Aristotele e Tommaso d’Aquino insegnano
che l’uomo è un essere politico, ovvero per natura, non per contratto ossia non
per decisione di volontà soggettiva (come hanno ritenuto più tardi Hobbes,
Locke e Rousseau), vocato alla vita comune con gli altri uomini, secondo
modulazioni di appartenenza comunitaria che dalla famiglia passando per il
comune e la professione o il ceto – tutte queste considerate “communitates
imperfectae” – giungono fino alla Comunità politica – considerata “communitas
perfecta” – la quale ha storicamente conosciuto forme diverse: il clan tribale,
la polis antica, i regni e gli imperi precristiani, l’impero ed i regni
feudali, il comune medioevale, le monarchie nazionali e le repubbliche. Lo
Stato moderno, che nasce con la monarchia nazionale e si sviluppa poi in
repubblica liberale e democratica, è pertanto solo una forma storica della
dimensione politica dell’uomo.
All’ordine del giorno della odierna
discussione filosofico-politica vi è la questione del “tramonto dell’epoca
della statualità” ossia della modernità. Per comprendere questo fenomeno è
necessario però indagare storicamente sulle origini della Comunità Politica, di
cui lo Stato, come detto, è la forma nata nella modernità.
La Comunità Politica è sempre
stata, presso ogni cultura umana, radicata nella sfera del Sacro sicché ciò che
era comune, e dunque “politico” nel senso nobile di questa parola, era
immancabilmente consacrato da un’investitura dall’Alto. Da qui la sua sacralità
riflessa sul piano immanente.
L’antica tripartizionale
funzionale indoeuropea, studiata dal Dumezil, esprimeva proprio questa
connessione del Politico con il Sacro. Una connessione che non apparteneva
soltanto all’ambito indoeuropeo perché presente in ogni cultura umana, indipendentemente
dall’area linguistica o etnica. La consacrazione dei re di Israele da parte dei
profeti ne è un chiaro esempio in ambito ebraico. La sacralità della funzione
monarchica o imperiale nelle più diverse aree culturali, come ad esempio
l’antico Giappone o l’antica Cina, ne è un altro esempio. Persino la stretta
relazione esistente tra lo sciamano ed il guerriero capo tribù nelle
popolazioni nomadi, come i pellerossa, è esempio della stretta connessione da
sempre sussistente nella storia dell’umanità tra Sacro e Politico.
Questa connessione non è affatto
venuta meno, come molti erroneamente ritengono, con il Cristianesimo. Se è vero
che Cristo ha ben distinto, ma non conflittualisticamente separato, ciò che è
di Dio e ciò che è di Cesare, è tuttavia verissimo che, attraverso il
riconoscimento che Nostro Signore ha fatto della legittimità dell’impero romano
– cosa questa che ha contribuito a renderlo sospetto alla cultura ebraica del
suo tempo la quale aspettava un messia guerriero e liberatore dal dominio
romano – la Chiesa
ha ereditato i grandi valori universalistici ed etici del diritto romano
individuando in essi l’espressione, preparatoria dell’Annuncio cristiano, del
diritto naturale, iscritto, al di là dell’opzione di fede, da Dio nel cuore
umano. Su questa base l’Aquinate ha potuto porre tra la Legge di Dio e la legge
civile la legge di natura. La legge di natura fu riconosciuta come intimamente
propria a ciascun uomo ed a ciascuna epoca anche se variamente modulata, ma non
nell’essenziale, a seconda delle culture e delle epoche. Ponendo la legge di
natura quale mediazione tra la sfera divina e quella umana, tra Trascendenza e
Politico, la riflessione teologico-politica medioevale evitò, da un lato, ogni
laicismo separatista e, d’altro canto, distinguendo le due sfere proprio grazie
all’intermediazione del diritto naturale, ogni tentazione teocratica o
fondamentalista.
La tradizionale connessione tra
Sacro e Politico comportava la natura “guerriera” ovvero “militare”
dell’Auctoritas Politica (la medioevale Potestà temporale). La Res Pubblica romana,
ad esempio, nacque dall’organizzazione militare dell’esercito che si fondò
prima, in epoca monarchica, sui comitia curiata e poi, nell’età repubblicana
vera e propria, sui comitia centuriata. I patres conscripti senatoriali erano,
almeno all’origine, i capi famiglia responsabili dell’inquadramento in armi dei
membri della propria gens al momento della chiamata da parte della Res
Pubblica. La gens romana era, originariamente, una sorta di tribù con seguito
servile: un po’, in altro ambito ed al di là del carattere non nomade dell’Urbe
prisca, come quella di Abramo. Anche successivamente, come dimostra il periodo
delle guerre civili e la carriera di famosi tribuni tipo Pompeo e Cesare, il
cursus honorum del cittadino alle alte cariche dello Stato romano iniziava dal
duro e lungo servizio militare. Non si diventava cittadini a pieno titolo se
non attraverso il percorso della carriera militare. Sebbene sempre più formale
che sostanziale, la natura militare dell’Imperatore rimase anche in età post
repubblicana. Questa origine comportava anche una concezione essenzialmente
militare dell’organizzazione civile della Res Pubblica. Tutto l’apparato
amministrativo dello Stato romano era modellato, anche nelle carriere,
sull’organizzazione militare. Si trattava di un modello gerarchico, di ordini e
di esecuzioni, che assicurava, secondo il ferreo spirito militare coltivato
nelle legioni romane, la massima efficienza dell’apparato statuale come se si
trattasse di un esercito in guerra il cui scopo fosse la vittoria con il minimo
di perdite umane. Sebbene in un mutato spirito dei tempi, connesso con la
fragilità feudale e comunale, anche in età medioevale l’organizzazione
amministrativa, per quel poco che di essa sussisteva, rimase legata, nei
diversi livelli dell’Impero, dei regni, dei feudi e dei comuni, a modelli di
origine militare e pertanto fortemente gerarchici.
