venerdì 13 gennaio 2017

Il Bello secondo san Tommaso d’Aquino (di Paolo Pasqualucci)

     Sommario:  a. La nostra epoca ha smarrito la vera nozione del bello.  b.  L’origine divina della bellezza.  c. Il bello come “debita proporzione” e “consonantia” delle parti nel tutto e dell’ente con Dio.  d. La bellezza come “clarificatio” ossia splendore, luminosità, luce nella quale la “proportio” delle creature si perfeziona secondo il fine loro proprio.   e. La bellezza come “integrità” e “perfezione”.  f. Il bello come “delectatio” individuale del bello in sé.  g. Il bello in senso trascendentale. 

Un tema oggi inconsueto:  la nozione del bello secondo san Tommaso d’Aquino.  L’arcigna Scolastica, apogeo del Medio Evo nella speculazione, si è dunque occupata del senso del bello, ha elaborato un’estetica?  Certo che se n’è occupata ed esiste ovviamente una letteratura specialistica al riguardo, debitamente citata ed egregiamente discussa nel libro che andiamo a recensire.  Dal punto di vista dell’uomo della strada può, tuttavia, sembrar buffo andare a ritrovare l’idea del bello proprio nel pensiero medievale, noto per il suo dogmatismo e la sua tendenza al misticismo, e in fama di aridità per quanto riguarda la considerazione dei sentimenti e delle passioni degli uomini.  La rivalutazione della bellezza nella nostra vita non è apparsa soprattutto con l’Umanesimo e  il Rinascimento, per l’appunto dopo le eccessive chiusure medievali alla dimensione sensibile-sensuale della nostra esistenza?   Certamente, però con una impostazione antropocentrica che ha finito con il separare il bello dal divino, innescando in tal modo un processo involutivo, che sembra giunto (si spera) al suo ultimo stadio proprio nelle aberrazioni della nostra epoca, affogata nella carnalità.

a.  La nostra epoca ha smarrito la vera nozione del bello
  Credo che poche epoche della storia abbiano, come la nostra, necessità di riacquistare un’autentica nozione del bello. Il nostro tempo è purtroppo caratterizzato dai cattivi costumi presentati come se fossero virtù, dalla volgarità, dal pessimo gusto, da una bruttezza manifesta e ovunque diffusa.  Basti pensare alle forme sbilenche, storte, contorte che dominano nelle arti figurative e persino nell’architettura, ove ci si compiace di costruire edifizi senza capo né coda, rannicchiati in volumi enormi e sfuggenti da tutte le parti o storti, obliqui, pencolanti, come se dovessero crollare da un momento all’altro o disperdersi in un’onda di vetro-cemento.  C’è il culto della forma impura:  anche certi famosi grattacieli altissimi e sottili sembrano contorcersi; e quando no, appaiono comunque fuor di proporzione nei loro segmenti, che rinviano all’immagine di pezzi di materia, di schegge, di frammenti, non si sa perché rivolti in alto.  L’architettura contemporanea, nelle sue ultime forme, sembra inseguire l’idea del disordine, del caos, come se le costruzioni dovessero rappresentare elementi in rivolta.
 Ma la bellezza dei corpi umani, che mai come oggi sarebbe vicina alla perfezione delle forme, della quale tanto si vanta il Secolo ipernutrito e iperpalestrato, quella non conta?  Il fatto è che tutta questa “perfezione”, oltre ad apparire fredda, asettica, muscolare ed esibita in modi non conformi al decoro e alla pudicizia, troppo spesso è frutto di artificio, di sapienti e meno sapienti chirurgie estetiche.  Ciò si nota soprattutto in molte donne di oggi.    
Per non dir nulla della bruttezza addirittura allucinante nella quale è caduta l’architettura religiosa, che, nella migliore delle ipotesi, appare seplicemente insignificante.   Chiese cattoliche con facciate da cinematografo o grandi magazzini, o inespressive; chiese circolari, come grandi torte schiacciate e con campanili ridotti ad inespressivi simboli filiformi.  Un esempio forse inarrivabile di questi orrori è la nuova chiesa costruita a Fatima, sul luogo delle celebri apparizioni mariane di un secolo fa. 
Difficile negare che il nostro gusto si è corrotto di pari passo con i nostri costumi.  Anzi, si potrebbe dire che la depravazione della nostra sensibilità estetica è cominciata già con la musica atonale, il surrealismo, l’astrattismo, ben prima dell’esplodere del consumismo di massa, della Rivoluzione Sessuale,  della ribellione della gioventù nel 1968, della pornografia,  e, per quanto riguarda l’Italia, delle oscene volgarità disseminate nei vergognosi film della c.d. “commedia all’italiana”, imperversanti negli anni Settanta del secolo scorso.   A nulla potevano servire le critiche e le denunce avanzate da isolati osservatori anticonformisti sulla decadenza e in pratica l’estinzione delle arti figurative (per non parlar della musica e della letteratura) possedute da uno spirito sempre più deviato e tenebroso[1].  L’imbarbarimento dell’arte “ufficiale” continua oggi all’insegna di una vera e propria “estetica del disgusto”, cioè di una produzione (in genere priva di vero talento) che vuole scandalizzare e addirittura suscitare disgusto e repulsione: tipico prodotto di quello che  si può definire un vero e proprio “inverno della cultura”[2].
Recuperare l’autentico senso del bello sembra pertanto di vitale importanza per il futuro della nostra civiltà.  Ben venga, allora, l’eccellente studio di Miriam Savarese, tesi di dottorato così intitolata:  La nozione trascendentale di bello in Tommaso D’Aquino[3].

b.  L’origine divina della bellezza
Preceduta da una breve Introduzione e seguita da una brevissima Conclusione, l’opera si divide in cinque capitoli.  Un breve Quadro storico delle concezioni medievali del pulchrum anteriore all’Aquinate precede l’analisi approfondita del suo pensiero, così suddivisa: Gli elementi del bello (cap. II), la visio e il piacere (cap. III), i trascendentali (cap. IV), il trascendentale pulchrum (cap. V).
Dati i limiti di una recensione, l’ampiezza e la complessità dei temi trattati, mi concentrerò in prevalenza su “gli elementi costitutivi del bello”, ovvero sul fondamento metafisico dell’estetica dell’Angelico, senza ovviamente trascurare la parte più impegnativa del libro, dedicata alla “nozione trascendentale” del bello.  Infatti, il concetto trascendentale del bello (che non è ovviamente quello kantiano) non compare esplicitamente in san Tommaso e va ricostruito all’interno della sua complessa dialettica di bonum-verum-pulchrum, impresa a mio avviso realizzata dall’Autrice con pieno successo (vedi infra, § g), a conclusione di una ricerca che sviluppa e approfondisce in modo originale anche gli spunti offerti dalla letteratura specialistica più recente.   
La riflessione estetica di san Tommaso non nasce come un fiore nel deserto ma si inserisce in una problematica già presente nel pensiero cristiano a lui anteriore e nella stessa tradizione patristica, come dimostrano i riferimenti a sant’Agostino e a Dionigi l’Areopagita (Pseudo-Dionigi), riportati nel Quadro storico.   
Il pensiero medievale, immerso nella visione cristiana della vita, non separava il mondo sensibile dall’intelligibile, il materiale dallo spirituale, intendendo sempre tutto all’insegna dell’unità del creato, opera di Dio onnipotente.   A rivalutare questa sua prospettiva, ci sono stati nel passato importanti contributi, tra i quali gli studi di Umberto Eco (sulla sensibilità estetica medievale e sul pensiero estetico di san Tommaso), ripubblicati di recente da Bompiani (certo, di un Eco ben diverso dal posteriore autore di quel  feuilleton anticattolico che è il suo noto romanzo Nel nome della rosa), studi ai quali l’Autrice di frequente si riferisce, a volte in garbato e motivato dissenso[4].
In sant’Agostino e nei filosofi cristiani la bellezza viene colta come “species” (aspetto, bellezza, forma), attribuita soprattutto al Figlio, Seconda Persona della Santissima Trinità.   Fattori di bellezza sono “armonia e soavità di colore”.  Ma il bello, originandosi da Dio, ha anche i caratteri del bene (modus, species, ordo) e vi è una tendenza costante a contrapporre una superiore bellezza interiore  a quella esteriore[5].  Questa tendenza a concepire la bellezza in modo spirituale e in sostanza mistico, si basava anche sulle nozioni filosofico-scientifiche dell’epoca. La Scuola di Chartres, ispirandosi  al Timeo platonico e a Boezio interpretava il cosmo come ordine dotato di un’interiore armonia mentre si sviluppava un’estetica della luce, fondata anche sugli studi scientifici sulla luce  ad opera dei Francescani.
“La luce è sorgente di bellezza, perché costituisce la sostanza stessa del colore e, nello stesso tempo, la condizione esteriore della sua visibilità; di volta in volta, essa viene presa in considerazione con un’ottica mistica, metafisica o scientifica, ma la sua importanza rimane sempre confermata”[6].  Fioriva anche una estetica della proporzione (consonantia), che autori come Eco vorrebbero in contrasto con quella della luce, tesi assai dubbia secondo Savarese.  In ogni caso, il modo di intendere la bellezza era sempre metafisico. “Il problema principale che si trovarono di fronte coloro che affrontavano la sistemazione teorica del bello fu proprio la sua integrazione con i trascendentali, in particolare con il verum  e il bonum:  per difendere la dignità del pulchrum era necessario, da un lato, mostrare che non era in opposizione ad essi, anzi per certi versi vi si identificava (e fu questa, soprattutto prima di Tommaso, la principale preoccupazione), ma dall’altro divenne poi necessario garantirne la distinzione, altrimenti l’identità e la consistenza propria della bellezza sarebbe scomparsa.  Si tratta del filo rosso che percorre tutta la riflessione di Tommaso d’Aquino in merito”[7]
Nella Summa Theologiae si trova una sua notoria definizione del bello come “ciò che piace alla nostra vista”, che evidentemente lo trova bello:  “Pulchra dicuntur quae visa placent”. Prima di analizzarla nel III capitolo del suo libro, Savarese, con procedimento metodologicamente ineccepibile, ci illustra “gli elementi del bello” risultanti dalla riflessione teoretica dell’Aquinate.  Elementi che potremmo definire oggettivi, nel nostro modo di esprimerci, se non fosse che tale modo mal si adatterebbe al pensiero dell’Angelico.  Savarese preferisce, pertanto, parlare qui di “elementi costitutivi”, lasciando da parte la distinzione di oggettivo-soggettivo, tipicamente moderna[8].
Il testo nel quale compaiono al meglio i tre “elementi costitutivi” di questo concetto si trova nella Summa Theologiae, I, q. 39, a. 8 co.:
“Infatti per la bellezza sono richieste tre cose.  Per primo, l’integrità o perfezione, infatti le cose che sono menomate per ciò stesso sono brutte.  E la debita proporzione o consonanza.  E per secondo lo splendore, da cui le cose che hanno un colore brillante sono dette belle”[9].
Una prima formulazione del concetto del bello si ha nel commento tommasiano ai Nomi Divini dell’Areopagita.
“Perciò, anche se nelle creature il bello [pulchrum] e la bellezza [pulchritudo] differiscono, tuttavia Dio li comprende entrambi in Sé, secondo l’uno e l’identico”.  Pertanto:
Bello si dice “ciò che partecipa della bellezza”; si dice bellezza, invece, la partecipazione alla Causa Prima che fa “belle” tutte le cose:  la bellezza della creatura, infatti, non è altro che la somiglianza alla bellezza divina partecipata nelle cose”[10].   Il bello, riferito all’ens, partecipa di una bellezza che rinvia di per sé alla bellezza “che è Dio”.  Il pulchrum è dunque il bello concreto, la cosa bella, si potrebbe dire, che appartiene al regno di questo mondo pur non essendo scissa dalla realtà di Dio, senza la quale, oltre a non esistere, non sarebbe nemmeno bella.  Mi viene in mente il famoso verso di Keats: 

