sabato 24 gennaio 2015

CUSTOS, QUID DE NOCTE? (di Enrico Maria Radaelli)

Custos, Quid de Nocte?

Articolo 15, Fallibilismo.


Magistero infallibile e Magistero fallibile della Chiesa.
La mia Risposta a Radio Spada.


INDICE.

1. Premessa. 2. Il mio pensiero sul magistero della Chiesa. 3. Il pensiero del mio Confutatore come esposto da 'Radio Spada'. 4. Magistero infallibile (o 'Depositum fidei'). L’esempio della mosca. 5. Magistero fallibile (o 'autentico', o 'pastorale'). Il caso delle ‘verità connesse’ al Depositum fidei. 6. Il dogma, essendo la forma delle ‘verità connesse’, è anche la forma delle leggi liturgiche, della Liturgia. 7. Come una ‘conclusione teologica di fatti dogmatici’ possa passare da ‘verità connessa’ a infallibile dogma. 8. Esempio di quel magistero fallibile (o 'autentico', o 'pastorale') che alcuni pensatori e teologi cattolici ritengono effettivamente fallato. 9. Sui concetti di 'magistero autentico' e di 'magistero pastorale'. 10. La strategia di chi vuole dare la comunione a conviventi e divorziati e il magistero 'pastorale'. 11. Obbedienza o disobbedienza. Religioso ossequio o invece religiosa resistenza. 12. C’è un dogma che stabilisce che Gesù Cristo, oltre che Redentore degli uomini, è anche loro Legislatore. Eccolo. 13. CONCLUSIONE: LE DUE VIE INDICATE DALLA CHIESA PER STARE ALLA REALTÀ VANNO SEGUITE ENTRAMBE. CIASCUNA NEL SUO PRECISO AMBITO, SENZA CONFONDERLE. 14. Una proposta per por fine alla “Grande Guerra delle Forme” che imperversa da cinquant’anni nella Chiesa.

1. PREMESSA.
 
22-1-15. Mi è segnalato uno scritto sul web, intitolato: Non solo fallibilisti. Una risposta a Enrico Maria Radaelli: « Nell’ambito degli attuali dibattiti sull’infallibilità pontificia – questo l’incipit –, pubblichiamo una confutazione del recente articolo di Enrico Maria Radaelli [v., l’articolo “Non solo sedevacantisti”] pubblicato su chiesaepostconcilio.blogspot.com. Questo breve saggio è pubblicato a cura del nostro redattore Pietro Ferrari ».

Ora, se mi accingo a scrivere questa precisazione al mio pensiero sulle norme che regolano il magistero della Chiesa, in risposta a quanto vorrebbe essere una confutazione alla mia opinione sul tema, riportata da Radio Spada (e con ciò spero di rispondere anche alle perplessità sollevate da alcuni lettori di Chiesaepostconcilio e di altri), non è tanto per portare le dovute correzioni a quanto sostenuto nella confutazione che mi si fa, ma per acclarare nella più larga misura oggi resasi necessaria la via che la stessa Chiesa offre, nelle sue sagge disposizioni normative, se rettamente interpretate, per disincagliarsi dalle paludi dottrinali de-dogmatizzanti in cui alcuni Pastori, a mio modesto avviso, l’hanno spinta da ormai dieci lustri, via che poi non è altro che la stessa percorsa cinquant’anni fa, ma che ora essa dovrebbe ripercorrere, e al più presto, tutta a ritroso, cioè “ridogmatizzandosi”.
Ho detto “se rettamente interpretate”. Rettamente come? Semplice: secondo la regola suggerita da san Vincenzo di Lérins, recepita dal concilio dogmatico Vaticano I, Cost. dogm. Dei Filius: « [Nos credimus solum] quod semper, quod ubique, quod ab omnibus creditum est » “[Noi crediamo solo a] ciò che sempre, in ogni luogo e da tutti è stato creduto”. Il proposito di ogni cristiano (e, come si vedrà, dello stesso magistero della Chiesa) è di tenere ogni articolazione della fede sempre aderente in tutto al dogma: proprio come una fotocopia è in tutto fedele – identica – all’originale.
La mia risposta, di studioso di filosofia dell’estetica, che a partire dai Corsi di Filosofia della conoscenza del professor mons. Antonio Livi alla Lateranense ha avuto modo di studiare da vicino il secondo Nome (o qualità sostanziale) dell’Unigenito di Dio in san Tommaso: Imago, o Immagine, o Species, o Volto (il primo, come si sa, è Logos, e i rimanenti due sono Lux, Luce, o Splendor, Splendore, e Filius, Figlio), e che da tale altissima scaturigine estetica ha potuto applicare le risultanze germinatene per ricostruire il fondativo legame tra dogma e vita, ecco: la mia risposta, dicevo, vuol essere, per gli studi visti sui rapporti tra forma e contenuto, imago e logos, proprio in tale spirito di totalizzante fedeltà.

È infatti questo l’aspetto del dibattito teologico su cui sono imperniate, oggi, le sorti della Chiesa: il magistero fallibile e l’infallibile, i suoi diversi e precisi obblighi, le sue diverse e precise norme, e le conseguenze che derivano da eventuali non adeguate adempienze da parte sia dei Pastori che dei fedeli, ognuno per la sua parte, di tali diversi e precisi obblighi e norme. Tutto il resto – le sorti della Chiesa – ne dipende: ne dipende la capacità della Chiesa di essere se stessa, quella di fare missione, quella di avere la necessaria forza di penetrazione dell’amoroso dogma nel mondo. E quella infine di saper manifestare l’adeguata sua adorazione al Padre, cosa che, come dice Amerio, di tutte, è quella che più conta.
È questo che intendo con “sorti della Chiesa”. È questo che grava sulla chiarezza da farsi sulle tenebre di una troppo a lungo insistita equivocità di magistero sul tema della fallibilità della sua forma pastorale, a cui forse è tempo di dire: basta. L’equivocità è l’opposto dell’identità. L’equivocità non permette alla copia nemmeno di confrontarsi, con l’originale! Figuriamoci poi aderirvi. Il percorso che si farà sarà tessuto tutto sulla trama “estetica” che nasce dal Nome Imago come quella logica dal Nome Logos, ricavandone esiti altrettanto logici, ma forse, si crede, ancor più evidenti.
D’altra parte, sarà proprio a causa di tale via “estetica” che potremo giungere a capire meglio che cercando qualsiasi altro varco quale conflitto ci è di fronte: se, come si vedrà, potremo giungere a parlare di “Guerra delle Forme”, o “delle due Forme”, lo si dovrà (oltre ovviamente al concetto di ‘forma’ di san Tommaso) solo a Imago, la qualità delle cose logiche dipendenti dal Logos di potersi confrontare tra loro fin nei minimi particolari. E come si confrontano? Perché si somigliano (o non si somigliano). E come mai si somigliano (o non si somigliano)? Perché anche le parole, “le cose logiche”, i lògoi, hanno un volto, un’immagine appunto, come tutti i segni dell’universo, fossero pure i più astratti.

2. IL MIO PENSIERO SUL MAGISTERO DELLA CHIESA.
 
Per ricapitolare brevemente le cose, io sostengo che, essendo il magistero della Chiesa distinto in due grandi livelli (o gradi, o condizioni) di certezza veritativa: l’infallibile e il fallibile, esso è costituito da due egualmente grandi livelli (gradi, condizioni) di obbedienza al magistero egualmente ben distinti tra loro, discontinui, non comunicabili, non riversabili uno nell’altro, cui corrispondono due gradi di pena egualmente ben distinti: al grado infallibile corrisponde un’obbedienza de fide – quella che si diceva un’“obbedienza cieca e assoluta” –, come la comanda la Cost. dogm. Dei Filius, Cap. 3, can. 1 (Denz 3008; CIC, can. 212): « plenum rivelanti Deo, intellectus et voluntatis obsequium fide præstare tenemur » (“quando Dio si rivela, noi siamo tenuti a prestargli con la fede la piena sottomissione della nostra intelligenza e volontà”); al grado fallibile, invece, corrisponde « non proprio un assenso di fede, ma un religioso ossequio dell’intelletto e della volontà (non quidem fidei assensus, religiosum tamen intellectus et voluntatis obsequium”) » (CIC, can. 752; v. pure Cost. dogm. Lumen Gentium, Denz 4149).

In quanto alla pena, sappiamo che chi non obbedisce a un insegnamento infallibile, cioè a un dogma di fede, cade in un delitto di eresia, che è a dire in peccato mortale, ed è punito con la scomunica; non c’è invece un articolo del Catechismo della Chiesa Cattolica che commini una pena precisa a chi non porge il dovuto religioso ossequio di intelletto e volontà a un qualche insegnamento mere autentico, ossia non dogmatico, né infallibile: al n. 2037 è segnalato un generico « dovere di osservare le costituzioni e i decreti emanati dalla legittima autorità della Chiesa. Anche se sono disciplinari, tali deliberazioni richiedono la docilità nella carità », perché la cosa va analizzata nel largo spettro della casuistica, cioè dei casi di coscienza, a meno che il soggetto abbia in cuore, col rifiuto di quel religioso ossequio che si diceva su un sicuro giudizio del magistero, di volersi separare con ciò dalla comunione col Pontefice romano e con coloro che sono in comunione con lui, giacché in tal caso la sua ritrosia al dovuto ossequio nascerebbe piuttosto da una volontà scismatica, che – essa sì – è un peccato mortale. Ma questo non è il nostro caso, v. il mio La Chiesa ribaltata, Gondolin, Verona 2014, pp. 293-300, con Prefazione di Antonio Livi, dove professo la mia più intima e invincibile adesione a Papa Bergoglio come Vicario di Cristo e regola prossima della mia fede, intima e invincibile adesione che riposa sulla garantita e certissima continuità di forma e contenuto di tale santissima ‘regola prossima’ con la remota (Sacra Scrittura e Tradizione). E se si dovesse dubitare di tale continuità? Risponderò anche a questo, anche se la risposta più esauriente la si troverà solo in Il domani del dogma e appunto ancora in La Chiesa ribaltata.

3. IL PENSIERO DEL MIO CONFUTATORE
COME ESPOSTO DA ‘RADIO SPADA’.
 
Il mio confutatore utilizza come argomenti tre strumenti eterogenei: il Codex Iuris Canonici, la risposta di un Padre Domenicano (Padre Angelo Bellon) a tal signor Marchesini e due brevi riflessioni di Padre Stefano Manelli, cofondatore della Congregazione dei Frati Francescani dell’Immacolata.
Gli articoli del CIC sono il 752, il 753, il 1322, il 2033, oltre ai 1322 ss del CIC del 1917. Non c’è nulla da eccepire: è tutto giusto, viene ribadito con chiarezza e semplicità che, per quanto riguarda il magistero ‘autentico’, o fallibile, « i fedeli sono tenuti ad aderirvi con religioso ossequio dell’animo » (CIC, can. 753). Per la conoscenza punto per punto delle argomentazioni, si rimanda qui all’originale.

