mercoledì 29 maggio 2013

Presentazione di Emilio Artiglieri: Un treno nella notte filosofante (Roma, 16 maggio 2013)

     Certamente il mondo resterebbe, per usare un eufemismo, meravigliato se i giornali, i telegiornali, i twitter annunciassero che Papa Francesco ha dichiarato guerra.
   Eppure, fin dalla sua elezione, nei suoi discorsi, nelle sue omelie è ricorrente il tema della guerra, della guerra al diavolo, con il quale, ancora recentemente, ha dichiarato, in modo perentorio, che non ci può essere dialogo, e che, non senza ironia, ha definito un “cattivo pagatore”.
   Proprio su questi temi della predicazione di Papa Francesco è uscito, sull’Osservatore Romano, un bell’articolo il 4 maggio scorso di Inos Biffi, il quale ha messo in evidenza come il Nuovo Testamento, non solo i Vangeli, ma le Lettere paoline, le Lettere di Giovanni, l’Apocalisse, sia tutto caratterizzato proprio dalla rappresentazione di questa grande battaglia, che è iniziata prima della storia e si prolungherà fino alla fine dei tempi.
   Ancora prima della sua elezione a Vescovo di Roma, l’allora Cardinale Bergoglio, a proposito delle proposte di legge sul matrimonio omosessuale, le attribuiva all’invidia del demonio, attraverso la quale – così scriveva ai monasteri carmelitani di Buenos Aires – il peccato entrò nel mondo: “un’invidia che cerca astutamente di distruggere l’immagine di Dio, cioè l’uomo e la donna che ricevono il comando di crescere, moltiplicarsi e dominare la terra”.
   In altre parole non si trattava, per il Cardinale Bergoglio, di una battaglia politica, ma del tentativo distruttivo del disegno di Dio, tentativo voluto dal demonio per confondere e umiliare gli uomini.
 Un filosofo non cristiano, come professione di fede, ma sensibile al rapporto tra teologia e storia, Massimo Cacciari ha dedicato un testo, uscito recentemente, al katéchon, ossia a “Il potere che frena”, secondo l’espressione che si legge nella seconda Lettera ai Tessalonicesi. Il katéchon è qualcosa o qualcuno che trattiene e contiene, arrestando o frenando l’assalto dell’Anticristo, ma che dovrà togliersi o essere tolto di mezzo, affinché l’Anticristo si risvegli, prima del “giorno del Signore”.
   Non intendo soffermarmi sulle diverse interpretazioni del katéchon e dell’Anticristo.
   Mi piace però cogliere dal testo di Cacciari, che riprende la letteratura cristiana antica sull’argomento,  questa precisazione: “l’Ingannatore del mondo si presenta come figlio di Dio. La sua energia si esprime nel se-durre dalla fede nel Signore Gesù: la sua apostasia non è discessio o secessio genericamente da Dio, non ha nulla a che vedere con qualsiasi forma di ‘ateismo’; essa ha un solo bersaglio: sradicare la fede che Gesù sia il Cristo” (p. 49).
   Presentando il libro di Piero Vassallo: “Un treno nella notte filosofante”, vorrei subito qualificarlo come un romanzo, non solo e non tanto filosofico, quanto piuttosto teologico e spirituale.
   La notte in cui è ambientata la prima parte, nella quale si descrivono le discussioni svolte durante un viaggio in treno tra Simeone, il protagonista (nome assolutamente spirituale) e gli altri compagni di viaggio, diventa nella seconda parte la notte della ragione, oltre che della fede, non nel senso di San Giovanni della Croce di “notte oscura” come esperienza mistica, ma nel senso di “tenebre” che si oppongono alla luce, che avvolgono il pensiero e lo rendono impotente ad aprirsi alla realtà creata, a confrontarsi con il reale, in un avvitamento in se stesso che è l’esito del principio di immanenza moderno.
   E’ la notte del nichilismo che si oppone alla luce e alla vita, è la notte in cui si sviluppa il fomite dell’antivita.
   Per capire la battaglia tra la luce e le tenebre, tra la vita e l’antivita, occorre aver presente il prologo al Vangelo di San Giovanni, quel prologo che, come un esorcismo, veniva recitato al termine di ogni Messa nel rito antico, e ancora oggi viene recitato in questo splendido rito antico.
   La notte filosofante si oppone alla luce, alla vita, è il tempo delle tenebre, il tempo dell’antivita.
    La vera battaglia, il vero confronto non è tra “destra” e “sinistra”, tra – per citare le antiche Potenze terrene - Francia e Germania, tra Russia ed America, neppure tra Europa ed Islam: è tra la luce e le tenebre, tra la vita e l‘antivita.
   Il momento più alto di questa battaglia e che ne svela il senso è dato dall’Incarnazione del Verbo di Dio: il Verbo si è fatto carne, come dice San Giovanni, e ha posto la sua dimora tra noi, nella storia umana.