A thing of beauty is a joy for ever;
Its loveliness increases; it will never
Pass into nothingness….[11]

Non voglio certamente attribuire al sensuale e sontuoso classicismo di Keats una concezione cristiana del bello e tuttavia si vede come il suo verso voglia esprimere, con felice intuizione, il significato eterno della bellezza della cosa bella, anche se tal cosa possa sembrar bella solo esteriormente.  Da qui la domanda: l’eternità del bello come può concepirsi senza credere che essa partecipi, anche solo come un’ombra, dell’eterna bellezza di Dio?
Ma come può effettivamente il bello terreno, la “cosa bella” partecipare alla bellezza “che è Dio”, costituente uno degli attributi della sua assoluta perfezione?  Tale possibilità è giustificata in base all’articolato concetto di partecipazione, uno dei pilastri della metafisica dell’Aquinate, tratto da Platone ma da lui originalmente rielaborato[12].  Dio è lo Ens subsistens o Esse per essentiam mentre “le creature sono l’essere partecipato, composto di essenza e atto di essere”, composto cioè non solo di ciò che lo fa essere ciò che è (la sua essenza o sostanza) ma anche (necessariamente) dell’esistenza in atto, in quanto ente creato appartenente alla realtà.  L’actus essendi è il risultato della creazione che Dio fa dell’ente, ex nihilo.  Le “partecipazioni” sono “le formalità secondo le quali i doni di Dio sono divisi nelle creature, che ne partecipano in quanto li ricevono in modo parziale”.  Pertanto, il pulchrum e la pulchritudo  sono in Dio per essentiam mentre nelle creature lo sono per partecipationem[13].  Con questo nesso, essenza-partecipazione dell’essenza all’ente creato, si spiega l’origine della bellezza nella creatura:  Dio ne è la “causa prima”[14].
All’interno di questo nesso teoretico fondamentale vanno situati gli “elementi costitutivi” del bello secondo san Tommaso.  Essi sono:  “integrità o perfezione (integritas sive perfectio), dovuta proporzione o consonanza/armonia (debita proportio sive consonantia) e luminosità/splendore (claritas)”[15].
Sulla base di questi concetti, anche se non sempre impiegati tutt’insieme, l’Angelico propone alcune definizioni del bello.  Commentando l’Areopagita, scrive che egli mostra “la ragione della bellezza soggiungendo che Dio “trasmette bellezza in quanto è ‘causa dell’armonia e dello splendore in tutte le cose”.  Ne consegue, prosegue san Tommaso, “che bisogna intendere proporzionalmente il bello in tutte le altre cose, perché ogni cosa si dice bella in quanto ha lo splendore del suo genere, o spirituale o corporale, e in quanto è costituita secondo la proporzione dovuta (In De Div. Nom., c. IV, 1.5, 339)”[16].

c.  Il bello come “debita proporzione” o “consonantia” delle parti nel tutto e dell’ente con Dio
L’idea di intendere “proporzionalmente” il bello è dell’Aquinate, così come quella di una proporzione dovuta o debita proportio.  Riprendendo questi concetti nella Summa Theologiae, egli distingue tra bellezza corporea e spirituale: “la bellezza del corpo consiste nel fatto che l’uomo ha le membra del corpo ben proporzionate, con una certa chiarezza del debito colore.  E similmente la bellezza spirituale consiste nel fatto che il genere di vita dell’uomo, o la sua azione, sia ben proporzionata secondo la chiarezza spirituale della ragione.  Ciò, infatti, appartiene alla ragione dell’onesto, che diciamo sia identico alla virtù, che regola tutte le cose umane secondo ragione.  E perciò l’onesto è identico al bello spirituale[17].
Ques’idea della consonanza o “ proporzione debita”, cioè dovuta, giusta, mi sembra particolarmente interessante, meritevole di esser riproposta alla nostra riflessione, proprio perché la mentalità oggi predominante sembra compiacersi di ogni mancanza di proporzione, di ogni disarmonia, di ogni “trasgressione”, accettando che l’arte (ma anche la stessa natura) siano svilite a banco di prova di ogni possibile esperimento.
Cercherò di riassumere i complessi e profondi concetti dell’Angelico, interpretati con sagacia e  grande acribia filologica da Savarese.
L’idea di proporzione “attraversa, per così dire, tutta la riflessione di Tommaso d’Aquino”, assumendo “molteplici accezioni”.  Fondamentalmente, tale idea si presenta in due modi:  “un determinato rapporto [habitudo] di una quantità ad un’altra”; “un qualsiasi rapporto [habitudo] di una cosa ad un’altra”.  Il primo è quantitativo, misurabile, come il rapporto di due a uno in musica poiché l’intervallo di 8a  è maggiore del doppio della nota base.  La “proporzione” investe tutta la realtà, sia dal punto di vista quantitativo (esprimibile matematicamente) che qualitativo.  E questo perché tutta la realtà è strutturata secondo un ordine (ordo) stabilito da Dio. “E così ci può essere proporzione della creatura a Dio, in quanto essa la ha a Lui come l’effetto alla causa e come la potenza all’atto.  Secondo ciò, l’intelletto delle creature può essere proporzionato a conoscere Dio”[18].    
Allora il bello (pulchrum), in quanto “debita proportio”, si ritrova in tutti gli aspetti della realtà.  La “proportio” coinvolge il nesso, di origine aristotelica, potenza-atto:  “è la proporzione dell’atto in se stesso e quella della potenza all’atto”, esprimente un rapporto che va oltre la semplice “armonia di parti”[19].  Va oltre perché “è in essa e grazie ad essa che la realtà finita trova compimento e manifesta valore estetico”[20].
Sono concetti difficili, soprattutto per la nostra mentalità, abituatasi a navigare a vista, a galleggiare nell’indeterminato, nel sentimentale, nel puramente soggettivo, amorevolmente intenta a coltivare l’informe rappresentato dai propri istinti, quali che siano.
In ogni ente creato (uomo, animale, pianta) esiste questa “proporzione”, che possiamo definire, con l’Autrice, “ontologica”.  È la proporzione vigente tra l’essenza e l’ipsum esse o actus essendi (atto dell’essere), che è anche, in generale, proporzione fra materia e forma[21].
Questa proporzione, osservo, muove da una distinzione che successivamente essa stessa unifica.  La distinzione è tra l’essenza (o sostanza) dell’ente (aristotelicamente:  ciò per cui esso è ciò che è e non è altro da sé – principio di identità) e il suo essere, vale a dire il suo esistere in atto, concretamente, e non semplicemente in potenza, come mera possibilità di esistere. Perciò, “quella tra un’essenza e il suo atto di essere è la prima essenziale proportio che costituisce l’ente (escluso Dio, sia chiaro)”; ragion per cui, “senza di essa, essentia e actus essendi non potrebbero comporsi e nessun ente si darebbe”[22]
Il rapporto tra la potenza e l’atto è quello che “fonda la cosa [l’ente creato-NdR] in quanto esistente e, di conseguenza, anche la sua bellezza e la possibilità della sua fruizione”[23].   Pertanto, nella proporzione che regola il rapporto tra potenza e atto, atto e potenza, proporzione che viene da Dio, si ha già la proporzione che costituisce la bellezza degli enti, nel loro grado e ordine.   Questa proporzione è nella realtà delle cose, in quanto ordo creato e stabilito da Dio, e quindi si ha non solo  nell’atto intellettivo, l’atto del soggetto che conosce la realtà (il vero è consonantia tra l’intelletto e la cosa conosciuta) ma anche “tra il senso e il sentito”[24].
Qualitativamente, la proportio è quindi diversa a seconda della natura degli enti nei quali ha luogo e in questo senso è debita:  “è debita perché è quella che appartiene a ciascun ente in quanto tale:  la proportio di un ente corporeo è diversa da quella di una realtà spirituale”[25].  È quella che gli spetta per natura, potremmo dire.   Allora la rappresentazione artistica dell’ente – mi chiedo – non dovrebbe comunque cogliere questa proportio?  Si tratta di una relazione il cui fondamento è metafisico: cogliere, allora, il fondamento metafisico della bellezza.  Metafisico e, in ultima analisi, divino. 
Esistono vari tipi di proportio:  “la proportio di ciascun ente, che sarà differente a seconda dell’ente in questione” e “la differenza che passa tra proporzione delle realtà corporee e di quelle spirituali”.  In quest’ultime è ricompresa “la proportio morale degli atti umani, che ha come termine di riferimento la ragione”[26].
La proportio estetica è quella che “fonda la bellezza tra gli enti”.  In essa si esprime la proporzione degli enti a Dio.  Infatti, “è perché Dio è causa di ogni bellezza che gli enti sono belli”[27].
Ma, dirà il figlio del Secolo, non è astratta tutta questa costruzione, se riferita al concetto del bello?  Non ne dà una rappresentazione troppo spirituale, troppo elevata?  La bellezza sensuale, che attira vicendevolmente l’uomo e la donna, e dà, in generale, concreto significato estetico ai rapporti tra i sessi e con la natura, vi trova posto?  E se lo trova, non è esso relegato ad un ruolo ingiustamente secondario, contro ciò che ci mostra l’esperienza?  Qui cadiamo nel platonismo più deteriore, nella retorica delle anime belle:  gli amanti si trovano belli perché trovano belli i loro reciproci corpi, e questi vogliono godere! 
Rispondo:  esiste anche la retorica dell’eros, nata dal giusto desiderio di abbellire poeticamente il sostrato puramente sensuale dell’attrazione dei sessi.  Non si può negare che nella bellezza sensuale è all’opera il desiderio dei rapporti carnali, provocato a sua volta dall’impulso alla riproduzione, per il mantenimento della specie. Il desiderio dipende dal fòmite della concupiscenza, che ci spinge al piacere.  Ammesso da Dio, è ovvio, ai fini del mantenimento della specie umana mediante la riproduzione dall’unione del maschio e della femmina.   Ma questa bellezza è caduca perché legata alla sensualità della giovinezza (“Nulla cosa è sì fallace/ Quanto il tempo giovinile”), all’eros che seduce e inganna, tendendo quindi di per sé al disordine sentimentale e di vita.  La caducità ingannevole dell’eros si dimostra nel fatto che, se abbiamo senno, da vecchi, dopo esser stati feriti dalle tante spine nascoste nella rosa delle nostre passioni, ci appare transeunte, falso e persino volgare ciò che ci affascinava da giovani, spinti com’eravamo dalla molla della concupiscenza. E quanti errori vorremmo non aver fatto, in quell’epoca della nostra vita, ormai irreparabilmente trascorsa.
Per annullare il suo potenziale distruttivo, la bellezza sensuale, che non può certamente esser tolta dalla nostra vita, deve tuttavia esser sublimata nella disciplina della procreazione nel matrimonio e nella famiglia, come li ha stabiliti Dio stesso: trascendersi in valori più alti, che aiutino a goderne con la necessaria moderazione e temperanza.  Ciò dimostra che nella bellezza va cercata una ratio che va al di là del dato immediato della bellezza puramente sensuale, che non sarebbe d’altronde tale, per noi, senza il desiderio, soggiacente in chi la percepisce.  E questa ratio conduce alla fine a vedere in Dio la causa di ogni vera bellezza.
Il concetto del  b e l l o   non può quindi esaurirsi in quello della bellezza dei sensi, esso deve necessariamente trascenderlo, se vuol darsi un fondamento autentico.  Il “pulchrum” non può essere limitato ai corpi[28].  Questo carattere trascendente della vera bellezza, lo si desume anche dall’importanza che l’Angelico attribuisce alla claritas ossia alla luminosità.

