domenica 12 maggio 2013

Dalla Tradizione cattolica l'amor di Patria

Nota a margine del saggio "Unita e cattolica" di Paolo Pasqualucci

Dalla Tradizione cattolica l'amor di Patria

 Il disamore e il disprezzo della Patria unita, aberranti stati d'animo diffusi dagli attivisti del Pci, partito internazionalista e filotitino, sceso in guerra contro la legge divina e in special modo contro il quarto e il quinto comandamento, sono le cause remote del degrado morale e dello scisma politico, che  avviliscono e tormentano la società italiana, laica, adulta e democratica.
 Nel magnifico saggio "Unita e cattolica",  ingente e appassionato contributo alla rinascita dell'amore per la Patria unita, scritto dal filosofo Paolo Pasqualucci e pubblicato a cura di di Giuseppe Parlato nelle edizioni Nuova cultura, è difesa la verità storica intorno alla quale potrebbe destarsi la volontà di interrompere la spirale delle faziosità.
 Opportunamente Paolo Pasqualucci rammenta che "il Pci, che si concepiva come agente della Rivoluzione Mondiale nell'interesse dell'Unione Sovietica, ha condotto una battaglia culturale e politica implacabile contro l'idea stessa di nazione, di Patria, di cultura e tradizioni nazionali e contro lo Stato, oltre che contro la religione".
 Disgraziatamente l'avversione dei comunisti al patriottismo (si rammenta, al proposito, l'indegna gazzarra organizzata dagli agit-prop per umiliare i rifugiati istriani e fiumani) è penetrata nell'area del contraffatto ecumenismo e del disorientamento cattolico, ora  destando  la snobistica tendenza a condividere l'ostilità di Antonio Gramsci nei confronti della nostra tradizione ora suggerendo  antistoriche nostalgie anti-unitarie, di segno papalino e/o borbonico.
 A sinistra il risultato dello smarrimento cattolico nel labirinto gramsciano fu l'internazionalismo a sfondo irenistico e utopistico, che indusse il sindaco carismatico di Firenze, Giorgio Lapira, a fare concessioni alla mentalità settaria dei comunisti - ad esempio a definire i militanti di destra "discendenti di Caino".
 Emblema dell'insensibilità lapiriana al patriottismo fu l'inflazione di gemellaggi fiorentini con città estranee se non irriducibili alla cultura italiana, Fez, ad esempio. In tali scelte era evidente l'influsso della suggestione generata da un cosmopolitismo anti-identitario.
 A destra la preconcetta avversione all'Italia unita ispirò la nostalgia anacronistica e disinformata degli stati pre-unitari e l'immotivato rifiuto dell'identità nazionale.
 Misura della confusione anti-unitaria circolante nella destra cattolica fu la veemente sollevazione dei filo borbonici contro il progetto di Francisco Elias de Tejada y Spinola, finalizzato alla celebrazione dell'impresa risorgimentale [1].
 In un tumultuoso convegno svolto in Roma nel maggio del 1977, De Tejada, per evitare l'incombente scissione, fu costretto a ritoccare la sua tesi e a condividere (a denti stretti e contro la sua convinzione) l'opinione che l'unità d'Italia doveva essere ripensata mediante l'assimilazione del progetto borbonica [2].
 Dopo la prematura morte di De Tejada, la passione antirisorgimentale non incontrò ostacoli all'esercizio di una critica talora rozza e sempre indirizzata all'anacronismo e all'inavvertita assimilazione del disprezzo nutrito dai protettori occidentali (liberali) della patria italiana.
 In una corrente tradizionalista si manifestò addirittura una bizzarra opinione - lampante esempio di trasbordo ideologico inavvertito - che attribuiva all'anti-italiano Winston Churchill il titolo di salvatore della civiltà.
 Di qui l'incapacità, manifestata da una vasta frazione della scuola tradizionalista, di comprendere che sul progetto anti-unitario, coltivato in nome della fedeltà al Cattolicesimo, era surrettiziamente impresso il marchio della faziosità comunista e della mitologia pseudo-ecumenica.
 Inoltre sotto il marchio dell'antifascismo era contrabbandato il progetto inteso alla dissoluzione dello Stato italiano. Al proposito Pasqualucci rammenta che "l'antifascismo si è macchiato di una colpa storica nei confronti degli italiani: ha reintrodotto nel nostro Paese il particolarismo, nelle sue varie forme: le regioni, i dialetti, l'ostilità per lo Stato unitario, il fazioso spirito di partito, la mistica dell'autonomia. L'antifascismo non solo non ha risolto le contraddizioni tra Democrazia e Nazione, che si era sanguinosamente aperta nel primo dopoguerra, l'ha esasperata".
 E' dunque evidente che l'uscita della destra dallo zero metafisico in cui l'hanno trascinata il rigetto del patriottismo e l'assimilazione inavvertita dell'antifascismo di scuola comunista [3], costituisce un evento impossibile, fino a che non sarà riveduta seriamente la mitologia intorno all'Italia pre-unitaria e riletta - sulla traccia indicata da De Tejada - la storia del risorgimento nazionale.
 Convenientemente, nell'introduzione al saggio di Pasqualucci, Parlato rammenta che durante il Novecento, autorevoli pensatori, appartenenti a diverse scuole di pensiero, hanno esaminato criticamente il Risorgimento ma la loro riflessione "di alto contenuto storico e filosofico sulle modalità in cui si era realizzata l'unificazione del Paese" non scendeva mai al livello della revisione viscerale: "pur nella critica serrata, tali riflessioni, tuttavia, non hanno mai messo in dubbio la validità dell'opzione unitaria. Poteva essere unificata meglio l'Italia, d'accordo, ma un sano storicismo suggeriva che comunque così era andata. Si poteva riformare - e si è anche tentato - ma non si poteva negare l'evidenza".
