lunedì 30 maggio 2016

Pagine di storia proibita: Le lettere di un combattente in camicia nera dal fronte russo

Il fascismo fu uno scandalo intollerabile, diffamato e deprecato perché dimostrava la possibilità di sedare, mediante la riforma corporativa, i conflitti sociali, che tormentavano le società moderne (conflitti purtroppo  rilanciati  dall'antifascismo trionfante e gongolante).
 Il governo di Benito Mussolini mise ordine nella società nazionale, aggiornando e attuando i princìpi della  tradizione italiana, che è ordinata al superamento dei sistemi fallimentari, in tormentosa e infausta circolazione nel mondo moderno - l'individualista di stampo anglo-americano e il collettivismo in spettrale attività  nelle riserve dell'ideologia sovietica.
 L'Italia del Ventennio fascista era una nazione all'avanguardia, oggetto di ammirazione (e purtroppo di invidia spietata) perché aveva attuato la soluzione del conflitto sociale, un male che il pensiero pre-fascista giudicava invincibile.
 La oligarchia di stampo liberale nutriva un'imparruccata, soffocante superstizione intorno alla mano magica del mercato, la fantasticheria marxiana rovesciava la speranza dei popoli oppressi in un patibolo il sogno del paradiso  in terra. 
 La rivoluzione fascista, vincente sfida alle ideologie, irritava e inferociva i produttori degli incubi sociali, ma destava, nella mente degli italiani fedeli all'umile Italia, la consapevolezza di vivere una straordinaria, esaltante avventura, la rivolta contro i poteri dell'illusione a due teste matte.
 Sagace interprete della storia contemporanea, Pierfranco Malfettani rievoca le imprese italiane nella seconda guerra mondiale, alle quali partecipò il fratello di sua madre, Nino Solinas (1923-1943), un giovane, esemplare fascista di Novi Ligure.
 Promettente disegnatore, Nino Solinas rinunciò alle promesse della sua maestria per arruolarsi, giovanissimo volontario, nelle Camicie nere. Fu valoroso combattente in Jugoslavia e in Russia, prima di ammalarsi e di morire a causa di una infezione polmonare, probabilmente causata dalla ripetuta esposizione alle intemperie.
 Edite in Genova dalla libreria editoriale Sibilla, le lettere di Nino e indirizzate ai familiari in   trepida attesa (lettere finalmente pubblicate in un volume intitolato Noi marceremo sempre avanti) destano viva commozione nei lettori indenni dall'umiliante influsso del pensiero atlantico.
 Le lettere di Solinas sono proposte agli italiani che nutrono un ostinato, irriducibile amor di Patria e perciò ammirano l'eroismo dei valorosi combattenti nella seconda guerra mondiale.
 La testimonianza di Nino, infatti, è lo specchio della passione patriottica, ispirata dalla religione cattolica e condivisa dalla totalità degli italiani combattenti nella seconda guerra mondiale.
 Al proposito Malfettani rammenta che “Soldato politico, in quanto volontario fascista, Nino dimostra a parole di disprezzare il nemico. … Il massimo del disprezzo Nino lo riserva all'Inghilterra e agli imboscati italiani”.       

 Nelle lettere del giovane combattente si legge anche e sopra tutto l'amore per i familiari, un sentimento che la cultura al potere nel Ventennio fascista aveva incrementato. Vero è che la legge divorzista, promulgata da una maggioranza disonesta, in vista della devastazione della civiltà italiana, fu imposto dal voto di una maggioranza antifascista. A parole indenni dalla colpa fascista i vecchi democristiani furono infatti obbligati a riconoscere che fondamento della civiltà è il matrimonio indissolubile.

Piero Vassallo

‘INTIMILIUM LIGURIAE PARS EST’ (di Lino Di Stefano)

In quest’icastica espressione del grande storico latino Publio Cornelio Tacito (54/55-120 circa), tratta, dall’opera ‘De vita Iulii Agricolae liber’, VII – anche alla luce dei recenti afflussi migratori ‘in loco’ – è racchiusa l’intera identità romana ed italiana della cittadina bagnata dal fiume Roia. L’Autore, nato nella Gallia Narbonense, si riferiva, nell’occasione, non solo al saccheggio operato dai soldati di Ottone a danno della città, ma anche all’uccisione della madre di Agricola, Giulia Procilla, nei suoi possedimenti.
 Fondata dal popolo autoctono dei Liguri Intimeli, dopo la conquista romana (II sec. a. C.) essa assunse sia la denominazione di ‘Albintemilium’, sia di ‘Albintimilium’. Lo stesso autore degli ‘Annales’ una volta usa la dicitura ‘Albintimilium’ e un’altra volta quella più semplice di ‘Intimilium’.
 La storia dell’antico insediamento è secolare per il semplice motivo che esso si distende dal periodo preromano e romano a quello medievale, moderno e dei nostri giorni; ma, com’è noto, è stata Roma a conferire alla cittadina l’impronta che, oggi, ne fa non solo una graziosa località di mare, ma anche la porta occidentale dell’Italia.
 E meno male che i Trattati di pace, susseguenti alla seconda guerra mondiale, ci hanno imposto soltanto il doloroso sacrificio, a favore della Francia, di Mentone – diventato Menton - altrimenti anche Ventimiglia avrebbe cambiato nome e sarebbe, a sua volta, diventata Vintimille.
 Tornando a Roma, la città eterna non le attribuì solo una degna fisionomia, ma le lasciò in eredità notevoli resti archeologici i più importanti dei quali restano il teatro romano, le Terme e l’’Antiquarium’ che è un Museo archeologico. Il teatro romano aveva una capienza di circa duemila posti e vi si svolgevano rappresentazioni varie come commedie ed altri tipi di spettacoli.
 Tacito menziona Ventimiglia pure nelle ‘Historiae’ allorquando – esattamente nel capitolo XIII del secondo libro – durante le lotte fra Galba ed Ottone, “inritatus eo proelio Othonis miles verit iras in municipium Albintimilium” (I soldati di Otone erano arrabbiati per quella battaglia e scaricarono la loro ostilità sul municipio di Albintimilio”; la rappresaglia avvenne per punire il procuratore Mario Maturo che difendeva le Alpi Marittime e si opponeva agli Ottoniani.
 A proposito di Mario Maturo, “Tacito lo presenta come un vitelliano passato al partito di Vespasiano. I procuratori (cavalieri ma talora anche liberti) erano di nomina imperiale e curavano soprattutto aspetti amministrativi (riscossione di tasse ecc.) delle province (‘Historiae’, II, 42-43, nota, n. 18, p. 434). (Grandi Tascabili Economici Newton’, Roma, 1995)
 Ma l’Autore della ‘Germania’ – per la precisione ‘De origine et situ Germanorum liber) – non fu il solo a menzionare la località ligure perché molti altri scrittori, come, ad esempio, Plinio il Vecchio, nella sua monumentale ‘Naturalis Historia’ (III, 48), parla addirittura del fiume Roia che attraversa Ventimiglia nei seguenti termini.
 “Flumen Rutuba, oppidum Albium Intemelium”. Sempre lo storico di Como scrive testualmente: “Patet ora Liguriae inter amnes Varum et Macram CCXI”, (III, 50). (Il litorale della Liguria si propaga, tra i fiumi Varo e Magra, per 211 miglia).
 Ciò, conferma l’importanza strategico-militare della cittadina, fin dai tempi di Roma, visto e considerato che il medesimo Giulio Cesare nell’anno 705 di Roma (49 a. C.), in viaggio verso la Spagna, fu ospite di un certo Domizio - suo seguace ed oppositore di Pompeo - fatto, poi, uccidere da un sicario. Cesare vi soggiornò anche al ritorno da altre missioni fuori dall’Italia.

 Municipio romano – IX regione augustea - la città ebbe duumviri ed edili ed anche Strabone (60 a. C.- 21 d. C. circa), nella sua poderosa ‘Geografia’, la cita chiamandola ‘Albion Intemélion’ per ribadire l’importanza di una località che è sempre stata un punto determinante nelle vicende dell’estremo occidente dell’Italia. In Sicilia, esiste un’altra Ventimiglia: un grazioso comune, di circa 2.000 abitanti, in provincia di Palermo.