d.  La bellezza come “clarificatio” ossia splendore, luminosità, luce nella quale la “proportio” delle creature si perfeziona secondo il fine loro proprio
Questo secondo elemento del bello, considerato ratio pulchri  già da Alberto Magno suo maestro, risulta in modo meno diretto della proportio.  E tuttavia  Savarese dimostra che lo si può rintracciare chiaramente nell’Aquinate. Quest’aspetto è di particolare interesse poiché esso tratta il tema, a mio avviso essenziale, del rapporto tra la luce e il bello, dando fondamento teoretico all’idea della luce che deve rischiarare oltre ai corpi anche le menti, in modo che la rappresentazione del bello sia conforme alla verità  dell’essere, come stabilita da Dio.
Anche il termine claritas, che si può rendere con “chiarezza, splendore, luminosità”, possiede per san Tommaso diversi significati.  Di questi, ci interessa in particolare quello che illustra il rapporto tra claritas e lux.
La luce viene considerata nella sua capacità di manifestare le cose, vale a dire di permettere la visione e la conoscenza[29].  C’è quindi un nesso tra le due distinte realtà della luce solare e della luce interiore, proveniente dall’intelletto. Nella sua “capacità di mostrare, la luce appartiene più propriamente alle realtà spirituali.  Tutto ciò che è manifesto è clarum”.  La ratio della claritas è, allora, la sua “manifestatività”, sia sensibile che intelligibile[30].  L’Aquinate ha anche riflettuto a fondo, nella quaestio 67 della I parte della Summa, sulla natura della luce naturale, giungendo alla conclusione che essa non deve considerarsi “corpo”.  Non ha natura corporea  e non è la “forma sostanziale” del sole:  è una “qualità attiva “ del sole[31].
La “forma sostanziale”, lo ricordo, è quella che costituisce la sostanza stessa dell’ente, ciò per cui esso è in sé ciò che è e non è altro; sostanza che, dal punto di vista del significato, è la sua stessa essenza (come abbiamo visto, i due termini sono usati anche come sinonimi).  La luce sta a parte, è una “qualità”, che all’epoca di san Tommaso si riteneva si propagasse istantaneamente. Grazie alle scoperte e ai calcoli della scienza moderna, oggi sappiamo che la luce saetta all’altissima velocita’ di quasi 300.000 km/s, costituita di pura energia viaggiante sia come corpuscolo (fotone) che come onda.  Essa si propaga sempre in linea retta nel vuoto.  Cosa sia l’energia tuttavia non sappiamo.  Va notato che san Tommaso, che si basava anche sugli studi della scienza del tempo, aveva visto giusto nel separare la luce dal sole, in quanto fenomeni fisici:  dire che la luce non era la “forma sostanziale” del sole significava affermare che luce e sole erano, come tali, fenomeni diversi e che il sole non era fatto di luce, cosa a quei tempi forse non così ovvia come oggi[32].
La luce ha dunque caratteristiche e qualità proprie. Deriva dai corpi luminosi (sole, stelle) manifestandone la forma sostanziale (con la quale non coincide) e produce nei corpi, anche negli esseri umani, un “colorem nitidum”, cioè brillante, “che in quanto tale è segno di bellezza”, oltre che di “sanità in senso fisiologico”, secondo la concezione aristotelica dell’esser sani[33].  Nella claritas si ha dunque “il risplendere della forma”, sia in senso fisico che spirituale.  Come essa manifesta la forma sostanziale dei corpi celesti, così la manifesta nell’uomo.  Ma nell’uomo tale forma è costituita dalla sua anima, onde la claritas di uomini e donne sarà costituita dalla “radiosità” della loro anima[34].  Accanto allo “splendore sensibile” che proviene dalla luce sui corpi abbiamo allora uno  “splendore intelligibile”, costituito in noi dalla “resplendentia animae”, forma sostanziale del nostro corpo.  Dall’anima proviene anche lo splendore del “corpo glorioso” del Signore Risorto e quello che avranno i corpi dei risorti in Cristo.  La “luminosità del corpo” non ha una causa solo fisica, essa è sempre connessa alla claritas intelligibilis, che ha anche un significato morale.  Recita, infatti, la Summa:  “la luminosità del corpo rappresenterà la qualità della mente, quanto alla quantità di grazia e di gloria”[35].  Ovvero:  “dopo la resurrezione, la claritas del corpo esprimerà, renderà visibile, la mente di ciascuno”.  In tal modo essa dimostrerà il suo collegamento con “il vero” e “il bene”[36].
Può sembrare singolare – osservo – il nesso sistematico che l’Angelico istituisce tra la realtà fisica e quella spirituale e proprio in relazione ad un modo di essere o stato rappresentato dalla claritas, condizione che può sembrare anche evanescente o comunque solo temporanea.  Ma, a ben vedere, questo nesso, oltre ad esser giustificato di per sé, se non si vogliono separare arbitrariamente corpo e spirito (anima e corpo), lo ritroviamo affermato anche nella Sacra Scrittura.  Le acute riflessioni di san Tommaso, ci rimandano a un celebre versetto del Vangelo di san Matteo, là ove riporta il Discorso della Montagna, quando il Signore disse:
 “L’occhio è lume del corpo.  Se dunque l’occhio tuo è sano, il tuo corpo sarà illuminato.  Ma se l’occhio tuo è torbido, tutta la tua persona sarà nelle tenebre.  Se dunque la luce che è in te è tenebre, quanto grandi saranno queste tenebre?”[37].
La luminosità la vediamo nell’occhio, nostro e altrui.  L’occhio nostro è illuminato dalla luce che lo riempie dall’esterno allo stesso modo per tutti ma non ogni sguardo  è uguale all’altro poiché l’occhio appare limpido o torbido a seconda della claritas o delle tenebrae prevalenti dall’interno.  La luce di un occhio moralmente sano, come di chi vive sforzandosi sinceramente di fare in tutto la volontà di Dio, ci spiega il Signore, farà sì che “tutto il tuo corpo sia illuminato”.  Come a dire:  la claritas dell’occhio, specchio dell’anima, investirà tutto il tuo essere, il tuo corpo.  L’estensione potrebbe sembrare arbitraria o solo simbolica.  Eppure, chi non ha avuto, di fronte a giovani o a giovanette dall’aspetto semplice e virtuoso, ben educati e modesti, impressioni come queste:  che bello sguardo limpido, che impressione di semplicità, di pulizia morale, di purezza, in tutta la sua persona?  E lo sguardo limpido non è forse bello?  E la claritas che emana dalla persona che abbia l’occhio sano e bello, non è tale anche dal punto di vista estetico, oltre che etico?  L’occhio torbido è quello senza luminosità, che rende opaco ed anzi tenebroso anche il corpo, poiché il suo sguardo si è guastato in séguito ai peccati di una vita che trasgredisce la volontà divina.
La claritas dell’occhio sano risplende di una luce che è la stessa luce di Dio?  Possiamo affermarlo, purché si rammenti che tale luce nella creatura non è diretta bensì partecipata.  La bellezza-splendore di quest’occhio deve esser intesa come ogni bellezza di questo mondo:  come “partecipazione alla luminosità divina”[38], secondo la gerarchia dei vari gradi dell’essere.
La metafisica cristiana della luce, che, al contrario di quanto ritengono alcuni eruditi, non ha dovuto certo attendere gli influssi delle correnti mistiche mussulmane per costruirsi, ha sempre visto nella luce uno degli attributi di Dio. E Dio, nella sua bontà, ne rende partecipi in vari modi le creature, in senso sia corporeo che spirituale, nella bellezza esteriore e interiore: si veda il cap. IV dei Nomi Divini di Dionigi l’Areopagita, autore datato dalla critica moderna tra il V e il VI secolo.  San Paolo ci rivela che Dio “inabita una luce inaccessibile, che nessun uomo mai ha veduto né può vedere”[39].  Ma appunto la divina bontà ci ha reso “accessibile” la luce:  non quella “che Egli inabita” ma la radiazione che costituisce la luce in senso fisico, visibile, disponendo che sia emanata a beneficio della terra e nostro da stelle come il sole.  E in senso etico-estetico, nello splendore dell’anima gradita a Dio, quando si riflette nello sguardo limpido, nel quale l’interiore pulchritudo  morale diventa bellezza esteriore.

