Nell'opera
di Enrico Berti “Struttura e Significato della Metafisica di Aristotele” (Ed. Pontificia
Università della Santa Croce, 2005), l'autore analizza in 10 lezioni il pensiero
sulla 'filosofia prima', messo a punto dallo Stagirita. Nella presentazione al
testo, Ignacio Yarza definisce il filosofo italiano un esperto assoluto della
materia, paragonandolo a quel viaggiatore che prima di raggiungere una meta
elevata percorre un lungo tragitto, supera passaggi difficili, attraversa
sentieri impervi, dopodiché una volta raggiunta la vetta domina l'orizzonte.
Lo
studioso - come ricorda sempre il prefatore - non pretende che la sua sia
l'unica possibile ricostruzione della Metafisica
aristotelica, ma crede fermamente che le sue ricerche abbiano raggiunto
alcuni punti fermi, alcune autorevoli verità.
In
questo breve excursus analizzeremo la
prima lezione del professor Enrico Berti in cui vengono spiegati i primi
3 libri dei 14 che compongono la Metafisica di Aristotele: Alfa maggiore,
Alfa minore e Beta. Per Berti tutti e tre i testi rappresentano
un'introduzione alla Metafisica. Nelle prime pagine spiega come nella
numerazione greca i libri si indicassero con le lettere, perciò il fatto che ci
fossero due libri alfa ha lasciato spazio a dibattiti e discussioni. Lo
specialista ricorda l'edizione catalogata col nome di Parisinus Regius portata
in dote a Parigi da Caterina de' Medici andata in sposa a Enrico IV con uno
scolio (annotazione fatta dall'amanuense che trascrisse l'opera) tra la fine
del I libro e l'inizio del II . Nella nota si legge: “questo libro, secondo
alcuni, fu composto da Pasicle di Rodi”,
nipote di Eudeco discepolo
di Aristotele. Da qui il dubbio sulla paternità di uno dei due libri alfa.
Ormai
la maggior parte degli studiosi si trova d'accordo e li considera entrambi
originali. Con ogni probabilità sono stati scritti in periodi diversi e quindi
non dovevano comparire nella stessa raccolta.
Anche il terzo libro Beta - spiega sempre Berti - è in un certo
senso introduttivo poiché Aristotele non espone subito la scienza che forma
l'oggetto dell'opera ma la presenta. Nel successivo libro Gamma invece
il pensatore greco dà inizio alla vera e propria esposizione.
Interessante
ricordare che le opere di Aristotele, pubblicati tre secoli dopo la sua morte
da Andronico di Rodi, fossero in realtà i suoi appunti, i testi utilizzati
durante le sue lezioni, i logoi (discorsi).
“Tutti gli uomini per natura desiderano
conoscere”, con queste
parole si apre la Metafisica di Aristotele. Il professor Berti subito ci
conduce nel vivo dell'opera, si sofferma su quel “tutti gli uomini” (pantes anthropoi), che sta a significare
tutto il genere umano. Dal momento che anthropos si traduce con essere umano. Quindi nella
definizione aristotelica sono comprese anche le donne, all'epoca né educate
alla cultura, né tanto meno considerate; gli schiavi, quella greca infatti era
una società divisa in liberi e schiavi; e gli stranieri che con disprezzo i
greci definivano barbari (balbuzienti) per via del loro linguaggio
'incomprensibile'. “Anthropoi – scrive
lo studioso - è una nozione che abbraccia tutti gli esseri umani,
indipendentemente dal genere e dalle condizioni sociali”. A questo proposito
il filosofo veneto cita San Paolo: “non c'è più né uomo né donna, né schiavo
né libero, né Greco né barbaro” (Col 3.11; Gal 3.28). Insomma gli uomini -
secondo Aristotele - vogliono conoscere non per qualche motivo in particolare,
ma per natura, cioè per il solo fatto di essere umani.
Nel
vedere sta l'inizio della conoscenza. Significativo questo passaggio di Berti: “La
vista dice Aristotele, fra tutti i sensi, è quella che ci fa cogliere più
differenze (980 a
26-27). Tutti i colori, le forme, sono infinite, tutta la varietà del mondo
dell'esperienza viene colta attraverso la vista e, dunque, la vista ci fa
conoscere più di tutti gli altri sensi, per questo noi la amiamo, e per questo
essa ci produce piacere”. Non a caso alcuni modi di dire prendono spunto
proprio dalla vista. Per esempio a una persona a cui vogliamo particolarmente
bene usiamo dire: “sei la luce dei miei occhi”.
Aristotele
nel primo libro Alfa afferma che la ricerca è radicata nella più
profonda natura dell'uomo, in cui si riscontrano una serie di gradi di
conoscenza, che partono dal più basso: dalla 'percezione' aisthésis (letteralmente sensazione): vista, udito, tatto. Una
forma di conoscenza successiva alla percezione è il ricordo, che Aristotele
definisce come ciò che rimane di una percezione quando l'oggetto non è più presente. Va da sé che
quando l'oggetto è presente lo percepisco con i sensi, quando invece non c'è
più, quindi in un momento successivo, ne conservo il ricordo, mnêmê, da cui la parola 'memoria'.