     Grande mistero, di fronte al quale il rito antico esige che, ogni volta che si ricorda nella liturgia,  tutti, sacerdoti e fedeli, si inginocchino, adoranti.
   Lo sfondo è dunque sempre questo: le tenebre che avvolgono il mondo, gli uomini, il loro pensiero, ma che vengono squarciate dalla luce del Logos che è vita, e che si fa carne, che entra glorioso nella storia dell’umanità, definitivamente, e che a quanti credono in Lui ha dato il potere di diventare figli di Dio.
   Ed è questo che il grande Ingannatore, l’invidioso, come dice Papa Bergoglio, non sopporta: la dignità dell’uomo elevato per grazia ad essere partecipe della natura divina, ad essere figlio di Dio.
   Non potendo colpire Dio, colpisce l’uomo, la sua dignità, la sua apertura al trascendente, la sua vita di grazia e la sua chiamata alla gloria.
   Ritengo questa premessa necessaria per poter parlare del romanzo di Vassallo, che altrimenti resterebbe, nel suo aspetto più profondo, incomprensibile.
   Il romanzo di Vassallo si può leggere a diversi livelli: ad un livello autobiografico in cui egli fa riferimento, soprattutto nella prima parte, a quella che potremmo definire la sua “conversione” da giovanili idealità vagamente pagane al loro superamento e al loro “inveramento” nel cristianesimo; ancora a livello autobiografico, ma anche come spunto di riflessione per tutti, si coglie quello che potremmo definire lo spirito cavalleresco, dell’autentica cavalleria cristiana, di Piero Vassallo, che lo porta al servizio della verità fino al rifiuto di ogni successo mondano che ben gli sarebbe stato accessibile.
    L’altro livello è quello sul piano della storia culturale, intendendo questo aggettivo non nel senso di accademico o di riservato agli specialisti, ma come sinonimo di civiltà: da una parte la notte con le sue tenebre ed i suoi spettri, dall’altra la vita, la luce che ci ha portato il Verbo di Dio, il Logos incarnato, aprendo, allargando, come direbbe Benedetto XVI, la nostra ragione alla trascendenza.
   L’esito della notte filosofante per il treno è di finire su un binario morto, inizio della tragica avventura dei protagonisti, che vengono come scaraventati dalle eleganti carrozze di questo treno (ma l’eleganza, la squisitezza, i modi affettati spesso sono il preludio all’abbruttimento), nel progetto di un “mondo nuovo”, fondato sulla “ultrarivoluzione”, come restaurazione della “cultura originale” e del “pensiero armonioso” (cfr. p. 67), che non è solo una cultura precristiana, ma pre – e antirazionale, avendo, a sua base, il rinnegamento, esplicito in Marcuse, del principio di identità e di non contraddizione, qualificato – risum teneatis amici – “fascista” (p. 75).
   La lotta alla luce, alla vita è sempre anche lotta alla ragione: non a caso la cultura omosessualista, abortista, eutanasica è caratterizzata anche dal favore per l’uso delle droghe, in una visione sconvolta e sconvolgente dell’uomo, che di umano non ha più nulla.
   E’ di questi giorni l’uscita di un romanzo di Dan Brown, Inferno, in cui il tema è il mito della sovrappopolazione, per cui l’umanità sarebbe prossima ad essere annientata dalla crescita demografica: il rimedio sarebbe quindi la sterilizzazione di massa, l’aborto, la contraccezione, l’eutanasia.
   Giustamente Massimo Introvigne ha definito questo libro un manifesto anticattolico per la “cultura della morte”, cultura della morte che, al di là di queste formulazioni così esplicite, serpeggia, uso questo verbo non a caso, in ampi settori del mondo moderno e contemporaneo, politicamente trasversali.
   In quella che Vassallo definisce la “cultura originale”, nel senso di anticristiana e antirazionale, si consuma la dissociazione gnostica, propriamente marcionita, tra il Vecchio e il Nuovo Testamento, che concretamente significa il rifiuto del Creatore e dell’ordine creato, e quindi della legge naturale, dei suoi valori, della razionalità stessa, come se si potesse essere più “buoni” di Dio.
   Ci viene offerta da Vassallo una importantissima chiave di lettura della cultura moderna e contemporanea, ma anche una chiave di interpretazione politica che giunge fino alla attualità, e che ci aiuta a capire come mai esponenti di destra facciano discorsi “di sinistra” (ad es, apertura ai matrimoni omosessuali), o esponenti della politica e della cultura di sinistra si affannino a “reggere la coda” ai grandi banchieri e ai finanzieri senza scrupoli.