e.  La bellezza come “integrità” e “perfezione”
Nella bellezza appaiono anche integrità e perfezione.  L’idea della perfezione, come intesa dall’Aquinate, confluisce spontaneamente in quella del bello.  Esistono due tipi di perfezione, strettamente connessi.
“La prima perfezione è appunto secondo il fatto che la cosa è perfetta nella sua sostanza.  Questa perfezione è appunto la forma del tutto, che deriva dall’integrità delle parti.  Invece la seconda perfezione è il fine.  Invece il fine o è l’operazione, come il fine del suonatore di cetra è suonare la cetra, o è qualcosa al quale si giunge per mezzo dell’operazione, come il fine del costruttore è la casa, che realizza costruendo.  Ma la prima perfezione è la causa della seconda perché la forma è il principio dell’operazione” (S. Th. I, q. 73, a. 1, co.)”[40].
La prima, sottolinea Savarese, “è perfezione sostanziale e consiste (necessariamente) nella forma della cosa, che viene spiegata in riferimento all’integrità delle parti”.  Che vuol dire, qui, integrità delle parti?  Vuol dire “che la forma consta di tutte le parti che la res deve avere per natura”.  Infatti la  forma  “non è mai mutilata”.  Essa rimane perfetta anche se la res è mutilata, a meno che la parte mancante non sia tale da determinare un cambiamento sostanziale”[41].
Dunque, rilevo, l’integrità riguarda la forma e la cosa che la realizza in atto; tuttavia l’eventuale mutilazione della cosa non ne comporta una della forma, a meno che non si produca un cambiamento “nella sostanza” della cosa stessa.  Così un uomo non perde la sua forma-uomo se per disgrazia perde un arto; se però perde la testa, la conserva la forma-uomo?  Un uomo senza una gamba è ancora un uomo, un uomo decapitato diventa invece un cadavere.  Dire che la cosa, ossia ogni ente, è perfetta nella sua sostanza, significa affermare che essa è compiuta secondo la forma nella quale esiste.  Nel caso dell’uomo, quello di esser stato creato per essere ciò che è, un uomo e non qualcos’altro, completo di tutte le parti che organicamente costituiscono il tutto (individualmente determinato) dell’esser-uomo in atto.
La perfezione seconda, invece, riguarda non l’essere dell’ente ma il suo agire, che è sempre un agire per un fine.  Perciò concerne “un’operazione o il risultato dell’operazione stessa”.  Qui il fine non è costituito dal venire in essere stesso dell’ente, come entità perfettamente compiuta (integra) nella forma che deve avere; è costituito dallo scopo cui mira l’azione concreta dell’ente o soggetto consapevolmente agente, nel caso dell’uomo.  “La perfectio secunda consiste sempre nell’operazione ma a seconda del tipo di operazione di cui si tratta essa sarà compiuta  in se stessa oppure produrrà (o tenderà a) qualcosa al di fuori di sé, che in tal caso ne costituirà il fine.  Si può anche dire che la perfectio secunda consiste sempre nel fine, che è a sua volta sempre il fine dell’operazione”[42].
La “seconda perfezione” è dunque strettamente connessa al fine dell’azione, “è però la prima perfectio che è causa della seconda, perché la forma è principio dell’operazione e, in quanto tale, è da essa che si “sprigiona” l’automovimento che porta ad es. un bambino a diventare un adulto”[43].   La “forma” principio dell’operazione è la forma sostanziale, che costituisce la sostanza della cosa e in definitiva il suo stesso essere.  Essa si realizza nel movimento della crescita che, nel caso di specie, fa sì che il bambino diventi alla fine adulto.   La perfezione secunda completa il perfezionamento di cui è capace l’ente “ed è al vertice di tutta la perfezione possibile”, che non può mai esser “piena” per nessun ente finito, onde l’integritas che caratterizza la perfezione, nel senso pieno del termine, la si può attribuire solo a Dio, che è lo Ens  Perfectissimum. La perfezione limitata della quale è capace ciascun ente, è quella comunque “a lui propria”[44].
Nel passaggio dalla prima alla seconda perfezione opera sempre la proportio o convenientia:  esso non avviene casualmente, è ovvio.  Nel compimento (consummatio) dell’ente quando si realizza la seconda perfezione, si attua anche il massimo della bellezza. Ciò si deduce dalle riflessioni di san Tommaso sul significato del settimo giorno nel processo della creazione.
“Il sesto giorno la creazione è compiuta.  Il settimo giorno Dio si riposa e ne fruisce:  questo fatto, se poi ci darà preziose indicazioni sul bello, già ora indica che la compiutezza della perfectio secunda non fa altro che esprimere appieno le potenzialità della prima e porta con sé il “riposo”:  essa è legata con la Pax in cui si manifesta la proportio del cosmo.  Tra perfectio prima  e secunda c’è convenienza, l’una corrisponde all’altra, l’una non è compiuta senza l’altra, l’altra la completa”[45].    
La perfezione finale dell’universo deve tuttavia esser intesa in chiave escatologica e sarà rappresentata dal realizzarsi della Visione Beatifica: 
“Invece l’ultima perfezione, che è il fine di tutto l’universo, è la perfetta beatitudine dei santi; questa ci sarà nel compimento ultimo dei tempi [quae erit in ultima consummatione saeculi].  La prima perfezione, d’altra parte, che consiste nell’integrità dell’universo, ci fu nella prima formazione delle cose.  E questa è assegnata al settimo giorno. (S. Th., I, q. 73, a. 1. Co)”[46].

La prima perfezione fu sanzionata da Dio creatore quando, riposandosi il settimo giorno, benedisse dal suo riposo ciò che aveva creato, poiché, alla fine del sesto giorno, lo aveva trovato molto buono:  “Viditque Deus cuncta quae fecerat, et erant valde bona” (Gn 1, 31).  E se erano “molto buone” le sue opere, osservo, non erano anche molto belle?  Non risplendevano della claritas che Dio stesso, creandole, si era degnato di partecipar loro?
La perfezione che si compie nel settimo giorno della creazione, che è la perfezione di una realtà finita, come lo è quella dell’uomo e del mondo creati, verrà superata da un’ultima perfectio, costituita dalla “beatitudine dei santi”, dalla Visione Beatifica offerta alle anime degli Eletti.  Quella sarà la suprema bellezza, suprema felicità, nel trionfo della luce, come l’ha poi cantata Dante, che alla morte dell’Angelico (AD 1274) aveva nove anni, negli ultimi suoi Canti del Paradiso.  E nel viso dei Beati, come in quello di Beatrice, penultima guida del Poeta nel suo viaggio, apparirà una bellezza che non si può descrivere  in termini umani e solo Dio, “suo Fattor”, può perfettamente comprendere: 

La bellezza ch’io vidi si trasmoda
non pur di là da noi, ma certo io credo
che solo il suo Fattor tutta la goda[47].

I vari gradi nei quali san Tommaso vede l’attuarsi della perfezione, culminanti nella perfezione “ultima”, alla fine dei tempi, permettono a Savarese di affermare, a pieno titolo, che “che la perfectio estetica ha anch’essa due “livelli” e che anche il pulchrum da un lato e in primis è legato all’ente in se stesso, ma dall’altro si compie solo in un secondo momento”.  C’è quindi uno sviluppo, che non ha a che vedere con la moderna idea di progresso, totalmente antropocentrica ed immanente all’ordine che l’uomo stesso vuol dare al mondo, ma piuttosto con il rapporto tra la potenza e l’atto, tra l’essere che si realizza come ente finito e l’essere (il medesimo) che si realizza in Dio come realtà infinita ed eterna, nella quale l’ordine creato da Dio come ordine della natura e del cosmo viene sostituito per sempre da un ordine del tutto sovrannaturale.  Perciò, “se per Tommaso il cosmo è già ora ordine, è già ora bello, tuttavia questa bellezza non è ancora compiuta e lo sarà, escatologicamente, solo alla fine dei tempi:  la cosiddetta pancalía  medievale, che non si può certo sostenere Tommaso abbandoni, non va vista come un ottimismo cieco nei confronti dello stato di fatto delle cose […] ma piuttosto come un già e non ancora che aspetta, intrinsecamente, il suo completamento.  ‘Ne deriva che, dal punto di vista metafisico, il bello supremo presuppone che l’essere abbia raggiunto il suo pieno sboccio’”[48]
Ciò che crea alla fine l’unità di tutti questi “elementi costitutivi” del bello in san Tommaso, è il concetto della   f o r m a, elemento portante della sua metafisica, prevalentemente nel senso della entelécheia aristotelica, cioè quale “principio strutturante la res”, che ne realizza “l’attualità” e la “perfeziona”.   Al concetto della forma nell’Angelico, Savarese dedica alcune finissime pagine in chiusura di questo capitolo[49].

