lunedì 7 novembre 2016

La politica dell’amalgama: l’effetto della mancata Restaurazione (di Gianandrea de Antonellis)

All’indomani della “cosiddetta” Restaurazione[1], la politica dell’amalgama fu indubbiamente la scelta più semplice da compiere, poiché mantenere nel loro posto sia i funzionari dell’apparato burocratico statale che gli ufficiali dell’eser­ci­to, come imposto dal trattato Casa Lanza[2], rispondeva a una duplice serie di considerazioni: in primo luogo, evitare un complesso e presumibilmente lungo lavoro per la sostituzione dei quadri burocratici e militari, che per la sua durata avrebbe potuto creare difficoltà ai due apparati statali; in secondo luogo, non suscitare il malumore che necessariamente sarebbe derivato dal licenziamento di tale personale, che in alcuni casi occupava il proprio posto da quasi dieci anni.
A queste considerazioni di carattere pratico si affiancarono due considerazioni di carattere teorico: l’illusione che coloro che avevano servito sotto Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat potessero accettare senza problemi il “nuovo” re Ferdinando e fondersi – amalgamarsi, appunto – con i quadri burocratici e militari di fedeltà borbonica; e la prevalenza che veniva data al servizio all’assetto istituzionale[3] rispetto alla fedeltà alla Dinastia.
Questi vari elementi, tra loro combinati, risultarono fondamentali per imporre al Regno delle Due Sicilie – ma anche ad altri Regni – il mantenimento dello status quo pre-restaurativo (o, se si preferisce, post-rivoluzionario) che lasciò covare pressoché indisturbate le ceneri della mentalità liberale e portò necessariamente ai reiterati tentativi rivoluzionari del 1820-1821 a Napoli e del triennio liberale in Spagna, del 1830 in Francia e qualche Regno italiano, del 1848 in tutta Europa, per finire con l’aggressione garibaldina e sabauda del 1860-1861, in cui un ruolo fondamentale ebbe la mentalità liberale dei quadri burocratici e militari duosiciliani.
Inoltre Ferdinando IV – e ciò è evidente nell’accettare la codificazione murattiana, che in altro non consisteva che nella traduzione del Code civil des Français o Code Napoléon, cancellando così la legislazione napoletana preesistente, di grandissima tradizione e rilevanza giuridica – dimostrò di non rendersi conto di (o di non dare importanza a) un elemento fondamentale: nei dieci anni del suo esilio siciliano, Napoli non era semplicemente stata sotto un’altra Dinastia, ma era stato attraversato dalla rivoluzione.
L’unico uomo politico napolitano che si batté costantemente contro la politica dell’amalgama – conscio che non di una lotta contro uomini si trattava, ma di una fondamentale battaglia contro le idee rivoluzionarie – fu il Principe di Canosa, Antonio Capece Minutolo, il quale per ben due volte venne nominato Ministro di Polizia (nel 1816 e nel 1821) e per altrettante volte fu destituito dopo pochi mesi di lavoro. In entrambi i casi a “dirimere” il contrasto tra i reazionari e i liberali napolitani furono le pressioni congiunte di due potenti alleati: da un alto la mentalità massonica inglese, dall’altro la mentalità conservatrice austriaca (incarnata nella segreteria del Cancelliere austriaco Metternich), quest’ultima evidentemente vittima della pia illusione di poter giungere a una pacificazione tra opposte fazioni e ancor più tra opposte (ma in realtà inconciliabili) visioni del mondo.
Ciò portò alla decisione di percorrere la via tecnicamente più semplice per sistemare i quadri burocratici e militari del Regno. Tale posizione, però, non è scevra dall’influenza di un fondamentale passaggio politico: ancorare l’essenza del Regno non alla Dinastia che lo rappresenta e che ne difende i principi religiosi, bensì alla mera struttura burocratica, composta di uffici, di codici, di regolamenti (ed eventualmente di Costituzioni, naturalmente con la maiuscola) che viene ad essere più importante della figura del Re e di ciò che egli rappresenta.
Una Dinastia legata ai principi religiosi del cattolicesimo e della legge naturale diventa in questa prospettiva “moderna” del tutto equiparabile a un Capo di Stato che sostenga i principi del laicismo, della separazione tra morale e politica, della superiorità del diritto positivo rispetto alla legge naturale.
La fedeltà alla Dinastia dei Borbone, in quanto non solo legittimi Re di Napoli, ma soprattutto come coloro che ritenevano inscindibile il binomio Trono e Altare, una fedeltà pagata nel 1799 con la persecuzione ed il carcere e nel 1806 con dieci anni di esilio in Sicilia, veniva equiparata all’accettazione supina, se non entusiasta, del regime imposto prima dai giacobini e poi dai Napoleonidi. “Fedeloni” venivano chiamati con disprezzo gli ufficiali dell’esercito “siciliano” da parte dei loro colleghi “napoletani” che, senza troppi scrupoli, erano passati dalla parte di Gioacchino Murat, coprendosi sì di gloria nelle campagne militari in tutta Europa, ma con la macchia primigenia di aver tradito il giuramento prestato ai Borbone.