In età pre-moderna questo tipo di
organizzazione della Comunità Politica e delle sue funzioni si reggeva
essenzialmente, pur con tutte le umane deficienze, sulla sacralità
dell’Autorità (autorità deriva dal latino “augere” che significa “far crescere,
aumentare”), sicché coloro che incarnavano o rappresentavano, ai vari livelli,
lo “Stato” si sentivano investiti di quella stessa sacralità anche perché erano
selezionati, mediante la dura esperienza delle armi, attraverso prove che ne
mettevano in luce le doti di Fides, di Pietas, di Humanitas, secondo i valori
propri della romanità. Successivamente, con la trasformazione della romanità in
cristianità, a dette doti se ne aggiunse un’altra, più alta dei predetti ma ad
essi strettamente confacente, quella, soprannaturale, della Caritas. Chi era al
comando, in altri termini, doveva dimostrarsi, agli occhi dei “suoi” uomini
ossia del “suo” popolo o perlomeno tentare di apparire tale, “militarmente”
degno per virtù umane della posizione occupata. In età cristiana, di essere
degno, o tentare di esserlo, anche dell’infusione soprannaturale della Grazia
Divina. Tutto ciò naturalmente in linea ideal-tipica di principio, laddove la
realtà era ben altra. Tuttavia, si trattava di una concezione comunque, in
epoche non ancora secolarizzate, effettivamente agente nella formazione della
mentalità diffusa e dunque nei rapporti sociali.
A parte il caso della Monarchia
ispano-asburgica, che all’epoca rappresentò una valida alternativa alle
emergenti monarchie nazionali (1),
lo Stato moderno nasce nel XVI secolo nella forma delle monarchie assolute
“superiorem non recognoscentes” (dove per “superiorem” devono intendersi le due
compagini universali del medioevo ossia la Chiesa e il Sacro Romano Impero). In tal senso, come
ha rilevato Carl Schmitt, lo Stato moderno è “il primo agente della
secolarizzazione”. Esso, sul piano del Politico, ha rinnegato ogni
legittimazione di tipo sacrale, ha chiuso le vie verso l’Alto ed ha aperto
inesorabilmente la via verso il basso imponendosi come una grande macchina
fondata sul “contratto sociale” stipulato, in un supposto e mitico “stato di
natura”, da individui originariamente totipotenti che, in tal modo, avrebbero
inteso regolare i reciproci e necessari rapporti di utilità mediante un accordo
artificiale delle volontà soggettive. Un contratto che, secondo le diverse
prospettive dell’unico filone gius-filosofico contrattualista, diventa la
legittimazione immanentista, decisionista e volontarista, dello Stato moderno
sia esso quello assoluto, il Leviatano, di Hobbes, sia esso quello costituzionale
di Locke o quello totalitario, fondato sulla Volontà Generale, di Rousseau. Per
i suoi teorici, da Machiavelli a Bodin passando, appunto, per Hobbes, Locke e
Rousseau, lo Stato moderno rappresenta uno spazio politico finalmente
affrancato da qualsiasi trascendenza (anche laddove questa, come nel caso di
Locke, sia deisticamente lasciata immota ed indifferente sullo sfondo).
Lo Stato moderno ha rappresentato
la momentanea e necessaria tappa per il passaggio dall’Universalismo
romano-cristiano ad un altro tipo di universalismo, non più cristiano, che oggi
chiamiamo globalizzazione. Nel momento in cui lo Stato ha assolto alla sua
funzione di completa desacralizzazione del Politico, momento coincidente con il
passaggio storico dal moderno al postmoderno, esso è stato dissolto dalle
stesse forze nichiliste e destrutturanti che ha contribuito, innescando il
processo di secolarizzazione, a scatenare. Sicché è una pura illusione il fatto
che l’emergere di apparentemente antiche istanze localistiche, federalistiche,
sussidiarie, sia una sorta di ritorno alla Comunità Politica di tipo
pre-moderno. In realtà queste istanze sono del tutto strumentali al completo compimento
del processo di globalizzazione (si parla ormai di “glocalizzazione”) mediante
la perforazione transfrontaliera dello Stato nazionale, erede democratico delle
monarchie assolute del XVI secolo, in favore di assetti territoriali di tipo
regionale (l’Europa delle regioni, ad esempio) in concorrenza tra loro nel
mercato globale amministrato dalle organizzazioni planetarie dell’economia e
della finanza: dalla bancocratica U.E. al W.T.O., dal Fondo Monetario
Internazionale alla Banca Mondiale, per finire, oggi che l’O.N.U. si è
dimostrato incapace del governo globale dei conflitti, agli stessi Stati Uniti
d’America che hanno, sin dal 1945, sostituito l’Inghilterra nel ruolo di
gendarme coloniale del mondo.
