sabato 30 maggio 2015

Irène Némirowsky: La misericordia oltre il moralismo

Dicendum est quod non est iudicandum de rebus sercundum exstimationem malorum sed secundum existmationem bonorum" San Tommaso d'Aquino, De malo.


 Dal vicolo cieco scavato dall'avventizia scuola teologica, che eleva lo stato d'animo buonista/pauperista al di sopra delle virtù cardinali e teologali, si esce percorrendo la tradizionale via della misericordia, in cui è visibile l'uguaglianza delle due avarizie, quella in agitazione perpetuo nella volontà dei ricchi, e quella che genera i sogni invidiosi degli aspiranti alla ricchezza.
 L'avidità, l'auri sacra fames, infatti, non è un accidente eliminabile dalle rivoluzioni sociali e pseudo religiose, ma una delle universali menomazioni causata dal peccato originale.
 La verità sull'avarizia fu compresa dai discepoli di Gesù, materialmente poveri e tuttavia atterriti   dall'affermazione "è più facile che un cammello entri per la cruna di un ago, che un ricco nel regno di Dio".
 La povertà materiale, infatti, non coincide con la povertà in spirito, non è misura della dignità spirituale della persona, non è un rimedio all'avidità: "All'udir ciò i discepoli rimasero sbigottiti e domandarono: Chi dunque riuscirà a salvarsi? Fissando su di loro lo sguardo Gesù rispose: Presso gli uomini ciò non è possibile, ma tutto è possibile presso Dio".
 Fedele all'insegnamento di Nostro Signore, Irène Némirowsky concepisce la sua opera come racconto dell'inutile, sterile conflitto tra le opposte anime della mondanità, Pilato e Giuda, il potere e la rivolta impotente, la destra e la sinistra dell'ideologia, la gongolante sicumera dei dominatori e il sanguinario, vano furore dei rivoltosi. 
 Il comunista Marcel Legrand, protagonista del romanzo L'affare Kurilov, ad esempio, ammette a malincuore e quasi allontanandosi dalla pascoliana truce ora dei lupi, che due esponenti del regime zarista, future vittime di un attentato, "con i loro errori, la loro incoscienza e i loro sogni, mi erano sembrati creature limitate e patetiche come ogni altro essere umano, come me stesso".
 Il medesimo stato d'animo muove il romanzo David Golder, dettato dalla pietà che osserva l'umiliante, implacabile vanità, associata alla frenesia, in corsa devastante nell'anima di uno speculatore spietato.
 Il ricco ebreo Golder rappresenta la vanità, che si agita in una solitudine gelida e affollata dagli insaziabili beneficiari dei guadagni spietati, familiari infedeli e untuosi cortigiani.
 Il racconto della  Némirowsky non gronda odio, come sostiene Pietro Citati, autore di un tetro risvolto, che suggerisce un'interpretazione incendiaria, ristretta alle categorie del moralismo obliquo e angosciante, professato dagli iniziati ai misteri adelphiani.
 Citati milita in una scolastica lugubre, contemplante l'azione implacabile di un destino oscuro e feroce, che trascina la vita degli uomini verso "fango, abisso, potere, violenza furore".
 In realtà la trionfale e disonesta carriera dell'affarista Golder è accompagnata e duramente punita dal disprezzo che avvelena e capovolge i suoi affetti familiari.

 David Golder, pubblicato nel 1929 anticipa il tema del malessere familiare, svolto nel 1932 nel romanzo Groviglio di vipere, da un futuro premio Nobel, il cattolico progressista/moralista François Mauriac. Se non che Némirowsky lascia cadere sull'eroe negativo la luce di una generosità che dimentica e oltrepassa le offese feroci dei familiari e quasi trascende le miserie di una vita consumata nella estenuante e vano inseguimento della ricchezza. La fine di Golder apre uno scenario che oltrepassa i contrapposti errori degli avidi e dei risentiti, della rivoluzione e della controrivoluzione. L'impalpabile figura di un "altro" dal conflitto che agita e avvelena il mondo moderno.

Piero Vassallo

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