f. Il bello come “delectatio” individuale del bello in sé
Il piacere puramente estetico, quando troviamo diletto in determinate realtà del mondo a noi esteriore, provocandoci per l’appunto la sensazione del godimento estetico, che rilievo ha nella concezione tomistica del Bello?  Il realismo di san Tommaso sembra concederle il giusto spazio, pur senza cancellarne il nesso con gli “elementi costitutivi”della bellezza in quanto tale. 
“Perché si ha bellezza, solo perché l’uomo ne gode o viceversa, l’uomo gode perché si dà bellezza?”[50].
Questa l’antica domanda.  Nella visione del mondo del Medio Evo anche il bene era considerato “bello”.  Si manteneva sempre uno stretto rapporto fra il bonum e il pulchrum.  Al fine di enucleare il concetto del Bello relativamente al soggetto percipiente – il Bello in senso soggettivo – l’Aquinate deve mettere inizialmente in rilievo la loro distinzione.
Il bene riguarda l’appetito poiché “l’appetito è in un certo qual modo un moto verso la cosa”, essendo la cosa (il bene) “ciò che tutti desiderano”.  La nozione del bene è da vedersi soprattutto in relazione al fine per il quale il soggetto agisce, quello appunto di conseguire il bene, nelle varie gradazioni:  da un bene particolare, al bene terreno, al bene comune, al bene sommo, l’unico che conti veramente, costituito dalla vita eterna nella Visione Beatifica. 
Il bello, al contrario, non concerne l’appetito o desiderio (dato che qui ci piace qualcosa unicamente per il fatto in sé di esser bella) ma la facoltà conoscitiva:  “Il bello concerne invece la facoltà conoscitiva, infatti si dicono belle le cose che viste piacciono.  Perciò il bello consiste in una debita proporzione, poiché il senso si diletta delle cose debitamente proporzionate, come delle cose simili a sé; infatti anche il senso e ogni facoltà conoscitiva sono strutture razionali”(S. Th., I, q. 5, a. 4, ad 1)”[51].
La vista fa parte della “facoltà conoscitiva”, come gli altri sensi. Essa ci permette di cogliere la “debita proporzione” (vedi supra) e le “similitudini” di una cosa che a noi, proprio per questo, par bella. “Donde concernono il bello principalmente quei sensi che sono conoscitivi al massimo grado, cioè la vista e l’udito che servono con premura la ragione, infatti diciamo belle le cose visibili e belli i suoni.  Invece non usiamo il nome di bellezza per i sensibili degli altri sensi, infatti non diciamo belli i sapori o gli odori.  E così è chiaro ciò che il bello aggiunge sopra il bene, cioè un certo ordine alla facoltà conoscitiva; così che si dice bene ciò che semplicemente compiace l’appetito; invece si dice bello ciò la cui apprensione stessa piace (S. Th., I-II, q. 27, a.1, ad 3)”[52].  
Il bene cui aspiriamo è l’oggetto del nostro desiderio; il bello risulta invece dal semplice piacere che ci procura la sua percezione o “apprensione” (apprehensio) sensibile:  un magnifico paesaggio ci piace per il solo fatto di vederlo non perché costituisca l’oggetto di un nostro precedente desiderio, come nel caso di un bene cui aspiriamo.  È pertanto giusto dire che il nostro sentimento del bello è costituito dalla semplice “apprensione” sensoriale della cosa bella, essendo esso il piacere datoci da questa stessa “apprensione”, da questa particolare conoscenza.   Nello stesso tempo possiamo dire, aggiungo, che il bel paesaggio naturale è di per sé un bene, da mantenere e conservare proprio come si mantiene una cosa utile e benefica.  Nella bellezza della natura si riflette quella del divino Artefice che l’ha creata e noi la conserviamo come un bene, anche riproducendola nell’opera d’arte.  E difatti non ricomprendiamo oggi opere d’arte e bellezze naturali all’interno dell’ampio concetto di beni culturali?  Ciò dimostra che c’è anche per noi oggi un nesso fra l’idea del bello e quella del bene, nesso sul quale ha giustamente insistito in modo approfondito la speculazione medievale.
Che il piacere (delectatio) provato dal soggetto di fronte alla cosa bella sia per l’Aquinate da intendersi in senso del tutto soggettivo (e quindi sostanzialmente edonistico), ciò è comunque da escludersi, sottolinea l’Autrice: per san Tommaso,  “il bello non si identifica tout court con il piacere, tantomeno con quello dei singoli soggetti”. E difatti, “il piacere sopravviene solo dopo la conoscenza e nasce da quest’ultima:  non per niente, quel che differenzia il pulchrum dal bonum è essenzialmente l’attività conoscitiva, come risulta dal fatto che la proportio, elemento costitutivo del bello, comprende in sé anche la proportio gnoseologica, sia sensibile che intellettuale, dell’oggetto al soggetto e viceversa (per usare una terminologia moderna)”[53].  Ciò dimostra come, per san Tommaso, la dimensione soggettiva della fruizione estetica sia sempre strettamente collegata a quella oggettiva.
Il termine “apprensione” (apprehensio) usato dall’Aquinate ha offerto lo spunto ad un’interpretazione (sostenuta anche da Maritain e che Savarese respinge in toto, con argomenti a mio avviso validissimi), secondo la quale san Tommaso professerebbe in realtà una concezione intuitiva (“intuizione intellettuale”) del bello, del bello come concretamente percepito dal soggeto, del bello appunto in senso soggettivo, per esprimersi alla maniera dei moderni.  Devo limitarmi qui alla conclusione cui giungono le sottili analisi di Savarese e cioè che la tesi è insostenibile: nel Nostro non si riscontra alcuna forma intuitiva del conoscere.  Anche la conoscenza estetica viene da lui concepita attraverso la mediazione degli “universali” ossia del concetto, che si forma mediante un giudizio sulla cosa conosciuta:  anche la “conoscenza estetica” è sempre concepita come “unione di senso ed intelletto”, allo stesso modo della “conoscenza in generale”[54].
Il piacere estetico è di tipo particolare ma non è comunque meramente sensibile, è anche intellettuale.  In esso opera sempre la volontà del soggetto di raggiungere la propria “perfezione naturale”, ragion per cui c’è un nesso tra il piacere e la ricerca della felicità, da intendersi però non nel senso della semplice felicità materiale bensì in quello più elevato di una beatitudo che si realizzerà in forma perfetta unicamente nella vita eterna degli Eletti.  Una delle caratteristiche dell’essere umano, preclusa all’animale, è proprio quella di poter apprezzare la bellezza delle cose sensibili in sé e per sé , quale valore a loro intrinseco:  il bello in sé, che ci piace perché è bello. “I sensi sono stati dati all’uomo – scrive l’Angelico – non solo per procurarsi le cose necessarie alla vita, come agli altri animali:  ma anche per conoscere.  Perciò, mentre gli altri animali non provano piacere delle cose sensibili se non in ordine ai cibi e al sesso, solo l’uomo gode nella bellezza delle cose sensibili per se stessa (S.Th., I, q. 91, a. 3, ad 3)”[55].
Come si vede, san Tommaso coglie nitidamente il carattere del tutto disinteressato, libero da ogni altro fine si vorrebbe dire, che è proprio del vero godimento estetico, sciolto come tale da ogni ricerca del piacere, dell’utile o del bene.  In questo compiacersi della cosa in sé, per la sua intrinseca bellezza, còlta nella sua immediatezza, si registra una delle differenze fondamentali ed incolmabili tra l’uomo e l’animale.
È quindi possibile concepire un “piacere estetico puro” ovvero disinteressato, privo di legame “con i bisogni vitali” del soggetto, piacere nei confronti del quale non occorre esercitare la virtù della temperanza, necessaria invece per i piaceri della carne, a cominciare da quello sessuale[56].  Tuttavia il piacere estetico, per quanto puro, non è secondo san Tommaso distaccato dalla vita concreta, come sembrano ritenere alcuni suoi interpreti.  Anche il piacere estetico, che coglie la bellezza sensibile nella vita, viene inserito nella gerarchia o scala di valori che l’intelletto deve riconoscere nella realtà; scala di valori concepita finalisticamente, ovvero in funzione del fine ultimo della nostra vita, stabilito da Dio. 
“San Tommaso non avrebbe mai accettato la riduzione della vita al biologico – come invece si tende a fare nel pensiero moderno – ma piuttosto vede la vita dell’uomo in tutta la pienezza di tutte le sue dimensioni.  Ciò si riflette nel fatto che anche il piacere estetico è inserito nel più generale fine ultimo della vita umana, la beatitudo cioè la felicità, che è questione assai più intellettuale e spirituale che corporale”[57]. In effetti, mi chiedo, in cosa può consistere la vera e ultima felicità per un cristiano e filosofo, se non nel conseguimento del Sommo Bene, che è Dio?  La nostra vera patria è il Cielo, qui siamo solo di passaggio, sottoposti ad un periodo di dure prove da superare (con l’aiuto imprescindibile della Grazia) per esser considerati degni di entrare alla fine dei tempi nel Regno di Dio, che dura in eterno.  Anche il godimento estetico non può sfuggire a questa prospettiva sovrannaturale, che si integra alla prospettiva teoretica intrinseca ad ogni vera speculazione:  dopo averlo definito nel suo concetto, inquadrare il particolare (qui la percezione e il giudizio estetici) nell’universale, rappresentato dal concetto di una gerarchia di valori retti dall’idea del fine, ricomprendente cielo e terra.  Anche il piacere estetico appare pertanto ordinato, ordinato al fine proprio dell’uomo, altrimenti si potrebbe cadere nell’estetismo: dal culto del bello che riflette il divino nella natura e nell’uomo, al culto del bello per il bello, facendone erroneamente lo scopo della propria vita, cosa che comporta la caduta dell’individuo nel narcisismo e non raramente nei peggiori vizi. 
“Il piacere estetico, dunque, deve essere anch’esso ordinato.  Questo significa che per Tommaso anche il bello è finalizzato all’uomo e non a sé stesso:  il bello per l’uomo e non il bello per il bello.  L’arte per l’uomo e non l’arte per l’arte […]  Però, sebbene il piacere non costituisca il fine ultimo della vita umana, esso si accompagna comunque alla felicità, la beatitudo, che nel pensiero tommasiano è il fine ultimo […] Infatti, per l’Angelico ‘il piacere [delectatio] che segue operazioni buone e da desiderare, è buono e va desiderato; invece quello che segue le cattive, è cattivo e va fuggito.  Dunque ha il fatto di essere buono e da desiderarsi da un’altra cosa. Dunque non è esso stesso l’ultimo fine, che è la felicità” (C. G., III, c. 26, n. 13)’”[58].  Ciò significa, continua Savarese, che “nessuna delectatio, nemmeno quella estetica, può esser completamente lasciata a se stessa; o, meglio, che per Tommaso essa non esaurisce la totalità del vivere dell’uomo e deve quindi essere inserita all’interno dell’ordine dei fini”[59]
Non desideriamo il piacere per se stesso ma per conseguire un determinato oggetto del nostro desiderio, cosa che, a seconda della qualità dell’oggetto, provoca piaceri buoni e piaceri cattivi, che vanno evitati.  Il piacere estetico è senz’altro buono poiché il suo oggetto è il bello, còlto nei suoi elementi costitutivi indipendentemente da ogni altra determinazione o fine. L’oggetto del desiderio, il bene, è qui il bello stesso, che non è tuttavia il bene più alto cui possa aspirare l’uomo.
“Infatti, il piacere è causato dal fatto che il desiderio riposa nel bene raggiunto.  Perciò, poiché la beatitudine non è altro che il raggiungimento del sommo bene, non può esserci beatitudine senza piacere concomitante (S. Th., I-II, q. 4, a. 1, co)”[60].
In conclusione, “la visione e il piacere del pulchrum si trovano sia a livello sensibile che a livello intelligibile; piacere e visione sono del soggetto ma sono strettamente dipendenti dagli elementi costitutivi del bello, dalla struttura stessa della realtà.  Non è quindi che il ruolo del soggetto sia assente:  tale ruolo è strutturale – il pulchrum non è pensabile senza di esso – ma esso non è soggettivo, è il soggetto che è determinato dalla sua struttura e dalla struttura del reale. Data l’importanza di integritas, proportio e claritas, bisogna dire che il “consenso”, il piacere personale, fa sì parte della ratio pulchri, ma solo in quanto è la cosa, in quanto bella, a dover piacere.  Non bisogna separare soggettivo e oggettivo:  essi sono, anzi, strettamente intrecciati, inseparabili l’uno dall’altro”[61]

