Il rapporto tra la tragedia
antica e il dramma moderno si gioca,apparentemente,sulla relazione
che,rispettivamente,la coscienza eroica intratteneva con la sfera religiosa o
del Mito,e la coscienza secolarizzata con la dimensione storica o del Logos. In
realtà questa dicotomia inerisce più che altro alle distinte metodologie
gnoseologiche con le quali l’analisi della realtà procede per cercare di darsi
ragione delle cose che accadono,ma spesso l’incongruità del metodo prescelto
conduce a percorsi fuorvianti che non riescono a fornire dei processi culturali
e sociali altro che schemi formali di lettura,quasi sempre riduttivi,a volte
del tutto impropri.
Soprattutto la sfera politica
ha fruito nei tempi moderni delle risorse evocative del mito per stabilire
nuove e inedite corrispondenze emozionali tra la psicologia di masse aduse alla
dimensione privata della vita e alle sue rappresentazioni ludiche,e alle
leaderships in cerca di legittimazione collettiva del loro potere non
tradizionalmente detenuto ma acquisibile attraverso le forme tipiche del
consenso elettorale.
Le società democratiche moderne
fondano,com’è noto,la legittimazione del potere elettorale maggioritario che
convenzionalmente determina il valore giuridico della rappresentanza politica
degli interessi delle parti sociali. Altrettanto convenzionalmente,l’ideologia
democratica ha decretato che tale rappresentanza di interessi venisse trasferita dal suo originario piano
di carattere privatistico,a quello pubblico degli interessi generali,per cui il
rappresentante eletto non rappresenterebbe gli interessi dei mandanti ma quelli
dell’intera nazione. Che ciò non sia
vero di fatto lo conferma l’esistenza stessa di “partiti” ossia di
organizzazioni politiche private di interessi appunto particolari,che hanno il
compito statutario di rappresentare politicamente gli interessi dei loro
mandanti e affiliati.
Allorquando Schumpeter definisce la
moderna vita politica democratica come una lotta di capi partito in
competizione per il Potere,descrive anche il senso recondito della lotta
politica nelle democrazie rappresentative,che è appunto quello di cercare di
sopravanzare i concorrenti nell’affermare il valore pubblico di istanze
originariamente private chiedendo il riconoscimento politico delle ragioni
sociali particolari.
Ma un sistema istituzionale fondato sulla
sola concorrenza degli interessi privati,per quanto riconosciuti politicamente
di interesse pubblico attraverso finzioni giuridiche e sofismi ideologici,è
destinato a collassare sistemicamente e
a trasformare la sua dialettica politica in una tendenziale instabilità
culturale di regime. Infatti il sistema rappresentativo,in quanto privo di una
sintesi decisionale che non sia quella per definizione esclusiva delle
minoranze operata dalle variabili maggioranze parlamentari,le quali affermano
la loro volontà a scapito delle istanze minoritarie deve ricorrere a strumenti
istituzionali correttivi della tendenziale anarchia,che sono:a)la
collaborazione consociativa delle minoranze politiche alla gestione del
potere,ovvero b)la previsione di un centro decisionale autonomo dai criteri
selettivi dei gruppi politici,definito giuridicamente per poteri e
competenze,cui si delegano funzioni decisorie sottratte alla discrezionalità
del gruppo politico maggioritario pro
tempore in mancanza di questi
correttivi il sistema politico rappresentativo sviluppa spontaneamente il suo
rimedio (anti)-strutturale,facendo emergere dal caos politico una figura
demiurgica rappresentativa a sua volta della essenziale funzione decisionale o
di Governo insopprimibile dalla vita sociale di ogni consorzio umano. La
funzione di Governo è essenzialmente diversa da quella precipuamente politica
della ricerca del Potere. Se infatti la funzione dei gruppi politici
particolari è di rappresentare gli interessi economici dei gruppi elettorali mandanti,sia pure
periodicamente variabili e per così dire aperti
il Governo ha per funzione la rappresentanza degli interessi generali dello
Stato,assunto come ente politico unitario avente una sua esistenza storica
indipendente da quella delle temporanee componenti socio-politiche particolari
e quindi considerato come una persona non meramente giuridicamente ma
eminentemente culturale e meta politica. E pertanto,se la funzione dei partiti
politici e strettamente economica,quella
dei governi è essenzialmente etica
non essendo le decisioni governative legate a considerazioni partigiane e
vincolate alla labilità del consenso elettorale.
