Dicendum est quod non
est iudicandum de rebus sercundum exstimationem malorum sed secundum
existmationem bonorum" San Tommaso d'Aquino, De malo.
Dal
vicolo cieco scavato dall'avventizia scuola teologica, che eleva lo stato
d'animo buonista/pauperista al di sopra delle virtù cardinali e teologali, si
esce percorrendo la tradizionale via della misericordia, in cui è visibile
l'uguaglianza delle due avarizie, quella in agitazione perpetuo nella volontà dei
ricchi, e quella che genera i sogni invidiosi degli aspiranti alla ricchezza.
L'avidità,
l'auri sacra fames, infatti, non è un accidente eliminabile dalle
rivoluzioni sociali e pseudo religiose, ma una delle universali menomazioni
causata dal peccato originale.
La
verità sull'avarizia fu compresa dai discepoli di Gesù, materialmente poveri e
tuttavia atterriti dall'affermazione
"è più facile che un cammello entri per la cruna di un ago, che un
ricco nel regno di Dio".
La povertà materiale,
infatti, non coincide con la povertà in spirito, non è misura della
dignità spirituale della persona, non è un rimedio all'avidità: "All'udir
ciò i discepoli rimasero sbigottiti e domandarono: Chi dunque riuscirà a
salvarsi? Fissando su di loro lo sguardo Gesù rispose: Presso gli uomini
ciò non è possibile, ma tutto è possibile presso Dio".
Fedele
all'insegnamento di Nostro Signore, Irène Némirowsky concepisce la sua opera
come racconto dell'inutile, sterile conflitto tra le opposte anime della
mondanità, Pilato e Giuda, il potere e la rivolta impotente, la destra e la
sinistra dell'ideologia, la gongolante sicumera dei dominatori e il
sanguinario, vano furore dei rivoltosi.
Il
comunista Marcel Legrand, protagonista del romanzo L'affare Kurilov, ad
esempio, ammette a malincuore e quasi allontanandosi dalla pascoliana truce
ora dei lupi, che due esponenti del regime zarista, future
vittime di un attentato, "con i loro errori, la loro incoscienza e i
loro sogni, mi erano sembrati creature limitate e patetiche come ogni altro
essere umano, come me stesso".
Il
medesimo stato d'animo muove il romanzo David Golder, dettato dalla
pietà che osserva l'umiliante, implacabile vanità, associata alla frenesia, in
corsa devastante nell'anima di uno speculatore spietato.
Il
ricco ebreo Golder rappresenta la vanità, che si agita in una solitudine gelida
e affollata dagli insaziabili beneficiari dei guadagni spietati, familiari
infedeli e untuosi cortigiani.
Il
racconto della Némirowsky non gronda
odio, come sostiene Pietro Citati, autore di un tetro risvolto, che
suggerisce un'interpretazione incendiaria, ristretta alle categorie del
moralismo obliquo e angosciante, professato dagli iniziati ai misteri adelphiani.
Citati
milita in una scolastica lugubre, contemplante l'azione implacabile di un
destino oscuro e feroce, che trascina la vita degli uomini verso "fango,
abisso, potere, violenza furore".
In
realtà la trionfale e disonesta carriera dell'affarista Golder è accompagnata e
duramente punita dal disprezzo che avvelena e capovolge i suoi affetti
familiari.
David
Golder,
pubblicato nel 1929 anticipa il tema del malessere familiare, svolto nel 1932
nel romanzo Groviglio di vipere, da un futuro premio Nobel, il cattolico
progressista/moralista François Mauriac. Se non che Némirowsky lascia cadere
sull'eroe negativo la luce di una generosità che dimentica e oltrepassa le
offese feroci dei familiari e quasi trascende le miserie di una vita consumata
nella estenuante e vano inseguimento della ricchezza. La fine di Golder apre
uno scenario che oltrepassa i contrapposti errori degli avidi e dei risentiti,
della rivoluzione e della controrivoluzione. L'impalpabile figura di un "altro"
dal conflitto che agita e avvelena il mondo moderno.
Piero Vassallo
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