto rimessa e più intenta a le piccole cose de la vita che a speculare di metafisica”.
  La vicenda disegna un mondo violato, mette a confronto due visioni sincere, non capricciose: la tradizionale, in urto forzato con la modernità, e la progressista. Quest'ultima non ne esce affatto bene. Il tema della modernità torna nelle opere panziniane con esiti analoghi. Essa si risolve positivamente soltanto in coincidenza con il Concordato del 1929.
  Ugualmente si accede alle sorprendenti, calme atmosfere del Regno papale, ne Il volontario di Pio IX, cronaca autobiografica che verte sulle battaglie concluse con l'assedio di Roma nel 1870, redatta dal volontario Antonmaria Bonetti, pubblicata dal Centro Librario Sodalitium nel 2007.
  Il romano Antonio Baldini (1889-1962) non fu sospetto di partigianeria, avendo dedicato un volume (Il sor Pietro, 1941) commemorativo del patriottico e protestante Giampietro Vieusseux, fondatore del celebre Gabinetto fiorentino, ritrovo di artisti d'ogni colore, ospitati anche nella sua rivista Antologia. Baldini, factotum della Nuova Antologia, diretta da Luigi Federzoni e continuata nel dopoguerra, nel 1946 pubblicò la raccolta di vecchie prose La Toscanina, cui appose questo preambolo:
    “Cent’anni giusti fa […] Giuseppe Giusti scriveva […] ‘Se non fossero le strade ferrate che ora infilano la città da due parti e ci saettano qualche rumore di vita, mi parrebbe di essere in una di quelle isole staccate da noi per lungo intervallo di mare, nelle quali sognarono i poeti che abitassero il Sonno, il Silenzio e le vuote larve dei trapassati’. Sono di quel tempo le sestine di quell’Amor pacifico, che eravamo quasi tentati […] di mettere come Preludio avanti alle pagine qui raccolte […] Quieta, ordinata, senza debiti, adusata da tempo alla blandizie lorenese, la Toscana non aveva, fino allo scoppio del Quarantotto, subìto scosse rilevanti, procedendo ancor essa ma per mutazioni lentissime sulle vie del Progresso. Dopo il Quarantotto le cose vi si misero a camminate in fretta […] Ma il ricordo e il gusto dell’antica vita […] rimasero lungamente come lievito di felici ispirazioni negli scrittori toscani: e non pure di quelli nati sotto gli ultimi Granduchi […] Se nella nostra raccolta abbiamo concesso maggiore spazio alla fiaba di Narciso Feliciano Pelosini […] è appunto perché essa esprime in forma epico-patetica lo sbalordimento e la pena di quella così rapida mutazione di eventi e di sentimenti […] E oggi che gli scrittori italiani à la page americaneggiano a tutto spiano – e non ci sarà magari niente di male, ma già molti dàn cenno di averne abbastanza – questo libro, che riporta alla ribalta alcuni dei più schietti e riposati scrittori del nostro Ottocento, pensiamo che possa incontrare grata accoglienza”.
  Il novelliere Pelosini immaginò il magico risveglio all'esistenza terrena di un trapassato, Maestro Domenico che, addormentatosi nel Granducato di Toscana, si ritrova nel Regno d'Italia. La finzione letteraria riaffaccia il salto di qualità tra un seguito dell'Ancien Regime e il regime che lo ha scalzato. L'evidenziata perdita religiosa e civile dipese ben poco dalle conseguenze dello sviluppo di scienze e tecniche (come si dimostrò nel Novecento in quei paesi che seppero contemperare la tradizione al progresso), ma dalla falsità del liberalismo, dalla sua sovversione, dal suo deplorevole lavaggio dei cervelli.
  Maestro Domenico ha avuto una recente ristampa presso l'Editore Solfanelli, con prefazione di Giannandrea de Antonellis.


