giovedì 7 maggio 2015

COSCIENZA MITICA E POLITICHE MODERNE (di Costantino Marco)

Il rapporto tra la tragedia antica e il dramma moderno si gioca,apparentemente,sulla relazione che,rispettivamente,la coscienza eroica intratteneva con la sfera religiosa o del Mito,e la coscienza secolarizzata con la dimensione storica o del Logos. In realtà questa dicotomia inerisce più che altro alle distinte metodologie gnoseologiche con le quali l’analisi della realtà procede per cercare di darsi ragione delle cose che accadono,ma spesso l’incongruità del metodo prescelto conduce a percorsi fuorvianti che non riescono a fornire dei processi culturali e sociali altro che schemi formali di lettura,quasi sempre riduttivi,a volte del tutto impropri.
Soprattutto la sfera politica ha fruito nei tempi moderni delle risorse evocative del mito per stabilire nuove e inedite corrispondenze emozionali tra la psicologia di masse aduse alla dimensione privata della vita e alle sue rappresentazioni ludiche,e alle leaderships in cerca di legittimazione collettiva del loro potere non tradizionalmente detenuto ma acquisibile attraverso le forme tipiche del consenso elettorale.
Le società democratiche moderne fondano,com’è noto,la legittimazione del potere elettorale maggioritario che convenzionalmente determina il valore giuridico della rappresentanza politica degli interessi delle parti sociali. Altrettanto convenzionalmente,l’ideologia democratica ha decretato che tale rappresentanza di interessi  venisse trasferita dal suo originario piano di carattere privatistico,a quello pubblico degli interessi generali,per cui il rappresentante eletto non rappresenterebbe gli interessi dei mandanti ma quelli dell’intera  nazione. Che ciò non sia vero di fatto lo conferma l’esistenza stessa di “partiti” ossia di organizzazioni politiche private di interessi appunto particolari,che hanno il compito statutario di rappresentare politicamente gli interessi dei loro mandanti e affiliati.
Allorquando Schumpeter definisce la moderna vita politica democratica come una lotta di capi partito in competizione per il Potere,descrive anche il senso recondito della lotta politica nelle democrazie rappresentative,che è appunto quello di cercare di sopravanzare i concorrenti nell’affermare il valore pubblico di istanze originariamente private chiedendo il riconoscimento politico delle ragioni sociali particolari.
Ma un sistema istituzionale fondato sulla sola concorrenza degli interessi privati,per quanto riconosciuti politicamente di interesse pubblico attraverso finzioni giuridiche e sofismi ideologici,è destinato  a collassare sistemicamente e a trasformare la sua dialettica politica in una tendenziale instabilità culturale di regime. Infatti il sistema rappresentativo,in quanto privo di una sintesi decisionale che non sia quella per definizione esclusiva delle minoranze operata dalle variabili maggioranze parlamentari,le quali affermano la loro volontà a scapito delle istanze minoritarie deve ricorrere a strumenti istituzionali correttivi della tendenziale anarchia,che sono:a)la collaborazione consociativa delle minoranze politiche alla gestione del potere,ovvero b)la previsione di un centro decisionale autonomo dai criteri selettivi dei gruppi politici,definito giuridicamente per poteri e competenze,cui si delegano funzioni decisorie sottratte alla discrezionalità del gruppo politico maggioritario pro tempore  in mancanza di questi correttivi il sistema politico rappresentativo sviluppa spontaneamente il suo rimedio (anti)-strutturale,facendo emergere dal caos politico una figura demiurgica rappresentativa a sua volta della essenziale funzione decisionale o di Governo insopprimibile dalla vita sociale di ogni consorzio umano. La funzione di Governo è essenzialmente diversa da quella precipuamente politica della ricerca del Potere. Se infatti la funzione dei gruppi politici particolari è di rappresentare gli interessi economici  dei gruppi elettorali mandanti,sia pure periodicamente variabili e per così dire aperti il Governo ha per funzione la rappresentanza degli interessi generali dello Stato,assunto come ente politico unitario avente una sua esistenza storica indipendente da quella delle temporanee componenti socio-politiche particolari e quindi considerato come una persona non meramente giuridicamente ma eminentemente culturale e meta politica. E pertanto,se la funzione dei partiti politici e strettamente economica,quella dei governi è essenzialmente etica non essendo le decisioni governative legate a considerazioni partigiane e vincolate alla labilità del consenso elettorale.
