venerdì 30 gennaio 2015

Giovanni Pascoli e gli animali da cortile

 Quasi sollecitata dall'intenzione di smentire la sentenza dantesca sulla "circular natura", che "non distingue l'un dall'altro ostello" (Par. VIII, 127 e 129) e perciò impedisce la trasmissione delle virtù da una generazione all'altra — ”esser diverse convien di vostri effetti le radici" —  ecco farsi avanti la giovanissima Maria Cristina Solfanelli, a rappresentare, mediante una dotta e affettuosa lettura della passione animalista di Giovanni Pascoli, la continuità delle virtù familiari oltre i limiti stabiliti dalla genetica dantesca.
 Una inconsueta, imprevedibile irruzione, quella di Maria Cristina, che viola l'antica, collaudata legge contemplante le ineguali attitudini e virtù dei discendenti da un unico ceppo, nel suo caso la profondità della critica letteraria e l'eleganza della scrittura dei Solfanelli, Marino e Marco. 
 Notevoli e sorprendenti le felici qualità della giovanissima, esordiente scrittrice. Maria Cristina è nata nel 1991 ma adulta è la sua passione per il vero, il suo senso del bello, la sua precoce e straordinaria erudizione, la sua (oggi rara) familiarità con il vocabolario e con la sintassi, la limpidezza del suo stile, il calore che rovescia (ad esempio) nelle limpide pagine dedicate agli animali di casa Pascoli.
 Un italiano autentico e armonioso, vibra nelle pagine dell'autrice dell'avvincente saggio Pascoli e gli animali da cortile, edito da Tabula Fati in Chieti. Un'opera di erudizione, che affida a pagine di bella e attraente scrittura le non facili questioni sollevate dalle scortesi dispute di filosofia e letteratura di fine Ottocento. Obiezioni ripetute dalle febbrili e nascostamente settarie allergie, che prudono nei cuori spenti dei cittadini della nuova Babilonia. Ostacoli che Maria Cristina affronta e ridicolizza con autorità sorprendente in una scrittrice giovanissima.
 L'ammirazione di Pascoli, infatti, è sconsigliata dal potere culturale instaurato dal debolismo in circolazione nelle rughe mentali degli scolarchi, menomazioni scavate dal positivismo & dal materialismo, chimere filosofiche, costituzionalmente refrattarie alle emozioni destate dagli incantesimi della vera poesia, specialmente di quella pascoliana, che confina colpevolmente con il mistero, all'ombra del destino ignoto. 
 Scrive Maria Cristina: "Le tematiche che il Positivismo rifiuta di affrontare, e che Pascoli via via elabora nel suo pensiero e nella sua poesia, appartengono alla sfera che ciascuno intuisce oltre la realtà fenomenica, cioè al mondo dell'ignoto e dell'infinito, alla dimensione e al problema dell'angoscia dell'uomo e al sentimento della fine della vita" .
 La sciatteria meccanica e progressiva ha ridimensionato e censurato l'alta parola del poeta, che esaltò la "patria nobilissima su tutte le altre", l'Italia romana, grande proletaria che ha combattuto per conquistare la quarta sponda, sede di un futuro diverso dall'umiliante emigrazione nelle Americhe.
 La solidarietà con il popolo italiano è espressione di alcune scelte di fondo "che Pascoli rivolge soprattutto alla ricerca di ciò che è buono, di ciò che migliora l'individuo e di ciò che ne assicura un reale sviluppo, egli, infatti sogna una società di piccoli possidenti rurali", e perciò apprezza l'intenzione italiana di conquistare le terre che la colpevole neghittosità dei libici consegna all'avanzante deserto.  
 La censura laicista, inoltre, nasconde come una vergogna i versi religiosi del poeta dell'Angelus, dell'Avemaria, della Buona Novella, di Suor Virginia, del Viatico.
 La coscienza dell'oscurità che avvolge l'universo - "nella prona terra troppo è il mistero" - dispone il poeta romagnolo a "dare voce alla sensibilità e all'innocenza infantili, presenti in noi pur quando si diventa adulti".
