mercoledì 14 gennaio 2015

Un saggio di Francesco Petrillo: Europa senza statualità

 Autorevole e dotto filosofo della politica, attivo nella Link Campus University in Roma, dove propone una spregiudicata rilettura dei testi imbarazzanti di Giovanni Gentile, Emilio Betti e Carl Schmitt, Francesco Petrillo affronta da diversi anni lo spinoso problema posto dalla latitanza del concetto di statualità nel dibattito sulla costituzione europea.
 La refrattarietà europea al concetto ha origine, come è stato dimostrato da autorevoli osservatori, dalla strutturale incapacità dei politicanti ad accordarsi sui presupposti della  identità culturale del vecchio continente. 
 Di conseguenza, la importante opera di Petrillo, Europa senza statualità, in questi giorni uscita dai torchi della prestigiosa casa editrice di Marco Solfanelli in Chieti, propone ai legislatori e ai politologi europei un excursus capace di assumere, quale preambolo del dibattito, la alterazione/mutilazione del concetto di stato da parte della cultura post-moderna.
 Al proposito Petrillo rammenta le tesi del compianto professore Gianfranco Miglio sugli errori diffusi dalla politologia contemporanea: accentramento del potere, che ha prevalso rispetto al principio di divisione dei poteri, mancato rispetto della pluralità delle rappresentanze, partitocrazia.
 Viste tali anomalie, l'individuazione di un solido fondamento della costituzione europea, secondo Petrillo, dipende dalla confutazione delle tesi che considerano fonte del federalismo la scienza politica anglosassone e americana, un sistema che è, pertanto, "avulso dalle concettualizzazioni topiche del pensiero politico europeo continentale, tanto da potere considerare netta la cesura tra federalismo e dottrina dello Stato". 
 Quale preambolo a una via d'uscita dall'invadente e soffocante ideologia federalista di stampo anglosassone e americano, ideologia al potere nella mente gregaria dei federalisti, Petrillo osa proporre la filosofia di Giovanni Gentile, "molto trascurata, purtroppo, per mere ragioni ideologiche, dagli studiosi italiani, spesso troppo legati ad una esterofilia teoretica di maniera".
 Ora fondamento della politologia di Gentile è l'assioma, secondo cui "Non è la nazionalità che crea lo Stato, ma lo stato che crea (suggella e fa essere) la nazionalità".
 La ragione di una tale scandalosa proposta risiede nella concezione gentiliana della statualità, che si propone, senza paura di rischiare lo smarrimento nelle tortuosità del postmoderno, come una continua fenomenologia dei valori: "E' lo stato stesso che fenomenologicamente si trasforma quale valore morale, capace di conformarsi alla società umana nel corso della storia. ... lo stare insieme nel lungo periodo non può essere garantito dall'accentramento dei valori ma piuttosto dal necessario riconoscimento che bisogna dare alla dispersione centrifuga dei valori". 
 Quale guida a un cammino finalizzando ad attraversare indenni e superare in via definitiva il conflitto senza fine tra rivoluzione e reazione, Petrillo propone infine l'opera del Beato roveretano Antonio Rosmini Serbati (1797-1855), un autore che fu altamente stimato da Giovanni Gentile. 
 Rosmini, secondo Petrillo, ha indicato la via al regolamento del rapporto tra ideale e reale, "la ricerca che avanti a tutte le altre propone a se stessa la giuridica filosofia, nella peculiare accezione rosminiana di diritto/dovere".
 Rosmini non fu un reazionario, ma un pensatore cattolico capace di trarre le debite conclusioni dagli errori, che hanno ispirato i protagonisti della rivoluzione francese.
 Rosmini è il fondatore della scuola politica, che concepisce la risposta all'illuminismo e alla rivoluzione francese nel rispetto delle dovute distanze dall'errore assolutista e gallicano, dai quali, lo ha dimostrato Francisco Elias de Tejada, ebbe origine la rivolta francese contro la Chiesa di Roma.   
 Il pensiero rosminiano, interpretato magistralmente da autori quali Michele Federico Sciacca, Maria Adelaide Raschini e Pier Paolo Ottonello, si rivela estraneo a quella sterile controrivoluzione che è alimentata dal sogno codino di compiere un passo indietro, nella direzione dell'assolutismo e, ultimamente, verso la politica totalizzante.
 Pier Paolo Ottonello ha dimostrato che “Soltanto Rosmini ha compreso in modo esaustivo il nucleo più profondo dell’assolutizzazione hegeliana del teoretico come al tempo stesso conclusione della modernità e radice nichilistica della diaspora moderna come deflagrazione  a catena di scissioni, accomunate dalla pseudodialettica - sofisticamente nichilistica – razionalismo-irrazionalismo, ovvero scientismo-dogmatismo, che quindi progressivamente mette allo scoperto le piaghe che si moltiplicano entro i percorsi tutti  delle  scienze,  così  come  quelli  delle  esistenze  singole,  della società,  della storia[1].
 Il pensiero del filosofo roveretano, d'altra parte, è la fonte dell'interpretazione gentiliana delle Insorgenze antigiacobine quali preamboli del Risorgimento e la risposta ai diritti dell'uomo, tentata perfino da Giuseppe Mazzini, il quale, nel 1860, licenzierà l'opuscolo dal rosminiano titolo Dei doveri dell'uomo.
 Opportunamente Petrillo segnala l'originalità e la fecondità della politologia rosminiana: "poiché il principio fondamentale giuridico è da ricondursi necessariamente ad una morale universale, obbligo dell'uomo verso il bene oggettivo - quindi dovere dell'uomo verso il diritto soggettivo di ciascun essere umano - esso può essere soltanto azione partecipata dell'oggettività morale, cioè del dovere morale. In tal senso, il diritto dell'individuo-persona si fonda sul dovere, su un dovere necessariamente originario".
 Petrillo precisa che nel pensiero rosminiano il dovere non ha origine politica ma giuridica: "La distanza con le filosofie post-rivoluzionarie francesi diventa, in tal senso, abissale". Di conseguenza il diritto della persona precede la legge "perché fondato su un obbligo che precede l'obbligo politico: l'obbligo verso la morale universale".
  Naturalmente alla riflessione rosminiana sulla morale non partecipano gli attuali rappresentanti dell'Europa laica, che incensa il primato dell'economia.
 Ai lombrosiani rappresentanti della chiacchiera inutile e stucchevole non si può proporre un pensiero, come quello di Rosmini, non convertibile nel fruscio della carta moneta. Non si può trascinare la meschina avidità in un ragionamento inteso a superare il meschino egoismo e la sordida avarizia. La cultura europea oggi ha una desolata, squallida figura. La ragione politica, per sopravvivere, deve dimenticare la meschinità in atto a Bruxelles.

Piero Vassallo



[1]     Cfr.: “L’Enciclopedia di Rosmini”, op. cit., pag. 14.

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