Il Domenicano afferma un concetto di magistero omnicomprensivo: per lui « il magistero in quanto tale, soprattutto perché è garantito, non può contenere errore. E pertanto non è fallibile ». Dopo tale premessa, che parrebbe offrire un certo sapore massimalista e totalizzante, e su cui si inchiavarda, come si vedrà, tutto il dissenso, Padre Bellon articola il suo discorso pianamente, ossia tornando a distinguere i due gradi di magistero e i diversi comportamenti da tenere al riguardo, salvo che alla fine del suo punto 2, in cui cita un documento della Congregazione per la dottrina della fede sulla “Professione di fede e Giuramento di fedeltà” (29-6-1998), afferma: « A questo comma [del magistero ordinario autentico] appartengono tutti quegli insegnamenti in materia di fede o di morale presentati come veri o almeno come sicuri, anche se non sono stati definiti con giudizio solenne né proposti come definitivi dal magistero ordinario e universale. Allora, caro Marchesini, non si tratta di magistero fallibile, ma vero e sicuro ».
Il Marchesini però, perplesso, gli chiede: « Ma se anche questo magistero è infallibile che differenza vi è da quello proposto in maniera definitoria o definitiva? ».
Alla cui domanda Padre Bellon risponde: « Come avrai notato, a proposito del terzo tipo di magistero, non si parla di infallibilità, ma di insegnamento vero e sicuro e che affermare il contrario significa proporre un insegnamento erroneo, temerario e pericoloso e che sicuramente non può essere insegnato (tuto doceri non potest) ». Ma qui mi pare che il Domenicano non abbia con ciò davvero risposto al quesito del Marchesini (e di tutti noi). Vi risponderò io, dando anche una traduzione più appropriata della citazione latina che fa.

Ne consegue comunque che, riguardo alle pene, se il fedele rigetta un insegnamento dogmatico, o anche solo ‘definitivo’ ma non dogmatico, oppure simpliciter ‘ordinario autentico’, per il Nostro quel fedele cade sempre e comunque nello stesso e medesimo peccato: che il rifiuto sia di un insegnamento dogmatico o invece non dogmatico, il delitto sarebbe di eresia, che è decisamente un peccato mortale.
A questo punto la conclusione del Confutatore è: « Pertanto […] anche per i domenicani del post-concilio, è “temerario, erroneo e pericoloso” rifiutare un insegnamento del “magistero autentico” anche se “non definitivo o infallibile”, in quanto essendo comunque ‘vero’ e ‘sicuro’, il rifiutarlo comporta il commettere peccato mortale “indirettamente contro la fede” ». Come mai? « Perché “un insegnamento erroneo non può essere insegnato” ».

La citazione di Padre Manelli, da ultimo, la direi irrilevante: essa si limita a enumerare quelle che vengono chiamate le ‘verità connesse’ – che poi vedremo – e a fare un breve panegirico della figura del Papa per ricordarci quanto il suo ruolo sia « come un’altra specie di uomo » e « le sue parole […] non altrimenti che quelle di Gesù Cristo, perché questi è che parla per la sua bocca ». I Papi che utilizzavano il plurale maiestatis – come rilevo in a mio parere importanti pagine de La Chiesa ribaltata (pp. 60-8) – mostravano di essere ben consapevoli di ciò, è vero, ma dopo il concilio Vaticano II questo non si può più dire, o perlomeno: non sempre. Bisognerebbe in ogni caso distinguere per prima cosa tra magistero privato e magistero pubblico, e, in quest’ultimo, tra il fallibile e l’infallibile, che è appunto ciò che si vedrà.
Questo è quanto. Non credo d’aver dimenticato niente.

Ritengo che questa posizione non sia in tutto quella insegnata dalla Chiesa, ma che se ne differenzi in più di una sfumatura. Penso che la posizione ortodossa della Chiesa sia esposta meglio, qui, al § 2, con le argomentazioni che ora poi darò ai paragrafi seguenti, pur se dopo il Vaticano II molti chierici e anche alti prelati senz’altro condividono la forma enunciata qui dal Padre Bellon. Più avanti se ne capirà di certo il motivo. Che costituisce, nella sua gravità, la vera causa di tutto il dissenso. Infatti nella Chiesa, pure su questo punto, si stanno fronteggiando molto silenziosamente ma non meno acerbamente due opposte e assolutamente immiscibili correnti dottrinali. Dirò di più: due opposte concezioni di Chiesa.
Con i miei libri – e con le mie Postfazioni ai tre libri di Romano Amerio pubblicati da Lindau: Iota unum, Stat Veritas e Zibaldone – da più di dieci anni mi prefiggo di contrastare ragionevolmente e cattolicamente questa non corretta benché largamente maggioritaria interpretazione teologica, perché ritengo che essa sia portatrice di massimalismo e persino di un certo totalitarismo dottrinale, indebito e piuttosto pericoloso (per la Chiesa tutta, oltre che per i singoli fedeli), e rimando a Il domani del dogma e a La Chiesa ribaltata chi desideri avere il quadro teoretico più completo della sua confutazione e il quadro strategico più largo del suo possibile e auspicabile riassorbimento nella Chiesa, qui riassunti.
Per far questo, vediamo ora per prima cosa che significato hanno le principali parole coinvolte nelle nostre argomentazioni.
                                                                      
4. MAGISTERO INFALLIBILE (O ‘DEPOSITUM FIDEI’).
L’ESEMPIO DELLA MOSCA.
 
Cosa si intende per ‘magistero infallibile’? L’infallibilità è ‘l’impossibilità di cadere in errore’, e, continua l’Enciclopedia Cattolica, voce Infallibilità, col. 1920, « per la teologia cattolica, riguardo all’infallibilità della Chiesa e del Papa, l’infallibilità è quella prerogativa soprannaturale per la quale Chiesa e Papa non possono errare in nessun modo nel professare e definire la dottrina rivelata, per una speciale assistenza divina » in rebus fidei et morum, “nelle cose della fede e della morale”.

Scrive Padre Umberto Betti, che morirà cardinale: « D’altra parte, proprio perché l’infallibilità è iscritta nell’ufficio del Sommo pastore e dottore, essa è tanto personale che non può essere comunicata ad altri, nello stesso modo che il Papa non può commettere a nessuno di fare il Papa al suo posto.
« Di qui questa evidente conseguenza: né gli esperti ai quali il Papa confida lo studio di particolari questioni, né le Congregazioni Romane, neppure quelle che hanno come Prefetto lo stesso Romano Pontefice, sono infallibili. Perché le loro conclusioni, proposte o decisioni siano rivestite del carattere d’infallibilità è necessario che il Papa le faccia sue personali e ne assuma tutte le responsabilità e come tali le proponga alla Chiesa.
« Anche se nella forma restassero del tutto immutate da come furono preparate da altri, esse sono infallibili solo se il Papa le fa talmente sue che non possano dirsi di nessun altro » (Divinitas, 1961, p. 592).

Alla luce della Verità rivelata, abbiamo tre ‘infallibilità’: l’infallibilità della Chiesa, per prima cosa, che si ha « quando l’universalità dei credenti esprime il suo universale consenso [sincronico e diacronico] in materia di fede e di morale » (v. Denz 2922 etc.). L’infallibilità dei vescovi, in secondo, che si ha quando essi esercitano il magistero supremo in unione al Papa (v. Denz 4150). L’infallibilità infine del Papa, che si ha allorché vuole esercitare tutta la sua autorità come maestro di tutti i credenti, ossia ex cathedra, in fide et moribus (cf. Cost. dogm. Pastor Æternus, Cap. 4, Denz 3074, vista nel mio articolo Non solo sedevacantisti): « Romani Pontificis definitiones ex sese, non autem ex consensu Ecclesiæ, irreformabiles sunt » (“Le definizioni del Romano Pontefice sono irreformabili per se stesse, e non per consenso della Chiesa”).
Si dice che un Papa ha parlato usando il carisma dell’infallibilità quando consegue esplicitamente quattro condizioni: 1), parla come Dottore e Pastore universale; 2), manifesta chiaramente la volontà di definire e obbligare a credere; 3), nella pienezza della propria autorità pontificia, o carisma petrino; 4), trattando di fede o di morale.
L’infallibilità del dogma della Rivelazione si estende a tutto il deposito della Rivelazione, e rende catafratto, corazzato, suggellato, piombato, tale sacro Depositum fidei così come lo hanno ricevuto gli Apostoli: tutti i dogmi stabiliti in seguito sono solo un suo naturale e organico sviluppo, o svolgimento, o progresso (mai e in nessun modo però ‘evolutivo’) nel proprio stesso divino oggetto.

Ma per capire bene cosa significhi ‘infallibilità’ c’è bisogno però di un esempio. Eccolo: una mosca forse non andrà mai a posarsi all’interno di una boccia di vetro munita di un collo lungo e stretto posta in una grande e ariosa stanza, ma forse invece, se pur difficilmente, ci andrà, e forse, se pur ancor più difficilmente, ve ne andrà anche una seconda, e una terza, e una quarta. Però di certo nessuna mosca andrà mai e poi mai in una boccia di vetro, dove anche quel piccolo pertugio di un collo lungo e stretto è sigillato ermeticamente con un bel tappo di sughero: se pur con difficoltà, l’aria della prima boccia di vetro, avendo essa un’imboccatura stretta ma aperta, può essere contaminata, l’aria della seconda invece, dall’imboccatura ermeticamente chiusa, non lo può: essa resta pura, incontaminata, e non può entrarvi neppure un microbo. Questa è la vera differenza tra magistero fallibile e magistero infallibile della Chiesa. E questa è l’infallibilità: un semplice, ma decisivo, tappo di sughero.

5. MAGISTERO FALLIBILE (O ‘AUTENTICO’, O ‘PASTORALE’).
IL CASO DELLE ‘VERITÀ CONNESSE’ (AL DEPOSITUM FIDEI).

Cosa si intende invece per ‘magistero fallibile’? È ‘la possibilità di cadere in errore’. Non è la caduta in sé, ma unicamente la sua possibilità, la sua anche remota fattibilità: una mosca forse non entrerà mai in una boccia di vetro con l’apertura al sommo di un collo lungo e stretto, ma forse vi entrerà.
Il mio Confutatore sostiene che « non è mai stato ammesso […] che ‘il più basso’ grado di magistero possa essere falso, non veritiero o non vincolante », ma ciò è contraddetto anche solo dal fatto che la Chiesa considera non solo un grado di magistero infallibile, cioè che non può sbagliare in alcun modo, ma anche uno fallibile, che può almeno teoricamente fallare, e ciò essa ammette necessariamente, perché neanche una società perfetta come la Chiesa, neanche un portatore di verità come il Papa, possono permettersi di ritenere di insegnare – di fare pubblico magistero – sempre e solo ‘senza errare’, ‘assistiti sempre e comunque con speciale assistenza divina’: i casi in cui anche solo per ipotesi di scuola la Chiesa – il Papa – può cadere in errore nell’insegnamento della dottrina in fide et moribus possono essere, e dovrebbero essere di fatto, davvero rarissimi, stante l’estrema attenzione dei soggetti alla cosa (il collo lungo e stretto della metafora), ma non per questo possono venire esclusi.