Lino Di Stefano

sabato 28 maggio 2016

IL TEMPO È SCADUTO (di Piero Nicola)

Noi, popolo ex intelligente e laborioso, erede di romano-cattolica tradizione, già dedito alla famiglia e alla prole, già timoroso del vero Dio, dopo settant'anni di sempre più assidua frequentazione della prostituta democratica ci facciamo battere, in quanto a civiltà, dalla semibabelica nazione americana!
   La maggioranza degli yankee ha mangiato la foglia. Pur di uscire dall'atmosfera postribolare che l'opprime, dà il suo consenso a una sorta di virile uomo del Far West. In Italia si crede ancora nella Befana in minigonna, che chiama populisti coloro i quali sono assai meno demagoghi di lei, che chiama xenofobi i capi  proponenti - convinti o no - un minimo di dignità umana.
  In Austria, metà della popolazione, consapevole o soltanto interessata, ha aderito a un quid di ragionevolezza anticonformista. La Svezia, progressista e largamente senza Dio, ha preso a tornare sui suoi passi con un ravvedimento dettato dal buon senso. Polonia, Ungheria e Slovacchia si difendono dall'impostura imperante e oscena. La Grecia freme sotto il giogo imposto dall'autocrate governo europeo: è una sorta di bomba a orologeria. Chissà se l'astuzia della cricca soprannazionale saprà sempre disinnescarla a tempo opportuno?
  Avete visto come si agitano i potenti della terra e i loro satelliti per dissuadere gli inglesi che vorrebbero uscire dall'UE? Il presidente degli USA si è intromesso nella questione del referendum. Una volta, il cittadino britannico lo avrebbe mandato al diavolo senza complimenti. Se adesso abbozza, tuttavia comincia a sentirsi scomodo in casa propria, e lo disturberebbe restare indietro rispetto al cugino d'Oltreoceano. Quante fandonie, quanti spauracchi s'inventano per deplorare la cosiddetta brexit! Di nuovo le idee invertite: i media strombazzano che staccarsi dall'Europa sarebbe una sciagura - sia la GB a sciogliersi o un altro stato membro; quando è vero il contrario. Inoltre nessuno considera che la GB sta nell'UE conservando la sterlina e privilegi, che è più legata agli USA di quanto lo sia all'Europa, secondo tradizione.
  In sostanza, in barba alla martellante propaganda pro società multietnica, le realtà nazionali restano indistruttibili. Il che non toglie la rovina delle genti.
  Qui da noi, i vizi mentali hanno ridotto la stragrande maggioranza a livello di un'oppiomane, e il gioco pauperistico sta riuscendo bene. Il governo, un poco alla volta, vende tutti i beni dello Stato, a cominciare dalle leggi oneste, dai costumi onesti, sino ai servizi pubblici, sino al pubblico patrimonio industriale e immobiliare. La società dei banchieri internazionali accarezza Renzino e la sua ripresina (se egli cade, ha già pronto un sostituto) e nel contempo ci fa accettare l'idea che nel 2020 torneremo al livello economico ante-crisi. Non si potrebbe dire nemmeno: Campa cavallo..., trattandosi di una mera presa in giro.
  Intanto, a giusti intervalli, la Commissione Europea ci accusa di calpestare i diritti umani perché non abbiamo approvato la legge delle adozioni per le famiglie di Sodoma. Ciò, in attesa di scoprire e di imporre il diritto umano all'eutanasia, alla droga e ad altri delitti. Certi giudici attuano quelle adozioni e la cosiddetta superiore magistratura sta a guardare.
  L'inverecondo Obama visita Hiroshima senza chiedere scusa per la bomba atomica; è andato in Vietnam a vendere armi (abolito l'embargo), raccomandando l'adozione degli ubriacanti diritti umani. Questa seduzione dei popoli mediante diritti osceni e disgregatori, elevata a norma di giustizia, è arma potentissima e ricattatoria per gestire l'egemonia mondiale. Ma, poiché essa dà i suoi frutti tossici anche all'interno del Grande Paese quasi egemone, i suoi abitanti ormai ne hanno abbastanza.
  E tediamoci ancora ricordando che la finta chiesa consente all'infamia, spodesta la Chiesa sissitente dichiarandola illegittima. L'inversione è diventata la regola, con enorme scandalo e perdita di anime condotte nella mortifera illusione. L'ultima enciclica ecologica Laudato si', ispirata dall'eresia di Teilhard de Chardin, dal Concilio e dai suoi continuatori, è fatta per mettere una pietra tombale sulla Fede cattolica.
  Perciò credo che l'ora sia suonata, che la sveglia abbia trillato; il tempo della mano tesa sembra finito. Non si porge nemmeno un dito al nemico che ha passato il segno, all'uccisore di anime. Qualsiasi credito gli si faccia, non equivale a una complicità ignominiosa? I nemici di Cristo devono essere i nostri nemici, anche quelli che praticano un solo ramo della grande empietà, contribuendovi.
  Il cattolico Mattarella promulga la legge più oltraggiosa, la legge di Sodoma (sempreché Sodoma avesse legalizzato le famiglie impossibili). Non siamo forzati alla guerra giusta? Qualsiasi speranza rivolta alla classe dirigente e al clero connivente non è illusoria o erronea? non è piuttosto diabolica?
  Il nemico va trattato come tale, come manifesto nemico del Signore. Una concessione fatta a chi lo avversa o abusa del suo Nome, diventa scandalosa. E sappiamo quanto Cristo riprovi gli scandali.


Piero Nicola

venerdì 27 maggio 2016

Dal dialogo ecumenico al compromesso con l'errore

Ai teologi volanti e festanti nel rovente soffio del post concilio, il compianto Nino Badano, dopo aver contestato l'incauta apertura al dialogo, rammentò l'esempio offerto da un papa di santa vita e di alta dottrina, San Leone Magno (Volterra 390 – Roma 461).
 L'intrepido pontefice, infatti, sconsigliava energicamente e addirittura proibiva il dialogo con gli eretici e i non credenti: “Dovete evitare gli uomini che sono contro la Verità come si evita un veleno mortale: dovete detestarli, astenendovi anche dal parlare con loro perché sta scritto: la loro parola rode come la cancrena”.
 Purtroppo l'ammonimento di San Leone Magno è stato addolcito dalla nuova teologia, quindi capovolto nell'ascolto prestato dalla gerarchia alla untuosa/rumorosa chiacchiera degli interpreti (franco-tedeschi) dello chic tecclesiale.
 L'esortazione di San Leone Magno è stata censurata e sostituita dal caramelloso/avventuroso ecumenismo e dal soggiacente delirio teologico, a tempo debito denunciato da Cornelio Fabro, vox clamantis in deserto.
 Dal suo canto Badano affermava che, dopo il concilio per antonomasia, “l'intransigenza è proscritta: per accordarsi col mondo si dà a Cesare anche ciò che è di Dio; gli uomini amano fingersi più misericordiosi di Lui”.
 Il clero untuoso e conformista, avendo elevato don Giuseppe Dossetti alla dignità appartenente a San Tommaso d'Aquino, non vede o  finge di non vedere l'inefficacia del dialogo - a struttura capitolarda e ad effetto rovinoso - con la vana gloria dei prestigiatori di parola laica.
 Gli interpreti del pensiero radical chic ottengono dall'incauta e disarmata bonarietà della gerarchia vaticana il battesimo e la cresima di chiacchiere esangui, in desolata/affranta agitazione nella totentanz laica, democratica e progressista.
 La gerarchia conciliare sembra incapace di vedere l'estenuazione e l'agonia del laicismo post  moderno, uno sfinimento che talora si rovescia nel delirio drogastico, talora affonda nei paradossi della medicina mortale, talora, infine, si consegna, quasi gongolando, al minaccioso e cupo avvenire islamico.
 Il giornalismo di servizio, applaudito dal Vaticano buonista, nasconde e censura intanto i cattolici sacrificati – giorno dopo giorno - sui feroci altari della religione maomettana.
 Impassibili i giornalisti di obbedienza clericale amplificano il grido della complicità indirizzata agli islamici, che invadono (a loro rischio eventuale e a nostro sicuro danno) la disarmata, calpestata e intossicata terra italiana.
 Il malinconico destino degli europei passa per la capitolazione italiana e contempla l'assistenza silente o addirittura esultante all'incontrollata invasione degli islamici.
 Lo sbarco dei maomettani nelle terre dalle quali furono cacciati dalla Cristianità credente e combattente, è una sciagura preparata dalla strutturale debolezza del pensiero laico, un vizio incrementato dalla viltà dei costumi delle masse plagiate dai media pornografici e dalla acquiescenza diffusa da una gerarchia vaticana caduta nella fossa dei serpenti a sonagli sincretisti.
 L'impossibilità di sperare nel soccorso di una classe politica vanesia e debragata costringe gli italiani, ostinatamente refrattari alla schiavitù avanzate al seguito degli islamici, a condividere, allargandola, la sentenza di un filosofo non cristiano, quale fu Martin Heidegger: “solamente Dio ci può salvare dalla stupidità illuminata dalle candele conciliari”.

 Soltanto la fede nel vero Dio può destare gli europei dal delirio, che, rovesciandosi nella teologia onirica, ha suggerito di aprire le porte dell'Europa all'invasore maomettano.