Quando attualmente da più
parti si contrappone la società liquida postmoderna alla modernità solida, che
è ormai alle nostre spalle, andrebbe anche osservato che quest'ultima ha
generato lo Stato nazionale moderno il quale, a suo tempo, si impose contro la
Cristianità medioevale cercando tuttavia, nonostante rinnegasse a suo
fondamento la Trascendenza, di conservare, fino a quando gli è stato possibile,
una apparenza artificiale di sacralità però immanente. Dietro la apparente
contrapposizione tra post-modernità liquida e modernità solida, messa in luce
da Zygmunt Bauman, si nasconde in realtà una sostanziale continuità: il
postmoderno porta a compimento tutto il nichilismo politico, ossia la
liquefazione della dimensione comunitaria, che era già virtualmente implicito
nella modernità. La quale aveva sostituito una artificiale e meccanica forma
sociale al comunitarismo medioevale fondato sulla Trascendenza sacrale. Se,
infatti, alla “modernità solida”, può applicarsi la metafora del ghiaccio, alla
post-modernità, che da essa consequenzialmente si sviluppa, corrisponde la
metafora dell’acqua allo stato liquido: ma si tratta della medesima acqua che
prima, ghiacciata, aveva forma solida.
Il comunitarismo premoderno
della Cristianità medioevale era, tuttavia, anche stratificazione e gerarchia
sociale che proprio lo Stato moderno ha livellato gradualmente distruggendo le
comunità intermedie e la stessa stratificazione sociale. Però in tal modo lo
Stato moderno ha anche fatto nascere da un lato l’individuo astratto, ossia
senza relazioni sociali se non quelle utilitaristiche, e dall’altro il
collettivo, ossia la somma sinallagmatica degli individui astratti, che non è
certo “comunità”. Questa complementarietà dialettica e meccanicistica tra
individuo e collettivo ha poi trovato corrispondenza nella distinzione tra
privato e pubblico, tra mercato e burocrazia. Lungo questo percorso si sarebbe
giunti successivamente, complice anche le trasformazioni tecnologiche della
Rivoluzione Industriale, alla società di massa, ossia ad una società
sociologicamente parcellizzata tenuta unita solo dalla legge impersonale e dal contratto.
La società di massa, a sua volta, ha conosciuto prima un momento politicamente “forte”,
coincidente con i grandi totalitarismi ed i dinamici autoritarismi, appunto, di
massa, e poi un momento politicamente “debole”, coincidente con la dissoluzione
dello Stato, in precedenza egemone sulla società sottostante, nella “società
civile”, ossia nel mercato, nella pura immanenza, che ha finito per soppiantare
il primato della Comunità politica organizzata a Stato. Parallelamente abbiamo assistito
al progressivo prevalere dell’economia sul Politico, della finanza
sull’economia reale ed allo sconfinamento transnazionale dei mercati ossia alla
globalizzazione. Il Globalismo del Mercato Mondo, dissolvendo lo Stato nazionale
moderno (nonostante ogni sua pretesa alla conservazione di una sacralità
artificiale ed immanente), ha creato una rete transnazionale di micro unità economiche
territoriali, in continua trasformazione, sulla quale circola indisturbato, e
completamento libero da ogni legame e responsabilità sociale o nazionale, il
capitale finanziario apolide.
Nel medioevo, soprattutto a partire
dalla riscoperta, intorno all’anno mille, del Corpus iuris justinianus, l’idea
politica romana della Auctoritas/Potestas e le figure giuridiche della lex e
del negotium tornarono certamente ad essere presenti, sia nell’elaborazione
universitaria che nella pratica civile. Ma questo non significa che esse
fossero colte allo stesso modo nel quale erano state elaborate in età classica
dagli antichi maestri come Ulpiano. Glossatori e Commentatori medioevali
rielaborarono i concetti politico-giuridici del diritto romano-giustinianeo alla
luce della spiritualità e dell’idealità personalista, comunitaria ed
universalistica della Fede cristiana. Dimodoché le stesse figure giuridiche
romanistiche assunsero un senso esegetico più incline all’equilibrio con il
comunitarismo tipico del medioevo.
La concezione medioevale del
“diritto comune” era fondata sull’equilibrio tra “iura propria”, i diritti dei
singoli e delle comunità locali o corporative, e “ius universalis”, il
complesso del diritto romano e canonico valido “in universo mundo”. Erano, in
tal modo, garantite le concrete “libertates” cittadine, comunitarie,
associative, professionali. La moderna ed individualistica “Liberté” astratta,
quella del trinomio rivoluzionario, era del tutto sconosciuta nel medioevo. Come
ha spiegato Jacques Le Goff, in età medioevale, l’economia era avvolta in una
fitta rete di vincoli corporativi e comunitari, caritativi ed associativi, per
cui parlare, per quell’epoca, di libero mercato è anacronistico. Sarebbe, in
altri termini, un falso storico. Maestri di tale falsificazione della storia
sono tutti coloro che si sforzano di dimostrare come risalente all’età
medioevale l’elaborazione, se non di una teoria integrale dell’economia di
mercato, perlomeno dei suoi princìpi basilari. Il “libero mercato”, infatti, ha
bisogno di razionalità uniformante. Cosa che solo l’imperio della legge
impersonale e del contratto, quindi dello “statalismo” e dell’“individualismo”
non dunque della consuetudine e del comunitarismo, può assicurare. Non a caso
il libero mercato nasce, gradualmente, proprio mentre i vincoli comunitari
vengono distrutti dagli emergenti Stati nazionali egemonizzati dalle
borghesie pre-moderne. Questo il motivo per il quale Karl Marx, perfetto figlio
del razionalismo moderno, ne “Il
Manifesto” del 1848, esaltava il ruolo della borghesia che distruggeva i
“variopinti legami feudali” e raffreddava le “esaltazioni mistiche e
religiose” per imporre a tutto il mondo “lo spietato pagamento in contanti” ed
il “nudo calcolo economico”.