   In questa “cultura originale”,  destra e sinistra solo apparentemente sono poli opposti, ma in realtà si ritrovano in questa “armonia”, cementata dalla stessa avversione per il cristianesimo, ma anche per i valori ad esso propedeutici dell’ebraismo ortodosso (mosaico), del razionalismo greco e della giustizia romana (p. 80), in breve per “l’impostazione occidentale”, che è poi quella cattolica.
    Al riguardo mi piace ricordare che il celebre discorso di Bottai del 7 dicembre 1942 a Berlino di esaltazione del diritto romano suscitò le reazioni furiose dei nazisti, Goebbels, Rosenberg, che definirono il ministro italiano la longa manus del Vaticano, reazioni non diverse nella sostanza rispetto all’odio per il diritto romano manifestato negli scritti di Engels
  Il fotomontaggio, che il protagonista vede in uno degli alloggi di quel lager in cui si costruisce la nuova umanità, di Marx che bacia Nietzsche (p. 85), è la più chiara espressione di questa devastante “armonia”, del compimento dell’et - et.
  Nazismo e comunismo, estrema destra ed estrema sinistra, Hitler e Pol Pot, confluiscono nell’odio alla vita – e innanzitutto alla sua trasmissione – alla storia, alla tradizione, alla razionalità come elemento di somiglianza al divino, nella prospettiva di “andare oltre l’uomo” (p. 110).
   In questo percorso si colloca anche un ecologismo esasperato, per cui l’uomo non sarebbe diverso da ogni altro animale e si dovrebbe confondere con la natura, e il rifiuto della tecnica.
   Come fare ad andare oltre l’uomo? Superando ogni dualità: bene – male; uomo –donna; angeli buoni – angeli cattivi. Verrebbe da dire ogni discriminazione, in un aberrante ermafroditismo culturale.
   Qui davvero si scontrano due grandi progetti: il progetto di Dio e il progetto dell’avversario, tanto feroce quanto grottesco.
   Culmine del progetto dell’avversario, ossia della cultura di morte è, come viene descritto nel romanzo di Vassallo, il sacrificio umano. Se qualcuno ritiene che nella nostra cultura non si pratichi più il sacrificio umano, rifletta sui milioni di aborti, che non sono altro che vittime innocenti soppresse, con il permesso della legge, dal più forte. Ed oggi la strada è aperta all’infanticidio.
     Per non parlare di tante altre situazioni in cui la vita umana è disprezzata fino al cd. delitto gratuito, bene raccontato nella sua lucida follia da Sartre nel racconto Erostrato.
   Satana, scrive Vassallo, non si aggira in divisa (p. 145), ossia i veri satanisti non sono ragazzotti marginali, che ascoltano una certa musica o vestono di nero: i veri satanisti sono nei salotti, sulle cattedre universitarie, nelle direzioni dei grandi giornali. E’ lì che si pianifica il “mondo nuovo” .
   Come difendersi dall’incubo, come respingere questo progetto di morte? Chi ci difenderà se anche, e soprattutto i potenti stanno dall’altra parte?
   I credenti sanno che il finale è già scritto, che il principe di questo mondo sarà precipitato: questo però non ci esime dal combattimento e soprattutto dal cercare le tracce di quella che sarà la vittoria definitiva.
   Piero Vassallo ci indica tre tracce: gli umili, i sofferenti; le persone comuni; infine i Santi. Gli umili, i sofferenti sono, per così dire, il parafulmine, sono coloro che espiano in vece nostra.
  Il pensiero corre dalla figura di Matrjona di Solzenicyn, che, disprezzata dagli uomini, come una “povera stupida” che aiutava gli altri senza compenso, e in quest’opera trova la morte, era invece proprio lei “quel Giusto senza il quale non esiste il villaggio, né la città, né tutta la terra nostra”.
   Le persone comuni, i Brambilla, come li chiama Vassallo, sono poi quelle persone apparentemente modeste nella loro regolarità di vita, nelle loro aspirazioni, nel loro stile, mai sopra le righe, i “padri di famiglia”, che, di fronte alle difficoltà, sanno dimostrare un cuore grande e un coraggio eroico.
   Ed infine i Santi, in particolare i contemplativi come Teresa d’Avila, Teresina di Lisieux, o i Martiri come Edith Stein, come le Carmelitane di Compiègne che ci indicano dov’è il vero bene, al di là di ogni progetto umano.
   Insomma, alla soglia degli 80 anni, Piero Vassallo ci vuol dire che la salvezza non viene dalla cultura, non viene neppure dalla politica (ancorché questa possa offrire un qualche apporto strumentale e secondario, come machinae transiturae per costruire la domum mansuram, in senso agostiniano); viene dall’alto, dalla luce del Verbo incarnato che illumina, come dice ancora il prologo dal Vangelo di San Giovanni, ogni uomo che viene nel mondo e gli svela la pseudosapienza dell’Ingannatore.