Piero Vassallo

giovedì 26 maggio 2016

CREDERE ALL'INGLESE WAUGH O A QUALCUN'ALTRO? (di Piero Nicola)

  Il celebre Evelyn Waugh, una dei massimi autori del Novecento, fu corrispondente di guerra a Addis Abeba e nel Sud dell'Etiopia per un giornale britannico durante il conflitto Italo-Etiopico del 1935; al termine del quale rimase per proprio conto nel Paese documentandosi sulle vicende belliche e sulle primissime fasi della colonizzazione. In precedenza, egli aveva percorso in lungo e in largo il Continente africano ed era stato in Abissinia, presente all'incoronazione dell'imperatore Hailé Selassié (1930). Nel 1938 pubblicò Scoop, un libello sul giornalismo dei cronisti di guerra, pubblicato da vari editori italiani (p.e. Bompiani, 1952) col titolo di L'inviato speciale. Partecipò alla Seconda Guerra Mondiale e scrisse una trilogia assai controcorrente sulle sue esperienze militari, con osservazioni istruttive per la storia di quel periodo. Convertito cattolico, pubblicò la biografia del teologo convertito Ronald Knox. Morì nel 1966 all'età di 63 anni.
  Nel saggio Waugh in Abyssinia (Waugh in Abissinia, Sellerio 1992 e In Abissinia, Adelphi 2011) egli presenta un preciso quadro, ricavato da esperienze personali e notizie di prima mano, dell'impero etiopico dominato dalla razza del Negus imperatore Tafari. Dire che tale dominio fosse di carattere feudale, sarebbe un insulto al feudalesimo cristiano. Dire che si trattasse di una civiltà, sarebbe altrettanto sconveniente. La schiavitù vi era praticata ovunque e alla luce del sole. La presuntuosa xenofobia della gente abissina verso le popolazioni assoggettate e, in generale, verso gli stranieri era pure tangibile e innegabile. I governatori abissini e i loro gregari spadroneggiavano, con pugno di ferro e da autentici parassiti, sui territori dell'impero. I popoli soggetti erano oppressi da tassazioni esorbitanti, lasciati nella miseria e al di fuori del progresso. Una sola ferrovia francese collegava Gibuti alla capitale. Quest'ultima era per lo più fatta di baracche e capanne, lungo strade polverose o fangose. Le vie di comunicazione erano piste sovente impraticabili dagli automezzi. Specie i musulmani, sotto questo regime speravano nella venuta degli italiani, di cui conoscevano le colonie confinanti dell'Eritrea e della Somalia.
  Riguardo alle ragioni del nostro intervento militare, esse non mancarono davvero. Gli abissini avevano violato patti e promesse, a prescindere dai veri diritti umani da essi calpestati. Per iniquità decisamente minori (e spesso inesistenti) oggi si condanna e si fa la guerra, per esempio a un Assad. Va notato che la religione copta è del tutto eretica e scismatica.
   La campagna del nostro esercito, anche contro formazioni di guerrieri combattivi ed esperti, fu breve (sei mesi), ben condotta e la vittoria meritata. Le stragi di cui vennero accusate le nostre armate furono favole calunniose della propaganda internazionale antifascista. Così l'impiego e gli effetti dei gas furono quanto mai limitati. Waugh ebbe modo di documentarsi anche a questo riguardo. Nemmeno i famosi bombardamenti fecero stragi di civili e gravi rovine, anche perché c'era poco da rovinare, e subito tutto venne ricostruito, in attesa di edificare veramente.
  Quando la conquista non era ancora terminata, e subito dopo, i nostri lavoratori già costruivano strade camionabili solidissime e ponti di grande ingegneria, mai sognati in quel paese di una arretratezza indescrivibile, appena corretta dai recenti aiuti (soprattutto armi) di stati europei colonialisti, sovente disumani con gli indigeni, e iniquamente nemici dell'Italia. Il Waugh lo certifica ampiamente.
  Dunque fa specie che dopo ottant'anni, quando sarebbe l'ora di scrivere una storia seria, ci siano ancora nostri connazionali che, presentandosi come storici, ignorino queste realtà screditando quel tanto di buono di cui l'Italia può onorarsi.


Piero Nicola

martedì 24 maggio 2016

Chi reca agli altri l'errore non fa mai il bene, chi nega la nota verità offende lo Spirito Santo (di Piero Nicola)

Non esiste carità senza verità, come non c'è fede valevole senza le opere ad essa conformi. La carità, come la fede, non è priva della dottrina, non può essere informata da una dottrina errata, né può manifestarla. Chi crede cose false, che contraddicono i dogmi, quand'anche avesse una buona coscienza e fosse in Grazia di Dio (caso eccezionale) per forza di cose trasmetterebbe l'errore, che genera il peccato grave; egli costituisce uno strumento di perdizione.
  Ciò è comprensibile per chiunque possieda il concetto della fede (sensus fidei). Non occorre teologare; è un dato dogmatico non più discutibile.
  Per maggiore chiarezza considero le sentenze emesse a tale riguardo da Gesù Cristo e dagli Apostoli nel Nuovo Testamento.
   Preghiera di Cristo al Padre: "Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. Consacrali nella verità. La tua parola è verità. Come tu mi hai mandato nel mondo, anch'io li ho mandati nel mondo; per loro io consacro me stesso, perché siano anch'essi consacrati nella verità [...] Non prego solo per essi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me" (Gv. 17, 16-20).
  "Sono venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità. Chiunque sta per la verità ascolta la mia voce" (Gv. 18, 37).
  "Chiunque abbia osservato tutta la legge, ma sia inciampato in una sola cosa, è diventato reo di tutto" (Giac. 2, 10).
  "Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico che, se non passa il cielo e la terra, non passerà uno jota o un punto solo della legge, sino a tanto che tutto sia compiuto" (Mt. 5, 17-18).
  "È più facile che abbiano fine il cielo e la terra, anziché cada un solo apice della Legge" (Lc. 16, 17).
  "Chiunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli" (Mt. 5, 19).
  "Se la tua mano destra ti è occasione di scandalo, tagliala e gettala via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geenna" (Mt. 5, 30).
  "La grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo" (Gv. 1, 17).
  "Chi non obbedisce al Figlio non vedrà la vita, ma l'ira di Dio incombe su di lui" (Gv. 3, 36).
  "I veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità" (Gv. 4, 23).
  "Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi [...] Chiunque commette il peccato è schiavo del peccato [...] Chi è da Dio ascolta le parole di Dio [...] Se uno osserva la mia parola, non vedrà mai la morte" (Gv. 8, 31-51).
  "Io sono la via, la verità, la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me" (Gv. 14,  6).
  "Chi crede in me compirà le opere che io compio" (Gv. 14, 12).
  "Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama [...] Chi non mi ama non osserva le mie parole" (Gv. 14, 21-24).
  "Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca" (Gv. 15, 6).
  "Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore" (Gv. 15, 10).
  "Pentitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati" (At. 3, 19).
  “Ma quand’anche noi, o un angelo del cielo, evangelizzi a voi oltre quello che abbiamo a voi evangelizzato, sia anatema. Come dissi per l’innanzi, dico anche adesso: Se qualcuno evangelizzerà a voi oltre a quello che avete appreso, sia anatema” (Gal. 1, 8-9).
  "Nessuno vi seduca in alcun modo, perché ciò [la seconda venuta di Cristo] non avverrà se prima non ci sia stata la ribellione, e non sia manifestato l’uomo del peccato, il figlio di perdizione … Perché egli [l’Anticristo] già lavora il mistero d’iniquità … fino che sia levato di mezzo. E allora sarà manifestato quell’iniquo (che il Signore Gesù ucciderà col fiato della sua bocca, e lo annichilerà con lo splendore di sua venuta); l’arrivo del quale, per operazione di Satana, sarà con tutta potenza, e con segni e prodigi bugiardi, e con tutte le seduzioni dell’iniquità, per coloro i quali si perdono per non aver abbracciato l’amore della verità per essere salvi. E perciò manderà Dio ad essi l’operazione dell’errore, talmente che credano alla menzogna” (II Tess. 2, 3-10).