Quello cha ha portato alla morte
dello Stato moderno è stato un lungo processo durato almeno cinque secoli.
All’inizio anche lo Stato moderno ha preteso di conservare una propria
sacralità artificiale sebbene si trattasse ormai, per via della pretesa di
disconoscere le superiori istanze universalistiche della Cristianità, di una
sacralità sempre più tendenzialmente immanente. Ecco perché lo Stato moderno,
con il suo accentramento amministrativo, appare immediatamente come una
macchina, un meccanismo, e non più come una Comunità Politica Organica. Lo
stesso monarca non è più, come in precedenza, il Luogotenente, ossia il
Vicario, del Christus Rex ma diventa il primo “funzionario” della macchina
statuale (“l’Etat c’est moi” diceva Luigi XIV, il Re Sole, in base ad una
concezione copernicana ed esoterica della sovranità che voleva tutti i corpi
del regno girare intorno al Re assoluto come i pianeti intorno al sole). Max
Weber ha visto nello Stato moderno una “grande fabbrica” che si sviluppa in
stretta unione con la rivoluzione protestante, il razionalismo filosofico, il
contrattualismo sociale (anche quando esso si veste di “giusnaturalismo” non
più cattolico, come in Locke, o non più neanche cristiano, come in Hobbes e nei
filosofi illuministi, da Rousseau a Voltaire), il mercantilismo e/o la
fisiocrazia economica, fino appunto alla Rivoluzione Industriale ed al
liberismo.
Anche se, sin dall’inizio, ha
posto le premesse della sua stessa odierna dissoluzione, lo Stato moderno, come
si diceva, conservava una sorta di sacralità artificiale che si esprimeva nella
sua posizione di “paterna” ed accettata egemonia sui sudditi, continuando fino
alla fine del XVIII secolo a godere dell’aurea di sacralità che ancora
circondava il Sovrano, e nell’accentramento del potere nella persona stessa del
monarca non più vincolata ai patti tradizionali e consuetudinari in precedenza
sussistenti tra il re ed i ceti, i corpi intermedi, le città del regno.
Accentramento del potere che fu organizzato, l’esempio prussiano è un classico,
su un’organizzazione di tipo gerarchicamente militare in senso moderno. Un
apparente ritorno alla romanità che però, per la pretesa di rinunciare alla
cristianità, era una epocale scimmiottatura della stessa romanità antica:
quest’ultima, infatti, fu il precursore pagano della Cristianità (“Quella Roma
onde Cristo è romano”, cantava Dante nei secoli medioevali) mentre la
riedizione neopagana della romanità, umanistico-rinascimentale prima,
puritano-americano ed illuministico-giacobina poi, è stata la pretesa storica
di baipassare la Cristianità
medievale “corruttrice” per riallacciare, con un volo pindarico ed ideologico, la Roma antica, o meglio il suo
fantoccio mitico, alla Nuova Roma o Terza Roma (così Mazzini), opponendo
a-storicamente la Roma
pagana delle prische virtù civiche alla Roma cristiana ed oscurantista dei
Papi.
La Pubblica Amministrazione nasce
proprio dallo sviluppo di questo accentramento del potere nelle mani del
monarca assoluto per la trasmissione ed esecuzione dei suoi ordini. Questo
comportava da parte dei funzionari pubblici un senso altamente militare di
fedeltà al Sovrano ed un’etica della responsabilità nell’amministrazione della
cosa dello Stato, coincidente per lo più con il patrimonio del re, che rendeva,
per i tempi e nonostante ogni resistenza comunitaria, meccanicisticamente efficiente
l’amministrazione proprio perché gerarchicamente strutturata. Un’efficienza che
qualificava persino l’amministrazione di realtà politiche plurinazionali e
pluriconfessionali come l’Impero Asburgico, ultimo residuo del Sacro Romano
Impero e, dunque, di quel “superiorem” che le monarchie nazionali assolute
avevano disconosciuto.
Quando con la Rivoluzione Francese
i sudditi diventano cittadini e la repubblica si sostituisce alla monarchia
siamo già un passo avanti nel processo di desacralizzazione dell’apparato
statuale ed amministrativo (2) e
tuttavia quella sorte di sacralità spuria, che abbiamo visto caratterizzare le
monarchie assolute, ha continuato a sussistere anche nella nuova forma
repubblicana dello Stato come testimoniano slogans rivoluzionari del tipo “La Republique ou la mort”.
Con l’illuminismo ed il giacobinismo la sacralità artificiale delle monarchie
assolute si muta in messianismo rivoluzionario. Nasce qui la “religione della patria”,
alla quale faranno seguito quelle della razza, della classe ed, oggi, del
mercato. L’auto-incoronazione di Napoleone è il gesto epocale che meglio
rappresenta questa sacralità immanente che con la modernità si impone
nonostante tutte le sue dichiarazioni di “laicità”. Proprio per questo, e
nonostante la Grande Rivoluzione ,
rimase tuttavia ancora in piedi il concetto dello Stato, e del Pubblico, come
di qualcosa di “sacro” e di egemone sulla società civile. Questa idea, si badi,
continuò ad agire sia, come è ovvio, nei sistemi autoritari ed in quelli
totalitari in forma di “ideocrazia” (autoritarismo e totalitarismo non sono
affatto la stessa cosa ed, in quanto a grado di avanzamento verso il moderno
esito nichilistico del Politico, il secondo è più avanzato del primo) che nelle
liberal-democrazie. In queste ultime la sacralità spuria si manifesta nella
forma legalistica dell’“etica pubblica” o in quella della massonica “religione
civile”: entrambe di radici luterane.