Emilio Artiglieri


sabato 18 maggio 2013

Intervento di Valentino Cecchetti: Un treno nella notte filosofante (Roma, 16 maggio 2013)

Credo che non sia necessario spendere troppe parole per presentare Piero Vassallo. Alcuni lo considerano un implacabile e caustico polemista cattolico italiano. Per molti di noi è uno tra i più importanti intellettuali di questi anni.
Conosciamo sin troppo bene lo scenario in cui Vassallo ha condotto da filosofo la sua “buona battaglia” politica e culturale.
Vassallo non soltanto è stato il primo a smascherare la falsa distinzione culturale tra la destra e la sinistra postmoderne (con particolare disdoro della destra deviante e “spensante”). Ha rivelato l’origine anticristiana della cultura postmoderna, ha denunciato il pericolo della “nuova alleanza” (lo notava Franco Fontana nella prefazione a uno dei libri più belli di Vassallo) tra universi culturali che sembrano molto distanti. E spingono per il ritorno all’antico, agli antichi miti. Verso l’orizzonte “regressivo” che annulla senza scampo il singolo nel magma della natura e della specie.
È la “destra adelphiana”, che Vassallo ha descritto in tempi non sospetti. E che ha magistralmente demistificato in tante opere, molto prima dei celebrati Adelphi di Blondet. Penso a libri come L’ideologia del regresso, a Ritratto di una cultura di morte. Rimando al volumetto bibliografico che raccoglie tutto il percorso di Vassallo, curato se non ricordo male da Sergio Pessot e pubblicato dalla Banda di Genova. Per intravedere lo spalancarsi del precipizio: quello di Cacciari e Dossetti, di Maritain e Gandhi, i protagonisti del millennio regressivo, dell’antichismo che nasce dai fantasmi e dalle distorsioni illuministiche della modernità.
Si tratta di ciò che è stato felicemente definito da Augusto del Noce il “totalitarismo della dissoluzione”, il fenomeno che non ha il volto odioso dei totalitarismi coercitivi del secolo scorso, ma ha il sorriso seducente e sinistro di un nuovo “sistema” (relativismo morale, edonismo consumistico, lassismo istintuale). E mira a distruggere le difese immunitarie dell’essere umano, a consegnarlo, frastornato e disarmato, nelle mani di nuovi carnefici.
Ed è esattamente ciò che si racconta in questo libro (nella seconda parte in particolare). Il deragliamento notturno del pensiero (come non pensare a Céline?) verso l’alba dell’Ultrarivoluzione, l’avvento delle Entità Superiori che vengono a liquidare i resti dell’Occidente cristiano. L’affermazione “imprevedibile e irreale” della comunità di Bataille (la Locanda dell’Armonia degli Opposti), che nelle “pose” onomastiche e negli anagrammi riconoscibili dei suoi animatori, Gamballarghi, Rosati, De Pastera, Ceneretti, offre in rassegna la “ragion pratica” del disastrato e spaventoso neopensiero contemporaneo, quello a colori pastello dell’editore satiro e officiante gnostico Rosati-Calasso.
Ha fatto bene un commentatore, Roberto Dal Bosco, a rilevare che i tempi (tempi di seduzione sinistra si diceva) richiedano per interpretarli, rappresentarli e combatterli strumenti di natura letteraria, oltre che filosofica.