  Posta la necessità di non accogliere da nessuno l'errore, si passa dal suo spaccio per verità operato quasi in buona fede, agli inganni introdotti dagli strumenti di Satana, sino all'Anticristo.
  "Guardate che nessuno vi inganni; molti verranno nel mio nome [...] Sorgeranno molti falsi profeti e inganneranno molti; per il dilagare dell'iniquità l'amore di molti si raffredderà [...] Frattanto questo vangelo del regno sarà annunziato in tutto il mondo [...] Quando dunque vedrete l'abominio della desolazione, di cui parlò il profeta Daniele, stare nel luogo santo - chi legge comprenda [...] Vi sarà allora una tribolazione grande, quale mai avvenne dall'inizio del mondo fino ad ora [...] Sorgeranno infatti falsi cristi e falsi profeti e faranno grandi segni e prodigi, così da indurre in errore, se possibile, anche gli eletti" (Mt. 24, 4-24).
  "Quando vedrete l'abomino della desolazione stare là dove non conviene, chi legge capisca..." (Mc. 13, 14-segg.).
  "Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terrà? No, vi dico, ma la divisione. D'ora innanzi in una casa di cinque persone si divideranno tre contro due e due contro tre..." (Lc. 12, 31-32).
  "Ma qualunque spirito che divida Gesù non è da Dio; e questi è un Anticristo, il quale avete udito che viene, e già fin da adesso è nel mondo" (I Gv. 4, 3).
  Se non abbiamo l'Anticristo, se non abbiamo l'"abominio della desolazione nel luogo santo", che altro di differente si trova adesso nel "Luogo santo"? I prelati e il loro capo negano apertamente i comandamenti del Signore e ne dispongono o impongono la negazione. Dobbiamo ripeterci? E sia! Gesù mantiene la Legge e i Profeti, ne completa la Verità con i precetti del Vangelo. Questo clero usurpatore contraddice punti essenziali della Verità.
  In che modo? Negando che sia assolutamente empio e nocivo per le anime il contrario del Dogma, ossia l'errore, l'eresia e le altre false credenze religiose. L'occupante del "Luogo santo" ammette una qualche bontà dell'eresia confermando i decreti e un governo che stabilirono il diritto umano alla libertà religiosa e dimostrando amicizia agli erranti nemici di Cristo.
  “L’uomo eretico, dopo la prima e la seconda correzione, fuggilo, sapendo che questo tale è pervertito, e pecca come quegli che per suo proprio giudizio è condannato” (Tit. 3, 10).
  Ora, è impossibile che gli eretici (pertinaci nell'affermazione delle loro false dottrine e perciò condannati dalla Chiesa) non siano più tali.
  “Molti impostori sono usciti nel mondo … Chiunque recede e non sta fermo nella dottrina di Cristo non ha Dio … Se qualcuno viene da voi e non porta questa dottrina, non ricevetelo in casa e non lo salutate. Perché chi lo saluta partecipa delle sue opere malvagie” (II Gv. 7-11).
  Ancor oggi - se ce ne fosse ancora bisogno - è giunta la conferma della massima eresia che apprezza colui che offende Nostro Signore. Si è visto il direttore della Sala stampa vaticana F. Lombardi apprezzare l'"eredità umana e spirituale importante" di un defunto, non convertitosi, esponente della più grande inimicizia con Dio, cui Bergoglio manifestò la sua amicizia. E questi ha acconsentito davanti al coro di lodi tributate all'empietà, provenienti altresì da sedicenti cattolici.
  Sono di certo affronti recati allo Spirito Santo, e non semplici sacrilegi o comportamenti ereticali. Che cosa di peggio si potrebbe compiere per il male delle anime? È arduo immaginarlo.
  Rivestito dell'errore proprio degli eretici, coperto dell'infamia spettante al sodale dei nemici di Dio, scandalo dei figli della Chiesa, il quale scampa alla scomunica perché usurpa il posto del giudice designato a processarlo, egli non può sfuggire al giudizio di Dio e dei fedeli costretti a disubbidirgli, ad allontanarlo come peggior peste che non sia un eresiarca. Che cosa resta a lui di cattolico? Un bel nulla. Non dobbiamo odiarlo, né giudicare la sua anima, ma esecrare quello che fa e combatterlo.

Piero Nicola


lunedì 23 maggio 2016

Ricordo di un maestro: A venti anni dalla morte di Renzo De Felice (di Lino Di Stefano)

Ho già avuto modo di ricordare, quasi un anno fa, sulle colonne di questo ‘Giornale’, la figura e l’opera dell’insigne storico Renzo De Felice (8 aprile 1929 - 25 maggio 1996), ma, ora intendo farlo con maggiore completezza a vent’anni esatti dalla sua scomparsa. 
Quando sostenni l’esame di storia moderna col Prof. Ruggero Moscati, alla ‘Sapienza’ di Roma, conoscevo solo il nome del futuro grande storico di Rieti il quale era allora un giovane docente di storia delle dottrine politiche, per diventare, subito dopo, cattedratico della stessa disciplina del titolare. 
Egli, comunque, aveva già al suo attivo tanti lavori, in particolare il primo volume - degli otto tomi della monumentale biografia di Mussolini - uscito nel 1965; acquistato e letto il libro, mi resi subito conto del valore dello studioso e dell’uomo coi quali avrei collaborato per un intero anno, in perfetta sintonia. Siccome avevo deciso di chiedere una tesi, appunto, in storia moderna, il titolare, Prof. Moscati, prima di assegnarmela, mi impose di redigere una tesina intitolata ‘L’intervento dell’Italia nella prima guerra mondiale’ – una cinquantina di pagine dattiloscritte, visto che non esisteva il computer – col suo assistente Prof. Giuseppe Talamo. 
Non è inutile rammentare, in proposito, che in quell’epoca gli studi erano seri e molto impegnativi, i   In seguito, il Prof. Moscati mi affidò a Renzo De Felice col quale concordai il definitivo titolo della tesi: ‘L’irredentismo italiano alla vigilia della prima guerra mondiale’. Trovata, facilmente, l’intesa con lo studioso, questi mi riceveva a casa – sita in Via Antonio Cesari, a Monteverde, a Roma – una volta al mese. 
Io gli portavo i capitoli ed egli me li restituiva il mese successivo con i rilievi del caso; gli incontri durarono, per la precisione, dodici mesi dopodiché egli mi rilasciò il ‘placet’ per il ‘si stampi’. Non posso non sottolineare, al riguardo, l’affabilità con la quale lo storico mi riceveva a casa sua, né dimenticare la cortesia con cui la moglie, Livia De Ruggiero, mi introduceva, senza farmi fare anticamera, nello studio del marito; studio quasi interamente occupato da un’immensa biblioteca. 
Seduto alla poltrona, con l’immancabile sigaro fra le labbra, lo storico era prezioso di consigli e prodigo di incoraggiamenti non senza alcuni rilievi al lavoro che gli consegnavo. Conservo ancora la brutta copia della tesi con alcune osservazioni di suo pugno come, ad esempio, le seguenti: “Prende troppo per buona la posizione di Giuriati”, oppure, a proposito di una mia osservazione su un giudizio di Schiffrer: «Mi sembra un giudizio troppo semplicistico, dubbi inquadrati nella più generale tendenza autonomistica triestina all’interno della (…) monarchia austro-ungarica».
La consorte era la figlia del grande studioso Guido De Ruggiero (1888-1948), celebre per aver redatto, in 13 volumi, un’amplissima ‘Storia della filosofia’ (1918-1948) costituente una delle prime grandi sintesi storiografiche, di stampo idealistico - da Cartesio ad Hegel - pubblicate in Italia; seguace dell’attualismo gentiliano, Guido De Ruggiero, per un breve periodo anche Ministro della Pubblica Istruzione, rimane tuttora famoso per il fondamentale volume ‘Storia del liberalismo europeo’ (1925) e per la non meno capitale opera ‘Filosofi del Novecento’ (1934). 
Al riguardo, lo stesso Renzo De Felice curò - con un saggio introduttivo e con un vasto apparato bibliografico - gli ‘Scritti politici’ (1912-1926) del suocero, dati alle stampe nel 1963. In seduta di laurea, il Professore, nelle vesti di relatore, dimostrò tutta la sua affabilità illustrando i punti centrali della tesi ed evidenziando il mio impegno anche se con l’aggiunta che avevo utilizzato fonti note, ma sempre dietro sue indicazioni bibliografiche. 
Rammento, altresì, la mia grande emozione al cospetto di sì prestigiosa Commissione composta non solo da Moscati, correlatore, e De Felice, bensì pure da altri illustri docenti della Facoltà. Ho avuto, più volte, in seguito, l’opportunità di ascoltare Renzo De Felice durante vari Simposi romani e, in uno di questi, tenuto nella Sala Convegni della Camera dei Deputati, lo scrittore Francesco Grisi amico di entrambi, me lo presentò dicendogli che ero stato suo allievo allo ‘Studium Urbis’. 
Lì per lì, il grande storico non mi ravvisò, ma quando gli citai il titolo della tesi, si ricordò chiedendomi anche che cosa facessi. “Insegno storia e filosofia nel Liceo classico ‘Turriziani’ di Frosinone”, gli risposi ed egli si complimentò con me considerato che anche lui aveva seguito studi filosofici oltreché storici. La notorietà di Renzo De Felice è ormai nazionale ed internazionale vista la poderosa mole degli scritti racchiusa non solo nei menzionati otto volumi su Mussolini, ma anche in altri studi come, ad esempio, quelli sulle vicende dei giacobini italiani, sulla ‘Storia degli Ebrei sotto il fascismo’ (1961-1977) e sulle ‘Interpretazioni del fascismo’ (1977); quest’ultimo saggio versato in ben sette lingue.
Renzo De Felice lasciò pure una importante scuola formata da numerosi allievi i quali hanno dato lustro alla lezione del Maestro; uno di questi, Francesco Perfetti – anche noto giornalista – ha sempre sostenuto e sostiene, giustamente, che la storia si costruisce sui fatti e solo su di essi; ciò, sulla falsariga della lezione del Maestro il cui magistero storiografico spiazzò tantissimi storici della nostra epoca ancora ligi a pregiudiziali di parte e ignari che la storia deve fondarsi soltanto sui documenti. Francesco Perfetti ha sostenuto e continua, infatti, a sostenere che l’antirevisionismo è diventato una categoria che tende a cristallizzare delle verità sulle quali, parole sue, “non è lecito discutere” e di fronte alle quali “non è lecito fare domande”. 
L’allievo è stato e resta, quindi, come il Maestro, favorevole al revisionismo, l’unica posizione in grado, a suo giudizio, di squarciare il velo steso su quelle verità consolidate che certa storiografia, segnatamente marxistica, ha tentato di immobilizzare come alcunché di definitivo e di apodittico. Non a caso, il grande storico di reatino, raccomandò sempre il rispetto del principio del non “iurare in verba magistri”, specialmente quando si trattava e si tratta di esaminare fenomeni complessi – e a noi vicini - come il fascismo da lui sviscerato in quasi ottomila pagine di ricerche sempre di prima mano perché basate su documenti inoppugnabili. 
E proprio tale oggettiva, perché incentrata sulle fonti, disamina sul Ventennio gli procurò non pochi nemici, annidati proprio negli ambienti accademici – dato che egli, a detta di un suo discepolo, Emilio Gentile, “ai riflettori della TV preferiva la penombra degli archivi” - e non pochi dolori ed amarezze. Dispiaceri che minarono la sua già precaria salute e gli causarono la morte prematura quando aveva appena 67 anni e quando avrebbe potuto dare ancora moltissimo alla scienza di Clio da lui portata ad altissimo livello. 
Addirittura, nel febbraio del 1996, ignoti figuri lanciarono una bomba incendiaria contro la sua abitazione causando, per fortuna, solo pochi danni mentre lo storico lottava con la morte che avverrà il 25 maggio. Anche per Indro Montanelli la condanna di De Felice del fascismo – vista l’accusa a quest’ultimo di averlo rivalutato - era motivata e “basata sui fatti concreti, molto più complessi e sfumati, quando si vogliano onestamente analizzare, di quanto appaiono nella polemica antifascista tradizionale”.
E tale lavoro, lo storico lo portò a termine affidandosi ad una copiosa documentazione, spesso inedita o poco conosciuta, frutto di laboriose ricerche all’Archivio Centrale dello Stato e in archivi privati. 
Ora, mi piace concludere, con lo studioso Ubaldo Soddu, asserendo che la grande opera “gli ha dato notorietà mondiale e apprezzamenti quasi unanimi, pur nel distinguo delle posizioni storiche e con polemiche talora aspre, affrontate con grande capacità di argomentazioni e documentazioni ampie, sovente inedite, cercate personalmente con sforzo e intelligenza critica”; non senza aggiungere, con Augusto Del Noce, che pure “l’incontro tra le idee di Mussolini e quelle di Stirner è realmente avvenuto” visto, in definitiva, che secondo il filosofo, “Mussolini ebbe per Stirner parole di ammirazione”.

