giovedì 22 gennaio 2015

LA FELICITÀ (racconto di Piero Nicola)

Un vecchio amico, uomo singolare che ho sempre stimato con una punta d’invidia, una settimana prima di partire per l’Argentina, dove avrebbe raggiunto un figlio sposato, mi chiamò volendo confidarmi una storia della sua vita. “Non è la mia vita intera” precisò, “ma, insomma, il lato  essenziale”. E, in tal senso, fu largo di dettagli di cui presi appunti. Desiderava che scrivessi il seguito di esperienze che gli stava a cuore fosse trasmesso ad altri, fossero in grado o meno di valersene.
  Mi appresto a mantenere la promessa dando voce al suo racconto, salvo alcuni riempitivi e sviluppi imposti dalla narrazione, e confido che l’insieme rispecchi intento e animo del caro emigrato, vedovo di fresca data.

  Credo che ognuno di noi abbia avuto momenti particolarmente felici. In genere, sono felicità della rimembranza soavemente nostalgica: i ricordi passando al vaglio del tempo, le cattive scorie rimaste nel vaglio si disperdono per incanto; potremmo ravvisarle, ma sono estranee alla sostanza del ricordo, che domina rendendole innocue: scorpioni col pungiglione incapsulato in una guaina. Si gusta il distillato lasciando il tossico scioltamente, grazie a una spontanea alchimia. Sembra scontata, la sopraggiunta ricompensa per il doloroso pentimento d’aver mancato un bene sommo, di cui soltanto ora ci compenetriamo a nostro agio. Il riandare a un tempo che fu, a una sua circostanza, a una persona, per magia ci rinvia qualcosa di purificato, commovente e dolcissimo: purificato altresì di ragioni e di ragionamenti.
  Il beato disfarsi delle ombre oscure, ci giunge anche nel ritorno - occasionato da una lettura, da un imponderabile raccoglimento - di vite immolate generosamente, cui ci legano luoghi, vicende e la nostra storica vicinanza. Alcune gesta di quell‘epoca, un discorso, un canto, offrono un particolare ingresso nel sublime. Chi non ha nell’archivio della memoria canzoni o pezzi classici che, a un dato punto, escono fuori e agiscono da lievito di un nostro essere in giorni lontani, nel quale filtrano, immacolati, i sacrifici di caduti, di uccisi; e ne siamo riempiti così da farceli rivivere? Sono musiche ricantate con delicatezza, con misura, di tanto in tanto: attenti a che non si consumino. Oh, non si logorano, stiamone certi! Ne potremmo abusare. Viene il dì in cui, fresche di decantazione, s’insufflano nelle trascorse condizioni memorande, tingendole tutte della loro vena.
  I posti, il rivenire su di essi, in essi, di persona o col pensiero, completano il giro degli ingredienti evocatori. Hanno modificato le vie, le case, gli sfondi, hanno cancellato i cortili. Quel profluvio di nuovo, quell’estraneità rispetto ad allora - invece familiare a vite successive e digià cara ai loro ricordi - non fa che colmare l’atmosfera di un aureo struggimento, d’un magnifico pianto.
  Quindi accade che siamo noi a cercare l’evocazione, compiendo un pellegrinaggio o un viaggio immateriale a ritroso. Talvolta si riesce. Di solito, l’occasione e la disposizione involontaria hanno la parte nobile, conducono al prodigio, su quella via dove ci muoveremmo maldestri. E gli stati d’animo felici ci sorprendono. Tuttavia la volontà di mettersi nello stato di viverli recandosi in un paese, assumendo un’occupazione in funzione di essi, non è poi così rara.
  Da ragazzo, forse a motivo d’una congenita aspirazione alla genuinità – non oso dire alla purezza – tanto che non riuscivo a pronunciare una bugia, nutrii un grande amore per la campagna. Ero il nemico dei portati del progresso, delle loro sofisticazioni. A scuola, i miei svolgimenti dei temi si caricavano di un ecologismo ante litteram, con i più vari appigli. Diedi inizio in tal modo, al di là dell’infanzia, alla serie dei momenti immediatamente ispirati e magici, o delle esperienze che avrei poi gustato depurate.