Il processo tendenziale della vita politica delle democrazie moderne è nel  senso della esautorazione o neutralizzazione dell’autonoma funzione di Governo, a favore delle sole rappresentanze politiche economiche, secondo una più generale tendenza a interpretare la vita politica come campo parallelo ma omologo a quello economico, in cui l’accordo delle posizioni è il corrispondente del bargain affaristico. Ciò è il risvolto pratico di una tendenza teologica che si è affermata culturalmente in ambito protestanico e quindi si è diffusa progressivamente come tendenza universale, possibile in conseguenza del sincretismo razionalistico delle dottrine cristologiche di origine alessandrina divenute dominanti teologicamente nella Cristianità, che lasciano emergere, con la fine della fede nel fondamento trascendente della vita e della Storia, l’antico motivo pagano della natura umana senza la grazia della redenzione. Un logos divenuto mera techne di sopravvivenza e strumento della bio-politica contemporanea.
Se consideriamo la storia dell’Italia unitaria, nelle fasi che a partire dalla svolta del 1876 si determinano giù giù, attraverso il giolittismo, il fascismo, il centro-sinistra, e fino alle ultime vicende del governo Renzi, notiamo una costante protensione a costituirsi da parte della Sinistra come “partito della nazione”, ovvero la coincidente rappresentanza di parte, sia pure maggioritaria, con gli interessi generali del Paese. Su questa premessa identitaria sorge il trasformismo quale adattamento del resto politicamente minoritario all’altrimenti tutto maggioritario, il quale, anche senza quell’adattamento delle minoranze al regime della maggioranza, comunque formalmente le rappresenterebbe. In questo senso il trasformismo viene inteso dalle minoranze tagliate fuori dal governo della Sinistra come il tentativo di arginare la deriva totalitaria intrinseca a questa logica fagocitante e ultra-rappresentativa delle sue maggioranze parlamentari.
La natura della Sinistra è precipuamente politica, perché essa storicamente e idealmente nasce come opposizione originariamente sociale ai governi legittimi che a suo dire erano la rappresentanza degli interessi minoritari dei popoli. Una volta al potere, la Sinistra o si comporta come una Destra o si oppone a se stessa scindendosi fra chi vuole governare e chi si oppone a oltranza. Lenin chiamò “infantile” l’estremismo politico, cioè l’opposizione oltranzista e anti-sistemica.
Diverso il percorso di formazioni politiche non di Sinistra, quale storicamente in Italia la Democrazia Cristiana, la quale per tutto il tempo del suo governo nazionale, qualunque fosse la percentuale elettorale dei consensi, ha tenuto un costante rapporto di collaborante distinzione tra sé e le formazioni politiche minoritarie tradizionalmente sue alleate di governo, ma culturalmente e socialmente rappresentative di una tradizione non popolaristica. La persistenza per tutta la cd. Prima Repubblica del sistema elettorale proporzionale, ha consentito alla DC di perseguire fini di Governo non egemonici, ma anzi esposti a continue mediazioni parlamentari con i propri alleati. Questa mediazione è stata intesa erroneamente come un fastidioso inceppamento dei processi direttivi del Governo, incessantemente esposto ai precari equilibri parlamentari del potere legislativo dal quale direttamente dipendeva, mentre in realtà era la conseguenza stessa del parlamentarismo repubblicano governo-fobico e pan-politicistico.
Infatti, tali precari equilibri parlamentari non erano legati al sistema delle rappresentanze proporzionali, senza il quale le minoranze qualificate non avrebbero potuto accedere alla fase legislativa, in quanto altrimenti sarebbero state esautorate, come al presente, da una logica maggioritaria insensibile alle istanze più avanzate e meno popolari di cui esse sono costitutivamente portatrici, ma erano bensì legati alla mancanza di una concreta autonomia del Governo dalla diretta rappresentanza parlamentare degli interessi settoriali, inevitabilmente di parte. Questo vulnus istituzionale è la vera tara sistemica d’origine dell’attuale Costituzione, che ha reso precario e a volte impraticabile l’esercizio del Governo in Italia.