Lino Di Stefano

Via Almirante

 Ove conoscessero la storia del Msi, gli antifascisti irosi e ostinati, anziché insorgere contro il chiacchiericcio della petulante Giorgia Meloni, esalterebbero lo storico, instancabile parlatore Giorgio Almirante, padre di tre fondamentali contributi alla mortificazione strutturale e alla degenerazione comiziale della destra italiana. I sinistrorsi dovrebbero capire, infine, che “via Almirante” è un crittogramma significante “via dalla tradizione italiana”, “via dalla cultura propriamente detta”, “via dalla vera destra”, “via dalla religione cattolica e dalla filosofia scolastica” e infine “via dalla storia ideale eterna”.

 Primo contributo almirantiano all'estinzione della destra: Genova giugno 1960, l'impedimento alla celebrazione del congresso nazionale del M.s.i., convocato dal segretario nazionale Arturo Michelini per attuare la svolta democratica del partito, che aveva, intanto, prestato un voto determinante al ministero presieduto da Ferdinando Tambroni. Il segretario della federazione genovese missina, l'elegante Pino Rolandino, aveva scelto, quale sede del congresso, il Margherita, un teatro ricostruito vicino alle lapidi che ricordavano i partigiani caduti durante la guerra civile 1943-1945. Di qui la violenta e pretestuosa insorgenza della piazza comunista. In quel teatro, infatti, lo rammentò a tempo debito Giano Accame, si erano svolte (indisturbate) numerose manifestazioni del M.s.i.. Fu ventilata ad ogni modo la proposta di celebrare il congresso missino nel teatro della delegazione di Nervi, una sede non esposta alla violenta contestazione dei comunisti. Purtroppo Almirante si oppose a tale ragionevole (e obbligata) scelta, onde la sospensione del congresso e l'immotivata e autolesionistica sfiducia dei parlamentari missini al governo di centro-destra presieduto da Tambroni. Il risultato fu l'isolamento del Msi, deportato in un vero e proprio ghetto.

Secondo contributo: Roma 1976, Almirante, beneficiato dagli errori dei democristiani sinistrorsi, aveva ottenuto l'adesione al Msi di numerosi esponenti dell'area moderata. Purtroppo il segretario missino, abbagliato e ingannato da una suggestione totalitaria, non seppe e forse non volle allontanare gli estremisti, che costituivano una minoranza in irosa fibrillazione a causa della svolta moderata del partito. In mezzo agli estremisti furenti primeggiava l'incontrollato paracadutista Sandro Saccucci, stralunato comiziante a Sezze, con seguito di pistoleri (risultato: un passante ucciso e uno ferito grave). L'impresa stralunata di Sezze e la mancata espulsioni di Saccucci (inspiegabilmente protetto da Almirante, che aveva peraltro deplorato il comportamento del pistolero) causarono le immediate e motivate dimissioni delle personalità, che avevano attuato la svolta moderata del Msi (Gino Birindelli, Ernesto De Marzio, Alfredo Covelli, Gianni Roberti, Gastone Nencioni, Mario Tedeschi, Massimo Anderson e numerosi altri). La fragilità di Almirante era tale che l'impresa di un irresponsabile comiziante con pistola fece naufragare il progetto, che contemplava una destra moderata.

Terzo contributo: la designazione di Gianfranco Fini (“un vuoto pneumatico”, giusta la definizione del proponente, Giorgio Almirante) quale candidato alla segreteria del Msi, una scelta  duramente contestata dalla classe pensante del partito (lo ha rammentato il sagace  Amedeo Laboccetta, autore del saggio La vita è un incontro, edito in Napoli da Controcorrente). Laboccetta sostiene che Fini, forse suggestionato dai Tulliani, mise fine alla sua carriera politica uscendo P.d.l. “con le sue gambe, dopo aver messo a soqquadro la casa: E lo ha fatto nonostante gli fosse stato consigliato, da uomini degni di fede e di considerazione, la totale inadeguatezza della  strategia politica finalizzata a demolire Berlusconi per poi prenderne il posto”.

 Giorgia Meloni è l'erede – la creata - e la continuatrice di quella politica almirantiana/finiana, che è stata indirizzata allo snaturamento e all'affossamento della destra nazionale. Il suo più alto progetto “politico”, infatti, è l'intitolazione di una via al pre-padre Giorgio Almirante, cui la vox populi attribuiva il titolo di capocomico.

Meglio della destra meloniana il niente. A coloro che professano idee riconducibili alla destra ideale non rimane che una scelta: l'azione culturale intesa a ristabilire il rapporto tra la politica della destra futura con la tradizione spirituale e filosofica degli italiani. La politica conforme alla speranza dei connazionali ricomincia dal pacifico allontanamento dalla chiacchiera squillante invano  nella rottamata destra. E dalla convergenza delle isolate intelligenze in un laboratorio inteso alla discoverta della cultura politica capace di scuotere la latitanza degli italiani.


Piero Vassallo

sabato 21 maggio 2016

Café De Maistre

Resistere, pur sapendo di servire una causa perduta alla logica pervasiva di questo mondo, è l'unico imperativo categorico (con buona pace dell'ipocrita perbenismo di Kant), reagendo individualmente, lucidamente al male – vero Platone e Tommaso Aquinate e Vico – per non annullarsi in quest'epoca già immersa nell'Apocalisse, in atto.
Tommaso Romano