Quali sono questi casi? L’Enciclopedia Cattolica, voce Infallibilità, col. 1923, fa notare che, oltre a quello che i teologi chiamano ‘oggetto primario dell’infallibilità’, affermatadefinitorio modo”, ossia ex cathedra, ve ne è un secondo, cui è riconosciuta eguale infallibilità del primo pur non oltrepassando il limite del “definitive tenendum”. Esso è costituito da quelle che vengono dette ‘verità connesse’, cioè da quelle verità collegate al dogma di origine divina, o logicamente dedottene: 1), gli effetti teologici dei fatti dogmatici; 2), le canonizzazioni stabilite in ottemperanza alle normative canoniche; 3), la legislazione liturgica e disciplinare obbligante la Chiesa universale; 4), l’approvazione di Ordini e Congregazioni religiose.
Dunque anche le ‘verità connesse’ alle primarie verità della Rivelazione sarebbero infallibili. Così infatti si esprime un celebre dogmatico tedesco: « Si può distinguere un duplice oggetto dell’infallibilità: l’oggetto diretto propriamente detto (obiectum primarium seu directum) e l’oggetto indiretto (o secondarium seu indirectum). Il primo sono i dogmi in senso proprio, o depositum fidei, il secondo le verità cattoliche » (Bernard Bartmann, Manuale di teologia dogmatica, Versione italiana dall’ottava versione tedesca a cura di Natale Bussi, Edizioni Paoline, Alba 1952, p. 63). E continua: « A riguardo dei dogmi questa tesi è di fede. A riguardo delle verità cattoliche è solo certa. I dogmi devono essere creduti di fede divina (fides divina), le verità cattoliche [connesse] di fede ecclesiastica (f. ecclesiastica). ‘Fides ecclesiastica’ è l’assenso col quale aderiamo al giudizio infallibile della Chiesa sulle verità che sono connesse con le verità rivelate. La ‘ragione formale’ di quest’‘assenso’ è quindi l’infallibilità della Chiesa. Pertanto la ‘fede divina’ si distingue dalla ‘fede ecclesiastica’ in quanto la prima ha per oggetto le verità “a Deo revelatæ” [rivelate da Dio], la seconda le verità “cum rivelatis connexæ” [connesse alle rivelate]. […] Sono dunque materialmente e formalmente distinte ».
Come si configura per Bartmann l’infallibilità delle ‘verità connesse’ di fede ecclesiastica? « La Chiesa – spiega – insegna in modo infallibile la morale cristiana, riconosce pure facilmente se le regole di un ordine religioso siano conformi ad essa o meno. Non è però infallibile nel giudicare l’opportunità esteriore di queste regole, sicché potrebbe in seguito formulare un altro giudizio. Così la Chiesa non può sbagliare nelle decisioni circa il culto, le devozioni, i libri liturgici, i doveri particolari di certi stati (celibato, breviario) come nelle prescrizioni disciplinari generali (digiuno, riposo festivo, istituzione e soppressione di giorni festivi). Non è possibile che in questa materia ordini od approvi alcunché di contrario alla legge morale. Non è però infallibile il suo giudizio di queste formule (sensus) e una verità immutabile. Può darsi invece che la Chiesa in altro tempo crei formule migliori, più comprensive e più efficaci per esprimere le medesime verità definite. […] V. le formule del Concilio di Calcedonia con quelle del Concilio di Efeso, il simbolo degli Apostoli con quello di Atanasio » (Idem, pp. 63-4).  

Sulle canonizzazioni, 1 [1] oltre Bartmann, diversi teologi, p. es. mons. Brunero Gherardini, ultimo rappresentante della gloriosa Scuola Romana (che annoverò personalità del calibro di Composta, Fabro, Franzelin, Garofalo, Landucci, Ottaviani, Palazzini, Parente, Piolanti, Spadafora, Spiazzi), eccepiscono che esse in realtà non avrebbero nella Sacra Scrittura solide basi per riscontrare la loro infallibilità, v., dell’esimio monsignore, Canonizzazione ed infallibilità, in Chiesa viva, nn. 354-5-6, anno 2003, ripreso poi da chiesaepostconcilio. « Nella storia della Chiesa, anche recente – scrive il teologo per rilevare la “discutibilità” di un per lui troppo perentorio infallibilismo delle canonizzazioni dei santi –, ci furon Santi discutibili, che prestarono cioè e prestano il fianco a rilievi non proprio positivi. Altri, come già rilevato [nell’articolo], non sono neanche esistiti. […] La domanda è […]: anche la canonizzazione di Santi discutibili o addirittura inesistenti, o anche la sola tolleranza del loro culto ufficiale, avvenne all’insegna dell’infallibilità? ».
Inoltre, sono esse sempre state condotte col rigore dovuto, « in ottemperanza alle normative canoniche »? Sia, come rilevato unanimemente dai teologi, per alcune canonizzazioni dei secoli passati, per le quali le norme adottate non paiono essere state delle più rigorose, che per alcune delle più recenti, si hanno buoni motivi di credere di no, si veda l’intervista che lo storico Roberto de Mattei diede in proposito a suo tempo al mensile Catholic Family News.

6. IL DOGMA, ESSENDO LA FORMA DELLE ‘VERITÀ CONNESSE’,
È ANCHE LA FORMA DELLE LEGGI LITURGICHE, DELLA LITURGIA.

Sulla legislazione liturgica ‘obbligante la Chiesa universale’, potenti perplessità circa l’infallibilità di tali ‘verità connesse’ per alcuni provengono dall’analisi compiuta a suo tempo dai cardinali Bacci e Ottaviani sul Novus Ordo Missæ, a conclusione della quale la Messa uscita dal NOM non potrebbe essere definita che « un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa », v. il mio Sacro al calor bianco. La Messa di Pio V e la Messa di Paolo VI alla luce della Filosofia dell’Æsthetica trinitaria. Pars Prima, la teorica, Milano 2007, p. 103. Ciò che per alcuni striderebbe con la pretesa di infallibilità a priori di detto comparto sono: 1), i drammatici risultati riscontrabili in questa “riforma”, a partire da quella che essi vedono come una riduzione dell’adorazione elargita a Dio Padre dal soppiantato Rito Romano, riduzione che in La Chiesa ribaltata (p. 149) mi porta a configurare nel nuovo Rito, a mio avviso così duramente preteso in sua vece da Papa Paolo VI, una adoratio minor a Dio Padre in opposizione simmetrica e ideologicamente contraria alla adoratio maior erompente alla somma Maestà dal sempiterno Rito Gregoriano – e mi si dimostri il contrario –, esso sì rispettoso in tutto del dogma, sua forma; 2), il recente divieto di celebrazione di tale Rito ai Frati Francescani dell’Immacolata, per l’illustrazione del cui impossibile divieto rimando ancora a La Chiesa ribaltata, pp. 150-9.

Sulla base di una bella intuizione del liturgista benedettino Mario Righetti, per il quale « il dogma è per la liturgia ciò che è l’anima per il corpo » (p. 146 di Ribaltata), essendo l’anima la forma del corpo, possiamo arrivare all’importante conclusione che quindi il dogma è precisamente la forma della liturgia, o equipollentemente che la liturgia ha per forma il dogma.
Lo sviluppo storico della liturgia si muove all’interno di tale forma, peraltro per essa vitale. Tale moto può avere un massimo ma anche un minimo di aderenza al dogma: la somiglianza dell’immagine storica e transeunte, rappresentata dalla singola liturgia, all’esemplare dogmatico che le dà vita – come ciascuna anima dà vita al singolo corpo –, può subire delle anche forti variazioni di maggiore o minore perfezione (di maior aut minor adoratio), ma sempre entro lo spettro dogmatico, dove i cardinali Bacci e Ottaviani hanno creduto di poter denunciare nel Novus Ordo Missæ « un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa », e, per quanto possa l’allontanamento essere stato ai loro occhi esperti e cattolicissimi davvero « impressionante », essi però esclusero di poter parlare di rottura: l’avrebbero senz’altro denunciata. Ma appunto: persino nel caso di una manifesta intenzione del Novatore di favorire con tale cataclismatico sommovimento liturgico un avvicinamento del Rito cattolico al sentire protestante (v. Iota unum, pp. 543-79 Lindau), anche i più severi e attenti critici quali quei due esimi cardinali, abilitati, nel caso, a senz’altro proclamarla, non poterono giungere a dichiarare una situazione di rottura, perché la forma del dogma non era stata sforata.

Che il dogma sia il principio della liturgia lo si è visto ora con il NOM, ma lo si potrebbe vedere ancora in altri accadimenti, p. es. allorché nel 1529 Papa Clemente VII chiese al cardinale francescano Francesco Quignonez di riformare il breviario romano. « Il nuovo breviario – scrive il benedettino Alcuin Reid in Lo sviluppo organico della Liturgia. I principi della riforma liturgica e il loro rapporto con il Movimento liturgico del XX secolo prima del Concilio Vaticano II, Prefazione di Joseph Ratzinger, Cantagalli, Siena 2013, p. 31 – fu pubblicato nel 1535 sotto Paolo III, come oggetto di consultazione cui si invitava a fare commenti critici ». Nonostante le intenzioni, il nuovo breviario finì con l’essere usato in celebrazioni pubbliche. « È significativo – scrive il benedettino nella sua disamina – che il breviario di Quignonez, elaborato su richiesta della Sede Apostolica e da essa debitamente promulgato, fosse nondimeno considerato passibile di critica. Il ripudio di questo breviario per rescritto da parte di Paolo IV nel 1558, e la successiva proscrizione a opera di san Pio V nel 1568, sono la testimonianza più importante nella storia liturgica della priorità attribuita allo sviluppo organico della liturgia rispetto all’approvazione dell’autorità competente. Il giudizio prudenziale con cui Paolo III promulgò questa riforma nel 1536 fu un errore, finalmente corretto a distanza di cinque papi e di trentadue anni, in vista dell’evidente insoddisfazione dei fedeli e su richiesta degli studiosi » (Idem, pp. 32-3).