Ma penso che Vassallo voglia con questo libro mostrare in piena luce una continuità. Una questione che qui non si vuole risolvere con l’etichetta un po’ vana, con la solita scorciatoia: ecco un moralista. C’è in Vassallo un legame molto più forte e necessario di quello pur fondamentale che intreccia “etica e biografia”. C’è il legame tra il movente soggettivo e la storia-provvidenza. Un legame che non può essere spezzato e che qui assume la forma dell’apologo, ora sarcastico, ora doloroso, ora elegiaco (il registro più segreto, ma sorprendente di Vassallo) e fa i conti con tutto un percorso esistenziale e intellettuale mostrato nella sola forma cui si possa offrire il senso definitivo della scrittura e della vita: la forma classica dell’itinerarium.
Un treno nella notte filosofante si offre su un registro poco praticato nella letteratura italiana. Un realismo-irrealismo magico e grottesco, beffardo e straniante, che fa pensare al Papini di Gog, al pessimismo di Papini circa il destino “americano” offerto all’umanità dalla civiltà dei consumi. Un registro che avvicina il romanzo di Vassallo a modelli ideologicamente forse molto distanti. Penso al romanzo di conversazione e di idee degli anni Trenta (Huxley). Ma penso soprattutto al tono caustico, brillante, paradossale di Chesterton. Se è vero che la scrittura per essere tale deve sempre avere, come diceva lo stesso Chesterton, dei “moventi morali”, anche se parla di “giardini olandesi e di scacchi”. E anche inevitabilmente ai grandi apologeti. A Tertulliano, troppo spesso indicato (al pari Di Vassallo, mi sia permesso di osservare) come la vittima di un temperamento portato verso l’eccesso, sino ad abbracciare per ragioni “psicologiche” l’eresia. Al contrario esempio di una lucidità in cui il dottore e il polemista brillano contemporaneamente grazie alla forza e alla ricchezza del mezzo espressivo.
Un treno nella notte filosofante si presenta sin dal titolo come un racconto allegorico, un romanzo a chiave. Anche quando, nella prima parte, è più autobiografico e la “lampada della memoria” del protagonista, l’alter ego dell’autore, Simeone, si accende sullo scosceso percorso esistenziale di un “cattolico hyksos” e prende a spingersi lungo una via narrativa sempre più simbolica: da “figlio del sole” evoliano sino alla luce del cardinale Siri-Don Giacomo e alla fuga “cinematografica” dal destino di morte delle ultime pagine.
Vorrei fermarmi per concludere su un personaggio forse minore del racconto (ma i personaggi non hanno gerarchia in questo romanzo davvero corale). Su un sogno retrospettivo del protagonista, il ricordo di un antico coinquilino dell’ “eversore di destra” Simeone. Il ragionier Brambilla, ritratto di un cavaliere della mediocrità, che si offre come lo straordinario esempio di eroismo quotidiano, l’unico possibile, nel senso che Péguy dava all’eroismo contemporaneo: quello del padre di famiglia.
Qui sta forse il senso riposto del romanzo. Che è mosso, come tutta l’opera di Vassallo, dalla volontà di respingere la cultura di morte nella quale l’autore intravede l’essenza di una sorta di anti-Italia. Se è vero che tra le nazioni di Occidente proprio all’Italia, per il suo destino che la lega nella tradizione cristiana, è demandato il compito di traghettare l’intera storia occidentale “oltre il nichilismo”. È soprattutto per ritrovare il senso di questo “primato morale e civile” degli italiani (così ben rappresentato nel protagonista del romanzo e dalla storia di “superatore dei superatori di Cristo” dell’autore), che credo si debba leggere il romanzo di Vassallo.