Piero Nicola

lunedì 25 maggio 2015

IL MIRAGGIO GLOBALE E IL DESTINO DELL’OCCIDENTE (di Costantino Marco)

La immigrazione dall’Africa di migliaia di profughi di fame e di guerra occupa le cronache quotidiane politiche e dei giornali per il suo carattere eccezionale in senso quantitativo e per le modalità rocambolesche della sua effettuazione. I più solerti chiacchieroni ripetono che si tratti di una nemesi del colonialismo europeo che avrebbe devastato il Continente nero in illo tempore, sfruttando da allora le risorse locali a vantaggio dei popoli occidentali.
A parte che la logica dello sfruttamento sistematico delle risorse umane e naturali da parte della metodica capitalistica non si applica in esclusiva o preferenzialmente a nessun territorio e popolo della terra, ma agli stessi territori e popoli che l’hanno adottato come cultura dominante e stile di vita, vi è da dire, a proposito dell’Africa, che è stato il suo abbandono a se stessa la colpa storica maggiore dell’Occidente, e non già il suo controllo ragionevole. 
Per “controllo ragionevole” si intende quella influenza politico-culturale che l’Occidente sin dai suoi albori filosofici ha inteso costituire come cifra del suo proprio télos originario, consistente “nella volontà di essere un’umanità fondata sulla ragione filosofica”, intesa come una condizione non “casuale in mezzo ad altre umanità e ad altre storicità completamente diverse”, ma in quanto il processo stesso di quella “entelechia che è propria dell’umanità come tale” e che per prima si rivelò nell’umanità greca. Sulla base di questo presupposto metafisico universalistico che fonda l’antropologia razionalistica occidentale, “se l’uomo è un essere razionale, lo è soltanto se tutta la sua umanità è un’umanità razionale”, per cui la filosofia e la scienza occidentali sarebbero in tal senso “il movimento storico della rivelazione della ragione universale, innata come tale nell’umanità”.
Queste radicali parole dell’ebreo tedesco Husserl, maestro di Heidegger e una delle menti più brillanti del Novecento, mettono a fuoco già intorno agli anni Venti del secolo una questione che rimane decisiva per le sorti non soltanto dell’Europa ma di quelle regioni del mondo che ancora vedono nel Vecchio continente il luogo di approdo delle loro precarie condizioni di esistenza in quanto forma di civiltà superiore. Un po’ come accadde durate la Guerra fredda, quando la tendenza a espatriare era sempre nel senso da Est verso Ovest, riconoscendo all’Occidente uno stile di vita superiore a quello comunistico.
Ma di questa sua supposta superiorità storica, i popoli occidentali hanno ancora consapevolezza, oppure appartengono ormai a quella umanità  non più “radicata in un terreno” culturale e al contrario già “franata in se stessa”? La questione è ben più rilevate di ogni questione geo-politica incentrata sulla premessa puramente ideologica che il senso presente della realtà sia anche l’unico senso storico possibilmente immaginabile e perseguibile, e investe i destini stessi dei popoli cosiddetti “in via di sviluppo”. 
Infatti, se la colonizzazione europea era moralmente giustificata dall’identità metafisica dell’Occidente razionalista, la de-colonizzazione è stata il risultato contraddittorio dello spostamento del baricentro politico occidentale dall’Europa agli Stati Uniti che ha semplicemente sostituito questi agli Stati europei nel controllo mondiale. Ma con una differenza fondamentale: che quella americana è una forma di civiltà che nel complesso è tecnologicamente più avanzata rispetto a quella europea tra le due Guerre, ma culturalmente più arretrata, e cioè meno evoluta storicamente e non in grado di elaborare valori originali e in grado di soppiantare o comprendere quelli di maggiore stratificazione spirituale, in quanto la sua Weltanschauung è basata su fondamenti illuministici che hanno potuto far presa in Europa dopo la seconda Guerra mondiale perché rivolti alle coscienze europee intellettualmente più elementari e meno raffinate, quali quelle delle masse, già portate in auge dalla nazionalizzazione fascista ma di prima o molto recente alfabetizzazione e dunque pressoché del tutto ignare della complessità problematica della questione culturalmente cruciale “se l’umanità europea rechi in sé un’idea assoluta o se non sia un mero tipo antropologico empirico come la Cina o l’India; e inoltre, se lo spettacolo dell’europeizzazione di tutte le umanità straniere annunci la manifestazione di un senso assoluto rientrante nel senso del mondo o se non rappresenti invece un non-senso storico”.
