I sostenitori
dell'unità nazionale, realizzata assai col Risorgimento e compiuta con la
Grande Guerra, hanno ragione. Non bisogna disconoscere i buoni motivi per cui
si doveva comporre uno Stato del Bel Paese delimitato dal mare, in cui si
protende, e dall'arco alpino. La Storia, le tradizioni, la cultura, bensì
espressa dalla lingua scritta e la geografia deponevano favorevolmente per
l'unione delle popolazioni italiche, in principio divise dalle invasioni
barbariche, quindi arabe e normanne. Già nel 1002 una coalizione di vassalli
contrari all'Impero germanico aveva eletto Arduino d'Ivrea re d'Italia. E
questo titolo egli cercò di mantenere tra guerre e contese, sino alla sua
definitiva sconfitta nel 1014.
Come osservò il bravo storico Piero Operti
nel suo Il condottiero - Vita eroica di
Bartolomeo Colleoni (1937), all'epoca dei condottieri le forze italiane
avrebbero avuto modo di allearsi, dando vita a un'indipendenza nazionale, a
quella patria coesione giustificata da un comune sentimento di appartenenza che
la distingueva dallo straniero.
Ma non ebbero anche ragione Pio IX, Francesco
II e quanti altri sino ad ora rivendicano i loro diritti e adducono i motivi
per cui il Risorgimento fu indegno del suo nome?
Il punto debole, se non debolissimo,
dell'accorpamento di regni grandi e piccoli compresi tra l'orlo superiore e il
tacco dello Stivale, incluse le isole, sta appunto nel modo, nel procedimento
armato, irrispettoso, bugiardo e sovente empio. Fatto che giunge a noi
tutt'altro che trascurabile. Per quanto a chi ricevette l'opera parzialmente
incompiuta spettasse di terminarla, poteva ignorarne gli iniziali misfatti? Dovremmo forse approvare il machiavellismo
perpetrato dai Savoia?
A cominciare dal Re Travicello le imposture
non si contano. Seguirono le mistificazioni politiche (l'abuso della libertà) e
le denigrazioni, raccolte e fatte proprie da cosiddetti padri della patria e da
letterati e pensatori sedicenti cattolici o socialisti.
Acquistò credito la diceria
dell'arretratezza, dell'oscurantismo, della tirannia dominanti nel Regno delle
Due Sicilie e nello Stato della Chiesa. Quivi, in particolare, si fece apparire
schiacciata dall'ignoranza, dall'ingiustizia e dall'immobilismo una vita
sociale ordinata e tranquilla, preservata dalle sopraffazioni della rivoluzione
industriale e dalle corruzioni rivoluzionarie, estranee fin dall'avvento di Napoleone
e risolte nel ripristino della normalità restaurata senza troppi inconvenienti.
Tralasciamo i discorsi di Pio VII, le accuse
di Gregorio XVI, le proteste di Papa Mastai Ferretti e di altri eminenti
personaggi, che erano parti in causa.
Spesse coltri di sprezzo e d'oblio furono a
lungo stese su testimonianze ben più attendibili di quelle dei soliti retori,
aventi il vento in poppa della parte vincente, traditrice o malata di
dabbenaggine, purtroppo comoda. Trista e ben nota faccenda di liberatori votati
a soccorrere gente che non ha bisogno d'essere liberata, né vorrebbe esserlo.
Il verace e non sospetto di clericalismo
Alfredo Panzini (Senigallia 1863-Roma 1939) introducendo il romanzo Il libro dei morti, ambientato in
Romagna nella seconda metà dell'Ottocento, dice a proposito della ristampa: “Di
quel malessere che confusamente provavo davanti alla civiltà nel 1890, di
quell’amore che avevo allora di una vita più sana, più semplice, più umana
(cioè più religiosa) non ho a pentirmi nell’anno 1920” .
Diamo
un'occhiata al Prologo: “Ai nostri
tempi (nel secolo diciannovesimo) vi fu un uomo credente che aveva nome G.
Giacomo il quale, non a malincuore, ma lietamente fece la sua scolta in questo
breve periodo de la vigilia dei sensi, ed amò la vita e gli piacque di vivere.