Valentino Cecchetti

domenica 12 maggio 2013

Dalla Tradizione cattolica l'amor di Patria

Nota a margine del saggio "Unita e cattolica" di Paolo Pasqualucci

Dalla Tradizione cattolica l'amor di Patria

 Il disamore e il disprezzo della Patria unita, aberranti stati d'animo diffusi dagli attivisti del Pci, partito internazionalista e filotitino, sceso in guerra contro la legge divina e in special modo contro il quarto e il quinto comandamento, sono le cause remote del degrado morale e dello scisma politico, che  avviliscono e tormentano la società italiana, laica, adulta e democratica.
 Nel magnifico saggio "Unita e cattolica",  ingente e appassionato contributo alla rinascita dell'amore per la Patria unita, scritto dal filosofo Paolo Pasqualucci e pubblicato a cura di di Giuseppe Parlato nelle edizioni Nuova cultura, è difesa la verità storica intorno alla quale potrebbe destarsi la volontà di interrompere la spirale delle faziosità.
 Opportunamente Paolo Pasqualucci rammenta che "il Pci, che si concepiva come agente della Rivoluzione Mondiale nell'interesse dell'Unione Sovietica, ha condotto una battaglia culturale e politica implacabile contro l'idea stessa di nazione, di Patria, di cultura e tradizioni nazionali e contro lo Stato, oltre che contro la religione".
 Disgraziatamente l'avversione dei comunisti al patriottismo (si rammenta, al proposito, l'indegna gazzarra organizzata dagli agit-prop per umiliare i rifugiati istriani e fiumani) è penetrata nell'area del contraffatto ecumenismo e del disorientamento cattolico, ora  destando  la snobistica tendenza a condividere l'ostilità di Antonio Gramsci nei confronti della nostra tradizione ora suggerendo  antistoriche nostalgie anti-unitarie, di segno papalino e/o borbonico.
 A sinistra il risultato dello smarrimento cattolico nel labirinto gramsciano fu l'internazionalismo a sfondo irenistico e utopistico, che indusse il sindaco carismatico di Firenze, Giorgio Lapira, a fare concessioni alla mentalità settaria dei comunisti - ad esempio a definire i militanti di destra "discendenti di Caino".
 Emblema dell'insensibilità lapiriana al patriottismo fu l'inflazione di gemellaggi fiorentini con città estranee se non irriducibili alla cultura italiana, Fez, ad esempio. In tali scelte era evidente l'influsso della suggestione generata da un cosmopolitismo anti-identitario.
 A destra la preconcetta avversione all'Italia unita ispirò la nostalgia anacronistica e disinformata degli stati pre-unitari e l'immotivato rifiuto dell'identità nazionale.
 Misura della confusione anti-unitaria circolante nella destra cattolica fu la veemente sollevazione dei filo borbonici contro il progetto di Francisco Elias de Tejada y Spinola, finalizzato alla celebrazione dell'impresa risorgimentale [1].
 In un tumultuoso convegno svolto in Roma nel maggio del 1977, De Tejada, per evitare l'incombente scissione, fu costretto a ritoccare la sua tesi e a condividere (a denti stretti e contro la sua convinzione) l'opinione che l'unità d'Italia doveva essere ripensata mediante l'assimilazione del progetto borbonica [2].
 Dopo la prematura morte di De Tejada, la passione antirisorgimentale non incontrò ostacoli all'esercizio di una critica talora rozza e sempre indirizzata all'anacronismo e all'inavvertita assimilazione del disprezzo nutrito dai protettori occidentali (liberali) della patria italiana.
 In una corrente tradizionalista si manifestò addirittura una bizzarra opinione - lampante esempio di trasbordo ideologico inavvertito - che attribuiva all'anti-italiano Winston Churchill il titolo di salvatore della civiltà.
 Di qui l'incapacità, manifestata da una vasta frazione della scuola tradizionalista, di comprendere che sul progetto anti-unitario, coltivato in nome della fedeltà al Cattolicesimo, era surrettiziamente impresso il marchio della faziosità comunista e della mitologia pseudo-ecumenica.
 Inoltre sotto il marchio dell'antifascismo era contrabbandato il progetto inteso alla dissoluzione dello Stato italiano. Al proposito Pasqualucci rammenta che "l'antifascismo si è macchiato di una colpa storica nei confronti degli italiani: ha reintrodotto nel nostro Paese il particolarismo, nelle sue varie forme: le regioni, i dialetti, l'ostilità per lo Stato unitario, il fazioso spirito di partito, la mistica dell'autonomia. L'antifascismo non solo non ha risolto le contraddizioni tra Democrazia e Nazione, che si era sanguinosamente aperta nel primo dopoguerra, l'ha esasperata".
 E' dunque evidente che l'uscita della destra dallo zero metafisico in cui l'hanno trascinata il rigetto del patriottismo e l'assimilazione inavvertita dell'antifascismo di scuola comunista [3], costituisce un evento impossibile, fino a che non sarà riveduta seriamente la mitologia intorno all'Italia pre-unitaria e riletta - sulla traccia indicata da De Tejada - la storia del risorgimento nazionale.