Pur con tutta l’equivoca
sacralità che lo ha caratterizzato, tuttavia lo Stato moderno ha, a suo tempo,
svolto una funzione storica essenziale ossia quella di comporre
interclassisticamente il conflitto sociale, scatenato dal capitalismo e dalla
rivoluzione industriale, che altrimenti avrebbe distrutto lo Stato stesso ed
anche il mercato. Lo Stato sociale, prima della sua declinazione democratica
e/o socialdemocratica, nacque a “destra” lungo un filone che comprende la
denuncia reazionaria dei costi sociali della rivoluzione borghese (il
“socialismo aristocratico” odiato da Marx), il movimento sociale cattolico
ottocentesco (Opera dei Congressi, Giuseppe Toniolo, Leone XIII) ed i regimi
autoritari di massa, come quelli fascisti o di socialismo nazionale, che, in
quanto di massa, erano propensi ad una forte politica di modernizzazione e
socializzazione dirigista. Lo Stato sociale è appunto la forma che lo Stato
nazionale moderno ha assunto tra XIX e XX secolo per rispondere alla necessità
di comporre il conflitto sociale. In tale forma lo Stato ha caratterizzato
l’Europa post-bellica e, in misura minore ed in forme diverse, gli Stati Uniti fino
agli anni ’80 del secolo scorso, quando la politica neoliberista di Margaret
Thatcher in Inghilterra e quella di Ronald Reagan in America hanno dato una
forte spinta al processo di globalizzazione dei mercati e quindi al superamento
dello Stato nazionale moderno che ha
coinvolto anche lo Stato sociale accusato di ingenerare un insostenibile debito
pubblico ed una spesa pubblica inefficiente.
Ma, senza che la spesa pubblica sia effettivamente diminuita, le
politiche neoliberiste hanno ottenuto soltanto l’effetto di riaprire la più
aspra conflittualità sociale tra gruppi, classi ed individui. Una
conflittualità che fa della attuale compagine sociale qualcosa di analogo ad un
corpo morto in putrefazione che si dissolve nella dis-organicità e nella
polverizzazione ed alla quale oggi si cerca di porre rimedio, in nome della
sussidiarietà orizzontale, con proposte di “welfare community” o “welfare
society”, alternative al tramontato “Welfare State”, ma finora senza la stessa
efficienza a suo tempo storicamente dimostrata dal vecchio Stato sociale. La
putrefazione sociale è l’esito dell’individualismo che crede di poter
legittimare i legami sociali riducendoli a meri reciproci contratti tra individui
a tutela dell’egoismo utilitarista di ciascun contraente.
Con il passaggio dall’età moderna
al postmoderno, storicamente realizzatosi nel corso del XX secolo con una forte
accelerazione dal dopoguerra, ed in particolare dal 1968, per diventare palese
tra la fine del secolo scorso e l’inizio del secolo presente, si è avuto
contestualmente l’inasprirsi del processo di desacralizzazione del Politico con
la tendenziale trasformazione dello Stato, inteso come apparato amministrativo,
da organizzazione burocratica, ancora legata ai vecchi modelli gerarchici di
tipo militare, ad organizzazione aziendale ispirata ai nuovi, postmoderni
appunto, modelli del management: sicché parlare oggi di burocrazia diventa
sempre più improprio in quanto, al contrario, gli apparati organizzativi della Pubblica
Amministrazione stanno sempre più assumendo, secondo gli auspici già
ottocenteschi di Saint Simon ripresi nel novecento da Thorstein Veblen, un
carattere tecnocratico. Nel modello tecnocratico ciò che è prevalente non è più
la legittimità o la legalità procedurale, sancite dal principio costituzionale,
di matrice liberale classica, del “nulla potestas sine lege”, principio nel
quale riecheggiava ancora quella sorta di “sacralità” artificiale che ha
caratterizzato lo Stato moderno, ma, al contrario, il profitto che, calato
nella Pubblica Amministrazione, è chiamato “rapporto costo/benefici”.
Per un’organizzazione pubblica
adottare i criteri tipici di un’azienda è innaturale. Quanto più in Italia dove
il processo di unificazione nazionale ha prodotto uno scollamento totale tra la
cultura “illuminista” prevalente nei ceti dirigenti e la cultura del popolo
italiano forgiatasi nel Cattolicesimo, con la conseguenza – salvo la breve
parentesi, però autoritaria, del fascismo – che lo Stato unitario è nato sulla
base di un sentimento di disprezzo anti-nazionale ed anti-popolare coltivato
appunto dalle classi borghesi egemoni che realizzarono il Risorgimento di
matrice massonica ossia l’unità nazionale realizzata contro l’identità religiosa
cattolica del popolo. Lo scollamento tra cittadini ed istituzioni, che tutti
oggi conosciamo, nasce da questo dramma storico: gli apparati pubblici dello
Stato italiano, in qualche modo, si portano ancora dietro quella stessa
diffidenza verso il popolo amministrato che mostrò sin dall’origine lo Stato
unitario liberalmassonico, governato da affaristi che dopo aver fatto l’Italia
– diceva persino un insospettabile di reazionarismo come Gramsci – l’hanno divorata.
Uno Stato unitario che si sentiva, a torto o a ragione, minacciato dalle masse
ancora sottomesse al “clericalismo” o avviate verso il “socialismo”.