Cosa insegna tutto ciò? Che anche la legislazione liturgica non è di per sé infallibile, ma è infallibile l’ambito formale, il campo dogmatico in cui essa si muove. Tale moto può essere causato da una spinta a una maggiore conformazione della liturgia al principio che la informa – il dogma –, così come, viceversa, da spinte opposte, atte a conformare la liturgia il meno possibile a tale suo principio vitale, studiandosi di non travalicarne i limiti e cercando piuttosto di avvicinarsi a principi ad esso non solo estranei, ma nemici (nel caso dell’ecumenismo montiniano il protestantesimo, immesso a forza nel suo Novus Ordo, ma sempre in modo equivoco, capace cioè di soddisfare le esigenze di validità e legittimità del Rito cattolico, se pur nei termini minimi indispensabili, peraltro riconosciuti anche dai cardinali Bacci e Ottaviani, pervenendo a quella adoratio minor, anzi minima, di sapore protestante, v. Iota unum, loc. cit.)
Quignonez e Montini rappresentano due casi esemplari e opposti di come le leggi liturgiche siano fallibili, restando esse però nell’ambito di una generale infallibilità, per la quale nessuno di quei due sistemi porta a distruggere positive la Chiesa, perché nessuno dei due passa i limiti del dogma: infatti, come segnala Amerio in Iota unum, p. 28 Lindau, « la Chiesa non va perduta nel caso che non pareggiasse la verità, ma nel caso che perdesse la verità » (marcature dell’Autore).
La Chiesa non si perde dunque se pur non pareggia la verità, ma va sottolineato bene però che, non pareggiandola, di certo non solo essa non più si santifica, ma si abbruttisce, e se dunque non muore per sradicamento, però sfiorisce, si avvizzisce, perché non più ben innaffiata, concimata, curata, e ciò lo si può riscontrare in entrambi i casi visti, specie però nel montiniano, perché se oggi la Chiesa è nel pantano dottrinale e morale in cui si trova e se sta rattrappendosi in ogni parte del mondo perdendo fedeli a milioni, è solo a causa del Rito non adeguato al dogma come dovrebbe, cioè, come era nel Rito Romano (o Gregoriano, o Tridentino), teso al massimo dell’adeguamento. E dico teso perché, essendo io un tradizionista e non un tradizionalista (v., in Il domani del dogma, le voci Immobilismo, Tradizionalismo, Tradizione e Tradizionismo, pp. 176-7), dunque essendo un tipico ‘portatore di futuro’ come dovremmo essere tutti noi cattolici in forza del Nome Filius, che indica nella generazione trinitaria, per analogia, la forza generatrice e come “infuturente” delle cose, so bene che lo sviluppo della adoratio al Padre teso al suo massimo potrebbe dare in futuro un Rito ancor più aderente al dogma e vivo nel dogma di quanto esso sia aderente e vivo con la grande sistematizzazione voluta da Papa san Pio V nel 1570. Ma la base è quella (e solo quella).
Dunque la legislazione liturgica e disciplinare obbligante la Chiesa universale, per quanto, come visto, sia uno dei quattro ambiti di ‘verità connesse’ al Depositum fidei, non è di per sé infallibile, ma è certa e sicura, offrendo in ogni caso una adoratio minor e una adoratio maior (con tutta la gamma possibile che si può immaginare di esse) che non sono mai né invalide né illegittime, perché infallibile è il campo in cui operano.

Ad alcuni fedeli, come il sottoscritto, basterebbe l’istituzione del Novus Ordo per rendere problematica ogni pretesa di automatismo dogmatico per le ‘verità connesse’. Il fatto è che l’infallibilità delle ‘verità connesse’ si può riconoscere solo a precise condizioni, che esistono sulla carta, ma che possono essere realizzate ma anche non realizzate, e se ne accennerà più avanti, salvo dedicarvi in altra sede una specifica attenzione. Qui basti richiamare la metafora del vaso di vetro che si diceva: per sigillarlo, gli si può apporre il tappo di sughero, ma per farlo è necessario seguire un preciso protocollo, che permetta alle colle di solidificarsi come si deve, eccetera, ma è un protocollo che, fuor di metafora, a partire dal Vaticano II, a parere di quei tali fedeli, tra cui lo scrivente, oggi non viene seguito dalla Chiesa col rigore necessario a tenere sotto la protezione del dogma il proprio magistero ‘pastorale’, facendo anzi di tutto, come si vedrà, per liberarsi di quella che alcuni Pastori chiamano « la lista dei precetti e degli ammonimenti », lista che non parrebbe essere altro, però, che la Legge del Signore: il dogma della cristica salvezza.
                                             
7. COME UNA ‘CONCLUSIONE TEOLOGICA DI FATTI DOGMATICI’
POSSA PASSARE DA ‘VERITÀ CONNESSA’ A INFALLIBILE DOGMA.

Sulle conclusioni teologiche dei fatti dogmatici, tutto dipende dalla chiarezza e specialmente dalla qualità dei percorsi logici che legano i dogmi (con tutto l’apparato che ne consegue di Sacre Scritture e Tradizione) ai loro derivati, p. es. la qualità dei sillogismi su cui si fondano le connessioni, ma non solo: se p. es. il sillogismo è deduttivo, la sua sicura, tetragona, inscalfibile solidità garantisce il passaggio logico e oggettivo dal dogma alla ‘verità connessa’ (sillogismi del tipo: “Tutti gli uomini sono animali, tutti gli animali sono mortali, dunque tutti gli uomini sono mortali”, dove il termine medio ‘animale’ trovasi sia nella maggiore che nella minore, garantiscono un passaggio forte e sicuro sotto ogni punto di vista), ma non è più così nel sillogismo esplicativo, o analitico, o induttivo, il cui termine medio non connette nulla, ma costituisce solo un fatto, e il fatto, in logica, è nulla (“L’uomo e il cavallo sono longevi, l’uomo e il cavallo sono animali senza ali, dunque gli animali senza ali sono longevi”: il termine medio qui è ‘essere senza ali’, ed è associato alla longevità solo nella conclusione, cioè a posteriori); ora, è difficile distinguere le due specie di sillogismi, per cui non sempre può essere garantita la solidità di impianto delle connessioni che vogliono legare i dogmi alle ‘verità connesse’: questo è il motivo p. es. per cui, prima della Bolla Ineffabilis Deus di Papa Pio IX, il dogma dell’Immacolata Concezione era una verità discutibile ed effettivamente discussa, pur essendo di suo già riscontrabile come ‘verità connessa’ (ciò che oggi sarebbe definibile ‘magistero autentico’), proprio in quanto alcuni teologi non riconoscevano la solidità catafratta e indistruttibile dei percorsi di connessione delle conclusioni, che poi saranno quelle papali, con i dogmi rivelati già conosciuti cui dovevano essere agganciate; se la Bolla sulla Beata Vergine poté essere costruita sulle solide basi che oggi conosciamo lo si deve anche a quelle perplessità che si diceva, che sollecitarono un approfondimento tale da garantire come si deve il percorso logico necessario (v. Antonio Livi, Tommaso d’Aquino. Il futuro del pensiero cristiano, Leonardo Mondadori, Milano 1997, p. 84).

« Nell’argomentazione teologica – spiega ivi l’esimio Decano emerito della Facoltà di Filosofia della Lateranense a proposito di un sillogismo deduttivo utilizzato per ricavare da un dogma primario di fede una ‘verità connessa’ – la premessa maggiore è un’asserzione di fede (cioè una verità rivelata), mentre la minore è una evidenza di ragione. La seconda premessa è quindi il momento in cui la ragione fa uso delle proprie conoscenze per riuscire a comprendere meglio la verità rivelata ».

Sulla legislazione ecclesiastica, infine, desta non poche perplessità che si pretenda di vedere un carisma di infallibilità, sia pure come oggetto secondario, ma sempre di infallibilità, in una normativa di carattere storico, codificata solo nel 1817 e già corretta nel 1983: il cozzo tra la natura eterna dell’infallibilità e la natura per definizione non eterna della storia mi pare tanto evidente da rendere ogni altra considerazione decisamente superflua.

Se a qualcuno destano perplessità alcune delle cosiddette ‘verità connesse’, il che non significa escludere questo ambito di verità dal regno delle infallibili visto che si è anche portato or ora un esempio di come se ne possa creare una, ciò però non significa assumere tale ambito come aprioristicamente infallibile, ma, una ad una, ammettere queste verità nel Depositum fidei solo dopo averle passate al necessario vaglio con adeguata sentenza dogmatica straordinaria, a maggior ragione sarà d’obbligo usare ancor più forte cautela con tutte quelle dottrine che appartengono al magistero mere ‘autentico’ della Chiesa, dottrine non solo non protette dal carisma dell’infallibilità, ma neppure riconosciute come ‘verità connesse’.
Mi riferisco, per fare alcuni esempi, a tutte quelle dottrine proposte dal Vaticano II che, non potendo dirsi infallibili, non si debbono obbedire con obbedienza de fide, giacché quel concilio fu convocato in una forma di magistero che fu detta ‘pastorale’ per distinguerla dalla forma dogmatica con cui erano stati aperti i venti concili ecumenici (universali) precedenti. Il magistero ‘pastorale’ del Vaticano II è magistero ‘autentico’, cioè fallibile, con la sola esclusione, come ovvio, di tutte e solo quelle parti dei suoi documenti che segnalano verità dogmatiche già sedimentate, come quando al § 6 di Dei Verbum la nota 6 della citazione spiega i motivi delle verità rivelate rinviando alla Cost. dogm. Dei Filius, Cap. 2 (Denz 3005).
Qui vale la pena sottolineare che, quando i Papi richiedono assenso obbedienziale anche verso le Encicliche (Leone XIII nella Satis cognitum, Pio XII nella Humani generis), va loro obbedito; però, come proprio essi dicono e comandano, « seguendo l’intenzione e la volontà degli stessi Pontefici » (Humani generis), ossia non genericamente obbedendo anche a quegli scritti che non sono stati concepiti per essere obbediti, come Spe salvi o Lumen Fidei di Benedetto XVI, ma solo a quei documenti redatti con tali precise intenzioni, come i due sunnominati di Papa Pacelli e di Papa Pecci, o come quando certi documenti, v. la Humanæ vitæ di Paolo VI, richiedono obbedienza a verità in fides et moribus sempre e universalmente insegnate e professate dalla Chiesa, come sono lì quelle sulla contraccezione. Una diversa posizione condurrebbe al massimalismo ideologico, atteggiamento greve e illogico di cui la Chiesa oggi è da più parti anche tra loro ideologicamente ostili troppo appesantita. 

8. ESEMPIO DI QUEL MAGISTERO FALLIBILE (O ‘AUTENTICO’,
O ‘PASTORALE’) CHE ALCUNI PENSATORI E TEOLOGI
CATTOLICI RITENGONO EFFETTIVAMENTE FALLATO.

Come segnalo anche in La Chiesa ribaltata, pp. 207-8, oltre ai casi sopra detti di ‘verità connesse’ al ‘Depositum fidei’ che, non appartenendo di per sé al Depositum (v. § 5), furono corrette o persino proscritte dal magistero della Chiesa senza grave nocumento o scandalo, come nel caso del breviario di Clemente VII, la cui eliminazione fu anzi provvidenziale, dopo il concilio Vaticano II ad alcuni non pochi e noti pensatori cattolici quali l’Amerio, il de Mattei, mons. Gherardini, mons. Spadafora eccetera parrebbe senz’altro che di casi egualmente dubbi, se non pericolosi, come quelli, per la fede, ne siano riscontrabili diversi altri, tutti dovuti alla scelta di fissare la forma di quel concilio, pur definito magistero universale, solenne e straordinario, in ‘pastorale’, o ‘autentica’, dunque in chiara forma non dogmatica, e, se non dogmatica, non ‘infallibile’, ma ‘fallibile’, esposta cioè, come quel vaso di vetro del nostro esempio, pur non volendo, a qualche umano errore, all’intrusione di una qualche mosca.
Prendiamo, fra tutte, l’affermazione che vien fatta al n. 24/d della Costituzione pastorale Gaudium et spes, che nell’originale latino afferma: « homo in terris sola creatura est quam Deus propter seipsam voluerit » (marcatura mia). Il genere femminile del complemento di causa dato dal pronome ‘seipsam’ è non equivocabile legame al genere femminile di ‘sola creatura’, per cui la traduzione italiana non può che essere: “L’uomo è in terra la sola creatura che Dio volle per se stessa”, e non, come sarebbe meglio fosse (e come anche i Pastori novatori che hanno concepito quel passo cercano di dimostrare che sia), “per se stesso”, cosa che permetterebbe, col pronome al genere maschile, di riferirsi più facilmente, ma, come si vedrà, non ancora del tutto nettamente, non all’uomo, ma a Dio.