 Convenientemente, nell'introduzione al saggio di Pasqualucci, Parlato rammenta che durante il Novecento, autorevoli pensatori, appartenenti a diverse scuole di pensiero, hanno esaminato criticamente il Risorgimento ma la loro riflessione "di alto contenuto storico e filosofico sulle modalità in cui si era realizzata l'unificazione del Paese" non scendeva mai al livello della revisione viscerale: "pur nella critica serrata, tali riflessioni, tuttavia, non hanno mai messo in dubbio la validità dell'opzione unitaria. Poteva essere unificata meglio l'Italia, d'accordo, ma un sano storicismo suggeriva che comunque così era andata. Si poteva riformare - e si è anche tentato - ma non si poteva negare l'evidenza".
 Negli ultimi anni la polemica dei tradizionalisti sull'unificazione della Penisola ha peccato talvolta di irrealismo storico, esagerando (ad esempio) il ruolo della massoneria o confondendo massoneria e anticlericalismo generico.
 Al riguardo Parlato sostiene, con sottile e pungente ironia, che la scolastica antirisorgimentale "Non si è limitata a denunciare le manchevolezze nell'unificazione ... ma piuttosto prende occasione dalle manchevolezze (spesso presunte) per giungere alla conclusione che l'unificazione o non si sarebbe dovuta fare, ovvero si sarebbe dovuta fare in maniera tanto diversa che non si sarebbe potuta fare".  
 Se non che la difesa dell'unità d'Italia oggi è giustificata specialmente dall'inquietudine che desta l'involuzione liberista e globalista in atto nell'Unione europea. Apprensione che aumenta quando si misura il consenso al partito cosmopolitista inventato da Casaleggio, un occultista che non nasconde l'ammirazione per il satanista Georges Gurdijeff.  
 Sulle urgenti ragioni dell'unità d'Italia Pasqualucci formula un drastico ma puntuale giudizio: "L'Unione europea che a prudente avviso di molti (quorun ego) avrebbe dovuto restare elastica Comunità; questo Superstato militarmente inesistente, frutto ibrido dell'Utopia e degli interessi di potenti élites economico-finanziarie (basti pensare all'azzardata creazione di una moneta unica senza avere un'economia unica e al liberalismo assoluto che lo anima); ultra laico e anticristiano sia nei suoi princìpi fondamentali che in diverse sue politiche, esercita, com'era inevitabile un'azione disgregante nei confronti degli Stati nazionali".
 Dal disarmo davanti al laicismo rampante a Bruxelles ha infatti origine il sogno frazionista che contempla l'appiattimento di un capolavoro della Provvidenza storica, quale è l'Italia, in una catena o lega calvinista di regioni abitate da formaggiai e fabbricanti di orologi a cucù [4].
 Ai nostalgici dell'Italia disunita, Pasqualucci ricorda amichevolmente che "di fronte alla globalizzazione incalzante, con tutti i suoi mali, non dovrebbe ognuno cercare di salvaguardare l'unità della Patria ... preoccupandosi innanzitutto di instaurarvi l'ordinamento politico e morale che piace a Dio?"
 Pasqualucci contrasta risolutamente l'umiliante utopia federalista: "L'unità statale di una nazione è un bene. Lo è per tutti i popoli, quali che siano la loro religione e il loro grado di civiltà. Non si capisce perché solo per noi italiani non debba esserlo".
 Di conseguenza ridimensiona alcune leggende nere o bianche intorno al risorgimento. Tanto per cominciare dimostra l'inconsistenza dei panegirici intorno alle delizie dei piccoli regni e delle piccole repubbliche pre-unitarie.
 Oggetto di brucianti umiliazioni l'Italia debole e frammentata doveva piegarsi continuamente alle imperiose decisioni delle monarchie nazionali. "Nel Seicento e nel Settecento, le diplomazie europee, perfezionando a forma quasi d'arte una prassi ben anteriore, intrecciava sottilmente ed ipocritamente la politica di potenza alle questioni dinastiche. Nel caso di piccoli Stati, come quelli italiani, stabiliva con largo anticipo che cosa farne, quando i rispettivi principi fossero morti senza eredi".
 La macchia costituita dal mortificante/disonorante potere esercitato dalle monarchie europee non cancella i difetti, i deliri (l'utopia mazziniana, ad esempio) e le magagne della classe politica, che ha attuato il risorgimento compiendo azioni spesso censurabili.
 Pasqualucci non nasconde il "difetto d'origine" del risorgimento, e riconosce che "l'aver dovuto ricorrere all'aiuto decisivo dello Straniero nel 1859, sia pure per sconfiggere altri stranieri, ha sicuramente pesato negativamente sulle vicende successive della nostra storia". Afferma tuttavia che, in vista dell'emendazione del difetto d'origine, sarebbe insensato "rimettere in discussione l'unità ed anzi distruggerla, magari svuotandola dall'interno con riforme federaliste ad hoc". E più avanti conclude: "Se l'Italia unita si è secolarizzata, bisogna riconquistarla a Cristo, mantenendola unita".
 Il saggio di Pasqualucci, in definitiva,  costituisce un segnavia indispensabile al cammino degli italiani che non si rassegnano a finire nelle dissolventi fornaci dell'europeismo e del mondialismo.