Il processo tendenziale della vita
politica delle democrazie moderne è nel
senso della esautorazione o neutralizzazione dell’autonoma funzione di
Governo, a favore delle sole rappresentanze politiche economiche, secondo una
più generale tendenza a interpretare la vita politica come campo parallelo ma
omologo a quello economico, in cui l’accordo delle posizioni è il
corrispondente del bargain affaristico.
Ciò è il risvolto pratico di una tendenza teologica che si è affermata
culturalmente in ambito protestanico e quindi si è diffusa progressivamente
come tendenza universale, possibile in conseguenza del sincretismo
razionalistico delle dottrine cristologiche di origine alessandrina divenute
dominanti teologicamente nella Cristianità, che lasciano emergere, con la fine
della fede nel fondamento trascendente della vita e della Storia, l’antico
motivo pagano della natura umana senza la grazia della redenzione. Un logos divenuto mera techne di sopravvivenza e strumento della bio-politica
contemporanea.
Se consideriamo la storia dell’Italia
unitaria, nelle fasi che a partire dalla svolta del 1876 si determinano giù
giù, attraverso il giolittismo, il fascismo, il centro-sinistra, e fino alle
ultime vicende del governo Renzi, notiamo una costante protensione a
costituirsi da parte della Sinistra come “partito della nazione”, ovvero la
coincidente rappresentanza di parte, sia pure maggioritaria, con gli interessi
generali del Paese. Su questa premessa identitaria sorge il trasformismo quale
adattamento del resto politicamente minoritario all’altrimenti tutto
maggioritario, il quale, anche senza quell’adattamento delle minoranze al
regime della maggioranza, comunque formalmente le rappresenterebbe. In questo
senso il trasformismo viene inteso dalle minoranze tagliate fuori dal governo
della Sinistra come il tentativo di arginare la deriva totalitaria intrinseca a
questa logica fagocitante e ultra-rappresentativa delle sue maggioranze
parlamentari.
La natura della Sinistra è precipuamente
politica, perché essa storicamente e idealmente nasce come opposizione
originariamente sociale ai governi legittimi che a suo dire erano la
rappresentanza degli interessi minoritari dei popoli. Una volta al potere, la
Sinistra o si comporta come una Destra o si oppone a se stessa scindendosi fra
chi vuole governare e chi si oppone a oltranza. Lenin chiamò “infantile”
l’estremismo politico, cioè l’opposizione oltranzista e anti-sistemica.
Diverso il percorso di formazioni
politiche non di Sinistra, quale storicamente in Italia la Democrazia
Cristiana, la quale per tutto il tempo del suo governo nazionale, qualunque
fosse la percentuale elettorale dei consensi, ha tenuto un costante rapporto di
collaborante distinzione tra sé e le formazioni politiche minoritarie
tradizionalmente sue alleate di governo, ma culturalmente e socialmente
rappresentative di una tradizione non popolaristica. La persistenza per tutta
la cd. Prima Repubblica del sistema elettorale proporzionale, ha consentito
alla DC di perseguire fini di Governo non egemonici, ma anzi esposti a continue
mediazioni parlamentari con i propri alleati. Questa mediazione è stata intesa
erroneamente come un fastidioso inceppamento dei processi direttivi del
Governo, incessantemente esposto ai precari equilibri parlamentari del potere
legislativo dal quale direttamente dipendeva, mentre in realtà era la
conseguenza stessa del parlamentarismo repubblicano governo-fobico e
pan-politicistico.
Infatti, tali precari equilibri
parlamentari non erano legati al sistema delle rappresentanze proporzionali,
senza il quale le minoranze qualificate non avrebbero potuto accedere alla fase
legislativa, in quanto altrimenti sarebbero state esautorate, come al presente,
da una logica maggioritaria insensibile alle istanze più avanzate e meno
popolari di cui esse sono costitutivamente portatrici, ma erano bensì legati
alla mancanza di una concreta autonomia del Governo dalla diretta
rappresentanza parlamentare degli interessi settoriali, inevitabilmente di
parte. Questo vulnus istituzionale è
la vera tara sistemica d’origine dell’attuale Costituzione, che ha reso
precario e a volte impraticabile l’esercizio del Governo in Italia.