Questo problema sollevato da Husserl è stato rimosso in Europa dopo la seconda Guerra mondiale per una sorta di complesso di colpa, e risolto in senso sommariamente positivo da coloro che, custodi simbolici dei suoi valori umanitari in nome dei quali hanno sconfitto la minaccia fascista al loro modello nazionale di vita, si sono sentiti eredi della civiltà universale europea, e anzi i nuovi colonizzatori imperiali del mondo.
Le masse europee, devastate dalle guerre mondiali e quindi sedotte dal benessere economico americano che era stato da sempre il miraggio plebeo dell’emigrazione trans-oceanica, hanno adottato repentinamente istituti giuridico-politici democratici e modelli culturali individualistico-capitalistici nella intuitiva consapevolezza che sarebbero stati gli unici storicamente alla portata della loro ascesa socio-economica, escludendo sistematicamente l’influenza socio-politica delle antiche classi dirigenti europee di origine medievale e che erano state ancora il modello spirituale dei popoli europei fino alla prima metà del ‘900.
La strategia americana di aggirare l’ostacolo delle culture locali tradizionalmente dominanti, evitando di confrontarsi con la coscienza elitaria europea per rivolgersi direttamente al popolo elettore e consumatore, è tanto apparentemente politicamente efficace quanto storicamente ingenua, perché fondata sul presupposto antropologico di cui parlava Husserl, che cioè nel destino razionalistico sia inscritto il destino dell’umanità, ma interpretandolo in una chiave di lettura tecnocratica che filosoficamente è disastrosamente sbagliata e che costituisce il peccato originale della civiltà europea di origine greca. Nel senso che la ragione filosofica che sostiene i destini dell’umanità non è necessariamente la ragione tecnica partorita dalla logica dialettica platonica, la quale, procedendo per esclusione degli opposti, fornisce il modello teoretico della ragione politica, che concepisce i rapporti umani in termini di lotta e neutralizzazione delle opposizioni intese come l’altro e il diverso non razionalmente assimilabili.
Questa logica di assimilazione o eliminazione del diverso dialettico, universalizzata come criterio proprio della scienza politica e adottata come principio direttivo della ragion di Stato americana, pretende il controllo globale della storia umana, sul presupposto che a detenerne il modello metafisico sia la civiltà tecnologica  occidentale, la quale, in realtà, possiede soltanto una astratta immagine ideologica dell’homo faber intento a plasmare, con capitali e armamenti, il mondo caotico secondo le sue forme razionali, credute superstiziosamente le uniche “vere” e rispetto alle quali ogni altra è ritenuta sbagliata. E’ chiaro che tale pregiudizio fideistico neo-illuministico, per la sua astrattezza ideologica e pericolosità politica, ingeneri da parte dei popoli minacciati una reazione opposta di carattere religioso non meno fideistico, in grado di  fronteggiare con il suo dogmatismo fanatico l’opposto fanatismo e dogmatismo razionalistico.  
In questo drammatico scenario epocale, il ruolo attualmente eclissato dell’Europa può riavere una sua centralità proprio attraverso un profondo ripensamento della tradizione culturale che ha ingenerato la superstizione americana, a opera di una filosofia non socializzata a strumento ideologico del Potere, e quindi potenzialmente liberatoria dal mito contemporaneo del capitalismo provvidenziale.