 Una disposizione che disturba la frotta laicista, caduta in ammirazione, in ossequio al foglio d'ordini scalfariano, del tenebroso nichilismo neognostico, in corsa dalle funeree Operette morali alle colonne del desolato progressismo.
 Il fanciullino, dunque, non è figura di uno squallido tenerume, ma il simbolo dell'invincibile purezza del sentimento che sfida l'impotenza della ragione. 
 Al lettore d'oggi il testo di Maria Cristina consiglia di distinguere l'amore che Pascoli nutre per gli animali dalla suggestione che agita gli animalisti, in corsa sulla pista di un panteismo de noantri, finalizzato allo svilimento della dignità umana.
 Pascoli non essendo vittima di tali stati d'animo diede ali poetiche al suo amore per tutti i viventi: "Nella sua opera di scavo, in cui il mondo animale e quello - più esteso - della natura tratteggiano le segrete corrispondenze con la vicenda esistenziale del poeta, cioè di creatura vivente che in quanto soffre si conosce, giunge a delinearsi pienamente la coscienza delle cose e a tramutarsi, appunto, in contenuto di ricordo". 
 Negli scritti pascoliani, peraltro, gli animali sono spesso associati al lavoro dei campi "e a quel mondo agreste e contadino che rappresenta per il poeta la dimensione alternativa alla società industrializzata e tecnologica dei suoi giorni".
 La simpatia di Pascoli per gli animali non nasconde le differenze strutturali e non naufraga nel delirio egalitario che agita gli ecologisti estremi. La superiorità dell'intelletto umano, la differenza che corre tra il tempo degli uomini e la truce ora dei lupi non è in discussione, e lo ricorda opportunamente l'autrice: "Tutti gli animali ignorano la realtà della Morte, eppure ne hanno paura e la fuggono per istinto. L'uomo, invece, ne ha piena consapevolezza e riconosce quella presenza come incalzante e minacciosa".
 L'animalismo poetico di Pascoli, inoltre, è impastato in quella nostalgia della fede, che lo ispira ad  invocare i fanciulli, che accompagnavano il Viatico ai morenti, affinché si ricordassero di lui nell'ora ultima.
 Tormentato dalle sciagure della famiglia, Pascoli si aggirava nel labirinto in cui la ragione è estenuata dalla ricerca d'una via d'uscita. Se non che il poeta della Romagna solatia non fu cittadino del macchinale, umbratile labirinto progettato dall'ateismo, che fu concepito sotto il pallido, elucubrante cielo di Francia e di Germania. (Al proposito è qui doveroso rammentare il pregevole saggio di Lino Di Stefano sul Pascoli insigne latinista e poeta latino). 
 Acutamente Maria Cristina definisce uno stato d'animo nel quale si è quasi tentati di leggere l'anticipazione dell'insorgenza contadina di Strapaese: "Nella prosa Il settimo giorno, Pascoli giudica la nuova realtà in termini di una regressione che allontana ancor più l'uomo dal mondo animale e naturale e da quel che di buono può venirgli da esso. La metropoli industriale è, a sua parere, luogo sfavorevole al progresso dell'homo sapiens, e i lavoratori cittadini assoggettati ai ritmi e ai rumori delle fabbriche sono equiparati a una mandria ammaestrata di bruti".   
 Corre una incolmabile distanza tra la natura secondo Pascoli e la natura idolatrata dai naturalisti inquadrati nel partito ecologico. Maria Cristina sostiene, con ragione, che la natura, nell'opera di Pascoli, è un'allegoria dell'oblio, misericordioso, nel quale sprofondano le memorie dolenti: "Nella lirica Nebbia, Pascoli chiede aiuto e protezione proprio alla natura. La nebbia, infatti, è invocata affinché nasconda una realtà lontana, come l'infanzia e la giovinezza, per lui fonte di memorie troppo dolorose".
 Il libro di Maria Cristina Solfanelli oltre che una lezione di stile offre ai lettori l'opportunità di conoscere e frequentare il Pascoli poeta italianissimo, censurato dai resistenti alle belle lettere e dai nemici della bella lingua.

Piero Vassallo

Nessun commento:

Posta un commento