Ma in Iota unum (p. 427 Lindau, nota 2) Amerio rileva che « la traduzione italiana corrente volta erroneamente ‘per sé stesso’ travolgendo il senso [pericolosamente erroneo dell’affermazione] e annullando la variazione della dottrina », dimenticando così che però « Giovanni Paolo II – come non può non sottolineare il filologo luganese – citò il testo latino in un discorso sull’amor coniugale (OR, 17-1-80) », e non l’italiano, ossia citò proprio il testo palesemente erroneo, e non quello che poteva essere considerato solo equivoco, inesatto, ma non inaccettabile.
Si vedrà poi, nella nostra nota 3, come anche il genere maschile non possa dileguare tutte le ombre, proprio per la costruzione sintattica, in sé, della frase, troppo intorbidata ab origine dalla falsificatoria dalla vana intenzione di glorieggiare oltremodo l’uomo – siamo sotto il pontificato montiniano – invece che Dio. Se non più di Dio.
Inoltre, anche il contesto in cui essa è inserita confermerebbe il senso della frase, travisante il sentire ortodosso. Pochi passi sopra, infatti, si può leggere: « Secundum credentium et non credentium fere concordem sententiam omnia quæ in terra sunt ad hominem tamquam ad centrum suum et culmen ordinanda sunt » (Gaudium et spes 14): “Per consenso generale di credenti e non credenti tutte le cose del mondo si devono ordinare all’uomo come alla loro cima e al loro centro”. Dunque la gloria dell’universo, qui, parrebbe proprio rivolta tutta all’uomo.
L’affermazione, in sé, è stata letta da molti come portatrice di un’antropologia e di una teologia devastanti, e in tal senso fu confutata da Amerio prima appunto in Iota unum, poi in Stat Veritas (Chiosa 15), 2 [2] infine, definitivamente, da mons. Brunero Gherardini, che la stronca: « È un testo assurdo e blasfemo, sia che le parole finali si leggano al femminile (“per se stessa”), sia che le si leggano al maschile (“per se stesso”) » (Concilio Vaticano II. Il discorso mancato, Torino: Lindau 2011, p. 36 -7, dove l’illustre teologo pratese stende tutti i più inappellabili argomenti logici per distruggere l’intimorata affermazione, v. anche La Chiesa ribaltata, pp. 107-8). 3 [3]

Insomma, quel che qui si vuol trasmettere è che, appena fuori dalle sacre mura della cittadella dottrinale costituita dall’infallibile Depositum fidei, lungi dal mettere tutto in uno stato gelatinoso e tremolante, con altrettanta prudenza di quella con cui il magistero si perita di garantire ai fedeli la sicurezza sigillata e corazzata del dogma quando una verità è dogmatica (quando la bocca del vaso di vetro è sigillata da un tappo), lo stesso magistero non può però più garantire quel medesimo sicuro e marmoreo giudizio su ciò che, di suo, “infallibile dogma” non è (quando la bocca del vaso di vetro non è sigillata da un tappo), perché non vincolato, non coperto dalla stessa assistenza piena, totale e assoluta che lo Spirito Santo assicura unicamente al magistero dogmatico. E se non può più assicurare tale soprannaturale e ineffabile solidità, tale ermetico sigillo, neanche però ci deve provare, perché ciò sarebbe un inqualificabile delitto di falso ideologico, un’offesa a Dio stesso, che si farebbe passare come mallevadore di verità assolute che però non sono altro che verità relative. Relative a cosa? Relative p. es. al tempo in cui sono state formulate, alle conoscenze che si avevano di una certa materia, al concetto di legge, e altre cose così: una storicizzazione del magistero, finché non tocca le verità eterne, assolute appunto, è anche scientificamente necessaria. Difatti nei secoli sempre la Chiesa è rifuggita da tale infamia, se non che…

9. SUI CONCETTI DI ‘MAGISTERO AUTENTICO’
E DI ‘ ‘MAGISTERO PASTORALE’.

Vediamo allora più precisamente cosa significa la perifrasi ‘magistero autentico’. ‘Autèntico’, gr. autentikòs, da authentèo, ‘agire da sé medesimo’, da autòs, ‘egli stesso’, ed entòs, ‘che risponde’: dicesi di ‘ciò che ha autore sicuro’ e che per ciò fa autorità; ‘autentici’ sono gli atti solennemente redatti per mano di un notaio o di altro pubblico ufficiale.
I Papi dei primi secoli parlano di una ‘regola autentica’ da cui non si può recedere, né che si può ricusare. I testi inautentici non si possono usare come autorità, mentre un autore autentico “non era trattato”, non era discusso: il maestro determina, propone e dà l’ultima sentenza alla questione. ‘Autentico’ è ciò che fa autorità proprio perché ha l’autorità.
Il senso di tale parola, riferita al magistero della Chiesa, si trova particolarmente in Qui pluribus (Pio IX, 1846), Inter gravissimas (Idem, 1870), Officio sanctissimo (Leone XIII, 1887), Libertas (Idem, 1888), Humani generis (Pio XII, 1950).

Mentre però, come visto al § 4, c’è un luogo dove la Chiesa definisce il ‘magistero dogmatico’ o ‘infallibile’ (la Cost. dogm. Pastor Æternus), manca un luogo dove sia indicata una definizione, a quella simmetrica e opposta, di ‘magistero pastorale’ o ‘autentico’, sia nel senso che i due termini avevano prima del Vaticano II, sia in quello che hanno ricevuto dopo di esso, posto che per alcuni teologi (p. es. Brunero Gherardini, Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, Casa Mariana Editrice, Frigento 2009, p. 58), è indubbio che quella augusta assise abbia corretto, nei fatti, il senso di tali concetti, dato che, come visto, non vi è una precisa definizione dogmatica (e forse non vi può essere) che lo stringa in una rigorosa e inequivocabile univocità.

Veniamo allora al secondo termine. ‘Pastorale’ è il magistero della cura d’anime, che sminuzza la dottrina universale – sia quella strettamente dogmatica, sia quella direttamente connessa a questa – nella pratica quotidiana, specifica e particolare. È su questo concetto che vengono chiamate ‘pastorali’ le due Lettere di san Paolo a Timoteo e quella a Tito.
Si può dunque assimilare il concetto di ‘magistero pastorale’ a quello di ‘autentico’, giacché entrambi indicano quello che, almeno oggi, è il medesimo ambito magisteriale: l’ambito di quel magistero autoritativo (nel preciso senso di ‘determinato dall’autorità’), sebbene non infallibile, cioè cui non è del tutto interdetto cadere in errore, che permette alla Chiesa di compiere l’imprescindibile passaggio dalla teorica alla pratica, dall’infallibile Depositum fidei alla se pur rarissimamente fallibile, ma fallibile, conduzione delle coscienze. 

10. LA STRATEGIA DI CHI VUOLE DARE LA COMUNIONE
A CONVIVENTI E DIVORZIATI E IL MAGISTERO ‘PASTORALE’.

Ma con la nascita e l’espandersi della Nouvelle Théologie e, per alcuni, con la preparazione del Vaticano II come primo concilio ecumenico ‘pastorale’ della storia della Chiesa, avviene che, come bene illustra mons. Gherardini, la parola “pastorale” sta ancora a « indicare l’inalienabile vocazione apostolico-missionaria della Chiesa » (loc. cit.), ma per altri viene a prestarsi, molto equivocamente, « ad assicurar a tale vocazione una libertà di movimento di cui non avrebbe goduto se legata ancor alla concezione tridentina del sacro ministero » (ibidem), la concezione dogmatica, quella che oggi Papa Bergoglio chiamerebbe « da intellettualisti ».
Il teologo che fu per trentasette anni ordinario di ecclesiologia alla Lateranense nota che « sulla qualifica di pastorale, inoltre, i commentatori di varia estrazione e d’indirizzo anche contrapposto basaron la loro adesione al Vaticano II o le loro critiche ad esso » (ibidem), proprio perché la qualifica, come d’altronde quella di ‘magistero autentico’, non impegnava davvero nessuno: né, da parte dei Pastori, a tenere il dovuto rigore formale del linguaggio dogmatico, che è la prima, necessarissima e imperativa condizione da assolvere, né, da parte dei fedeli, alla corrispondente obbedienza.
Anzi, « per qualcuno completa il pensiero l’esimio teologo andando a toccare esattamente il nervo che nessuno avrebbe mai dovuto toccare – ‘pastorale’ significò superamento dell’imponente staccionata giuridico-dogmatica entro la quale, quasi in un inaccessibile fortilizio, la Chiesa aveva finora protetto le sue certezze e resa operante la sua tradizione evangelizzatrice » (ibidem).

Se oggi « la comunione si dà a tutti, senza soffermarsi troppo a indagare il curriculum vitæ di chi s’accosta all’altare per ricevere l’ostia », come dice a Il Foglio padre Pepe di Paolo, amico e discepolo di Papa Bergoglio da un ventennio quando questi era sacerdote e poi vescovo e poi cardinale a Buenos Aires, è perché ieri è stata superata « l’imponente staccionata » per poter irrompere nel territorio magisteriale ‘pastorale’, finalmente liberi da quelli che vengono ormai considerati solo ingombranti cascami giuridico-dogmatici ideologicamente “esclusivisti”, come dicono i novatori per ancor più esecrare e far esecrare quegli ormai non molti cattolici che hanno solo la colpa di voler rimanere nell’ortodossia evangelico-dogmatica costituita proprio da quei “codicilli”, perché « i sacramenti – insiste il discepolo di Papa Bergoglio – sono per tutti. Noi rispettiamo la gente. Se le persone cercano di comunicarsi, diamo loro la Comunione. Non siamo dei giudici che decidono chi si deve comunicare e chi no » (8-11-14). Giusto: chi sono io per giudicare?
Sicché: « Quando ci troviamo davanti alle persone che convivono senza essere sposate in Chiesa non alziamo barricate, neppure nel caso dei sacramenti e della comunione. Ci opponiamo a quelli che hanno solo precetti ». E conclude: « Bisogna guardare al caso concreto, non sciorinare la lista dei precetti e degli ammonimenti » (8-11-14). Siamo al “magistero fai da te”. Che si oppone al magistero-magistero, quello « dei precetti e degli ammonimenti », quello, specialmente, del « Beato l’uomo che cammina nella legge del Signore » (Sal 118,1) e del « Se mi amate, osservate i miei comandamenti » (Gv 14,15). E i comandamenti di Gesù, i comandamenti dell’amore che fanno l’uomo beato, se non sono barricate, precetti e ammonimenti, se pur d’amore, e d’amore beatificante, cosa mai sono?
Forse non si rendono conto – dei vescovi? dei teologi? dei cardinali? Impossibile – che « l’imponente staccionata » superata dal ‘pastorale’ concilio Vaticano II è il Logos, è costituita dalla stessa seconda Persona della ss. Trinità, e in altre parole è il dogma, il Katéchon divino, l’unica forza che può liberare l’amore, v. dimostrazione in La Bellezza che ci salva, Primo capitolo. E il “superamento” del Logos è, né più né meno – con tutto il carico di peccato di sacrilegio che tale cognizione comporta –, che la morte del peccato e con ciò della stessa sua Redenzione: è la distruzione del cattolicesimo e l’avvento dell’anarchia, cioè del diavolo e di satana, come già sta succedendo.