 Il prestigioso Istituto siciliano di studi politici ed economici, attivo nella dotta e instancabile ansa della Palermo cattolica, ha pubblicato in questi giorni, sotto il titolo Café De Maistre, un'avvincente e ampia (128 pagine) raccolta di saggi del professore Tommaso Romano, autore restituito alle lettere grazie alla volontaria uscita dall'estenuata e spettrale destra politicante.
 Romano è l'ispiratore e il capofila di una corrente culturale intesa a ristabilire la convergenza del pensiero tradizionalista con l'amor di Patria, ossia a promuovere l'uscita della cultura antimoderna dalle dispettose e soffocanti strettoie, nelle quali si celebra l'incontro della tradizione italiana con l'insensato rifiuto dell'Italia unita.
 Inoltre l'antologia di Romano dà dimostrazione della superiore – umanistica e religiosa - dignità della storia e della sapienza italiana, in una fase storica segnata dalla volontà egemonica che agita la politica della tronfia cancelliera Angela Merkel, rappresentate dell'irriducibile, obesa spocchia della nazione ricca arrogante, ma umiliata e debilitata dalla spettrale chiesa luterana.
 L'Italia rivendica il ,più vasto patrimonio d'arte al mondo e una tradizione filosofica capace di eclissare la greve loquela dei pensatori di Germania.
 Di qui – ultimamente - una condivisione spregiudicata del Novecento italiano, letto da Tommaso Romano attraverso la lente critica di Paolo Isotta, un autore geniale “che andrà di traverso ai moralisti da strapazzo”.
 A Isotta è riconosciuto, da Romano, il merito di aver interpretato onestamente (e con grande coraggio) la storia italiana fra le due guerre e apprezzati e valorizzati i suoi primati senza cadere mai nell'anacronistica apologia del fascismo.
 Refrattario alla scolastica dei calunniatori dei lapidatore primato italiano, Isotta dichiara la stima “di Giovanni Gentile maggior filosofo del Novecento” e “senza rinnegamenti e paure nomina la Rsi non come male assoluto, pur giustamente scrivendo e sottolineando le colpe di Mussolini”. Infine Isotta “ del traditore a chi [il pallido esponente della destra benzinara e quirinalizia] recentemente ha svenduto tutto, il bene compreso oltre il male da rigettare, per un piatto di lenticchie”.
 Fedele all'implicito giuramento anticonformista, Romano osa lodare un'icona dei monarchici italiani, la Beata Cristina di Savoia, sensibile nei confronti dei Siciliani: “sono numerosissime le le elargizioni personali documentate verso i poveri isolani, notevole fu, inoltre, l'attenzione concreta per i bambini e le partorienti … un segno duraturo della sua devozione alla Vergine Maria, può ancora constatarsi nella Chiesa dei Padri Cappuccini di Palermo” ai quali fece dono fece dono del suo splendido mantello.
 [A titolo personale vorrei qui rammentare Umberto II, il re di maggio, che ha ereditato e sopportato con silente dignità il disprezzo della moglie belga e il peso della fellonia, che ha devastato e avvilito la famiglia reale d'Italia, non lui.
 Re Umberto non ha vacillato sotto il peso di una sciagura confezionata da altri e gettata vilmente sulle sue spalle.
 Dignitoso è anche il ricordo di Leo Longanesi, “fascista critico in gioventù, seppur amico di Mussolini, dovette subire la chiusura dei suoi giornali e nel secondo dopoguerra fu emarginato”, fu capace tuttavia di fondare Il Borghese, il settimanale che diede voce agli italiani irriducibili alla malinconica democrazia, impiantata dai vincitori della seconda guerra mondiale.
 Incendiaria è l'analisi di Romano della modernizzazione messa in atto dai papisti di ultima e insorgente generazione: “sepolcri imbiancati, che strillavano contro il primato petrino [quando il papa non condivideva il progetto dei modernizzatori] e l'infallibilità, che non può certo riferirsi al magistero ordinario. Ora il Papa è dono dello Spirito (certo in sciopero da duemila anni, secondo costoro...) divenuto per miracolo indiscutibile e intoccabile”.
 Il libro di Romano si raccomanda quale sapido nutrimento della refrattarietà italiana all'ideologia decadente in corsa nel vuoto generato dalla sinistra infeudata nella sacrestia decadente e nel salotto dei conformisti squillanti.


Piero Vassallo

mercoledì 18 maggio 2016

SAN FRANCESCO E PAPA FRANCESCO (di Lino Di Stefano)

La recente affermazione dell’attuale Pontefice: “Quante volte vediamo gente tanto attaccata ai gatti, ai cani che poi lascia sola e affamata la vicina. No, per favore no!”, ‘ex abrupto’ si presenta giusta e fondata, ma, ad una disamina più approfondita, essa non è così scontata laddove il Vicario di Cristo aggiunge: “la pietà non va confusa neppure con la compassione che proviamo per gli animali che vivono con noi”. Egli così conclude: “L’amore non va a gettoni : se una persona ha un animo gentile, è ben disposta verso gli animali e verso i suoi simili”.
 Ed anche le ultime due affermazioni sono sensate, legittime e inconfutabili sebbene esse insinuino il sospetto che la maggioranza delle persone che vivono con gli animali si disinteressano del proprio simile; ora, è vero che molti cittadini, spesso, trascurano il vicino senza prestare il dovuto aiuto, ma è altrettanto certo che gran parte degli esseri umani che amano gli animali, assistendoli e curandoli, non chiudono gli occhi al cospetto dei propri simili e, all’occorrenza, fanno del bene nei limiti, ovviamente, del loro reddito.
 In particolare, oggi, visto che siamo alle prese con la questione ‘migranti’ e, tolte le istituzioni, facciamo un po’ tutti del nostro meglio per alleviare almeno i disagi di quelli che scappano dalle guerre; ragion per cui riteniamo che il monito del Papa, a parte la sua veridicità, pecchi di un po’ di pessimismo in quanto sono numerose le persone che accudiscono ai cani, ai gatti e agli altri animali senza obliterare il prossimo bisognoso.
 Il medesimo ex Pontefice Ratzinger – ne ritiro del Monasterio ‘Mater Ecclesiae’ di Roma - assiste una piccola colonia di gatti, a dimostrazione dello spirito francescano che lo sorregge visto che l’Assisiate amava non solo tutti gli animali, ma con gli stessi egli dialogava, come leggiamo in tanti capitoli dei ‘Fioretti’ redatti, quasi sicuramente, da Frate Ugolino da Monte il quale riporta spessissimo le parole testuali del Santo.
 L’Autore dei ‘Fioretti’, ci informa, ad esempio, che il Santo, continuando ad amare il prossimo, non trascurava mai gli animali – considerati fratelli e sorelle, ‘sirocchie’ le chiama l’Assisiate – fossero essi rondini, come leggiamo nel capitoli XVI, XXI e XXII dell’opera, tortore od altri volatili, mentre un caso a parte resta l’episodio del crudele lupo di Gubbio.
 Ubbidivano non solo le ‘tortole’ selvatiche, ossia le tortore, ma pure tutte le altre specie di animali e proprio per quanto riguarda le tortore, come scrive Frate Ugolino da Monte, “mai non si partirono insino che Santo Francesco con la sua benedizione diede loro licenza di partirsi”. Naturalmente, come osserva sempre l’Autore dei ‘Fioretti’, gli uccelli, tortore, rondini od altri animali, “come se fussono state galline sempre nutricate” erano da lui e dagli altri frati.
 E siccome Bergoglio allude, nel suo intervento, agli animali a quattro zampe, è giocoforza aggiungere che l’Assisiate “domesticò”, non solo i volatili, ma anche il “ferocissimo lupo d’Agobbio” il quale “non solamente divorava gli animali ma eziandio gli uomini”, sempre per usare la terminologia dell’Autore più volte citato. Ebbene, il Santo, da una parte gli parlò con tali parole – “Vieni qui, frate lupo, io ti comando dalla parte di Cristo che tu non facci male né a me né a persona” – e, dall’altra, “il lupo levando il piè ritto , si ‘l puose in mano di Santo Francesco”.
 Questo lupo visse due anni a Gubbio entrando pacificamente per le case senza che nessun cane gli abbaiasse dietro; morì di vecchiaia, “di che i cittadini molto si dolsono” . Che cosa significa tutto ciò, con l’autorità di chi nel ‘Cantico delle creature’, esaltò tutti gli esseri dell’universo, non solo uomini, animali, piante, astri, e cose inanimate, bensì pure la Morte chiamata sorella “da la quale nullo omo vivente po’ scappare”, per usare i versi del Poverello. Pertanto, a nostro giudizio, meno scetticismo da parte del Papa per il semplice motivo che esiste, almeno in Italia, una miriade di persone che amano gli animali e parimenti quelli della porta accanto, ferma restando, s’intende, anche l’indifferenza relativa.
 Lo scrivente, dal suo canto, da quando era studente ha sempre dimostrato profondo affetto specialmente per gli uccelli, segnatamente cardellini ed ora pappagallini, senza per questo girare la faccia dell’altra parte e non fare del proprio meglio, nei limiti delle sue possibilità, nei confronti del suo simile. Lo stesso conosce tantissimi casi di persone che pur rimaste traumatizzate per la perdita dell’animale domestico, hanno continuato a fare del bene.
 La morte di un cane vissuto per tanti anni in casa di un amico il quale chiamava l’animale ‘il padrone di casa’, gli sta ancora causando dolore e sofferenza; la scomparsa, però, del quadrupede, non gli impedisce di guardare il proprio prossimo e, all’occorrenza, di prestargli il dovuto soccorso. Più ottimismo, dunque, Sua Santità, perché c’è ancora molta gente, in giro, in grado di arrecare beneficio a chi ne ha bisogno.


Lino Di Stefano

NON SONO ANGELI (di Piero Nicola)