Non ci sarebbe da cercare molto per trovare una tradizione di pensiero europea universalmente inclusiva e carismatica, opposta a quella esclusiva e formalistica oggi dominante in Occidente, ma basterebbe rivolgersi a quella cristiana, che sin dalle origini ha rappresentato la “follia” di una fede “assurda” per la ragione dialettica, ossia che l’uomo non sia solo ciò che mangia, cioè un “animale razionale”, ma è una “singolarità spirituale” in grado di pensare la verità dell’Essere. Nondimeno, per una critica radicale alla cultura razionalistica, occorrerebbe partire dalla considerazione che la stessa tradizione cristiana, per i suoi sincretismi filosofici greci, sia all’origine di tutti i fenomeni culturali della cristianità che, dalla forma imperiale romanistica a quella umanistica e infine alla attuale liberal-capitalistica, hanno segnato i processi ideali della civiltà occidentale, di cui il cristianesimo storico è l’antitesi morale ma non intellettuale.
Per questa fondamentale ragione, il pensiero cristiano non può inseguire il miraggio globale dell’ideologia razionalistica, che a suo tempo ha pure ispirato, concependo la propria cattolicità come un controllo religioso delle masse democratiche concorrente a quello capitalistico, diventando il mero correttivo etico al fatale corso storico del capitalismo globale, che così verrebbe confermato come provvidenziale. Sarebbe errore strategico e teologico ben più tragico della politica concordataria verso i regimi totalitari novecenteschi e della connivenza rassegnata al comunismo, poiché, se nel caso della politica delle democrazie totalitarie europee il mondo non ancora ideologicamente e tecnologicamente globalizzato poteva ancora contare su forti resistenze politico-culturali, nel caso delle odierne democrazie capitalistiche non ci sarebbero più alternative storiche alla totale socializzazione delle coscienze in senso tecnocratico. La forza liberatoria del cristianesimo deve invece manifestarsi nel perseguire un obiettivo di fede squisitamente impolitico, che è quello di riaffermare la centralità del kairòs evangelico quale modello assiologico essenziale della storia umana alternativo a quello empirico capitalistico; una Storia intesa come processo spirituale dell’Uomo universale, e non etico-politico dei popoli particolari. L’unità del genere umano, infatti, potrà conseguirsi solo in senso spirituale e trascendente le storiche particolarità empiriche, e giammai in senso etico-politico, esclusivo di quelle particolarità culturali e storiche caratteristiche dell’esperienza esistenziale dell’umanità.
Per giungere a questo obiettivo essenziale, il cristianesimo spiritualistico deve ritrovare la sua unità carismatica, e quindi superare in nome della fede comune unica e unitaria in Cristo Redentore le differenze storiche tra le diverse sue confessioni religiose. Ed è dunque imprescindibile stabilire all’uopo un rapporto coraggiosamente fraterno con la tradizione cristiana orientale, non meno martirizzata di quella occidentale dalle conseguenze storico-politiche degli errori di cultura teologico-religiosi. Solo assumendo su di sé la croce della espiazione culturale, il Cristianesimo potrà ritrovare quella centralità spirituale universale che nessuna delle ideologie storiche potrà mai avere, ma che nel tentativo di raggiungerlo esse potrebbero ancora fare tanto male all’umanità.
Nella nuova prospettiva cristocratica, le antiche diatribe teologiche tra le diverse confessioni storiche cadrebbero per auto-consunzione congiuntamente alle ideologie politiche di cui sono state il riflesso religioso temporale, la coscienza morale dell’errore culturale. Alla luce del nuovo corso spirituale, la politica europea del “controllo ragionevole” del mondo cambierebbe radicalmente di prospettiva, assumendo il compito non già di controllare le sorti politiche dei popoli locali in direzione della funzionalità del loro apporto economico al sistema di mercato globalizzato, ma bensì di includere l’esperienza delle culture particolari nella Storia eterna dell’Uomo, quali sue possibili espressioni culturali entro la sua dissimile ma unitaria vicenda universale.