 Negli ultimi anni la polemica dei tradizionalisti sull'unificazione della Penisola ha peccato talvolta di irrealismo storico, esagerando (ad esempio) il ruolo della massoneria o confondendo massoneria e anticlericalismo generico.
 Al riguardo Parlato sostiene, con sottile e pungente ironia, che la scolastica antirisorgimentale "Non si è limitata a denunciare le manchevolezze nell'unificazione ... ma piuttosto prende occasione dalle manchevolezze (spesso presunte) per giungere alla conclusione che l'unificazione o non si sarebbe dovuta fare, ovvero si sarebbe dovuta fare in maniera tanto diversa che non si sarebbe potuta fare".  
 Se non che la difesa dell'unità d'Italia oggi è giustificata specialmente dall'inquietudine che desta l'involuzione liberista e globalista in atto nell'Unione europea. Apprensione che aumenta quando si misura il consenso al partito cosmopolitista inventato da Casaleggio, un occultista che non nasconde l'ammirazione per il satanista Georges Gurdijeff.  
 Sulle urgenti ragioni dell'unità d'Italia Pasqualucci formula un drastico ma puntuale giudizio: "L'Unione europea che a prudente avviso di molti (quorun ego) avrebbe dovuto restare elastica Comunità; questo Superstato militarmente inesistente, frutto ibrido dell'Utopia e degli interessi di potenti élites economico-finanziarie (basti pensare all'azzardata creazione di una moneta unica senza avere un'economia unica e al liberalismo assoluto che lo anima); ultra laico e anticristiano sia nei suoi princìpi fondamentali che in diverse sue politiche, esercita, com'era inevitabile un'azione disgregante nei confronti degli Stati nazionali".
 Dal disarmo davanti al laicismo rampante a Bruxelles ha infatti origine il sogno frazionista che contempla l'appiattimento di un capolavoro della Provvidenza storica, quale è l'Italia, in una catena o lega calvinista di regioni abitate da formaggiai e fabbricanti di orologi a cucù [4].
 Ai nostalgici dell'Italia disunita, Pasqualucci ricorda amichevolmente che "di fronte alla globalizzazione incalzante, con tutti i suoi mali, non dovrebbe ognuno cercare di salvaguardare l'unità della Patria ... preoccupandosi innanzitutto di instaurarvi l'ordinamento politico e morale che piace a Dio?"
 Pasqualucci contrasta risolutamente l'umiliante utopia federalista: "L'unità statale di una nazione è un bene. Lo è per tutti i popoli, quali che siano la loro religione e il loro grado di civiltà. Non si capisce perché solo per noi italiani non debba esserlo".
 Di conseguenza ridimensiona alcune leggende nere o bianche intorno al risorgimento. Tanto per cominciare dimostra l'inconsistenza dei panegirici intorno alle delizie dei piccoli regni e delle piccole repubbliche pre-unitarie.
 Oggetto di brucianti umiliazioni l'Italia debole e frammentata doveva piegarsi continuamente alle imperiose decisioni delle monarchie nazionali. "Nel Seicento e nel Settecento, le diplomazie europee, perfezionando a forma quasi d'arte una prassi ben anteriore, intrecciava sottilmente ed ipocritamente la politica di potenza alle questioni dinastiche. Nel caso di piccoli Stati, come quelli italiani, stabiliva con largo anticipo che cosa farne, quando i rispettivi principi fossero morti senza eredi".
 La macchia costituita dal mortificante/disonorante potere esercitato dalle monarchie europee non cancella i difetti, i deliri (l'utopia mazziniana, ad esempio) e le magagne della classe politica, che ha attuato il risorgimento compiendo azioni spesso censurabili.
 Pasqualucci non nasconde il "difetto d'origine" del risorgimento, e riconosce che "l'aver dovuto ricorrere all'aiuto decisivo dello Straniero nel 1859, sia pure per sconfiggere altri stranieri, ha sicuramente pesato negativamente sulle vicende successive della nostra storia". Afferma tuttavia che, in vista dell'emendazione del difetto d'origine, sarebbe insensato "rimettere in discussione l'unità ed anzi distruggerla, magari svuotandola dall'interno con riforme federaliste ad hoc". E più avanti conclude: "Se l'Italia unita si è secolarizzata, bisogna riconquistarla a Cristo, mantenendola unita".
 Il saggio di Pasqualucci, in definitiva,  costituisce un segnavia indispensabile al cammino degli italiani che non si rassegnano a finire nelle dissolventi fornaci dell'europeismo e del mondialismo.

Piero Vassallo




[1]               Nel dicembre del 1976, De Tejada aveva pubblicato un elogio della gloriosa impresa italiana nella rivista "La Quercia", diretta da Pino Tosca.
[2]          Sulla tradizione borbonica De Tejada nutriva dubbi suggeriti dalla seria conoscenza dell'egemonia che cartesiani e illuministi esercitavano nell'università e nella corte di Napoli. Durante un convegno sulla teologia della storia, De Tejada rammentò la solitudine nella quale era respinto il cattolico Vico dagli accademici napoletani.
[3]             Il rifiuto dell'ideologia antifascista (fatte salve le legittime critiche alla dittatura e alle modalità del suo esercizio) nel dopoguerra fu dichiarato da Giorgio Del Vecchio, un filosofo che aveva subito i danni contemplati nelle leggi antisemite del 1938. Riserve sulla prassi dittatoriale sono manifestate anche da Pasqualucci.
[4]             Non è inutile rammentare che i massimi dirigenti della Lega anti-unitaria provengono dalle file del Pci.

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