Per tornare a noi: dai testi segnalati si deduce che anche il ‘magistero autentico’, o ‘pastorale’, è divino, ma solo in parte, in quanto Dio è l’agente principale del magistero della Chiesa, e il magistero ne è l’agente secondario, sì da interpretare autenticamente le verità normative – quelle cui obbedire nei modi sopra indicati – da Lui rivelate. E Dio, ancora, è il sommo e “principale” Pastore delle proprie pecorelle, ma vi sono poi i “Pastori secondari” (il Papa, i vescovi, le Congregazioni vaticane) che ne devono far capire, rendere intelligibili e chiari, i concetti e le indicazioni che lo Spirito Santo loro suggerisce di insegnare per la salvezza delle anime.
In realtà, come ha indicato con chiarezza mons. Gherardini, è qui, in questo territorio virtualmente immenso di ‘magistero autentico’, o ‘pastorale’, che si annida la possibilità per l’uomo di trovare quella magisteriale « libertà di movimento » che gli permetterebbe, caricato da intenzioni religiose forse anche sante, come, ieri, la speranza di Clemente VII di un breviario più vicino alle traduzioni originali, o ancora il ricongiungimento con i “fratelli separati” di Papa Paolo VI e oggi la rincorsa dei “feriti sociali” di Papa Bergoglio, ma tuttavia anche pur sempre intenzioni seconde rispetto alle primarie necessità veritative del dogma, di spingersi a voler affermare dottrine non sufficientemente suffragate dalla Tradizione e dalle Sacre Scritture, non dall’impianto logico, non dal Deposito della fede, malgrado ogni sforzo di perfezione didattica e ogni tensione morale al conseguimento costante di tale traguardo, deviato da quelle “intenzioni seconde” che si diceva: magari anche sante, ripeto, ma non sempre pertinenti direttamente alle verità di volta in volta da raggiungere.

In altre parole: ovviamente, un magistero non infallibile doveva pur esserci, ad affiancare l’infallibile, per tutte le ragioni che si sono viste, anche se tale magistero avrebbe costituito per sua natura – essendo fallibile – l’unico possibile spiraglio all’errore, come in effetti è avvenuto nei secoli, se pur davvero molto raramente, per l’attenzione veramente sovrumana con cui la Gerarchia ecclesiastica seppe sempre controllare la produzione dei propri documenti magisteriali: non si ha oggi l’idea dello straordinario linguaggio con cui la Chiesa parlava anche solo “pastoralmente” fino a solo qualche decennio fa, quando la locuzione ‘magistero pastorale’ non si sapeva quasi cosa fosse, inserita com’era all’interno di una prospettiva magisteriale fondamentalmente dogmatica: non è il nostro tema, ma la questione del linguaggio non è un discrimine secondario, ma decisivo, per distinguere, da una parte, un magistero dogmatico e infallibile e anche mere ‘autentico’ e ‘pastorale’, ma impregnato dell’ambienza veritativa del primo, e dall’altra un magistero invece che, attraverso l’utilizzazione forzosa del livello ‘autentico’ e ‘pastorale’ – e parlo proprio di quell’utilizzazione che, almeno per studiosi o teologi quali l’Amerio, il Gherardini, il sottoscritto eccetera, risulterebbe del tutto forzosa, avvenuta dal Vaticano II in qua –, si farebbe magistero non solo fallibile, ma poi di fatto effettivamente fallato, ossia oggetto di effettivi errori dottrinali, dunque in qualche misura, almeno per costoro, temerario, pericoloso, a volte erroneo, a volte persino intimamente corrotto, v. Gaudium et spes 24/d, e non solo.
                                                                                                        
Quella infatti che fino a oggi, per l’estrema rarità con cui si era realizzata di fatto, pareva quasi, come si dice, un’ipotesi di scuola, negli ultimi cinquant’anni, da quella del tutto necessaria e però dunque anche controllatissima fenditura nella roccia che era – per lasciar passare dalla forte pietra del dogma quell’emulsione d’acqua capace di dissetare gli assetati nel cuore delle loro più individuate coscienze –, è divenuta una vera e propria magna voragine, un abisso in cui qualcuno vorrebbe poter intravvedere stia sprofondando persino la stessa sacra Roccia da cui necessariamente essa originava, e con essa sprofondi il peccato, e col peccato scompaia dunque anche l’offesa a Dio Padre (dunque la Redenzione, il Cristo, la Trinità, Dio stesso). Ma, a parte dunque la grande offesa, cosa gravemente in atto, tutto il resto: sprofondamento della sacra Roccia cioè annientamento della Legge e scomparsa del peccato, non avverrà mai, né mai potrà avvenire, grazie ai due giuramenti di Cristo che qui ricordiamo: « Portæ Inferi non prævalebunt adversus eam » (Mt 16,18) ed « Ego vobiscum sum omnibus diebus » (Mt 28,20).

11. OBBEDIENZA O DISOBBEDIENZA.
RELIGIOSO OSSEQUIO O INVECE RELIGIOSA RESISTENZA.

E qui bisogna chiarirsi: l’infallibilità è un carattere, un carisma divino che protegge, come ho detto sopra, la verità stessa, e la protegge appunto da ogni errore (anche non voluto) dell’uomo, ma con essa protegge anche la Chiesa, il Pastore che la afferma, i Pastori che se ne avvalgono, il gregge che la contempla, il mondo che la cerca.
Se la Chiesa ha creduto nei secoli necessario non avvalersi sempre e comunque di questo ombrello protettivo, di questa corazza soprannaturale, accostando al proprio magistero infallibile il fallibile, al dogmatico il ‘pastorale’, è perché essa per prima sa che le verità a priori non hanno la medesima giustificazione delle verità a posteriori: le verità soprannaturali si giustificano da sé per la loro divina e direi olistica cioè tutt’intera autenticità data dall’Autorità somma da cui provengono, divina e indiscutibile (san Roberto Bellarmino la definisce “Auctoritas in se”, cioè in se stessa, distinguendola dalla “Auctoritas quoad nos”, in quanto a noi); le verità solo logiche e storiche invece, quali le ‘verità connesse’, che è a dire le verità de fide ecclesiastica, no, perché, anche se si suppone che i Pastori che le formulano tendano sempre e indefessamente a mantenerle all’interno della forma dogmatica che le produce (loro causa remota; la prossima è la loro necessità specifica), e anzi si adoperino con tutte le forze a rendere sempre più manifesti e realizzabili poi, nella vita di ciascun fedele, proprio i dogmi ultimi che le sottendono, in una certa misura sono accidentali, hanno sempre necessità di un qualche aggiustamento, pur santamente tendendo, nella religiosa e dogmatizzante intentio del sacro legislatore, a dare diuturnamente a ogni propria parola la necessaria perfezione veritativa eterna, e le verità logiche sono giustificate solo tanto quanto si legano con ragione alle prime, alle soprannaturali, cioè al dogma, come d’altronde visto al § 5.

A questo punto è ben chiaro perché la Chiesa, nel considerare la risposta richiesta dai fedeli ai due diversi insegnamenti impartiti, distingua bene tra ‘obbedienza’ e ‘ossequio’: perché una cosa è ‘eseguire scrupolosamente i voleri altrui’, come è l’obbedire, altra invece è ‘fare del proprio meglio per compiacere con il necessario discernimento il volere altrui’, come è il pur religioso ossequio; una cosa è ‘pensare con la testa di un altro’, o ‘martirizzare il proprio intelletto’, e siamo ancora all’obbedienza, altra il ‘riverire il volere altrui usando della propria intelligenza e volontà’, ossia ‘con discernimento’, e siamo all’ossequio (sempre religioso, ovvio).
Nel primo caso è richiesta la donazione dell’intelligenza in toto e toto corde, la consegna senza discutere e anzi di tutto cuore dell’intelletto, della ragione; nel secondo è richiesta invece una consegna della ragione, come visto, solo “parziale” e a posteriori, ossia un’obbedienza ragionata, critica, che in altre parole deve sapersi avvalere, per definizione, da parte del soggetto, della propria personale valutazione giudiziale della verità fallibile, e non dogmatica, proposta dal santo magistero.
Da qui si aprono due strade: se il soggetto vuole (il ‘religioso ossequio’ di cui si parla è ‘di intelletto e di volontà’), egli può scegliere di legarsi mani e piedi al magistero anche in questo caso, per umiltà, per fiducia, per spirito obbedienziale, per intima convinzione, o forse anche solo per pigrizia intellettuale; ma, se ritiene, egli può soppesare le verità proposte alla luce del magistero pregresso di livello dogmatico, della Tradizione e delle Sacre Scritture, come hanno scelto di fare, tra gli altri, Romano Amerio e mons. Brunero Gherardini – e io con loro nel citare positivamente nelle mie pagine le loro posizioni – a proposito p. es. di Gaudium et spes 24/d, come di altre non poche proposte egualmente problematizzanti del magistero degli ultimi cinquant’anni.

Tutto questo per dire che la Chiesa sa che le verità a priori non hanno la stessa provenienza di quelle a posteriori, e che alle une e alle altre si deve corrispondere dunque con due approcci assolutamente differenti sia nel loro approntamento che nella loro esecuzione, sia nelle loro formulazioni che nella loro ricezione, per non parlare della comminazione delle pene previste nel caso venissero rifiutate: sarebbero forse in peccato mortale d’eresia i critici di Gaudium et spes 24/d, utilizzatori accorti e giudiziosi, e in ogni caso di certo in buona fede e scrupolosi fino al più cattolico midollo, del ‘religioso ossequio dell’intelletto e della volontà’ nei confronti di quello che a loro (e a me che scrivo) pare in tutto un errante magistero che, per far passare una novità che a loro pare antropologicamente intrigante, avrebbe usato la forma mere ‘pastorale’ scansando la dogmatica, o non lo sarebbero piuttosto i suoi estensori, che sarebbero stati spinti, in quell’occasione come in altre, a diffondere urbi et orbi quelle che, almeno per i sopraddetti, paiono in tutto, oggettivamente, pericolose dottrine, e pure con magistero straordinario, solenne e universale, ma formalizzato in carattere simpliciter ‘pastorale’, e non, come invece avrebbero pur dovuto, con magistero straordinario, solenne, universale e specialmente dogmatico, così aprendosi il varco, almeno per ipotesi di scuola, ma evidentemente non solo, a volte anche a quello che Padre Bellon chiamerebbe « un insegnamento erroneo, temerario e pericoloso e che sicuramente non può essere insegnato (tuto doceri non potest) », come Gaudium et spes 24/d?