Qui ci sia ora consentito notare
che la trasformazione dello Stato in azienda segna il definitivo esito
nichilista del moderno processo di desacralizzazione. Al culmine di questo processo
di desacralizzazione sfociato nella liquefazione postmoderna, è dato infatti registrare
che, dissolto il legame tra Sacro e Politico, alla “morte di Dio” è seguita a
ruota la morte della politicità naturale dell’uomo e, dato che l’uomo è
“creatura sociale”, anche della Comunità Politica nella sua forma statuale
moderna.
Ne è conseguita la riduzione,
mortificante, della Politica dapprima a pura amministrazione e poi a gestione
meramente clientelare di affari: non che in precedenza non vi fosse anche
l’aspetto della amministrazione degli affari correnti e straordinari della Res
Pubblica, ed anche un certo tasso inevitabile di corruzione, ma la Politica non era questo o
perlomeno non era solo questo, essendo essa, un tempo, innanzitutto
progettualità (“il chiamare genti diverse a fare qualcosa insieme” secondo la
definizione di Ortega y Gasset) e, prima ancora, opera di modellazione, per
quanto le deboli forze umane lo consentissero, della legge civile sulla legge
di natura e, quindi, in ultima istanza e per mediazione di questa, alla Legge
di Dio (3). “Per Me reges regnant”
era inciso, non a caso, sulla corona del Sacro Romano Impero, e si trattava
della trascrizione delle parole della Sapienza, ossia del Verbo di Dio, tratte
da un passo biblico attribuito a re Salomone (Prov. 8, 15).
Ma se un tempo ad una forma
storica della Comunità politica ne succedeva un’altra, oggi allo Stato moderno
non sembra subentrare alcuna forma di nuova associazione politica. Infatti la
Politica, nel senso alto e nobile del termine, è ormai chiaramente defunta ed
al suo posto è subentrato il potere di anonimi tecnocrati nonché una egemonica
bancocrazia transnazionale che, mediante la spoliazione centralbancaria del
monopolio di emissione e controllo della moneta e l’abbandono
dell’approvvigionamento finanziario degli Stati alla mercé dei “mercati”, ha
letteralmente castrato la sovranità nazionale per favorire la speculazione
finanziaria globale. I politici oggi sono i camerieri dei banchieri e gli
esecutori delle ricette, impolitiche, dei tecnocrati. La sostituzione alla
Politica dei poteri anonimi non è avvenuta alla luce del sole ma
surrettiziamente ossia mantenendo apparenti forme democratiche nella gestione
della cosa pubblica e tuttavia svuotando i parlamenti di effettivi poteri
decisionali. Non è un caso che sempre più spesso si parla di
“demo-tecnocrazia”, nel senso di un governo nel quale la volontà popolare è
guidata ed indirizzata, naturalmente per il suo “bene”, dalla “saggezza” di una
Oligarchia – sì: questa è la vera Casta! – di tecnocrati non eletti da nessuno
ma cooptati da lobby transnazionali. Insomma, si tratta della democrazia sotto
tutela a dimostrazione che proprio a questo è servita, alla fin dei conti, la Rivoluzione Francese :
togliere il potere ai re per passarlo nelle mani della tecnocrazia bancocratica
apolide lasciando al popolo l’illusione di essere diventato esso il sovrano.
Ecco perché non è più possibile parlare ancora di “politica” ma solo, tutt’al
più, di apparati di partito, tenendo però conto che, come ulteriore effetto
della desacralizzazione del Politico, non esiste più il vecchio modello del
partito ideologico di massa ma che anche i partiti sono diventati a modo loro
delle “aziende” come, del resto, tutta la lotta tra i partiti un agone
pressoché esclusivamente mediatico.
Di uno Stato ancora dotato di una
sacralità artificiale, come quella sopra descritta, possiamo storicamente
parlare soltanto fino agli anni ’30-60 del XX secolo, quando persisteva ancora
in qualche modo l’idea che il compito principale dello Stato fosse garantire il
bene comune e non quello di una fazione contro l’altra.
Nonostante ogni speranza, nutrita
da Pio XI, e nonostante ogni plausibile ed effettiva possibilità storica del
momento, di “battezzare” il regime trasformandolo secondo i principi del
corporativismo e del sindacalismo cattolico, quello “corporativista” del
fascismo era uno Stato etico hegeliano storicisticamente votato alla futura
coincidenza immanente con il substrato produttivo nazionale auspicata da
corporativisti “comunisti” come Ugo Spirito (l’ultimo Giovanni Gentile, non a
caso, era sospeso tra il richiamo, fortemente sentito, al riavvicinamento, se
non alla conversione, alla fede cattolica e la fascinosa tentazione che su di lui
ancora esercitava la prospettiva dell’eticismo immanentista del corporativismo
a tendenza comunista, che egli considerava l’inevitabile esito dello Stato
etico ed ad attendere le more dello sviluppo del quale invitava i suoi allievi
corporativisti di sinistra e persino gli avversari comunisti). Eppure anche lo
Stato etico di matrice hegeliana rivendicava per sé una sacralità artificiale,
spuria, ed accampava una propria “trascendenza” rispetto alla società civile.
Si trattava senza dubbio di una pretesa senza effettivo e duraturo fondamento,
quindi assolutamente temporanea e circoscrivibile a quella fase della dinamica secolarizzatrice
che Augusto Del Noce chiama, appunto, “sacrale” per distinguerla da quella
successiva ovvero “profana” caratterizzata dal disincanto del pensiero forte.