  In alcuni casi posso anche essere fiducioso, ma non dimentico che nel mondo, nell'umanità affetta almeno dalle conseguenze del male ereditario originale, non ci sono angeli: neppure nelle sedi più autorevoli, collocate in torri eburnee.
  Ogni tanto il frutto economico del governo, lo stato della ripresa o ripresina o che-so-io, viene dimostrato da dati statistici. Di certo non abbiamo la possibilità di verificarli, occorre prenderli per buoni, dobbiamo accettare che Renzino e suoi ministri pro Sodoma & Babele e la stampa compita ce li esibiscano come documenti rilasciati da signori infallibili. Ma siccome è impossibile che costoro siano talmente impeccabili, una certa incredulità è assai legittima.
  Giorni addietro credo di averne avuto una conferma. Le maggiori testate giornalistiche hanno pubblicato sonoramente che l'Istat, Istituto Nazionale di Statistica (strano come i babelici politici arcobaleno non abbiano ancora abolito l'aggettivo Nazionale, che figura nell'INPS, nell'INAIL e in altri già benemeriti Istituti) ha previsto per l'anno in corso un aumento del pil dell'1,10% e dell'occupazione dello 0,80% - In questa occasione, le imparziali televisioni cedono a un'umana debolezza, frammezzando spesso nei loro servizi le immagini del solenne e quasi sacro palazzo dell'ISTAT, edificato dal Ventennio - Bisognerebbe arguire che l'ISTAT disponga di poteri divinatori, ovvero della celebre sfera di cristallo in cui i maghi leggono il futuro. Infatti siamo appena a maggio, neppure alla metà dell'anno in corso. E non mi riferisco all'imprevedibile e pur sicura fine del mondo, da tutti sempre ignorata. Né chiedo se ci siano ancora sottospecie di cattolici che concludano le loro aspettative dicendo: "Se Dio lo vorrà". Penso al calcolo delle probabilità.
  Qualche uomo avveduto, alzando il sopracciglio, obietta che si trattava di proiezioni. Ma i comunicatori insostituibili, sulle cui spalle grava l'onere di avere il sostanziale monopolio dell'informazione politica ed economica, non hanno detto affatto che si trattava di possibilità e neppure di probabilità. La differenza tra una previsione sicura ed una incerta è profonda, e dev'essere un raggiro il solo evitare di distinguere tra le due cose.
  A questo proposito, mi viene in mente il ministro Pier Carlo Padoan, economista, accademico, uomo di esperienza fatta con cariche importanti al FMI e all'OCSE, volto segnato dalla responsabilità di governo, il quale nei mesi scorsi ripeté e assicurò che il debito pubblico nazionale sarebbe diminuito prossimamente, in ogni modo entro l'anno. Invece non solo il debito pubblico è aumentato, ma i commissari della UE prevedono che salirà ancora, raccomandando che si provveda all'arresto della deprecata crescita nel 2017-2018.
  Tornando all'ISTAT, esso non è un ministero politico o che-so-io, esso gode di ben altra autorevolezza. Se le sue erano previsioni secondo tendenze e calcoli contenenti tuttavia delle variabili, non doveva farsi manipolare, gli correva l'obbligo di intervenire a salvaguardia del suo prestigio. Diversamente, ha accettato la sua inaudita qualifica di profeta.
  Oserebbe l'ISTAT mettersi sullo stesso piano di un potere esecutivo pro Sodoma & Babele, che per il 2015 annunciò l'aumento del pil dell'1%, mentre alla fine dell'anno fu dello O,8% (sempre che la statistica sia stata infallibile)? Staremo a vedere.

Piero Nicola

  

martedì 17 maggio 2016

L'IMPOSTURA SENZA FINE - LE "DIACONESSE" (di Piero Nicola)

  "Essi [i farisei condannati da Cristo perché conducono i loro seguaci nella 'fossa'] dicono e non fanno" (Mt. 23, 3).
  Che cosa c'è di più subdolo e corruttore che mostrare la fedeltà ai sacri precetti e violarli nella pratica con sofismi e frodi, instaurando una pratica effettivamente mortifera? A ben vedere, i nuovi farisei, che hanno preso posto sulla cattedra lasciata da Nostro Signore al suo Vicario, non "dicono" quasi niente che sia bene fare e osservare (cf. Mt. 23, 3). Predicano una misericordia immorale ed eretica, viziata dall'irresponsabilità, dall'illusione, dalla tentazione di Dio, dallo spoglio delle indispensabili precauzioni, basata sull'odioso errore della bontà attribuita alle false religioni, sull'innocuità degli effettivi nemici del Signore
  Questa guida diabolica (il diavolo, lo sappiamo, come l'Anticristo non si espone, ma si traveste da essere pio, menzogna e malizia essendo affar suo) è l'affare di Bergoglio. Qualcuno dice che egli adotta l'arte gesuitica. Sarà bene non coinvolgere nel discredito quanti furono bravi militi della Compagnia di Gesù.
  A che vale aggrapparsi alla conservazione del dogma assicurata dalla gerarchia, all'infallibilità non messa in gioco dagli ultimi presunti pontefici? Si può dimostrare che il dogma è stato da loro contraddetto e che hanno usato della loro fittizia autorità predicando e governando nelle forme e nei modi dell'infallibilità, ma, considerando il male prodotto, quale lo fanno i nemici di Cristo, il tentativo di salvare l'appartenenza di un Bergoglio alla Chiesa è ad ogni modo superato. Dicendo, o facendo dire da uno dei suoi satelliti, che egli rispetta il Deposito della fede, fa peggio che se ne contraddicesse o ne abolisse qualche caposaldo comportandosi come si comportarono gli eresiarchi, che poterono assai meglio essere giudicati e condannati dal popolo cattolico. Potendo dare ad intendere in qualche modo alla massa degli sprovveduti (tenuti nell'ignoranza specialmente dal Concilio in poi) che egli resta cattolico, conduce artatamente sempre più il gregge nella perdizione dovuta al peccato mortale, invano attenuato e giustificato.
  Potrebbe sembrare giusto che il male non debba venirci da altri mediante le loro tentazioni. Se così avvenisse, potrebbe sembrare una cosa cattiva gratuita, non meritata. Ma così pensando si insegna a Dio la giustizia, l'economia della Giustizia, presumendo che Egli debba risparmiarci una disgrazia immeritata. Troppi oggi sono indotti a pensare: "Dio non permette che un errante contagi l'anima del suo qualunque prossimo". Ma costoro hanno torto, hanno torto di non prestar fede al Padre e al Figlio il quale, ad ogni piè sospinto nel Vangelo, ammonisce chiunque a guardarsi dai seduttori, che ammonisce e poi condanna i portatori di errore. Aiutati dai falsi profeti, oggi i fedeli hanno finito col non credere più all'estremo pericolo costituito dall'errore, e hanno finito col non credere nemmeno più nel peccato, incoraggiati e persuasi da preti, che non oso più definire.
  Non interessa affatto indagare la coscienza bergogliana: se sia sporca o meno. Interessa il fatto che egli agisce come se la sua coscienza fosse un raffinato, pestifero marchingegno.
  Ecco un'ultima sua trovata truffaldina, definita da Antonio Socci un altro "colpo di piccone" abbattuto sulla Chiesa: le "diaconesse". Spacciata la notizia dalle televisioni e dai giornali del conformismo demoniaco, gli intellettuali mollicci, perduti amanti della falsità, e la massa neghittosa trovano belle ragioni per l'ultimo aggiornamento della finta chiesa: le donne ammesse sulla scala del sacerdozio.
  Per costoro la Rivelazione, in particolare, la Scrittura (quando si degnino di accoglierne ancora la retta esegesi) resta assai ignota o tralasciata, come conviene alla preservazione dei cari pregiudizi mondani, nondimeno avallati dal neomodernismo pastorale.
  Così san Paolo viene citato (a sproposito) nell'Amoris laetitia (documento redatto o almeno suggerito dall'Anticristo) ma pochi sanno e notano che disse: "Come in tutte le chiese dei santi, le donne tacciano nelle assemblee, giacché ad esse non è permesso parlare, bensì stiano sottoposte, come anche dice la legge [...]  O che, da voi è venuta fuori la parola d'Iddio, oppure pervenne fino a voi soli? Se taluno crede d'essere profeta o spirituale, conosca bene le cose che vi scrivo perché sono comando del Signore; se poi le ignora, è ignorato" (I Cor. 14, 33-37). "La donna impari in silenzio con ogni subordinazione: non permetto poi alla donna d'insegnare, né di avere dominio sull'uomo, bensì se ne stia in silenzio" (I Tim. 2, 11-12).
  A chi volesse appigliarsi piuttosto alla Tradizione, risponde lo storico De Mattei, il cui sapere è allegato da Socci nell'articolo ove tratta delle "diaconesse". Roberto De Mattei afferma che non ci furono mai donne che avessero un'ordinazione di tipo sacerdotale, che appartenessero all'Ordine sacro; nella Chiesa primitiva o successiva nessuna donna ebbe investiture e poteri riservati ai chierici. Nemmeno la Madre di Dio, la Mediatrice di tutte le grazie, di dignità superiore a quella degli Apostoli, svolse le funzioni da Cristo ad essi assegnate.
  Anche l'Enciclopedia Cattolica (vol. IV, col.1535 segg.) non considera "diaconesse" nella storia della Chiesa; nomina soltanto quelle dei protestanti. L'esegesi tradizionale (p.e. a cura di mons. Antonio Martini) esclude che appartengano al diaconato le donne di cui a Tim. 3, 11 (San Paolo). Le coadiutrici degli Apostoli furono poco più che perpetue e benefattrici.
  È singolare come i modernisti progressisti e storicisti si appellino pretestuosamente alle presunte origini, e sovente anche con quell'archeologismo ripreso da Pio XII.