Ho utilizzato qui la traduzione di Padre Bellon, ma va detto, come avevo anticipato, che in realtà essa non dà il senso in cui dovrebbero essere tradotte quelle quattro parole latine, “tuto doceri non potest”: infatti, al di là che, com’è ovvio, di certo non va insegnata mai nessuna dottrina erronea, temeraria o pericolosa, l’affermazione in realtà spiega che una certa dottrina “non può essere insegnata con sicurezza”, ovvero non si hanno elementi indiscutibili, indubitabili, per poterla insegnare con assoluta certezza e tranquillità – come invece sarebbe per una qualsiasi dottrina formalmente dogmatica –. Questo il vero senso della frase.
Quale dottrina? Nei manuali di teologia, il “tuto doceri non potest” era frequente, specie a riguardo delle dottrine morali e della loro non rarissima fallibilità, dovuta agli approfondimenti scientifici, antropologici, culturali e via dicendo che l’uomo compie nel tempo, per cui abbiamo: « non si può insegnare [una certa dottrina morale] con sicurezza », cioè non si possono dare, di una certa dottrina morale, sicure garanzie di veridicità: è dottrina dubbia, fallibile, insicura, e dunque da insegnare cum grano salis. Questo perché l’avverbio tuto, il nostro ‘sicuramente’, è legato al predicato doceri, e non al verbo servile non potest, per cui è corretto dire: non può ‘essere insegnato/insegnata con sicurezza’, ed è un errore dire: ‘non può sicuramente’ essere insegnata. Quello, e non questo, è infatti il solo significato utilizzato dai manuali di teologia.

Chiarito dunque qui il senso di quel “sicuramente”, che sottolinea come alcune dottrine non possano essere affatto insegnate come sicure (“tuto doceri non potest”), si deve finalmente arguire che se dunque quegli accorti e religiosi critici di dottrine incerte fossero davvero in peccato pubblico di eresia per aver pubblicato sui loro cattolicissimi libri le loro ben ponderate perplessità, per non chiamarle i loro più decisi biasimi sul per loro disdicevole passo che si diceva, oltre che su altri analoghi, come mai non si è mai avuta notizia di una pena loro comminata per tale delitto, ossia di una loro altrettanto pubblica e chiara scomunica dalla Chiesa?
                                                       
In realtà, rispetto a Gaudium et spes 24/d, e con esso – sempre e unicamente secondo l’avviso di alcuni stimati studiosi e di anche esimi teologi cattolici – rispetto a quelle che a costoro e a me non paiono che molto discutibili e anche gravi novità dottrinali diffusesi nella Chiesa negli ultimi dieci lustri a partire dal Vaticano II, non è peccato mortale di eresia quello dei suoi religiosi critici, come sostengono il mio Confutatore e le autorità che porta a sostegno (mentre, parere mio e di quei tali di cui sopra, è ben possibile che lo sia quello dei suoi forse non altrettanto religiosi estensori), giacché il ‘religioso ossequio dell’intelletto e della volontà’, essendo azione che richiede una costruzione non a priori, ma a posteriori, ossia utilizzando le due qualità più determinanti dell’uomo – appunto l’intelletto e la volontà –, e utilizzandole ‘religiosamente’, che è a dire nello spirito di umile e disinteressato servizio alla verità divina e sommamente ordinatrice, è azione massimamente morale, è cioè azione estremamente rispettosa della realtà, in ossequio a quel grande principio – esso sì perfettamente obbedienziale – che i filosofi sanamente individuano con la nota formula della « adæquatio rei et intellectus », “eguagliamento tra intelletto e realtà”, tanto cara anche a san Tommaso, formula che sottende, nel suo lungimirante arco di categorico e splendido regno imperativo tutto e solo marcato dal sacro Nome Imago (l’eguagliamento è una similitudine, e la similitudine si fa tra immagini), sia la cattolica e totalitaria obbedienza de fide al magistero strettamente dogmatico, che l’altrettanto cattolica ma obbedenzialmente non così totalizzante reazione intellettuale e volitiva al magistero ‘autentico’, o ‘pastorale’, che è il religioso ossequio, con annesso possibile discernimento critico, e a volte anche deciso, estremo e ben motivato rigetto, come nel caso considerato, sempre e comunque sotteso dall’amore vivo e amicale e dalla totale dedizione al Papa regnante e alla Chiesa presente, come credo spiegare bene anche in La Chiesa ribaltata, pp. 150-64.

12. C’È UN DOGMA CHE STABILISCE CHE GESÙ CRISTO, OLTRE CHE REDENTORE DEGLI UOMINI, È ANCHE LORO LEGISLATORE. ECCOLO.

Dunque il discernimento critico di Amerio, di mons. Gherardini e di altri (compreso il sottoscritto) che come costoro corrispondono perfettamente alla richiesta del magistero della Chiesa, di onorare con ‘religioso ossequio dell’intelletto e della volontà’ il magistero ‘autentico’ e ‘pastorale’ (che però neppure davvero ‘pastorale’ è) che gli si para dinanzi con Gaudium et spes 24/d e altri passi che a quelli come a chi scrive paiono in tutto erronei e temerari come quello, e che si adoperano religiosamente a disinfestare il magistero da dottrine che ad essi paiono in tutto erronee e temerarie e che dunque a loro avviso di recente lo avrebbero intorbidato, non solo non sarebbe peccato mortale di eresia, ma sarebbe azione doverosa e santa, sommamente cattolica e meritoria, che dunque dovrebbe anzi al più presto essere raccolta dal sommo Pastore per riportare l’insegnamento della Chiesa allo splendore dogmatico che solo le donerebbe un’adeguata cioè perfetta ambienza veritativa, e così anche, ancor più, infine, caritativa.

C’è un aspetto importante infatti da considerare: le verità insegnate non coinvolgono nella loro obbedienza solo i fedeli, ma, nella stessa precisa misura, i loro Pastori: nessuno, per quanto in alto, può sottrarsi alla forza del dogma, della legge, così come nessuno può sottrarsi alla debolezza – relativa, ma pur sempre debolezza – della sua mancanza.
Il concilio di Trento è al proposito molto chiaro: « Si quis dixerit, Christum Iesum a Deo hominibus datum fuisse ut Redemptorem cui fidant, non etiam ut Legislatorem cui obediant, anathema sit » (“Se qualcuno afferma che Dio ha dato agli uomini Gesù Cristo come Redentore in cui confidare, e non anche come Legislatore cui obbedire, sia anàtema”, Can. 21, Denz 1571).
Sopra si è visto che « qualcuno », sapendo che per venir anatemizzato dovrebbe professare apertis verbis la dottrina condannata, per non esser colpito come dovrebbe pensa di compiere il « superamento dell’imponente staccionata giuridico-dogmatica », ossia l’aggiramento del divino Legislatore e del suo anàtema, neanche più esponendo la dottrina, ma buttandosi tutto nella pura e semplice azione: « Se le persone cercano di comunicarsi – sostiene –, diamo loro la Comunione ».
Ma, nel vuoto giuridico così creatosi, un briciolo di dottrina permane, ed è provvidenzialmente il nocciolo: « Ci opponiamo a quelli che hanno solo precetti ». Lo sterminatore della Legge, il prevaricatore del Legislatore, da un lato tanto “misericordioso” e “inclusivo”, si oppone direttamente al « Cristo legislatore, cui obbedire » del Canone 21 del Decretum de iustificatione, Cap. 16, sopra citato, del concilio di Trento.
Su queste basi dovrebbe essere facile per il legislatore ravvisare nella pratica qui attuata, nella sua persistenza, nella sua conclamata e continua divulgazione, e specialmente nella sua chiara teorica tutta contraria al dogma, palesata sia dalle azioni pratiche che dalle poche parole sopra dette, gli estremi per applicare il Canone. Ma il cosiddetto “superamento delle staccionate” vale provvidenzialmente (o purtroppo, secondo i punti di vista) per tutti, specialmente per chi non le avrebbe dovute far superare, sicché si può prevedere che sarà difficile che oggi qualcuno voglia applicare una legge che egli stesso ritiene “superata”. Vogliamo vedere?
  
I santi e buoni Pastori infatti possono e devono avvalersi sempre, in ogni circostanza, anche nella più apparentemente pratica, della forza del dogma per poter garantire appieno una certa dottrina, un certo giudizio, cioè una legge, cui tengono dal punto di vista pastorale, missionario, casuistico, nella longanime prospettiva della Chiesa che vuole precorrere il mondo nelle sue più vere e profonde necessità spirituali, e i fedeli (tutti infatti, anche i Pastori più alti, sono discepoli, cioè fedeli, davanti all’unico Maestro) possono implorarne la discesa per averne eguali garanzie da due punti di vista che sono opposti in quanto all’economia della sacra Societas – perché gli agnelli e le pecorelle non vedono ciò che vedono i (santi e buoni) Pastori –, ma che convergono in un unico e identico punto di vista in quanto alla sicurezza di fortificare così la più santa cioè la più dogmatica e obbediente cristificazione della Chiesa.
                                                                
13. CONCLUSIONE: LE DUE VIE INDICATE DALLA CHIESA
PER STARE NELLA REALTÀ VANNO SEGUITE ENTRAMBE,
CIASCUNA NEL SUO PRECISO AMBITO, SENZA CONFONDERLE.

A questo punto abbiamo tutti gli strumenti per capire qual è la corretta posizione da assumere a riguardo del magistero, infallibile e dogmatico o invece fallibile e ‘autentico’, o ‘pastorale’ che dir si voglia, e già si è anticipata di tale decisa e primigenia divaricazione la necessità anche filosofica: tenersi nel reale, stare alla realtà. Infatti, insegnare imperiosamente, e obbedire ciecamente a tale insegnamento, servono a stare alla realtà delle cose per ciò che riguarda le cose divine, così come insegnare con giudizio (critico) e obbedire con altrettanto giudizio (critico) servono a stare alla realtà delle cose per ciò che riguarda le cose prossime alle divine, ma non in sé divine.
‘Magistero autentico’ o ‘pastorale’ è una forma, ‘magistero dogmatico’ è un’altra e diversa forma. La prima è forma fallibile, la seconda infallibile: fallibilità e infallibilità di magistero sono due forme diverse, incomunicabili, impenetrabili, discontinue una all’altra. A cosa si deve tale incomunicabilità, impenetrabilità e discontinuità? All’ingenita possibile maculatezza dell’una (di fatto poi verificatasi, ma è secondario) e all’ingenita impossibile maculatezza dell’altra.

Ricordate l’esempio della mosca? Una mosca forse non andrà mai a posarsi all’interno di una boccia di vetro munita di un collo lungo e stretto posta in una grande e ariosa stanza, ma forse invece ci andrà. Però di certo non potrà mai e poi mai penetrare in una boccia con l’imboccatura sigillata ermeticamente da un tappo.
Affermare una qualche verità in forma fallibile non dà e non può dare le medesime garanzie che affermarla in forma infallibile. E perché mai? Perché la verifica di continuità di quell’asserzione con Sacre Scritture e Tradizione, per il fatto che essa è enunciata – come dice Padre Betti – dal Vicario di Cristo nelle precise modalità normative richieste per averne tutta la pienezza dovuta (v. § 4), è come se la portasse sopra al braciere infuocato del dogma, e se mancano tali modalità manca tutto.
Oggi non si riconosce alla forma il ruolo arbitrale, divisivo, selettivo che ha, ma la forma è il principio di ogni cosa, è il suo primo atto, dunque è ciò che distingue quella cosa da ogni altra, e il principio divisivo resta anche se lo si nega. Ma perché negare che la forma ‘dogmatica’ non è la ‘pastorale’, che è ciò che si nega non nella teorica, com’è ovvio, ma, come si diceva, nelle conseguenze pratiche?