Quando si sentono salmodiare i farisei
della Costituzione sulla sua intangibilità, che al minimo tentativo di
riformarla si stracciano le vesti urlando come prefiche alla morte della
libertà e della della democrazia in Italia, ci coglie un grande sconforto ma
anche una irrefrenabile indignazione etica verso chi ha costruito le proprie
fortune personali, accademiche e politiche su codesto feticcio ideologico, che
ha portato il Paese sul ciglio del baratro di una sempre latente guerra civile
e sull’attuale deriva pseudo-presidenzialistica e anti-parlamentare. Senza una
funzione di Governo, distinta strutturalmente da quella parlamentare e
rappresentativa degli interessi socio-economici dei gruppi particolari, non ci
può essere garanzia di governabilità, e le forze parlamentari saranno costrette
o a labilizzare l’esercizio di Governo
da esse espresso, ovvero a consociarsi per identificare quell’esercizio decisionale
con il proprio che è di controllo degli equilibri nei rapporti politici.
Negli Stati costituzionali classici, la
funzione di Governo veniva esercitata dalla corona, nelle moderne repubbliche
demo-liberali viene esercitata dalla Presidenza elettivamente distinta dalla
elezione parlamentare dei rappresentanti politici. Il correttivo istituzionale
si è reso necessario dalla imprescindibile funzione di Governo, strutturalmente
diversa da quella rappresentativa perché idealmente espressiva dell’unità nazionale
su cui è fondato lo Stato moderno, trascendente le sue singole parti
socio-politiche, che sono quelle rappresentate nei parlamenti elettivi;
funzione di Governo che le maggioranze parlamentari non possono surrogare,
perché costitutivamente parziali e partitiche. Senza il riconoscimento di
quella funzione di Governo super partes i sistemi parlamentari, anche i più
democratici, collassano e favoriscono l’emersione di un duce in grado di costituire imperativamente quella unità
decisionale che i governi parlamentari non possono garantire. In tal senso,
pervenire a una semplificazione delle rappresentanze parlamentari per favorire
le funzioni di Governo è strutturalmente sbagliato, poiché assegna maggiori
poteri al Potere maggioritario e minore rappresentanza alle minoranze
qualificate.
La vita dei moderni parlamenti democratici
somiglia alquanto a rappresentazioni ludiche o ancora di più a recite
drammaturgiche con personaggi da copione fissi, che mimano ruoli e funzioni
occasionali o professionali ma il più delle volte non vocazionali, in quanto
legati a interesse corporativi o istanze ideologiche, ma quasi sempre privi di
un’adeguata e sedimentata formazione morale all’altezza dei compiti. Basta
conoscere un poco la fauna politica delle moderne democrazie per rendersi conto
del loro basso profilo etico-culturale. E’ uno spettacolo desolante vedere a
chi mettiamo in mano le sorti delle nazioni, coi loro problemi e i loro
potenziali economici e militari. I tempi sono certamente frutto di errori che
sono prima di cultura e poi politici, ma proprio perciò la supponente
trascuratezza dei nostri politici verso le questioni più serie e profonde della
vita ci riempie di sconcerto. Al posto
di ragionamenti ponderati e accreditati da autorità intellettuali e morali,
discussioni spesso da trivio, superficiali, che si limitano al commento
giornalistico e leggero della cronaca quotidiana, ripetitivo e inconcludente,
popolare nel senso di volgare. Ed è certamente penoso vedere anche
intellettuali di vaglia prestarsi alla pantomima dei salotti televisivi,
sciorinando banalità e cercando di stare dietro allo sciocchezzaio dei cronisti
parlamentari e dei superbiosi e vanesii conduttori, che ritengono di avere in
mano la situazione solo perché informati sul numero di scarpe dei politicanti à la page.
La politica democratica come spettacolo
può andar bene alle masse ignare, ma nei tempi di abbondanza. Nei tempi di
magra, invece, il popolo invoca Masaniello, o il Mussolini di turno. Esso vuole
vivere di quella natura senza coscienza di grazia a cui la cultura moderna ha
voluto tornasse, e così in una società tenuta insieme non più dalla religione
né dal potere regale ma dal mito superstite del Benessere e dell’interesse alla
sola sopravvivenza biologica, il popolo ricerca solo pane e spettacoli
inseguendo i nuovi miti edonistici e produttivistici ammanniti dai nuovi
vaniloquenti sofisti, ripetitori di formule senza contenuto. Allora, in caso di
carestie e di crisi finanziarie, chi salverà le democrazie? Gli economisti
ciarlieri o i queruli costituzionalisti d’avanspettacolo? Un tempo c’erano i
re, che si affidavano alla mano di Dio. Oggi rimane solo Dio a salvarci dal
(comunque meritato) diluvio universale. Anzi globale.
Costantino Marco
Nessun commento:
Posta un commento