g. Il bello in senso trascendentale
Il discorso sul bello in san Tommaso non è ancora finito.  Bisogna vedere se egli l’abbia “sufficientemente distinto da bonum e verum” sì da conferirigli una sua ragion d’essere, una ratio propria.  Il che significa, nella metafisica tomistica, avere una natura trascendentale, come l’hanno appunto i concetti del bene e del vero, ai quali va aggiunto quello dell’uno.  La questione è tuttora aperta e su di essa Savarese (vedi supra) prende posizione in senso affermativo, anche se con cautela, trattandosi di una verità ricostruita  su testi che mostrano, almeno in apparenza, oscillazioni in opposte direzioni[62]
Il cap. IV esamina brevemente la dottrina dei trascendentali, il V e ultimo il bello “in senso trascendentale” in san Tommaso.  Preliminarmente, l’Autrice sgombra il campo da possibili equivoci per i non specialisti, ricordando che la concezione scolastica dei trascendentali non ha nulla a che vedere con il concetto di conoscenza trascendentale elaborato da Kant.  Molto opportunamente, essa ne riporta un famoso passaggio in proposito, tratto dalla Critica della ragion pura:  “Chiamo trascendentale ogni conoscenza che si occupa non di oggetti ma del nostro modo di conoscenza degli oggetti, in quanto questa deve esser possibile a priori”[63].  Per Kant, il Trascendentale non è una proprietà delle cose fuori di noi ma un modo di essere della nostra mente, se così posso dire:  una categoria a priori del nostro intelletto, che ci permette di conoscere la realtà esterna, a cominciare dallo spazio e dal tempo.  Kant non può negare l’esistenza dello spazio (si difese esplicitamente da quest’accusa, nei Prolegomena ad ogni futura metafisica, 1783) ma afferma che ne abbiamo conoscenza solo grazie alla “forma” trascendentale, ossia anteriore ad ogni esperienza, che ne possediamo in interiore homine.  In quest’ottica, “lo spazio e il tempo altro non sono che forme dell’intuizione sensibile, e quindi semplicemente condizioni dell’esistenza delle cose in quanto fenomeni”[64]Condizioni, si intende, per noi, in quanto soggetti conoscenti:  “Il termine trascendentale non significa mai per me un rapporto della nostra conoscenza con le cose [Dinge] ma solamente con la nostra capacità di conoscere [Erkenntnisvermögen]”[65].
Savarese riporta in nota un altro passo della Critica nel quale Kant attacca esplicitamente il concetto scolastico del Trascendentale come “predicato” che stabilisce “proprietà delle cose in se stesse”; il che per Kant è un grave errore, restando a suo dire la cosa-in-sé a noi del tutto sconosciuta;  non conosciuta ma conoscibile, invece, solo in quanto fenomeno percepito e organizzato da noi secondo le nostre categorie a priori[66].
Ciò premesso, vediamo il concetto di Trascendentale degli autori medievali.  Con esso “si intendono le determinazioni che sono proprie di ogni ente in quanto ente e che, in quanto tali, oltrepassano, trascendono appunto, le determinazioni categoriali (che sono invece modi parziali dell’essere); per quanto non necessariamente legati a Dio nel loro sviluppo filosofico, essi sono attribuibili anche a Lui (con tutte le precauzioni del caso), tanto da costituire dei nomi divini non metaforici [degli effettivi attributi divini-NdR].  I trascendentali sono dunque proprietà coestensive all’essere (che cioè con esso coincidono), ma dall’essere si distinguono concettualmente, ratione, per usare il linguaggio medievale”[67].
I “trascendentali” sono dunque “proprietà dell’essere” (“predicati” o “modi di essere”) che non si identificano all’essere e nemmeno alle categorie, che essi appunto trascendono. Il concetto non va confuso con quello di trascendente, cosa che nel parlar comune può accadere.  La concezione medievale, precisa Savarese, “ingloba, almeno in parte, il significato di trascendente”, termine con il quale si indica in genere “ciò che è al di là, usato per indicare Dio, la vita ultraterrena etc.”; in sostanza, una realtà del tutto spirituale, anche ultraterrena[68].
 I trascendentali integrano le categorie.  Ma cosa sono le categorie?  In senso metafisico, si intende, trattandosi di nozione usata nel parlar comune per indicare un complesso ordinato di individui o di cose o come sinonimo del vocabolo qualità (il salto alla Seria A come passaggio alla categoria superiore; impiegati di prima, seconda categoria; merci di prima categoria; uno scrittore di ben altra categoria, etc.).  La domanda è legittima anche in relazione al fatto che il pensiero filosofico sembra aver oggi rinunciato al concetto stesso di categoria, sostituito (più o meno) da quello abbastanza oscuro di esistenziale, proposto da Heidegger nel § 9 di Sein und Zeit (1927).
Le categorie furono, come si sa, enucleate da Aristotele in numero di dieci.  Nonostante le critiche e i rifacimenti cui sono state sottoposte (Kant le rielaborò secondo la sua prospettiva trascendentale), le dieci categorie aristoteliche rappresentano ancora il fondamento di ogni discorso sulle categorie mediante le quali inquadriamo l’essere, il pensare, l’agire dell’uomo.  L’esposizione più chiara e completa Aristotele la fa nel breve scritto intitolato appunto Categorie
“I termini che si dicono senza alcuna connessione esprimono, caso per caso, o una sostanza, o una quantità, o una qualità, o una relazione, o un luogo, o un tempo, o l’essere in una situazione, o un avere, o un agire, o un patire.  Orbene, per esprimerci concretamente, sostanza è, ad esempio, uomo, cavallo; quantità è lunghezza di due cubiti, lunghezza di tre cubiti; qualità è bianco, grammatico; relazione è doppio, maggiore; luogo è nel Liceo, in piazza; tempo è ieri, l’anno scorso; essere in una situazione è si trova disteso, sta seduto; avere è porta le scarpe, si è armato; agire è tagliare, bruciare; patire è venir tagliato, venir bruciato”[69].
Le dieci categorie sono dunque: la sostanza, il quanto, il quale, la relazione, lo spazio, il tempo, lo stare, l’avere, l’agire, il patire.  Quest’ultimo termine va inteso nel senso dell’esser oggetto passivo di un’azione, di doverla subire; è il contrario dell’agire che noi facciamo verso gli altri o l’esterno in generale. Quasi a a commento del suo elenco, Aristotele aggiunge subito dopo:
“Ciascuno dei suddetti termini, in sé e per sé, non rientra in alcuna affermazione; un’affermazione si presenta invece, quando tali termini si connettono tra di loro. Pare, infatti, che ogni affermazione debba essere vera o falsa; per altro, nessuno dei termini, che si dicono senza alcuna connessione, ad esempio uomo, bianco, corre, vince, è vero oppure falso”[70].  Cosa vuol dire qui Aristotele? Che i termini indicanti le categorie esprimono il loro significato indipendentemente dall’esser impiegati in una “connessione” (symploké) cioè in una proposizione, un discorso articolato.  Le categorie non risultano dalla logica interna di un discorso, esse ne sono invece il presupposto.  Una “affermazione” (katáphasis) è in genere costituita da una frase, da una proposizione dotata di senso. Essa risulterà dalla connessione dei termini indicanti le categorie:  se si preferisce, dai concetti fondamentali che chiamiamo categorie, logicamente preliminari ad ogni discorso razionale.  Concetti fondamentali che indicano un “modo di essere” (modus essendi) della realtà, (per usare la terminologia dell’Angelico, richiamata da Savarese), cui non si possono applicare le qualificazioni del vero e del falso, del giusto e dell’ingiusto[71].  
Hegel disse che il logos, cioè il pensiero come intelletto che ragiona sulle cose, è il medesimo in tutti, nella testa del filosofo come nella mente della madre di famiglia che fa il calcolo della spesa.  Ciò significa che le categorie sono le stesse per tutti, ossia che tutti le usiamo nel nostro ragionar quotidiano, anche senza averne contezza.
“Oggi sono andata a fare la spesa al mercato coperto, qua vicino, un posto umido e freddo però vi si trova roba fresca e di buona qualità. Mi sono messa il cappotto pesante. Per quello che spendi e che compri, ti potrebbero dare piu’ roba, comunque. Domani, ci ritorno, anche se alcuni dei venditori sono un po’ bruschi. Di fronte a modi bruschi ti senti come indifesa.  Magari cerchero’ di spendere un po’ meno, devo stare attenta ai conti…”.  Se analizziamo una periodo come questo, quale tipo di una riflessione o di un dialogo del tutto comuni, riscontriamo la presenza delle seguenti categorie, indispensabili al venir in essere stesso del discorso, in quanto discorso fornito di senso: tempo (oggi e domani), spazio (il luogo costituito dal mercato coperto), la qualità delle merci di contro alla quantità, la relazione (spender meno o di più, andar al mercato di meno o di più), lo stare nel senso di esser in quella determinata situazione (di acquirente, di donna di casa che fa la spesa), l’avere (il vestito pesante, il denaro), il fare (il camminare, l’acquistare), il patire (il subire le brusche maniere di certi negozianti o i loro prezzi).   La sostanza è costituita dal soggetto stesso che pensa, con la sua humanitas che lo fa essere quello che è e non altro (principio d’identità), espressa nei pensieri della madre di famiglia e non di altri, di quella irripetibile individualità che è la sua. E dalla sostanza costituita dagli altri enti contenuti nel ragionamento, con i quali il soggetto si è messo in rapporto.  Ma nel parlar comune, le categorie vengono usate anche come concetti generali, il cui significato è perfettamente noto, anche solo intuitivamente.  Ad esempio, il gioco di identità e differenza nel rapporto tra sostanza e apparenza (contenuto e forma), tra quantità e qualità, tra spazio come luogo e tempo, tra il più e il meno, tra l’essere come essere in una determinata condizione e l’avere o non avere, tra l’agire e all’opposto il subire l’azione degli altri.
Ci si è sempre chiesti se le categorie aristoteliche costituiscano un tutto perfettamente omogeneo. Limitiamoci a constatare che noi pensiamo effettivamente servendoci delle categorie.  Per san Tommaso, le categorie, come si è visto, esprimono un “modo di essere”, senza per questo esaurire tutti i predicati dell’essere (dell’ente).  A proposito della sostanza, egli afferma:  “la sostanza non aggiunge all’ente alcuna differenza, che designi una qualche natura aggiunta all’ente, ma col nome “sostanza” si esprime un qualche speciale modo di essere, cioè ciò che è “per sé”, e così anche per gli altri generi”, che vengono ricompresi nelle categorie[72]. Con l’espressione specialis modus essendi, l’Aquinate non indica qui qualcosa di eccezionale ma semplicemente quel modo di essere che individua l’ens per se, ovvero l’essere in quanto determinato nell’ente specifico, che è ciò che è e non può esser simultaneamente altro.  Indica, pertanto, l’ente nella sua intrinseca natura, non una qualche “natura aggiunta” (naturam superadditam).  Tale modus essendi non potrà quindi attribuirsi ad ogni ente ma solo a quel determinato ente particolare:  se la sostanza è l’uomo (humanitas) non potrà essere il cavallo (cavallinitas), e così via.
Ma vi sono anche “modi di essere” di carattere generale, esprimenti “un modo generale che consegue a ogni ente [modus generalis consequens omne ens]”.  E questi altri “modi di essere” sarebbero i trascendentali, modi di essere per l’appunto generali, “che cioè si accompagnano ad ogni ente (è proprio qui che passa la differenza con le categorie)”[73].
 Le categorie non esauriscono tutti i predicati dell’essere, come era chiaro allo stesso Aristotele.  Non per nulla, nell’accennare all’evoluzione storico-filosofica del concetto di trascendentale, Savarese inizia con Aristotele, nel quale il concetto sarebbe già adombrato nonostante manchi un termine equivalente; assente, del resto, anche nell’Angelico e frutto – il termine – di elaborazioni della tarda Scolastica[74].
Le “proprietà trascendentali” sono tradizionalmente: ens, unum, verum, bonum.  L’uno, come realtà transcategoriale in stretto rapporto con l’ente, si ritrova già in Aristotele.  Successivamente furono aggiunti:  res, aliquid.  Non però il bello.  I trascendentali o comunissima canonici, pertinenti a tutti gli enti, rimarranno, sino al XIII secolo, i quattro seguenti:  “ente, uno, vero, buono”[75]
I trascendentali sembrano riposare sul concetto dell’ente.
“L’ente, invece, è ciò che per prima cosa l’intelletto concepisce come il più noto, e nel quale risolve tutti i concetti, come dice Avicenna all’inizio della sua Metafisica.  Perciò è necessario che tutti gli altri concetti dell’intelletto siano appresi per aggiunta all’ente (De Ver., q. 1, a. 1, co.)”[76].