Si è visto che non tutto il magistero della Chiesa riceve le garanzie di verità che lo Spirito Santo offre a quelle asserzioni compiute con precise disposizioni, quali sono le dogmatiche, sicché l’affermazione vista al § 3: « e pertanto detto magistero non è fallibile », riferita al magistero in generale (« in quanto tale », dice il domenicano Padre Angelo Bellon, dunque che sia fallibile o non fallibile, dogmatico o non dogmatico, che è a dire mere ‘autentico’ o ‘pastorale’, è uguale), sarebbe bene concludere che, palesemente contraddittoria, non sia in nulla rispondente alle norme della Chiesa, cioè sia affermazione errata, falsa, e anche sviante e fuorviante, almeno per come tali norme si possono raccogliere dalle attuali loro non adeguatamente precisate, cioè non dogmatizzate definizioni.

Così pure, l’affermazione che, ancora riferendosi al magistero non dogmatico, dunque al magistero sempre e solo ‘autentico’ o ‘pastorale’, ancora al § 3 il mio Confutatore dichiara: « Non si tratta di magistero fallibile, ma vero e sicuro », se per « vero e sicuro » si intende equiparare tale livello di magistero fallibile al magistero dogmatico e infallibile, è anch’essa, a mio avviso, per tutte le ragioni esposte, non rispondente a verità, dunque anch’essa fortemente sviante e fuorviante.

Conclusione: questa dunque, che qui sopra si è data, e non quella del mio Confutatore di Radio Spada, mi pare in tutto la più corretta interpretazione da dare intorno alla dottrina fondamentale delle due forme di magistero – l’infallibile e la fallibile – se si vuole perfettamente aderire all’insegnamento perenne della Chiesa come indicato in Premessa: « [Nos credimus solum] quod semper, quod ubique, quod ab omnibus creditum est »: la prima è forma sicura, certa, garantita in tutto e per tutto dallo Spirito Santo. La seconda è forma insicura, bisognosa di tutta l’attenzione, la rettitudine e lo zelo religioso dei Pastori: che si adoperino sempre, e in ogni suo percorso e necessità, di porla all’ombra della prima, la forma dogmatica che ne è il principio costitutivo e vitale, riprendendone al massimo la necessarissima forma, e, per ciò che è possibile, anche il linguaggio, soprattutto il linguaggio, sì da tornare ad avere un magistero della Chiesa de facto almeno, se non de iure, in tutto e per tutto infallibile. Pena l’anarchia, come oggi si va profilando.

14. UNA PROPOSTA
PER POR FINE ALLA “GRANDE GUERRA DELLE FORME”
CHE IMPERVERSA DA CINQUANT’ANNI NELLA CHIESA.

Per contrastare questa mortale prospettiva, anzi, per metter fine a quella che io chiamerei “La Grande Guerra delle Forme”, o “Guerra delle due forme”, cioè all’incresciosa lotta che sordidamente sta imperversando da cinquant’anni tra la forma di un magistero ‘pastorale’ che ad alcuni, come visto, tra cui il sottoscritto, oggi parrebbe in tutto sottratto al dogma, suo invece imprescindibile principio informatore, dunque tra la forma di un magistero (per alcuni) oggi più fallibile che mai, e la forma dell’unico magistero dichiaratamente infallibile della Chiesa, c’è un solo modo, come scrivo anche in La Chiesa ribaltata (pp. 300-3): costringere le due forme di magistero a combattere tra loro direttamente, fallibilità e infallibilità “una contro l’altra armate”. Ecco come.

Se una norma, una disposizione, una legge stabilita al grado, nella forma e con linguaggio di semplice magistero ‘pastorale’ resisterà all’annientamento anche portandola sul braciere dottrinale dove al Cielo si alza solo il fuoco vivo e al calor bianco del magistero dogmatico, ossia là dove bruciano nei Cieli eterni solo le parole di fuoco infallibili e perenni tenute vive dallo Spirito Santo di Dio, allora quella norma, o disposizione, o legge, vivrà, sarà graziata e anzi, unita come la si vede alle altre fiammeggianti parole di vita del Logos, certo si darà disposizione che essa sia obbedita in tutto e riverita massimamente, come merita, in tutta la Chiesa.
In altre parole, il Papa dovrebbe ancora una volta assumere su di sé il carisma consegnato al Vicario di Cristo e formalizzare le decisioni ultime da prendere su un determinato argomento in fides et moribus – p. es. dare o non dare l’Eucaristia a conviventi o divorziati risposati, o altri temi che saranno messi a fuoco nel Sinodo sulla famiglia previsto per il 2015 – rispettando le quattro disposizioni viste al § 4: 1), parlare come Dottore e Pastore universale; 2), manifestando chiaramente la volontà di definire e obbligare a credere; 3), nella pienezza della propria autorità pontificia, o carisma petrino; 4), trattando appunto di fede o di morale.

Ma se quella norma, o disposizione, o legge stabilita al grado, nella forma e con linguaggio di magistero meramente ‘pastorale’ non resisterà alla bocca ardente dello Spirito Santo, al pronunciamento papale compiuto con le disposizioni ora viste, se essa non riuscirà a essere profferita utilizzando anche lo scettro aurico e irresistibile dell’infallibilità, in forza dei due giuramenti di Cristo sopra visti possiamo essere soprannaturalmente più che sicuri che le sue braci morenti e malsane, che si volevano far credere invece, come dovrebbero, essere della stessa natura del Fuoco celeste, saranno calpestate come meritano: con il più deciso vigore, e spente per sempre, e possiamo essere soprannaturalmente sicuri altresì che anzi sarà fulminato su di esse e su chi le volesse ancora pronunciare, come sempre è stato fatto nei secoli nella Chiesa, l’anàtema che le proscrive in eterno come dottrine sommamente nocive e mortali. Ritrovando così la perduta pace e la più viva unità, i due valori divini che alla Chiesa dà solo il dogma: che alla Chiesa cioè dà solo quello che è la soprannaturale e inalienabile forma della Chiesa.
Sarà sufficiente la formalizzazione compiuta a suo tempo da Paolo VI con la Humanæ vitæ? Molti teologi la trovarono inadeguata, equivoca, e intere conferenze episcopali di fatto disobbedirono alle sue disposizioni. Ciò che oggi la Chiesa deve superare per sopravvivere è proprio il vortice di ambiguità in cui è stata trascinata dagli anni ’60. Ci vuole un colpo di reni, un evento che la strattoni via dalla “terra di mezzo” in cui si trova, bisogna che torni all’originaria chiarezza.
L’alternativa è restare, appunto, nella “terra di mezzo” adogmatica dove il neomodernista, costringendo la Chiesa a vivere respirando l’aria del mondo e non quella soprannaturale del dogma, crede di fare il bravo Pastore, nascondendosi il fatto che fuori della propria forma la Chiesa a lungo non può stare. E Dio, per quei due famosi giuramenti, come sempre avvenuto, non la lascerà a lungo respirare l’aria del mondo: « Abbiate fiducia – ci dice infatti il Cristo –: Io ho vinto il mondo » (Gv 16,33). E se ’ha vinto, lo vincerà ancora.

Un’ordalia dunque, un deciso e netto giudizio divino, che ponga fine a una lotta fratricida che troppo si è lasciata durare, e che riporti finalmente la Chiesa alla sua divina pace: pace di verità.
Oggi la posta in gioco, in vista del Sinodo ordinario sulla famiglia dell’ottobre 2015, e, più ancora, delle decisioni finali che Papa Francesco si riserva di prendere subito dopo, è senz’altro decisiva, è universale, è per la Chiesa e per tutto il mondo decisamente vitale. Dimostrare che le scelte che ne usciranno sono davvero non solo in linea con i giudizi umani, fossero anche i più alti e consigliati, ma con il giudizio di infallibile e divina verità di Nostro Signore Gesù Cristo, ecco: dimostrare proprio questo fatto inequivocabile porrà la Chiesa – e il mondo – al riparo da ogni reale o anche solo ipotetico errore, in quella limpida e soprannaturale sicurezza che si rivela necessaria quando si è davanti ai momenti estremi, ai momenti decisivi.
Di vita o di morte propria.

*  *  *

Nota bene. Si sarà notato che non si accenna qui alle forme di magistero ‘ordinario’ e ‘straordinario’, se non di sfuggita in due punti. Ciò in quanto entrambe le categorie non influiscono in alcun modo sul tema della fallibilità, come ognuno può vedere sui dizionari teologici, oggi anche su internet, perché entrambe possono risultare sia fallibili (‘autentiche’, o ‘pastorali’) che infallibili (‘dogmatiche’).


Enrico Maria Radalelli




1 A proposito di canonizzazioni, mi è segnalato un articolo, sempre su Radio Spada, Il fallibilismo ovvero dell’inventiva teologica: una risposta ad Enrico Maria Radaelli, firmato Fra Leone da Bagnoregio, pseudonimo dietro il quale parrebbe nascondersi un religioso o un prete dalle forti inclinazioni sedevacantiste, al quale comunque, al presente, non si può rispondere, perché quelli trattati sono temi in cui ci si mette la faccia, in cui cioè si assume la responsabilità di ciò che si afferma, e i dibattiti si fanno a viso aperto, specie tra cattolici, amici fraterni nella stessa fede, si crede, o almeno: fino a prova contraria. Le obiezioni saranno volentieri raccolte solo quando sarà fatta pulizia di ogni velo. 
2 Ecco quanto scrive il filosofo luganese su Stat Veritas: « […] I Padri dell’ultimo Concilio sconvolsero i sensi delle Sacre Scritture addossando all’uomo ciò che era da riferire a Dio: nella Costituzione Gaudium et spes, 24, affermano che l’uomo in terris sola creatura est quam Deus propter seipsam voluerit”: L’uomo è nel mondo la sola creatura che Dio abbia voluta per sé stessa. Quest’affermazione si riferisce al solenne passo di Proverbi 16,4: “Universa propter semetipsum operatus est Dominus: Il Signore ha fatto tutte le cose per sé stesso. Ma la citazione riferisce al complemento oggetto ciò che nelle Scritture appartiene al soggetto rovesciandone il senso: è infatti impossibile che la volontà divina abbia per oggetto altro che la sua propria bontà, giacché tutte le bontà finite sussistono solo grazie alla bontà infinita né l’infinito può uscire da sé stesso alienandosi e appetendo il finito ».
3 Qui il pensiero completo di mons. Gherardini. Esso si articola nel testo e poi in nota. Nel corpo del testo: « Se “per se stesso” [l’espres-sione] dovesse riferirsi a Dio, verrebbe subito da domandarsi: c’è una sola creatura che Dio non abbia voluto per sé? e perché, allora, l’uomo soltanto? Se invece dovesse riferirsi all’uomo, la conseguenza farebbe di Dio il tributario dell’uomo, un suo sottoposto, e dell’uomo il valore primario, condizionando la libertà assoluta di Dio all’assolutezza di codesto valore, imponendo a Dio un’assurda e contraddittoria “determinatio ad unum” ». Nella nota poi: « È un pensiero assurdo e blasfemo, sia che le parole finali si leggano al femminile (“per se stessa”), sia che le si leggano al maschile (“per se stesso”). Il “per se stessa” sovverte i valori, sottoponendo il Creatore alla creatura. Altrettanto va detto del “per se stesso” in riferimento all’uomo; in riferimento a Dio, escluderebbe tutto il creato, con eccezione del “solo” uomo, dalla sua finalizzazione alla glorificazione esterna del Creatore ».

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