Per sconfiggere ogni atteggiamento cinico rassegnato al nichilismo storico, basta pensare a come le vicende della storia etico-politica ripetano incessantemente gli stessi processi fallimentari per l’uomo, e a come il maggiore benessere materiale conseguito dagli strumenti tecnologici non restringa le aree di sofferenza, di pericolo e di insoddisfazione morale, ma le allarghi esponenzialmente, differendone la soluzione a un futuro che non arriva mai. E questo perché gli strumenti sempre più affinati perseguono fini con essi inconseguibili, perché di natura spirituale e non materiale. Debellare la fame, la povertà, le malattie equivale a sconfiggere la stessa finitezza della condizione umana, che non può essere negata come il negativo dialettico del bene della vita, ma solo trascesa da considerazioni dell’esperienza umana non fondate su tecniche in grado di allungare o estendere la vita biologica dell’uomo ideale, mondato di tutte le imperfezioni da modello fisiologico, ma a rappresentarla per come essa si chiarisce esistenzialmente. Il fine giustifica il mezzo a esso omogeneo, altrimenti sono reciprocamente incongrui. La qualità della vita non si misura con le cartelle merceologiche o cliniche, ma sulla base della sicurezza ontologica nei fondamenti spirituali della vita. Siamo certi che lo sradicamento culturale operato dai processi dell’ideologia capitalistica aiutino i popoli a condurre un’esistenza migliore? Se così fosse, perché il dramma stesso dell’Europa cristiana? Ma come poteva la fede cristiana affermarsi con gli strumenti della politica senza trasformarsi in religione ideologica? E come potrebbe liberare l’umanità dai limiti naturali una ideologia come quella capitalistica se fa dell’uomo lo strumento della produzione e del consumo che tengono in vita il sistema? 
Si è creduto per tempo che fosse stato il messianismo escatologico della religione il fomite della catastrofe antropologica del moderno. Oggi siamo passati dal servizio alla Storia al servizio al Mercato, ma l’uomo non è ancora mai al centro della esistenza storica. L’Europa, a poche generazioni dal disastro mondiale, riprende ad avere rigurgiti razzistici e xenofobi da cui pareva si fosse liberata avendo adottato ideologie e sistemi democratici. Ciò è intollerabile a una coscienza moralmente coltivata, ma anche comprensibile per chi sia stato allevato alle ideologie edonistiche del materialismo economicistico, che vede nell’uomo il consumatore o il concorrente potenziale, e dal politicismo della lotta partitica di massa, che insegna a scorgere nell’uomo il nemico anziché il convivente. Sono criteri perversi di concepire i rapporti umani, ma omologati dalle ideologie dominanti, accreditate a sua volta dalla tradizione culturale occidentale.
Le loro motivazioni teoriche non sono di dominio pubblico ma la logica che le sostiene si diffonde nelle masse e diventa mentalità corrente, dilagante e pervasiva come lo è l’istinto della specie non moralmente infrenato e corretto. Ma la scommessa della fede cristiana è di far emergere dal naufragio spirituale, operato dalla pedagogia dell’assuefazione all’innato gene egoista, la natura divina dell’uomo, la sua possibilità unica di concepirsi come coscienza del mondo e testimone del tempo. Solo all’interno di una siffatta antropologia è possibile vedere nell’esperienza esistenziale del Cristo la vicenda eterna di ogni uomo di ogni tempo, e perciò nella Sua storia quella stessa dell’umanità. Va da sé che l’umanità di ogni uomo non sia l’astratta umanità idoleggiata dal razionalismo moderno, che sotto sembianze di Popolo, Classe, Razza, Nazione o Religione ha immolato innumeri vittime umane.

Se la ragion di Stato sceglie Barabba, l’uomo di fede sceglie coraggiosamente Gesù. Dopo aver visto crollare Imperi e Stati che parevano eterni e preservarsi la sua fede, non ha neppure più bisogno di nascondersi pavidamente come Pietro alle folle.

Costantino Marco