Piero Nicola

domenica 15 maggio 2016

Giuseppe Rizzo filosofo rosminiano

 “L'opera di Giuseppe Rizzo manifesta in piena luce da un lato il tendere infinito della mente nella ricerca della Verità, dall'altro caratterizza in maniera inequivocabile questo divenire della mente, perché il significato lo riceve dalla luce della Verità totale alla cui comprensione si sforza pervenire.
 Giulio Bonafede


 Simile alla inconscia zagaglia di carducciana memoria, il piombo rovesciato su Giovanni Gentile dal gapista e pistolero fiorentino Bruno Fanciullacci avviò la calunnia e ispirò l'epurazione implacabile delle filosofie irriducibili all'utopia marxiana e al suo desolante esito crepuscolare.
 Ebbe inizio in quel tragico e oscuro 1944 il progetto degli oscurantisti, che hanno usato l'armato ma inconsapevole apparato culturale dei comunisti per sguinzagliare e promuovere i tenebrosi pensieri giacenti nel sottobosco esoterico e indirizzarli all'esito fumoso, ultimamente leggibile nei libri prodotti dalla squillante spocchia adelphiana.
 Sugli autori irriducibili alla rivoluzione esoterica si è abbattuta, infatti, la severa e implacabile intolleranza di una censura protetta dal metafisico preservativo antifascista.
 Di qui il suggerimento di rileggere i testi dei protagonisti del vivace ma cortese dibattito che oppose i pensatori di scuola gentiliana ai filosofi d'ispirazione cattolica. Una vicenda sgradita agli esponenti della cultura in corsa illuminata – da Benedetto Croce a Monica Cirinnà e a Roberto Calasso - nell'interminabile dopoguerra.
 Alla faticosa impresa finalizzata alla ricostruzione di una importante pagina della storia filosofica italiana si è da tempo dedicato un allievo sagace e fecondo continuatore dell'opera di Giulio Bonafede, Tommaso Romano.
 Intrepido e ostinato visitatore della tradizione italiana calunniata, censurata e oscurata dal potere esercitato dai maghi freneticamente attivi nei vespasiani democratici, Romano esplora le pagine scomode della storia della filosofia.
 La più recente e impegnativa opera di Romano (edita in Palermo dall'Isspe) è dedicata alla discoverta del pensiero di un dotto sacerdote, Giuseppe Rizzo (1878-1933) filosofo rosminiano e canonico di Ciminna, un autore ingiustamente sottovalutato dalla storiografia d'ispirazione laicista e/o neo-modernista.
 Alla formazione filosofica di don Rizzo contribuirono alcuni illustri docenti dell'università di Palermo, interpreti di correnti di pensiero con le quali il sacerdote di Ciminna dovette misurarsi: il neo idealista Giovanni Gentile, e i positivisti Cosmo Guastella, Giovanni Antonio Colozza e Giuseppe Tarozzi.
 Rizzo fu stimato tuttavia da Gentile, che gli assegnò, quale argomento della tesi di laurea, Il problema del bene e del male e la Teodicea di Rosmini nella storia della filosofia.
 Romano rammenta, opportunamente, che “il giovane studioso di Ciminna si porrà lontano dalla filosofia dell'Idealismo e del Positivismo, allora egemoni”.
 Fu a Beato Antonio Rosmini cui don Rizzo fece costante riferimento, senza peraltro (rammenta opportunamente Romano, che al proposito cita un saggio di Michele Federico Sciacca) “diventare divulgatore pedissequo ma inserendo personali notazioni, osservazioni, innovazioni e varianti, non certo di scarso rilievo e interesse”.
 Lo storico Salvatore Corso ha dimostrato che don Rizzo intendeva “stabilire la concretezza e la stabilità del pensiero rosminiano in paragone con l'astrattismo dell'Idealismo e del semplicismo del materialismo”.
 Pertanto saggio di Romano costituisce un prezioso contributo alla discoverta di un autore ingiustamnente sottovalutato e affondato nel gorgo del cattolicesimo spensante.


Piero Vassallo

sabato 14 maggio 2016

CATTOLICESIMO OPPOSTO A QUELLO RISPETTOSO DEI GOVERNI PRO SODOMA (di Piero Nicola)

  Il nostro governo - in particolare - è tranquillamente qualificabile pro Sodoma. Il suo operato mira a rendere la gente italiana degna delle bibliche città che Dio incenerì per i loro vizi elevati a sistema. Scampiamo al rogo immane perché Renzi & Compagni non riescono a ridurre a meno di "dieci" (Gen. 18, 32) - in proporzione forse seimila - gli uomini giusti come Lot. Quella divina giustizia fu compiuta "perché servisse da esempio a coloro che sarebbero vissuti da empi" (II Pt. 2, 6). L'empio laicismo, che sta perdendo i sedicenti cattolici abbandonati alle loro voglie, induce Renzi a dire - mettendo a tacere certi suoi perplessi correligionari - che ha giurato sulla costituzione, non sul Vangelo, a proposito della legge sodomitica, la cui approvazione è stata vincolata alla fiducia posta dal governo. Un'enormità, il renziano argomento, resa possibile da un governo pastorale sovvertito e dall'abrogata difesa della dottrina dovuta a un clero usurpatore delle sante cariche.
  Nell'Inghilterra della prima metà del Novecento abitarono figli della Chiesa che ebbero conoscenza e sacro scrupolo della Legge del Signore. Uno dei massimi scrittori britannici di quel tempo, Evelyn Waugh, pubblicò nel 1945 Ritorno a Brideshead, un romanzo di successo. Charles, il protagonista agnostico, entra in varia relazione con una famiglia della grande nobiltà cattolica inglese. Universitario, egli coltiva una carissima amicizia con un figlio cadetto, che diverrà alcolizzato e vagherà per le strade del mondo sino a riparare come coadiutore laico in un convento tunisino. Sposatosi e tradito dalla moglie, da cui ha avuto due bambini, il soggetto narrante Charles (viene in lui alquanto adombrato lo stesso autore) s'innamora della nondimeno maritata splendida figlia del Lord divenuto miscredente, il quale vive a Venezia da concubino. Sua moglie (che muore prematuramente), il primogenito e una figlia minore restano fedeli al loro credo e alla Chiesa, pur con le umane magagne dei loro caratteri. L'intreccio segue le vicende psicologiche e passionali lungo i casi della vita. Nella loro inevitabile caducità, s'impone la ricerca d'una certezza, d'uno approdo, che infine risiede nella religione. La storia si svolge tra il primo dopoguerra e il Secondo Conflitto mondiale.
  Dopo il ritorno all'osservanza del povero alcolizzato, le cui ricadute nel vizio non potranno impedire un'assoluzione in extremis, sarà la volta del capofamiglia - rientrato alle prime avvisaglie della guerra nella superba magione di campagna insieme alla seconda consorte - di affrontare la propria fine. Al suo rifiuto del prete, nell'orrore della morte imminente, segue la controversa riproposta degli estremi sacramenti. Ricevutili, il suo farsi il segno della croce quando sembrava ormai in coma, suggella la conversione per la salvezza.
  Usciti dalla camera, il sacerdote dice pacifico: "Be', per me è stata una cosa bellissima. Ho visto far così tante di quelle volte. Il diavolo resiste fino all'ultimo, ma poi la grazia divina è troppo forte anche per lui".
  Poi la bella figlia adultera, in cui il germe della fede non ha mai cessato di lavorare, sacrifica il suo amore per il protagonista e il progetto del matrimonio. "Andrò avanti... da sola. Come faccio a dirti quello che farò? Tu mi conosci a fondo. Sai che non sono fatta per una vita vissuta nel lutto. Sono sempre stata cattiva. Probabilmente lo sarò di nuovo, di nuovo sarò punita. Ma quanto peggiore sono, tanto più ho bisogno di Dio. Non posso tagliarmi fuori dalla sua misericordia. E proprio questo significherebbe iniziare una vita con te, senza di Lui [...] Mi sono resa conto che c'era un'unica cosa imperdonabile [...] la cosa che ero sul punto di fare, che non sono abbastanza cattiva per fare; opporre un bene che rivaleggi con quello di Dio. Perché a me è concesso di capirlo e non a te, Charles? Forse per via della mamma, della tata, di Cordelia [la sorella] [....] perché il mio nome è sempre ricorso nelle loro preghiere; o forse è un patto segreto tra me e Dio, per cui se rinuncio all'unica cosa che mi sta davvero a cuore [l'unione amorosa], per cattiva che io sia, non perderà del tutto ogni speranza con me alla fine".
  Ciò accende un barlume di comprensione nell'innamorato cui si spezza il cuore.
  Evelyn Waugh, in altre opere sottile scrittore satirico, cui si deve tra l'altro Il caro estinto, si convertì al cattolicesimo - come ebbe a dire - per via di raziocinio. Chissà se la forza della nostra dottrina oggi gli sarebbe pervenuta con efficacia? Prima di rendere l'anima nel 1966, all'età dei 63 anni, ebbe a criticare le innovazioni, specie liturgiche, apportate dal Concilio. Durante la Guerra d'Etiopia, corrispondente in Abissinia, i suoi articoli vennero censurati per la sua posizione filo-italiana. Il memoriale Waugh in Abissinia (1936) gli valse l'accusa di fascista, non avendo nascosto il suo apprezzamento per Mussolini. Partecipò alla Seconda Guerra mondiale e scrisse una trilogia sulle sue esperienze (romanzate) e osservazioni di quel periodo. Esse sono una preziosa fonte di notizie per rifare la storia, in particolare, quella dell'azione svolta dai partigiani iugoslavi, da Tito e dal governo di Churchill (Resa incondizionata, 1961).
  Waugh non costituì affatto un caso isolato di celebre autore inglese cattolico. Occorre ricordare Ronald Knox (ex prete anglicano), Graham Greene, G. K. Chesterton.


Piero Nicola