Piero Vassallo




[1]               Nel dicembre del 1976, De Tejada aveva pubblicato un elogio della gloriosa impresa italiana nella rivista "La Quercia", diretta da Pino Tosca.
[2]          Sulla tradizione borbonica De Tejada nutriva dubbi suggeriti dalla seria conoscenza dell'egemonia che cartesiani e illuministi esercitavano nell'università e nella corte di Napoli. Durante un convegno sulla teologia della storia, De Tejada rammentò la solitudine nella quale era respinto il cattolico Vico dagli accademici napoletani.
[3]             Il rifiuto dell'ideologia antifascista (fatte salve le legittime critiche alla dittatura e alle modalità del suo esercizio) nel dopoguerra fu dichiarato da Giorgio Del Vecchio, un filosofo che aveva subito i danni contemplati nelle leggi antisemite del 1938. Riserve sulla prassi dittatoriale sono manifestate anche da Pasqualucci.
[4]             Non è inutile rammentare che i massimi dirigenti della Lega anti-unitaria provengono dalle file del Pci.

martedì 7 maggio 2013

Un treno nella notte filosofante (Recensione di Aldo Carpineti)

      
Si intenda detto per inciso che il primo sentimento che “Un treno nella notte filosofante” suscita, quasi ad ogni passaggio verbale e concettuale, per tutto il racconto ed a maggior ragione alla conclusione della lettura, è lo stupore.
Perché Pier Angelo Vassallo, per noi tutti suoi amici famigliarmente Piero, stupisce sempre, in ogni sua manifestazione: per la smisurata quantità e qualità della sua cultura, per il rigore della sua dialettica, per lo stesso quotidiano personale proporsi agli altri, immancabilmente stupisce, certo anche al di là della propria intenzione, ed in barba ad un atteggiamento personale pacato, sempre misurato, mai invadente né al di sopra delle righe, volentieri sorretto da una ironia sottile.
Non ho letto tutta la letteratura prodotta da Piero, pertanto non so se quest’ultima creazione rappresenti in qualche modo una summa delle precedenti, ma senza dubbio in essa appaiono un pensiero ed una logica compiuti ed in qualche modo totalizzanti; un discorso completo e complesso che, per ciò stesso, passa attraverso diverse fasi chiaramente riconoscibili, pur connesse tra loro da un ben individuabile filo logico che le unisce e ne giustifica le differenti modalità stilistiche ed espressive.
La potenza del sacro accanto alla dissacrazione del manierismo benpensante, la frequente citazione dotta insieme all’informazione contemporanea, alla nota popolare ed anche popolana; un’aggettivazione ricchissima e mai ripetitiva, l’ironia dell’iperbole e degli accostamenti paradossali. Una descrizione accuratissima fino al raggiungimento del particolare quasi inosservabile ed impensabile, continuamente cangiante, lascia poco ed insieme moltissimo alla prosecuzione fantasiosa del lettore.
Da una seconda fase di ispirazione orwelliana dove la fattoria degli animali trasmuta in una valle, nicchia geografica nella quale i Capi vengono chiamati Enti per non urtare il politically-correct di facciata, si passa senza soluzione di continuità alla rappresentazione di un mondo dove i malcapitati viaggiatori conoscono la disperazione delle città bibliche maledette.
La situazione suscita in essi stati d’animo tanto strazianti quanto non domi, a costo di subire le conseguenze della ribellione alla tremenda ingiustizia.
Ma a questo punto, in un dantesco “la morta poesì resurga” , l’autore innalza un lungo e mirabile inno a Dio, una laude  all’Altissimo che non può non far tornare alla mente il coraggioso slancio del sommo poeta nel rappresentare, nella terza cantica, qualcosa di tanto ineffabile e irraggiungibile alla parola comune: da qui, per i prigionieri, la faticosa fuga dall’odiata nicchia geografica verso la speranza, non ancora chiara nei modi di proporsi e di realizzarsi ma certa del risultato, anche terreno, nella fede.
Per Vassallo il mondo (e con esso l’uomo e tutte le cose) è insieme essere e divenire, Dio invece è solamente essere perchè non conosce il passare del tempo né i cambiamenti d’essenza; la sua impostazione si può considerare un abbraccio incondizionato alla tradizione giudaico-cristiana, e alla ragione tomistica; non accolto il metodo cartesiano né l’irrazionalità di Nietzsche, criticati politicamente i francofortesi di Adorno e gli sviluppi marcusiani, appare imprescindibile l’esigenza della guida, nel rifiuto tanto dell’illusione liberista  quanto dell’inganno giacobino. Non le contraddizioni dell’illuminismo dilagante, figlio parricida del concetto di sacro, ma il Vecchio ed il Nuovo Testamento, quali donatori di speranza persino nelle contingenze dell’attuale buio e preoccupante momento storico: ottimismo che discende in linea diretta dalla stessa promessa della salvezza. Un’idea che si trova tradizionalmente in contrasto con l’opposta visione del paganesimo politeista di stampo ellenistico secondo la quale l’uomo esaurisce su questa terra la ragione di se stesso e, al di là, ogni speranza è bandita; teorica anche questa, che oggi è significato e generazione di voci più che autorevoli anche in campo nazionale e fra tutte notevolissima e grandemente attuale è quella di Umberto Galimberti.
Ma Vassallo va apprezzato anche sotto diversi profili che pochi gli conoscono: una cultura alternativa di carattere aziendale-commerciale da cui gli deriva l’esattezza del linguaggio giuridico e la padronanza delle problematiche inerenti ai bilanci societari ed all’amministrazione contabile. Senza dimenticare la passione per il buon cinema, per la musica eterna e per quella contemporanea, se spiritosa come sa essere la tarantella del genio partenopeo Renato Carosone e l’attenzione alla tenera malinconia filmica della minuscola interprete ed eroina Gelsomina.
Una personalità multiforme ed un’umanità completa, dunque,  ma piana, coerente a se stessa, un uomo che ha il grande merito di saper osservare la realtà e le cose da più punti di vista e di crearsi convinzioni robuste omologate dalle diverse ottiche frequentate, mai superficialmente, anzi attraverso le profondità del cannocchiale del sommergibile.
E’ la sua risposta, convinta ed appassionata, al mistero dell’esistenza che coincide con quello della speranza; pur nella sciatteria di molta parte del mondo moderno, la salvezza passa attraverso la scelta esistenziale della ragione che è ordine per tutte le cose.

Aldo Carpiteti