Tuttavia, in quella fase benché
temporanea di apparente ed artificiale “sacralità”, la scelta dei regimi
autoritari di massa, come quello fascista italiano, di subordinare il partito
unico allo Stato, e non il contrario, è indicativa del persistere, all’epoca,
di una etica pubblica che travalicava lo stesso fondamento ideocratico del
regime. Infatti, pur tenuti alla formalità del giuramento di fedeltà al regime
e del tesseramento al partito, i funzionari pubblici rimanevano, in una qualche
misura, autonomi dall’ideologia continuando ad essere reclutati mediante
pubblici concorsi ed a far carriera per esperienza e professionalità acquisita.
Cosa questa che l’ala più intransigente del fascismo sempre rimproverò a
Mussolini accusandolo di aver in tal modo castrato le potenzialità
rivoluzionarie del regime avendone affidato lo sviluppo non a commissari
politici ma alla vecchia burocrazia a-fascista. Gli storici ben sanno che,
infatti, a differenza della Germania nazista e della Russia comunista,
nell’Italia fascista il partito era subordinato allo Stato (il federale era
subordinato al prefetto di nomina e carriera statale), cosa che, appunto,
assicurava, per quanto la situazione di un regime autoritario di massa lo
consentisse, una certa indipendenza degli apparati statali dalla faziosità che
inevitabilmente accompagna l’ideologia, non esclusa, nell’Italia del tempo,
quella dei fascisti più radicali (4).
Se l’immanenza assoluta tra Stato
e società è ciò che, per i politologi, caratterizza, a differenza
dell’autoritarismo di massa, il totalitarismo, d’altro canto è soltanto una
mitizzazione la comune convinzione che esso sia stato in grado di realizzare
una organizzazione perfetta. Questo era ciò a cui esso aspirava ma, per
eterogenesi dei fini, in realtà ha prodotto soltanto una forma di “caos
organizzato”. Chi studiasse il funzionamento degli apparati nazista e sovietico
scoprirebbe, con sua grande meraviglia, una sordida lotta di potere tra gruppi
rivali per accrescere la propria sfera di influenza agli occhi del Capo. Una
concorrenza che sconvolse, per l’accavallarsi delle competenze e dei centri
decisionali, nella contraddittorietà delle direttive erogate, la vita normale
dello Stato, fagocitato dal partito unico.
Una situazione non dissimile,
tuttavia, è quella delle democrazie pluripartitiche e di mercato: anche qui
l’illusione che la concorrenza sia sempre benefica e, quindi, il caos
organizzato. La differenza sta nel fatto che nelle democrazie i Capi possono
essere sostituiti. Una differenza non di poco conto ma che nulla toglie al
volto “oscuro” del potere quando esso rimane chiuso ad istanze superiori.
Generalmente si ritiene che Marx
fosse statalista. Nulla di più errato: per Marx lo Stato, nella società
comunista compiuta, doveva scomparire per lasciare il posto
all’auto-organizzazione spontanea della società (“ciascuno secondo le proprie
capacità, a ciascuno secondo i propri bisogni”). I liberali, fedeli all’idea
della spontaneità sociale garantita dalla “mano invisibile”, sono costretti, se
intellettualmente onesti, a riconoscere, inevitabilmente, in questa prospettiva
marxiana la propria medesima filosofia sociale, anche al di là del fatto,
filosoficamente del tutto secondario, che per Marx l’obiettivo era
raggiungibile solo con l’abolizione della proprietà privata. Non a caso i
cosiddetti “anarcoliberisti” americani, che rappresentano la punta più avanzata
del liberalismo e sognano le “privatopie”, si considerano marxiani.
Del resto anche nella prassi
liberale la proprietà non è adeguatamente tutelata. Il capitalismo si è
sviluppato grazie allo schema della società anonima nella quale la proprietà è
sostanzialmente abolita perché essa non appartiene agli azionisti. Il titolo
azionario, infatti, è solo un titolo di credito, non di proprietà, per mezzo
del quale gli azionisti possono rivendicare verso la società anonima un diritto
al dividendo sociale degli utili. Ma la proprietà del capitale, a differenza di
quanto avviene nel caso delle società di persone nelle quali essa è in comproprietà
pro quota tra i soci, è attribuita alla “persona giuridica” ossia a quella
fictio iuris, centro impersonale ed astratto di imputazione di diritti e di
poteri, che Giacinto Auriti chiamava “società strumentalizzante”, dietro la
quale si nascondono le persone fisiche degli amministratori. Secondo questo
stesso schema agiva lo Stato comunista, proprietario effettivo del capitale
nazionale che però era gestito e controllato, benché in nome del popolo, dalla
nomenclatura del Partito, l’oligarchia privilegiata del sistema totalitario.
Ma, con perfetta analogia, lo schema della finzione della personificazione
giuridica è proprio anche dello Stato costituzionale liberale. Dietro
l’apparente forma procedurale liberale e democratica agiscono in realtà lobby, consorterie
di loggia o di partito o tecnocrazie apolidi vere detentrici del potere. Ecco perché, a
modo suo, ha ragione Francesco Giavazzi quando afferma che il liberismo è di
sinistra. Solo che essendo figlio della stessa utopia solipsista marxiana,
anche il liberismo è puntualmente destinato all’eterogenesi dei fini, come i
fatti hanno e stanno dimostrando. Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi.