Come era stato possibile, in una società che aveva dell’onore un altissimo concetto, in particolar modo di quello militare, concetto che rimase inalterato anche nell’esercito napoleonico[4], accettare senza colpo ferire il tradimento consistente nel passaggio all’esercito degli invasori? Non è possibile ritenere che si sia trattato esclusivamente di questioni “pratiche” cioè di evitare un complesso ricambio nella farraginosa burocrazia statale e tra gli ufficiali dell’esercito; la risposta va dunque trovata nell’introduzione del concetto di nazione (che prescinde dal tipo di governo) e nel fatto che durante gli anni della temperie napoleonica, nonostante l’apparente moderazione dell’impeto rivoluzionario (dalla ferocia giacobina alla moderazione del Termidoro, dal Consolato repubblicano alla scolta neo-monarchica dell’Impero), si è andata diffondendo ed imponendo l’idea della supremazia dello Stato su tutte le forme di governo che esso poteva incarnare.
Il moderno Leviatano viene considerato come intangibile in quanto perfetto in se stesso[5]: servire lo Stato è un onore a prescindere dal fatto che esso sia una Monarchia tradizionale o una Repubblica democratica e liberale, che sia retto da un Sovrano legittimo oppure da un usurpatore, che rispetti la vera Religione o che sia fondato su principi materialistici ed atei, che si basi sui capisaldi della legge naturale o invece sulla volatilità del diritto positivo.
Sia i principi di Hobbes che la prefigurazione di Hegel sono alla base di una Statolatria che la Rivoluzione francese aveva contribuito a diffondere in tutto il mondo: una Statolatria che aveva eliminato ogni forma di sussidiarietà ed annullato la vitale funzione dei corpi intermedi
La preminenza della forma-Stato sulla forma di governo del Regno fu di fatto sanzionata dal Congresso di Vienna nel momento in cui esso riconobbe come legittimo Jean-Baptiste Bernadotte quale re di Svezia e l’Austria propose di lasciare Gioacchino Murat sul trono di Napoli, indennizzando (magramente) il legittimo Ferdinando IV con la concessione delle isole del Dodecaneso in sostituzione dei territori citra pharum[6]. Questi soli due esempi servono a dimostrare come il Congresso di Vienna non operò una vera Restaurazione, ma soltanto una parziale reintegra nel trono alle dinastie (e non tutte) che erano state spodestate durante le guerre napoleoniche: tra le altri principali differenze rispetto allo status quo ante guerre napoleoniche vanno annoverati innanzitutto la mancata restaurazione del Sacro Romano Impero, quindi quella di un Regno indipendente di Polonia, nonché l’unione della Norvegia alla Svezia, la definitiva cancellazione di alcune Repubbliche aristocratiche (Venezia, Genova e Lucca), il Ducato di Parma tolto ai Borbone e concesso a Maria Luigia, moglie di Napoleone, nonché la mancata restituzione di Malta all’Ordine omonimo.
Tutto considerato, si può affermare che la sconfitta di Waterloo fu abbastanza indifferente per gli assetti politici europei: i quadri militari e politici – e talvolta anche le stesse Corone – rimasero pressoché inalterati; il “vento di novità” continuò a soffiare e le pretese del ceto “borghese” non conobbero soste. Il perdono – anzi, i reiterati perdoni – nei confronti dei nemici del Re di Napoli furono imposti dalle potenze estere: all’indulto nei confronti dei giacobini napoletani ordinato da Napoleone nel 1801[7] e a quello verso i murattiani prescritto dall’Austria nel 1816[8] si aggiunse quello – altrettanto imposto dagli stessi collaboratori di Metternich – ai carbonari del 1821[9]. Con il passare del tempo, all’illusione di una pacificazione si affiancò la minaccia di una ritorsione internazionale: possiamo leggere in tal senso l’appoggio dei governi di Francia, d’Inghil­ter­ra[10] e di Sardegna ai fuoriusciti del 1848 (l’opera di propaganda di questi ultimi fu uno degli elementi di maggior peso nella preparazione dell’attacco al Regno delle Due Sicilie).
Il destino del secolare Regno napoletano era segnato: la sua caduta repentina, probabilmente, stupì gli stessi autori dell’attacco, che si sarebbero aspettati una difesa militare più accanita. La risposta lealista fu tardiva e dura ad essere sconfitta: venne definita “brigantaggio” per screditarla fin dalla propria denominazione. Dopo il mancato appoggio delle truppe di Crocco agli uomini – pochi, ma molto capaci – del generale carlista José Borjes, la lotta antiunitaria non ebbe reali possibilità di vittoria: pure, essa continuò per anni, anche dopo la cattura e l’uccisione sommaria (o l’arresto e la condanna detentiva, nel caso del citato Crocco) dei principali capi, a testimonianza dell’insofferenza verso il nuovo ordine imposto dai Piemontesi.