Egli era cresciuto secondo certe massime semplici, che sono il fondamento
dell’Evangelo, perdurando in quelle più di settant’anni; ed inconsciamente le
aveva contemperate con le leggi della natura, senza che queste si trovassero in
disaccordo con quelle; anzi le une si avvalorarono per virtù de le altre con
felice armonia. Ma ciò avvenne perché egli fu un uomo semplice […] e la sua
fede era troppo viva per venire a contrasto con la ragione; la quale era molto
rimessa e più intenta a le piccole cose de la vita che a speculare di
metafisica”.
La vicenda disegna un mondo violato, mette a
confronto due visioni sincere, non capricciose: la tradizionale, in urto
forzato con la modernità, e la progressista. Quest'ultima non ne esce affatto
bene. Il tema della modernità torna nelle opere panziniane con esiti analoghi.
Essa si risolve positivamente soltanto in coincidenza con il Concordato del
1929.
Ugualmente si accede alle sorprendenti, calme
atmosfere del Regno papale, ne Il
volontario di Pio IX, cronaca autobiografica che verte sulle battaglie
concluse con l'assedio di Roma nel 1870, redatta dal volontario Antonmaria
Bonetti, pubblicata dal Centro Librario Sodalitium nel 2007.
Il romano Antonio Baldini (1889-1962) non fu sospetto
di partigianeria, avendo dedicato un volume (Il sor Pietro, 1941) commemorativo del patriottico e protestante Giampietro
Vieusseux, fondatore del celebre Gabinetto fiorentino, ritrovo di artisti d'ogni
colore, ospitati anche nella sua rivista Antologia.
Baldini, factotum della Nuova Antologia,
diretta da Luigi Federzoni e continuata nel dopoguerra, nel 1946 pubblicò la
raccolta di vecchie prose La Toscanina,
cui appose questo preambolo:
“Cent’anni giusti fa […] Giuseppe Giusti
scriveva […] ‘Se non fossero le strade ferrate che ora infilano la città da due
parti e ci saettano qualche rumore di vita, mi parrebbe di essere in una di
quelle isole staccate da noi per lungo intervallo di mare, nelle quali
sognarono i poeti che abitassero il Sonno, il Silenzio e le vuote larve dei
trapassati’. Sono di quel tempo le sestine di quell’Amor pacifico, che eravamo quasi tentati […] di mettere come
Preludio avanti alle pagine qui raccolte […] Quieta, ordinata, senza debiti,
adusata da tempo alla blandizie lorenese, la Toscana non aveva, fino allo
scoppio del Quarantotto, subìto scosse rilevanti, procedendo ancor essa ma per
mutazioni lentissime sulle vie del Progresso. Dopo il Quarantotto le cose vi si
misero a camminate in fretta […] Ma il ricordo e il gusto dell’antica vita […]
rimasero lungamente come lievito di felici ispirazioni negli scrittori toscani:
e non pure di quelli nati sotto gli ultimi Granduchi […] Se nella nostra
raccolta abbiamo concesso maggiore spazio alla fiaba di Narciso Feliciano
Pelosini […] è appunto perché essa esprime in forma epico-patetica lo
sbalordimento e la pena di quella così rapida mutazione di eventi e di sentimenti
[…] E oggi che gli scrittori italiani à
la page americaneggiano a tutto spiano – e non ci sarà magari niente di
male, ma già molti dàn cenno di averne abbastanza – questo libro, che riporta
alla ribalta alcuni dei più schietti e riposati scrittori del nostro Ottocento,
pensiamo che possa incontrare grata accoglienza”.
Il novelliere Pelosini immaginò il magico
risveglio all'esistenza terrena di un trapassato, Maestro Domenico che,
addormentatosi nel Granducato di Toscana, si ritrova nel Regno d'Italia. La
finzione letteraria riaffaccia il salto di qualità tra un seguito dell'Ancien Regime e il regime che lo ha
scalzato. L'evidenziata perdita religiosa e civile dipese ben poco dalle conseguenze
dello sviluppo di scienze e tecniche (come si dimostrò nel Novecento in quei
paesi che seppero contemperare la tradizione al progresso), ma dalla falsità
del liberalismo, dalla sua sovversione, dal suo deplorevole lavaggio dei
cervelli.
Maestro
Domenico ha avuto una recente ristampa presso l'Editore Solfanelli, con
prefazione di Giannandrea de Antonellis.
Piero Nicola
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