Dagli anni ’60-’70 del secolo
scorso è, dunque, iniziata la fase acuta della desacralizzazione dello Stato
che è coincisa con una progressiva destatualizzazione. Non può negarsi, sotto
un profilo storico, che questa fase acuta della depoliticizzazione dello Stato,
che ha le sue lontane radici nella sua progressiva desacralizzazione, ha avuto
inizio nel secolo scorso proprio mentre esso diventava anche, necessario, Stato
sociale. L’ipertrofia statuale, inevitabile per l’accumularsi delle funzioni
necessarie alla composizione del conflitto sociale cui lo Stato moderno fu
chiamato a causa delle deficienze sociali dell’economia capitalista, aumentò
notevolmente dagli anni settanta in poi. Ma in realtà questa ipertrofia dello
Stato era nient’altro che il segno dell’incipiente depoliticizzazione la quale,
infatti, dagli anni ’80, con la rivoluzione neoconservatrice, si manifestò
apertamente. L’assunzione da parte dello Stato di necessarie funzioni sociali
ne ha, infatti, provocato l’ulteriore depoliticizzazione in favore di un puro
Stato-amministrativo, al quale ben presto è stato richiesto di uniformarsi a
modelli post-moderni di efficienza aziendale nell’erogazione dei servizi
pubblici o addirittura di privatizzarli, lasciando sempre più spazio al
mercato. In un certo senso allo Stato si è chiesto di auto-liquefarsi nel
mercato. Incapace, per via del suo “peccato” d’origine consistente nel rifiuto
di ogni legittimazione sacrale, di resistere a tale richiesta, perché in fondo
essa è conforme allo stesso statuto filosofico immanentista che lo ha generato,
allo Stato moderno sembra non resti altro che liquefarsi come il metaforico
cubetto di ghiaccio della “modernità solida”.
Luigi Copertino
NOTE
1)
Cfr. Franco Cardini – Sergio Valzania “Le radici perdute dell’Europa – da Carlo V
ai conflitti mondiali”, Mondadori, Milano, 2006.
2)
Un grande filosofo giurista come Carl
Schmitt lamentava proprio questa deriva desacralizzante dello Stato moderno
alla lunga incapace di incarnare una vera sacralità come la Chiesa cattolica
nella Persona di Cristo. Cfr. C. Schmitt “Cattolicesimo
romano e forma politica – la visibilità della Chiesa. Una riflessione
scolastica”, Giuffré editore, Milano, 1986.
3)
E’ la mediazione della legge naturale tra la Legge di Dio e la legge
umana che fa la differenza tra la teologia cattolica del Politico, da un lato,
e le ricorrenti tentazioni teocratiche ed i moderni fondamentalismi,
dall’altro: lo Stato è di natura e non è pertanto ammissibile nessuna teocrazia
o clericocrazia. Come anche nessun laicismo.
4)
Lo Stato corporativo era fondato su un
ordinamento sindacale gius-pubblicista ma vietava, proprio per assicurare
l’indipendenza da indebite interferenze, agli impiegati pubblici, che “erano” e
dovevano rimanere lo Stato, l’iscrizione ai sindacati, benché questi, quali
enti pubblici, fossero inquadrati nella stessa organizzazione amministrativa
statuale. Una testimonianza dell’indipendenza degli apparati statuali
dall’ideologia come dagli interessi privati, durante l’esperienza dello Stato
corporativo, è riportata nel libro-intervista a Francesco Grossi, un
sindacalista fascista, che faceva parte dell’entourage di Italo Balbo e di
Nello Quilici (il padre del noto documentarista Folco Quilici) all’epoca
direttore del Corriere Padano. Racconta il Grossi che, nel giugno 1936, a Palazzo Wedekind,
sede del Ministero delle Corporazioni, durante una seduta della Corporazione
Cerealicola, presieduta (cosa del tutto rara) da Mussolini in persona, il
rappresentante degli industriali panificatori perorava con veemenza l’aumento
non inferiore a 20 centesimi di lire del prezzo del pane, motivandone la
necessità con la scusa degli aumentati costi di produzione. Il Grossi,
rappresentante della parte sindacale fascista, invece si opponeva sostenendo che
con un tale aumento gli industriali panificatori avrebbero fatto pagare ai
consumatori ed ai lavoratori la crisi del relativo settore ben oltre il
legittimo profitto spettante al capitale. Mussolini chiese informazioni e dati
ai funzionari del Ministero delle Corporazioni che, sebbene - come si è detto -
avessero giurato come tutti i dipendenti pubblici fedeltà al regime, non
dipendevano dal Partito fascista né dalla Confindustria o dai Sindacati
fascisti, ma erano stati assunti sulla base di procedure concorsuali ed immessi
in carriere avanzare nelle quali dipendeva soprattutto dall’esperienza che
affina le capacità ed il patrimonio professionale. Orbene, quegli onesti
funzionari ministeriali, dotati di forte etica dello Stato, dimostrarono a
Mussolini, dati statistici alla mano, che la richiesta degli industriali
panificatori era effettivamente esorbitante l’intervenuta diminuzione di
profitti, dovuta agli aumentati costi di produzione, e che quella richiesta, se
accolta, avrebbe inciso in misura insostenibile su consumatori e lavoratori.
Mussolini decise per un aumento del prezzo del pane di soli 5 centesimi. Ma se
la nomina e la carriera di quei funzionari fosse dipesa dalle influenze del
Partito o della Confindustria o dei Sindacati avrebbero essi messo Mussolini in
condizione di una decisione così equilibrata? C’è da che riflettere per Matteo
Renzi che, invece, con le sue riforme, in gestazione avanzata, vuole legare i
dirigenti pubblici, come i docenti delle scuole italiane, a valutazioni che
rischiano di essere mosse da influenze partitiche, minandone l’autonomia con la
minaccia del licenziamento. Per la testimonianza storica di cui sopra si legga di
Francesco Grossi “Battaglie sindacali
– intervista sul fascismo rivoluzione
sociale incompiuta” a cura di Massimo Greco, ISC, Roma, 1988, pp. 47-48.
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