  In alcune vendemmie e faccende agricole cui avevo partecipato alla cascina di lontani parenti durante le vacanze di fine estate, nulla mi smontò, trovai conferma e alimento prezioso per attaccarmi al mondo villico e campestre. Il senso bucolico ne usciva consolidato. Operavo una cernita immediata delle pregiate forme e sostanze agresti, tenendone ai margini certi animaletti, certi cattivi odori: eclissati, tramutati, polverizzati; e degli uomini ricevevo soltanto la crosta croccante, come fa il giovane che deve ancora imparare a riconoscere gli individui che non gli somigliano. Credo proprio che fosse un prendere alla buona, da ragazzo, un entrare alla garibaldina nel mestiere della zappa e dell’aratro (sino a quei giorni, trainato dai simpatici buoi). Si appagava facilmente il mio anelito all’ambiente naturale. Mi compiacevo delle corvée fangose e servili, come il trasporto del letame dalla stalla nella concimaia. Agli entusiasmi dei ragazzi giungono rimunerative le faccende ostiche e schifate.
  Mio padre era assai diverso da me, era d’una pasta più concreta, d’una grana più ruvida, e provava la mia stessa attrazione verso i luoghi rurali, verso le colline coltivate. Senza dubbio, nel suo essere sensibile al loro richiamo entrava la nostalgia per il paese natale. Vi era cresciuto rampollo d’una famiglia di commercianti e proprietari di terreni. Fatto si è che, d’altro stampo dal mio – sebbene l’affetto mi portasse a giudicarci simili – mi dava dei punti come sognatore. Affittò un podere nell‘Astigiano, e lì ci trasferimmo noi due soli.
  Non fu un paradiso terrestre; tuttavia, per quanto mi concerneva, non vi scomparve mai un fondo di paradiso, emerso a più riprese nelle ore buone. In quell’aria odorata dalle stagioni, in quei lavori sui poggi e nei clivi, tra la stalla nell’edificio rustico e la casa civile, tra aia e fienile, piovvero contrarietà, venne giù qualche metaforica grandinata: assorbite, scordate.
  E fui gratificato di culmini, esaltazioni di un onesto benessere, mentre ero solo o quasi solo, per intere giornate, dall’alba al calar del sole, e le notti. Il mio genitore si trovava, momentaneamente, in città da moglie e figlia, e vi sbrigava alcune faccende utili soprattutto al suo bisogno di divagarsi. Nell’appartamentino periferico, mia madre accudiva mia sorella, che proseguiva gli studi, da me terminati l’anno prima.
   Risento il motivo musicale senza parole – non ho mai prestato orecchio alle parole delle canzoni preferite – che m’impreziosiva lo spirito in uno di quei culmini. Ancora mi si accappona la pelle. Era il tempo della fienagione di maggio. Un giornaliero taciturno, emigrato in Piemonte dall’Agro Romano, conduceva il carro per i prati falciati, punteggiati da mucchi di fieno. A mano a mano, mettevamo su il carico con i tridenti, sotto gli sguardi bovini, pacifici anche se la coda frustava le mosche. Era una completezza di colline ad appezzamenti, orlati da boschi, e di crinali, uno sotto l’altro sfumato all’orizzonte, di cielo aperto, di radi fili d’erba viva e fasci di steli appena seccati, odorosi. E v’erano compresi, per la vita animale, i bianchi quadrupedi domestici, aggiogati al timone del veicolo, alcuni grilli e libellule, grigi, verdi, mimetizzati, quasi vegetali. Mirabile composizione formata dal Creato e dall’opera umana. Fu un tutto cui non pensavo. Ero trasportato dalla musica a respirare un tutto esteso oltre lo spazio e il tempo: un sentore d’eternità. Mi sentivo della razza di Leopardi autore de L’infinito. Ma era una labile andata al dicibile. Chissà se l’intellettuale cantore di Recanati provò l’indicibile che io provai? Altro che opera d’arte, per me! Opera d’arte della suggestione che mena al di là d’uno straordinario componimento.
  Contrarietà, logorii, sono costanti di qualsiasi situazione e condizione. Non immagino come sarebbe proseguita la mia esistenza contadina, finalizzata a un sentire contemplativo. Di certo, non si vive di solo pane e nemmeno di sogni. Il pane scarseggiò; la fine giunse precoce.
  Valendomi del diploma di capitano che avevo messo da parte, navigai a bordo di una carretta, toccai oltremare le coste esotiche americanizzate. Sedetti a una scrivania di terra ferma, avendo scelto un’esistenza più ordinata e normale. Inseguii ambizioni di creatività, esulanti dall’ufficio. Inseguii il grande amore, l’amore connesso a un’attrazione incredibile, che rischia di assorbire l’esistenza intera: quel trasporto, per intenderci, che in alcuni degenera in passione insensata. Tre volte, calzai la rara scarpa per il mio piede; calzata a lunghi aridi intervalli colmi di attesa. Per tre volte mi diede un’infelice felicità.