Spiega Savarese:  oltre ai “primi principi del ragionamento che non richiedono dimostrazioni in quanto noti all’intelletto di per sé”, occorrono anche “delle prime nozioni che riguardano la conoscenza delle cose”[77].  Ora, quali potranno essere queste “prime nozioni”?  La prima in assoluto riguarda l’ente ossia l’essere.  Il “primum cognitum”, in un certo senso addirittura notissimo, è l’essere in quanto essere, la cui esistenza non abbisogna di dimostrazione.  (Al contrario, il pensiero moderno, annoto, con il dubbio metodico cartesiano ha  preteso una dimostrazione anche di questa esistenza, facendo così erroneamente dipendere l’essere dal pensiero, spingendosi ben al di là dell’identità parmenidea di essere e pensare).
Tornando a San Tommaso.  Egli rinvia esplicitamente ad Avicenna.  La citazione non è letterale. Credo che il passo cui si riferisce sia il seguente:  “Perciò, il soggetto primo di questa scienza [la filosofia] è l’essere in quanto essere [ens inquantum est ens] mentre le cose che in essa vanno ricercate sono quelle che lo accompagnano in quanto è essere, senza condizione”[78].  Il termine ens, ente, come sappiamo traduce letteralmente il greco on , lett.: essente, participio presente del verbo einai (essere).  Con esso si indica l’essere, l’essere in quanto tale.  Nell’uso, anche da parte dell’Aquinate, il termine ente sembra indicare sia l’essere in generale che il singolo ente, costituente una parte dell’essere; riferirsi quindi sia al tutto che alla parte.   
L’ente è dunque il primo oggetto di conoscenza, l’ente in atto, evidentemente, non quello in potenza; l’ente che si configura come atto di essere (actus essendi) e non semplicemente come stato[79].  Però la conoscenza di questo primum non è di per sé sufficiente.  Continua Savarese:
“Ora, il primum cognitum è l’ente, ma la sua nozione non include certo in sé tutte le altre nature; è necessario quindi che qualcosa venga aggiunto all’ente, ma […] all’ente non può essere aggiunto nulla di reale:  si tratta quindi di aggiunte di ragione, che esprimono dei modi dell’ente che non sono inclusi nella sua nozione.   Ecco quindi le categorie da un lato e i trascendentali dall’altro”[80].  Questi ultimi riguardano sia “l’ente in se stesso” che “la relazione di un ente con un altro”.  Ai trascendentali tradizionali, l’Angelico aggiunge la nozione di res, che riguarda l’ente in se stesso, in quanto “abbia un’essenza” (mentre l’unum concerne la sua unità di ente indiviso) e quella di aliquid (o moltitudo, pluralità), che “aggiunge all’ente la nozione della relazione ad un altro ente, in quanto sono divisi”[81].
Non dobbiamo addentrarci nelle “varie tipologie di additio” accennate nel testo.  Basti rilevare che in esse non compare il pulchrum.  Per esso, dunque, “non vi sarebbe spazio alcuno”[82].  Il problema è affrontato con mano maestra nell’ultimo capitolo dell’opera, il più difficile, dovendo esso, come ormai sappiamo, ricostruire un concetto che si presenta in modo elusivo. 
 Dopo aver brevemente ricordato le posizioni pro o contro degli studiosi recenti più importanti sul tema, Savarese sviluppa il “confronto con il bonum”, vale a dire il raffronto tra il bene inteso come effettivo trascendentale e il pulchrum  quale possibile trascendentale[83]. Il criterio del raffronto, che ad un certo momento si occupa anche del rapporto tra il pulchrum e il verum, e che riassumo in alcuni suoi tratti essenziali, è il seguente:  “come emergerà dall’analisi dei testi, la trascendentalità del pulchrum acquista consistenza soprattutto se la sua ratio non è totalmente ricompresa nel bonum[84].  Se, in altre parole, quale predicato trascendentale dell’essere in atto, il pulchrum dimostra una ragion d’essere sua autonoma ed indipendente, anche se solo parzialmente autonoma, in quanto sempre connessa al bonum.
Nei testi si nota “la frequenza con cui, sulla scia della tradizione, pulchrum e bonum compaiono insieme”, fin dall’opera giovanile di Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo:  “Così, secondo Dionigi, bello e bene conseguono l’uno all’altro [se consequuntur].  Perciò sembra che tutte le cose desiderano il bello e il bene [omnia pulchrum et bonum appetunt]…(Super Sent., I, d. 31, q. 2, a. 1 arg. 4)”.   Per cui:  “la bellezza non ha natura di appetibile se non in quanto riveste natura di bene:  così, infatti, anche il vero è anche appetibile…(Super Sent., I, d. 31, q. 2, a. 1, ad 4)”[85].
Il bene e il bello “si conseguono”, dunque.  Essi sembrano implicarsi a vicenda, caratteristica dei trascendentali, i quali sono anche, per così dire, intercambiabili, sottolinea Savarese:  “dicendo che un ente è in realtà si sta già dicendo che è uno, vero, etc.”[86].  Del resto, chi tende al bene, tende anche ipso facto al bello e chi tende al bello, come può prescindere dal bene?  Nel De Veritate, l’Angelico insegna:  “per il fatto stesso che qualcosa tende al bene, tende insieme anche al bello e alla pace:  senza dubbio al bello, in quanto è modificato e specificato in se stesso, cosa che è inclusa nella nozione di bene; ma il bene aggiunge l’ordine di ciò che perfeziona verso le altre cose [sed bonum addit ordinem perfectivi ad alia].  Perciò, chiunque  tende al bene, tende per ciò stesso al bello (De Ver., q. 22, a. 1, ad 12)”[87].   Qui, osserva Savarese, “il bonum è logicamente più esteso del pulchrum”, il bene e iI bello hanno una ratio diversa, pur non essendo nello stesso tempo diversi:  ciò implica che la ratio del pulchrum “è inclusa in quella del bonum”.  Difatti, “è il bene che aggiunge al bello l’ordine (l’ordo:  il riferimento, l’esser finalizzato a) proprio di ciò che perfeziona (perfectivi) verso altre cose (alia):  il bene è infatti ciò che porta a perfezione, a compimento, ciò che si riferisce ad esso; non altrettanto si può dire del bello”[88].  
Il bene possiede dunque la capacità di “perfezionare” ciò cui si riferisce, portandolo a compimento in senso positivo, buono.  Questa capacità fa vedere l’esistenza di un ordine (umano-divino) e dell’esser ordinato a un fine, che non può esser quello meramente individuale (siamo, in quanto individui, anche inclini al male) ma deve esser quello stabilito da Dio creatore, le cui leggi reggono sia il mondo fisico che quello morale.
Nella fase iniziale della sua speculazione, l’Aquinate concepisce dunque il pulchrum  quale realtà (valore, diremmo noi) subordinata al bene:  esso è desiderato solo in quanto buono, cosa che vale anche per il vero.  La ratio  del bello appare pertanto inclusa in quella del bene.  In effetti, mi chiedo:  potrebbe la ratio del bello esser inclusa in quella del male?  Non potrebbe.  Ma non esiste, forse, la bellezza che seduce e rovina?  Esiste, bisogna però chiedersi che tipo di bello essa rappresenti, visto che opera soprattutto come fascino esteriore, il quale, depurato delle trasfigurazioni che lo ingentiliscono (“Deh, Vïoletta, che in ombra d’Amore/ ne gli occhi miei sí subito apparisti…), fa leva sul fòmite della concupiscenza o comunque sulle nostre passioni.  Il bello della bellezza cattiva è quello che trasluce in un gioco di essere e parere che affligge mortalmente l’anima di chi lo subisce, invano sperando che sia vera la promessa  di felicità, e quindi di bene, adombrata da quella bellezza.   La connessione ricercata sia dalla metafisica classica (Platone) che da quella cristiana tra il bello e il bene, può sembrarci oggi astratta e utopistica.  Tuttavia, non lo è affatto se solo riflettiamo a quanto sia decaduto il nostro gusto e il nostro costume, una volta separata l’idea del bello dall’idea del bene e da ogni trascendenza.  E in Italia ma anche in assoluto, la poesia non ha raggiunto uno dei livelli  più alti proprio con un poeta come Dante, che ha trasfuso in queste categorie dello spirito il soffio potente della sua arte, posseduto com’era da una visione trascendente, per non dire trascendentale, dei valori estetici?
Ma torniamo a san Tommaso.  Nel Commento ai Nomi Divini  e nella Summa, cioè nella fase più matura del suo pensiero, la sua prospettiva in parte muta. Ora è il bello che sembra aggiungere qualcosa al bene.  Il concetto del bello acquista una sua autonomia[89].       
Dall’analisi condotta sempre con assoluta padronanza dei difficili testi dell’Aquinate, che non posso seguire qui nei dettagli, risulta che, in relazione all’idea della perfezione, coinvolgente sia il bene che il bello, sembra che “quest’ultimo abbia un rapporto diretto con essa”, senza cioè aver bisogno della mediazione del bonum[90].  Infatti, spiega l’Angelico, “il bello e il buono sono certamente identici nel soggetto, poiché si fondano sulla stessa cosa, cioè sulla forma, e perciò il bene si loda come bello. Ma sono diversi quanto alla nozione [ratione]”.  E perché sono diversi?  Questo testo l’abbiamo già visto nell’analisi  del bello come delectatio individuale (vedi supra) ma ora ci interessa da un altro punto di vista.  Sono diversi perché “il bene riguarda propriamente l’appetito”, essendo costituito dall’oggetto del nostro desiderio.  Esso ha quindi “natura di fine”.  Invece il bello “riguarda la facoltà conoscitiva” dato che, come sappiamo, “si dicono belle le cose che viste piacciono”.  Perciò il bello consta di una “debita proporzione”, ossia delle “cose debitamente proporzionate come delle cose simili a sé”. E siccome: “la conoscenza avviene per assimilazione mentre la somiglianza riguarda la forma, il bello pertiene propriamente alla nozione di causa formale (S. Th., I, q. 5, a. 4, ad 1)[91].  
Dunque, è l’idea della forma che fa “coincidere” il bene e il bello nel medesimo soggetto.   Forma, in che senso?  Penso si debba intendere nel senso della sua “attualità”, dell’attuarsi dell’essere secondo la “perfezione della cosa” (entelécheia), giusta la “proporzione” intrinseca ad essa[92].  La “proportio” intrinseca al bello non si ritrova anche nel bene e nella verità?  Dove allora la differenza?  Nell’applicazione del principio di causalità.  Il bene, essendo oggetto dell’appetito, viene a costituire il fine delle nostre azioni, a disporsi quindi per noi come causa finale delle stesse (il fine cui aspiriamo – respice finem – provoca come suo effetto la nostra azione, volta a conseguirlo).  Invece al bello va applicata la nozione di causa formale.  “Inoltre, la causa formale, che è una causa intrinseca, a differenza della causa finale che è estrinseca [perché esterna al soggetto agente-NdR], indica non più la meta verso la quale tende l’agente (causa finale), ma la forma stessa che (nel caso degli enti sensibili) attualizza la materia e le dà il suo proprio grado di perfezione”.  Infatti, “L’appropriazione [dell’oggetto-NdR] che si ha nel bello è solo di carattere intellettuale”, come sappiamo, consistendo in un disinteressato godimento della sua intrinseca bellezza, armonia[93].  Non così quella che si ha nell’apprendere il bonum, tripartito dall’Aquinate nelle tre specie tradizionali dello honestum, utile, delectabile (S. Th., I, q. 5, a. 6), tutte modalità di ciò che da diversi punti di vista consideriamo un bene.  Esse implicano un’azione diretta per esser conseguite, non la semplice visio.
Anche il bello conferisce un ordine alla facoltà conoscitiva, che non è lo stesso attribuitole dal bene.  Nel passo di S. Th., I-II, q. 27, a. 1, ad 3 già visto, l’Angelico afferma che a sua volta il pulchrum “aggiunge sopra il bene, cioè è un certo ordine alla facoltà conoscitiva”, che è l’ordine della conoscenza delle cose sensibili, quali “le cose visibili” e “i suoni”.  Pertanto, mentre nel caso del bene diciamo “bene  ciò che semplicemente compiace l’appetito”, nel caso del bello, diciamo bello “ciò la cui apprensione stessa piace”.  Questa è per l’appunto l’aggiunta  alla nostra “facoltà conoscitiva”, provocata dalla percezione del pulchrum:  esso ci piace per il solo fatto di “apprenderlo” non perché sia per noi quel bene che il nostro desiderio stava cercando.  Si potrebbe dire, osservo, che l’aggiunta apportata al nostro modo di conoscere – messa ottimamente in rilievo da Savarese – consista proprio nel permetterci il godimento estetico nella sua purezza, fondando quindi il nostro giudizio estetico: esso riposa su di una diversa relazione con l’idea della causa, nel senso di esser improntato all’idea della causa formale.   
Pertanto, se la forma fa coincidere il bene e il bello, la causalità li separa, nel senso che viene a costituire una ratio o ragion d’essere diversa per entrambi.  Ciò tuttavia non altera la loro reciproca correlazione. In conclusione: pur nella loro ontologica complementarità, sono due diversi modi d’essere dell’essere, per l’appunto due diversi trascendentali.