Un evento epocale come il crollo del più antico, glorioso e nobile Regno della penisola italiana non può essere ricondotto ad un’unica causa, come in generale non è possibile chiarire eventi complessi con spiegazioni semplici. Le radici del male che colpì Napoli alla morte di Ferdinando II sono molteplici e profonde[11]: una di esse, forse la principale, va sicuramente ricercata nell’errore di aver accettato, vagheggiando una di fatto impossibile pacificazione nazionale, la politica dell’amalgama e nella illusione di essere riusciti a restaurare, grazie al Congresso di Vienna, l’Ancien Régime.

Gianandrea de Antonellis



[1] Il motivo del virgolettato è spiegato oltre.
[2] Il Trattato di Casa Lanza (firmato il 20 maggio 1815 a Pastorano, nei pressi di Capua) prevedeva un’apposita clausola in base alla quale «ogni militare al servizio di Napoli, nato nel Regno delle Due Sicilie, che presterà giuramento di fedeltà a S.M. il Re Ferdinando IV sarà conservato nei suoi gradi, onori e pensioni».
[3] Nel caso napolitano è più corretto parlare di Regno che di Stato, in quanto quest’ultimo nascerà solo con l’unificazione dei vari reami della penisola.
[4] Cfr. Marco Cavina, Il sangue dell'onore. Storia del duello, Laterza, Bari 2005. Per un esempio non saggistico si può rimandare alla lettura del romanzo breve di Joseph Conrad I duellanti (The Duel. A Military Tale, 1908).
[5] Di lì a poco, Hegel avrebbe definito lo Stato come «la realtà dell’idea etica» (Lineamenti di filosofia del diritto [1820], § 257) voluta dal «cammino di Dio nel mondo» (ivi, § 258, addenda).
[6] La decisione di confermare Murat sul trono di Napoli non si realizzò, come è noto, per il tentativo del generale francese di farsi Re d’Italia: ad ogni modo, se non fosse stato per la sua ambizione, Murat sarebbe stato riconosciuto dal Congresso di Vienna quale legittimo monarca.
[7] Decreto del 20 giugno 1801.
[8] Con il citato trattato di Casa Lanza del 20 maggio 1815.
[9] Ottenuto con la forzata rimozione del Principe di Canosa dalla carica di Ministro di Polizia.
[10] In particolare attraverso la famosa – anzi, famigerata – lettera di Lord Gladstone in cui il Regno di Napoli era definito come «la negazione di Dio eretta a sistema governativo» («The effect of all this is, total inversion of all the moral and social ideas. Law, instead of being respected, is odious. Force, and not affection, is the foundation of Government. There is no association, but a violent antagonism, between the idea of freedom and that of order. The governing power, which teaches of itself that it is the image of God upon earth, is clothed, in the view of the overwhelming majority of the thinking public, with all the vices for its attributes. I have seen and heard the strong and too true expression used, “This is the negation of God erected into a system of Government.”». William Ewart Gladstone, Two letters to the Earl of Aberdeen, on the state prosecutions of the Neopolitan government, John Murray, London 1851, p. 6).
[11] Non bisogna dimenticare anche le cause di indebolimento della Corona già presenti prima dello scoppio della Rivoluzione ed in particolare quelle dovute all’indirizzamento del governo verso l’assolutismo monarchico, nonché alla diffusione nel regno dei principi illuministici ed alla loro accettazione nella stessa corte partenopea.

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