  L’amore forte, sia pure ricambiato, presume di sé, presume di fare a meno delle morali concordanze. Per sua virtù, presumevo di comporre un assortimento di me e dell’amata, cui sarebbe occorso ben altro. L’innamoramento… È consueto che sia quanto mai esigente dell’impeccabile correttezza, quanto mai delicato e soggetto a corrompersi. Esso scopre le nostre pecche meglio nascoste, porta a galla la nostra miseria, il nostro difetto di bellezza interiore: mancanza dell’Amore per eccellenza, che compatisce, sopporta, è caritatevole.
  Da quante lezioni, maggiormente proficue di qualsiasi corso di psicologia, non sappiamo trarre profitto! Ci vorrebbe una grazia eccezionale, quando non si attinge alla grazia e all’istruzione della fede. Ed era questo il caso mio.
  Alla lunga, un insegnamento lo recepii. Peccavo di pervicacia piuttosto che di incostanza e scoraggiamento, ciononostante mi persuasi che stavo cercando una remota combinazione, una speciale attrattiva in un rapporto di speciale armonia: il classico ago nel pagliaio; e chiusi definitivamente la partita, dopo l’ultimo fallimento sentimentale.
  Non che, frattanto, per lustri e decenni fossi rimasto spento dei gratissimi fuochi e tersi chiarori con i quali si perviene al fortunato trascendimento: riaccensioni e voli insperati, in concomitanza con ricordi d’infanzia, con accompagnamenti musicali di film rimasti nel cuore, con visite alla strada della dimora abitata da bambino, prendendovi insieme, una volta o due, la donna del momento, l’amore spurio del momento, ascendendo con esso mondato.
  Dovetti immaginare di pormi alla coltura delle vaghe beatitudini. Lungi dall’essere fiori di serra, sbocci coltivati, non ne intravedevo il controllo. La loro inafferrabilità, che richiama alla mente gli effetti delle sedute spiritiche, dove il prodigioso sfugge e può mescolarsi alle finzioni senza che il medium padroneggi e comprenda i termini dell’evento, la loro sfuggevolezza doveva dissuadermi dal farvi sopra dei progetti. Lessi alcuni autori esoterici, m’interessai alle loro teorie. Le pratiche magiche, le ascesi, parevano riservate a predestinati, specialmente dotati per l‘iniziazione. In definitiva, nessun metodo certo, nessuna possibilità di impossessarsene.
  Quando più tardi mi sarei convertito alla nostra religione, avrei compreso che le esoteriche elevazioni al di sopra della natura umana, le gnostiche divinizzazioni, sono in realtà luciferine, sono operazioni del maligno, nella stessa sfera del soprannaturale spiritico. A quel tempo, non ero ancora in grado di sospettare delle splendide felicità senza Dio, incluse quelle che non l’offendevano e che nondimeno Egli permetteva.
  Dunque, lustri e decenni se ne erano andati col solo vantaggio consistente di aver raggiunto l’età per avere una minima pensione. Ne approfittai e mi congedai dall’impiego. Covava costante in me l’antico amore cosmico, suscitato nel tempio della natura. Il buon matrimonio che contrassi dopo le dimissioni e l’andata in quiescenza, buono come può esserlo siffatta società di esseri difettosi e, per di più, lontani dalla Chiesa, quel legame, da parte mia, sostanziato di normale attrazione e d’affetto, non m’impediva di assumere un nuovo impegno in campagna.
  Acquistai tre ettari di terra mezzo incolta, mezzo coperta d’un vigneto annoso, nodoso, con al centro un pozzo, una quercia, un casotto di mattoni e tegole all’ombra d’una quercia. Un treno preso al mattino, un tratto in automobile sulle giravolte stradali tra le prode, tra i campi e attraverso i borghi; quindi: sul terreno dell‘impegno, della fatica. Fatica accetta, per condurre, per apprendere, per apportare miglioramenti e per attrarre la felicità dei verdi anni, una felicità solitaria, da anacoreta.
  Ma anacoreta non ero. La potatura, l’abbattimento di alberi morti o dannosi, la costruzione di una passerella sul fosso, la pala meccanica chiamata a rincalzarne gli argini affinché, gonfiato dal nubifragio, il fosso non straripasse tra i filari bassi e, oltre ai lavori stagionali, attraverso gli anni, le maggiori imprese: dallo scasso e l’impianto di una vigna novella, alla costruzione della casa, furono tutte occupazioni più che altro a compensazione dell’essere rimasto a bocca asciutta: la bocca asciutta dello spirito. Ero cambiato; le giovanili energie sprigionantesi in ogni direzione si erano affievolite. Eppure quei portenti che m’erano appartenuti, non erano scomparsi a causa d’una mia sostanziale diminuzione. Io restavo io. Ne avevo avuto la prova una volta, una volta sola.