Quando si sentono salmodiare i farisei della Costituzione sulla sua intangibilità, che al minimo tentativo di riformarla si stracciano le vesti urlando come prefiche alla morte della libertà e della della democrazia in Italia, ci coglie un grande sconforto ma anche una irrefrenabile indignazione etica verso chi ha costruito le proprie fortune personali, accademiche e politiche su codesto feticcio ideologico, che ha portato il Paese sul ciglio del baratro di una sempre latente guerra civile e sull’attuale deriva pseudo-presidenzialistica e anti-parlamentare. Senza una funzione di Governo, distinta strutturalmente da quella parlamentare e rappresentativa degli interessi socio-economici dei gruppi particolari, non ci può essere garanzia di governabilità, e le forze parlamentari saranno costrette o a labilizzare  l’esercizio di Governo da esse espresso, ovvero a consociarsi per identificare quell’esercizio decisionale con il proprio che è di controllo degli equilibri nei rapporti politici.
Negli Stati costituzionali classici, la funzione di Governo veniva esercitata dalla corona, nelle moderne repubbliche demo-liberali viene esercitata dalla Presidenza elettivamente distinta dalla elezione parlamentare dei rappresentanti politici. Il correttivo istituzionale si è reso necessario dalla imprescindibile funzione di Governo, strutturalmente diversa da quella rappresentativa perché idealmente espressiva dell’unità nazionale su cui è fondato lo Stato moderno, trascendente le sue singole parti socio-politiche, che sono quelle rappresentate nei parlamenti elettivi; funzione di Governo che le maggioranze parlamentari non possono surrogare, perché costitutivamente parziali e partitiche. Senza il riconoscimento di quella funzione di Governo super partes  i sistemi parlamentari, anche i più democratici, collassano e favoriscono l’emersione di un duce in grado di costituire imperativamente quella unità decisionale che i governi parlamentari non possono garantire. In tal senso, pervenire a una semplificazione delle rappresentanze parlamentari per favorire le funzioni di Governo è strutturalmente sbagliato, poiché assegna maggiori poteri al Potere maggioritario e minore rappresentanza alle minoranze qualificate.
La vita dei moderni parlamenti democratici somiglia alquanto a rappresentazioni ludiche o ancora di più a recite drammaturgiche con personaggi da copione fissi, che mimano ruoli e funzioni occasionali o professionali ma il più delle volte non vocazionali, in quanto legati a interesse corporativi o istanze ideologiche, ma quasi sempre privi di un’adeguata e sedimentata formazione morale all’altezza dei compiti. Basta conoscere un poco la fauna politica delle moderne democrazie per rendersi conto del loro basso profilo etico-culturale. E’ uno spettacolo desolante vedere a chi mettiamo in mano le sorti delle nazioni, coi loro problemi e i loro potenziali economici e militari. I tempi sono certamente frutto di errori che sono prima di cultura e poi politici, ma proprio perciò la supponente trascuratezza dei nostri politici verso le questioni più serie e profonde della vita ci riempie di sconcerto.  Al posto di ragionamenti ponderati e accreditati da autorità intellettuali e morali, discussioni spesso da trivio, superficiali, che si limitano al commento giornalistico e leggero della cronaca quotidiana, ripetitivo e inconcludente, popolare nel senso di volgare. Ed è certamente penoso vedere anche intellettuali di vaglia prestarsi alla pantomima dei salotti televisivi, sciorinando banalità e cercando di stare dietro allo sciocchezzaio dei cronisti parlamentari e dei superbiosi e vanesii conduttori, che ritengono di avere in mano la situazione solo perché informati sul numero di scarpe dei politicanti à la page.
La politica democratica come spettacolo può andar bene alle masse ignare, ma nei tempi di abbondanza. Nei tempi di magra, invece, il popolo invoca Masaniello, o il Mussolini di turno. Esso vuole vivere di quella natura senza coscienza di grazia a cui la cultura moderna ha voluto tornasse, e così in una società tenuta insieme non più dalla religione né dal potere regale ma dal mito superstite del Benessere e dell’interesse alla sola sopravvivenza biologica, il popolo ricerca solo pane e spettacoli inseguendo i nuovi miti edonistici e produttivistici ammanniti dai nuovi vaniloquenti sofisti, ripetitori di formule senza contenuto. Allora, in caso di carestie e di crisi finanziarie, chi salverà le democrazie? Gli economisti ciarlieri o i queruli costituzionalisti d’avanspettacolo? Un tempo c’erano i re, che si affidavano alla mano di Dio. Oggi rimane solo Dio a salvarci dal (comunque meritato) diluvio universale. Anzi globale.


Costantino Marco

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