A
parziale e cauta correzione della solenne e quasi venerata sentenza del
presidente Sergio Mattarella sulla diversa dignità dei caduti partigiani e dei
morti fascisti, nella guerra civile
1943-1945, Venerdì 8 maggio è stata avviata la causa canonica per la
beatificazione di Gianfranco Maria Chiti (Gignese di Novara 1921- Roma 2004),
un frate cappuccino, che in gioventù aveva dato prova di patriottismo e di
straordinaria virtù militando nei deprecati ranghi dell'esercito fascista
repubblicano.
Chiti,
che aveva scelto la carriera militare e vi si era impegnato con ardente animo
religioso e patriottico, aveva combattuto valorosamente nell'Armir durante la
campagna di Russia 1941-1943, al termine della quale fu decorato per speciali
meriti.
Dopo la
tragedia consumata l'otto settembre del 1943, il senso dell'onore lo convinse
ad arruolarsi nell'esercito della Repubblica sociale italiana e (si rammenta
senza formale condivisione della notizia, in odore di sconsigliata e
severamente proibita apologia) a militare valorosamente.
Nell'aprile
del 1945 il repubblichino fece esperienza dell'umiliante e dura
prigionia nel famigerato campo di concentramento, allestito dagli americani in
Coltano per educare i vinti alla democrazia e al bughi-bughi.
Nell'ottobre
dello stesso anno, rilasciato dai democratici pedagoghi, che, a malincuore, ne
avevano accertato la perfetta innocenza e la buona fede, Chiti si diresse a
Pesaro, città in cui risiedeva la sua famiglia.
La sera
del suo faticoso ritorno a casa, Chiti, attraversando la città, fu
impressionato dal volume delle orazioni e degli applausi provenienti da un
teatro, nel quale i partigiani celebravano la
vittoriosa giustizia antifascista.
Sconcertato dalla violenza degli argomenti urlati dagli oratori entrò
nel teatro e con decisione temeraria intervenne nel dibattito orchestrato dai
promotori della manifestazione e della correlata, insaziabile mattanza.
Il suo
intervento fu accolto da un silenzio ostile ma la dignità della persona e la
forza dei suoi argomenti impressionarono gli uditori a tal punto che Chiti poté
uscire incolume dal ruggente teatro.
Rientrato
nell'esercito, Chiti fu inviato in Somalia, in allora affidata
all'amministrazione fiduciaria italiana, dove risiedette dal 1950 al 1956.
Rientrato
in Italia fu beffardamente incaricato di pronunciare un discorso per celebrare
il 25 aprile. Uscì dalla imbarazzante/provocatoria trappola, tesa dai suo
rivali, pronunciando un elogio di Guglielmo Marconi, nato in quel giorno
diversamente fatidico.
Ai
superiori che gli rimproveravano di aver dimenticato la ragione della radiosa
festa democratica, in atto nella radiosa primavera (Togliatti dixit), rispose
sorridendo che non gli era stato richiesto di ricordare la liberazione ma
soltanto di celebrare un fausto 25 aprile.
Dotato
di eccellenti qualità, Chiti salì tuttavia la scala gerarchica militare
ottenendo il grado di generale. Alla vigilia del pensionamento, rinunciando a
un cospicuo emolumento, maturò la decisione, a lungo meditata, di entrare
nell'ordine dei francescani cappuccini. Da anni preparava la scelta religiosa
dedicando allo studio e alla preghiera il tempo libero.
Visse
con impegno severo e con splendida umiltà la nuova condizione. Intraprese gli
studi di teologia e nel 1982, dopo tre anni di studi severi, fu ordinato
sacerdote.
Dopo
l'ordinazione fu incaricato della restaurazione del convento di Orvieto,
un'opera che padre Chiti attuò in un breve giro di tempo. Nel giorno
dell'inaugurazione della sua opera chiese e ottenne dai superiori che nel
giardino del convento fosse piantata la bandiera tricolore.
Nella
città umbra padre Chiti fu ammirato e benvoluto per la carità che illuminava il
suo ministero sacerdotale e la sua attività a sostegno delle famiglie disagiate
e alla riabilitazione dei giovani coinvolti nelle sciagure sessantottine,
violenza, droga e delirio ideologico. Morì il 20 novembre del 2004, a seguito di un
incidente.
Il
riconoscimento delle virtù cristiana del repubblichino Chiti accende la
luce di una verità che interrompe il grigiore di una cultura grottesca, fondata
sulla noia in discesa dai pistolotti quirinalizi e dallo sdegno furente
manifestato dal quotidiano Repubblica perché un bambino di anni quattro
(4) ha salutato un amichetto con braccio teso alla romana (alla fascista).
Piero Vassallo
Ben conosciuto e amato tra i Cappuccini e i cittadini di Viterbo.
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