  Quella volta, usavo ancora il casotto degli attrezzi, dove mi cambiavo, dove c’era una stufa che accendevo prima del pasto, dove mi ricoveravo in caso di pioggia sopravvenuta.
  Il pomeriggio invernale era quieto, sereno. Oscurità, bruma e freddo sarebbero venuti tra qualche ora. Andavo e venivo negli interfilari leggermente digradanti, presso estese ondulazioni arabescate di viti spoglie e di pali irregolari. I fili di ferro rugginosi accompagnavano gli ordini delle vecchie viti dai ceppi neri, somiglianti a fossili. Affastellavo i sarmenti della potatura sparsi sul suolo asciutto e dormiente. Avrei raccolto le fascine all’imbrunire. La avrei ammonticchiate in biche da incendiare nel buio fitto, negli spazi tra un salice e l’altro, lungo la sponda del fosso erbosa e strinata dal gelo.
  Ora, tutto intorno era calmo, visibile, dorato da un sole guardabile, in una sospensione senza tempo, di cui non importava la durata. Ed io andavo con passo lento e solido, avanti e indietro, passando sotto o vicino a un ciliegio grandioso, che stendeva i suoi rami levigati e glabri. Cantavo e ricantavo il motivo della vecchia canzone ascoltata alla radio venendo in macchina, trasmessa da un’emittente locale. Una coltre immensa e trasparente si estendeva attorno, allontanando il mondo, sospingendolo nelle sue età trascorse. Una sordina era calata sulla mia città, sul tragitto ferroviario, sulla stazione e la cittaduccia, sulla statale che da essa si dipartiva fiancheggiata da capannoni, sul resto di strada da percorrere, prima e dopo il paesino col castello. Una sfocatura irreale confondeva la strada prossima, gli intonaci scialbi di un casolare, l’ultimo asfalto e l’ultimo scialbo battuto di cemento. Nello sconfinato isolamento sorgeva l’imperituro uscito dall’opera umana combinata con quella della natura. Due vite, due opere, la cui grazia superava la vicenda mortale. Ricevevo quella sorta di grazia ultraterrena con la sottile commozione della mortalità.
  Ripeto che sono idee e figure di poi, distanti dal godimento ineffabile, distanti almeno quanto lo sono i versi del vate dalla poesia che abbia potuto stare in seno a lui inesprimibile.
  Fu in mezzo a quei filari allevati da un oscuro piantatore, in quell’ordine dato alla vegetazione, in quel silenzio che copriva il mondo e lo riduceva al tempo immoto, per cui il nuovo più crudo è compreso nel vecchio, e il vecchio nell’antico, che tutto ha espiato lasciando candide ossa. Fu lì, che ebbi l’ultima sensazione d’aver avuto il massimo dalla vita, il dono desiderabile.
  Gli amanti vivono nella trepidazione di perdere il loro bene, o che il loro amore sfiorisca. A me non successe alcunché di paragonabile. Il mio pomeriggio fantastico, il mio tesoro scomparve tra le caducità, nell’inarrestabile e cangiante divenire delle albe e dei tramonti, senza che in seguito provassi un rammarico vero e proprio.
  Di lì a pochi anni, come ho anticipato, tornai alla fede seriamente, con tutti i crismi. Imparai che felicità è soltanto l’essere in grazia di Dio, e che questo stato, generalmente e provvidenzialmente, non coincide con la sentita felicità, piuttosto con una certa pace. Presumo che per la santa felicità ci voglia una grazia supplementare, che non è da procurarsi con una precisa intenzione e tanto meno da esigere per remunerazione.
  Tuttora, mi prendono fuggevoli stati d’animo del genere che ho provato a descrivere. Ne sono contento e, lì per lì, ne resto un po’ sconcertato. Subito dopo, evitando di compiacermene e di volerne fare una pratica, mi arrendo alla mano del Signore.

  Ho spedito il componimento al mio amico. Ho ricevuto la sua completa approvazione. Ciò credo si debba al fatto che siamo più somiglianti di quanto ci sembrasse di essere. O forse, a una certa età, per i credenti è più facile comprendersi e collimare nei personali cammini.
  Egli mi ha scritto che sua nuora ha dato alla luce un nipotino. Abita in un appartamento accanto all’abitazione della propria discendenza. Le gioie domestiche esistono, certamente, ma niente sta fermo quaggiù, niente è al riparo. Egli ringrazia il Cielo per la sicurezza che solo Lui può dare a chi crede nella sua giustizia immutabile. E, di nuovo, siamo d’accordo.


Piero Nicola

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