Dopodiché c'è un terzo livello, che Aristotele chiama empeiria,
che
traduciamo dal latino come 'esperienza'. Non è lo stesso tipo di 'esperienza'
che troviamo nei filosofi empiristi Hume e Locke, per loro si tratterebbe
semplicemente di percezione. Per Aristotele invece l'esperienza è un grado di
conoscenza più avanzato: "molti ricordi di uno stesso oggetto"
(980 b 29). Dapprima vedo l'oggetto, poi lo ricordo, quando ho più ricordi
nasce in me l'esperienza. Come fa notare Berti, l'aggettivo esperto deriva da
esperienza. L'etimologia aiuta sempre il ragionamento. Poi continua Aristotele
c'è una forma di conoscenza superiore rispetto all'esperienza, la conoscenza
dell'universale, ossia di ciò che vi è di comune e di identico fra molti casi
particolari o individuali. Lo Stagirita fa l'esempio del medico 'curante' (la
professione di suo padre) cioè di colui che sa che a coloro con una determinata
malattia va somministrato un preciso farmaco. In pratica riesce a conoscere la
connessione tra il caso particolare e la specie a cui appartengono gli ammalati
di quella malattia. Ecco che abbiamo l'universale. Aristotele coglie
l'universale con la scienza che nell'opera chiama 'sophia' cioè sapienza. In
greco la parola non indica un particolare tipo di sapere ma semplicemente il
grado più elevato di sapere in ogni comparazione. Nel libro Alfa maggiore della Metafisica c'è per la prima volta la famosa definizione: la
sapienza è la scienza delle cause prime, anzi Aristotele dice dei principi e
delle cause prime (982 b 9). Le cause prime, che nascono dalla domanda sul
perché delle cose, le ha trattate nelle sue precedenti opere di fisica. I
quattro diversi generi di cause sono la causa materiale, ciò di cui le cose
sono fatte; la causa formale, ciò che ne determina la forma; poi la causa
efficiente o motrice, ciò che dà inizio al mutamento e dà origine a qualcosa; e
per ultimo la causa finale, lo scopo cui una cosa tende. Ma all'interno di
ciascuno di questi quattro generi bisogna cercare la causa prima per ogni
genere. Per fare questo lo Stagirita si serve dei filosofi che lo hanno
preceduto: Talete, Anassimandro, Anassimene, Pitagora, Eraclito, Parmenide.
Nella trattazione Aristotele mette in bocca ai pensatori precedenti cose che in
realtà non hanno detto. In un certo senso fa una forzatura per dare solidità e
fondamenta al suo discorso. L'esempio lampante è Talete. Aristotele dice che
l'acqua indicata da Talete come principio di tutto, sia una causa materiale. In
verità questo Talete non l'ha mai detto, anche perché nemmeno aveva il concetto
di materia. Per Talete l'acqua era semplicemente tutto. Aristotele prosegue
sulla sua strada, riguardo ai Pitagorici dice che con i numeri intendevano la
causa formale (987 a
13-19). Poi con Empedocle che dice che l'Amore e l'Odio determinano tutte le
cose, si ha la causa motrice, ciò che muove (985 a 29-31). Per quanto
riguarda la causa finale, anche se non è stata individuata da nessuno dei
presocratici, Aristotele attribuisce ad Anassagora un particolare avvicinamento
alla 'scoperta' quando ha detto che c'è un Intelletto che governa tutto. Non ha
usato però l'Intelletto per spiegare come vanno veramente le cose (985 a 18-21). Una critica che
anche Platone ha rivolto al filosofo di Clazomene. Da sottolineare che
Aristotele vede anche nell'Idea di Platone, specialmente nell'Idea del bene,
una causa finale.
Concludiamo
con il primo libro Alfa della Metafisica ricordando che queste pagine possono essere considerate a
buon diritto come la prima storia della filosofia, lo Stagirita infatti espone
qui il pensiero dei filosofi presocratici e del maestro Platone.
Nel
libro Alfa minore invece si enuncia l'impossibilità di andare sempre
all'infinito per ricercare le cause, in questo modo – afferma Aristotele – non
si fa mai scienza. Qui Aristotele inizia col dire: "la filosofia è la
scienza della verità" (993 b 20), e però aggiunge subito dopo: "ma
conoscere la verità significa conoscere le cause" (993 b 23·24), ed
ecco allora che torna la stessa concezione del libro Alfa maggiore. Poi
dice: "le cause sono di quattro generi e in ciascuno dei quattro generi
ci deve essere una causa prima" (994 a 1·2). Secondo Berti questo libro doveva
essere un'introduzione a un'opera che parlasse sia di fisica che di metafisica.
Nel
libro Beta il filosofo di Stagira ci dà il metodo per fare scienza: bisogna
formulare aporie, problemi difficili e poi svilupparli in due direzioni
opposte. Una volta svolta l'operazione vedere quali conseguenze ne derivano, se
sono accettabili o meno, così facendo si è in grado di conoscere meglio che
cosa è il vero e cosa è il falso. Essere come giudici che ascoltano sia
l'accusa che la difesa.
Domenico Rosa
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