Paolo   Pasqualucci





[1] Ricordo, tra gli altri: Hans Sedlmayr, La morte della luce. L’arte nell’epoca della secolarizzazione, tr. it. di Marola Guarducci, Introduzione di Quirino Principe, Rusconi, Milano, 1970.   Nell’Ottocento ad un certo punto la luce scomparve dal colore: “a cominciare dall’epoca di Cézanne, la luce viene inghiottita dal colore, al quale ora passano la dignità, la forza e la potenza della luce […]  Il colore diviene ora il surrogato della luce , anzi della luce interiore” (op. cit., pp. 26-27).  Si veda anche tutto il capitolo dedicato alla “secolarizzazione dell’Inferno” nelle arti figurative (ivi, pp. 33-58).  Sulla decadenza dei costumi dell’Occidente nell’ambito di un vero e proprio “tramonto dei valori tradizionali”, dovuto anche al diffondersi dell’irreligiosità di massa, resta esemplare l’analisi di Augusto Del Noce, in contrapposizione al filosofo Ugo Spirito: Tramonto o eclissi dei valori tradizionali? In:  Ugo Spirito-Augusto Del Noce, Tramonto o eclissi dei valori tradizionali?, Rusconi, Milano, 19725, pp. 61-313.  
[2] La terminologia è del critico francese Jean Clair, L’hiver de la culture, Flammarion, Skira 2011, che ho trovato citato sul Corriere della Sera di qualche anno fa.   L’autorevole trimestrale francese Catholica, a quanto ne so, è l’unico che si sia occupato in modo sistematico (con numerosi e puntuali articoli) della presente decadenza delle arti, dalla letteratura alle arti figurative alla musica, anche in relazione allo scadimento impressionante della Liturgia cattolica.
[3] Miriam Savarese, La nozione trascendentale di bello in Tommaso D’Aquino, con Presentazione di Alberto Strumia e Prefazione di Giovanni Ventimiglia, Studi e Strumenti SISRI, EDUSC, Roma, 2014, pp. 240.
[4] Miriam Savarese, op. cit., pp. 18-19.
[5] Op. cit., pp. 21-24.  Superiorità già teorizzata, ricordo, dal pensiero greco e in particolare da Platone, quando scriveva che Socrate, basso di statura e dall’espressione plebea, era reso comunque bello dalla sua bellezza interiore, dallo splendore della sua anima (sul punto: Max Pohlenz, L’uomo greco, 1947, 1974, tr. it. B. Proto, La Nuova Italia, rist. nella collana Il Pensiero occidentale di Bompiani, con un saggio introduttivo di G. Reale, bibliografia e indici di G. Girgenti, Milano, 2006/2014, pp. 500-502).    
[6] Op. cit., p. 26.
[7] Op. cit., pp. 27-28.
[8] Op. cit., pp. 42-57; p. 54.
[9] Op. cit., pp. 57-58. Corsivi di Savarese. L’Autrice riporta quasi sempre in nota il testo originale latino dei passi tomistici citati e tradotti.  “Nam ad pulchritudinem tria requiruntur.  Primo quidem, integritas sive perfectio, quae enim diminuta sunt, hoc ipso turpia sunt.  Et debita proportio sive consonantiaEt iterum claritas, unde quae habent colorem nitidum, pulchra esse dicuntur”.   
[10] Op. cit., p. 49.
[11] Endymion, in:  The Works of John Keats, with an Introduction and Bibliography, The Wordsworth Poetry Library, Ware, 1994, p. 57.  Keats, nato nel 1795, morì di tubercolosi a Roma, nel 1821, nella casa ora sede della Fondazione Keats-Shelley, a fianco della scalinata di Piazza di Spagna. Libera mia versione di questi intraducibili versi:  “Una cosa bella è gioia sempiterna/ Il suo incanto  s’accresce/ Giammai svanirà nel nulla….”.
[12] Sul tema vale sempre il classico lavoro di P. Cornelio Fabro, La nozione metafisica di Partecipazione, secondo San Tommaso d’Aquino, in:  ID., Opere Complete, 3, a cura di Christian Ferraro, EDIVI, Segni, 2005, specialmente la Parte Terza, pp. 261-324.
[13] Savarese, op. cit., p. 51, per tutte quest’ultime citazioni.
[14] Op. cit., p. 54.  
[15] Op. cit., p. 53.
[16] Op. cit., pp. 56-57.  Corsivi nel testo. I corsivi sono sempre del traduttore.
[17] Op. cit., p. 59.  Il passo della Summa è:  IIa-IIae, q. 145, a. 2, co.  Corsivi nel testo. Ho leggermente modificato la traduzione italiana in un punto.
[18] Op. cit., p. 63.  La citazione finale è da:  S. Th., I, q. 12, a. 1, ad 4.
[19] Op. cit., p. 64.
[20] Op. cit., ivi.
[21] Op. cit., ivi.
[22] Op. cit., ivi.
[23] Op. cit., p. 65.
[24] Op. cit., pp. 66-67.
[25] Op. cit., p. 67.
[26] Op. cit., pp. 68-69.
[27] Op. cit., p. 70.
[28] Op.cit., p. 81.
[29] Op. cit., p. 72.
[30] Op. cit., pp. 72-73.
[31] Op. cit., pp. 73-74.
[32] Il sole è un globo di materia fluida, molto calda, ionizzata e magnetizzata.  Si ritiene che sia composto di idrogeno (92%), elio (8%), elementi pesanti (0,1%). Vedi: Ester Antoniucci, Dentro il sole, il Mulino, Bologna, 2014, p. 16.
[33] Op. cit., p. 75.
[34] Op. cit., p. 76.
[35] Op. cit., p. 76 e 77-78.  Il passo della Summa è:  S. Th. I, q. 57, a. 4 ad 1.
[36] Op. cit., pp. 76-81.
[37] Mt 6, 22.  Traduz. it. in La Sacra Bibbia, a cura della CEI, Edizioni Paoline, 1963; e in:  La Sacra Bibbia, annotata da Giuseppe Ricciotti, Salani, Firenze, 1954.  Vulgata-Clementina, ediz. BAC, 1965:  “Lucerna corporis tui est oculus tuus.  Si oculus tuus fuerit simplex:  totum corpus tuum lucidum erit.  Si autem oculus tuus fuerit nequam:  totum corpus tuum tenebrosum erit.  Si ergo lumen, quod in te est, tenebrae sunt:  ipsae tenebrae quantae erunt?”.
[38] Savarese, op. cit., p. 81.
[39] 1 Tm 6, 15-16.  Vulgata-Clementina:  “Rex regum, et Dominus dominantium: qui solus habet immortalitatem et lucem inhabitat inaccessibilem:  quem nullus hominum vidit, sed nec videre potest”.  La luce al di là della quale o nella quale “inabita” Dio Altissimo, lo nasconde (Deus absconditus) al creato, ma non gli nasconde di certo il creato. L’inaccessibilità di Dio nella sua luce, viene resa poeticamente da Dante nel XXVIII canto del Paradiso, allorché rappresenta Dio da lontano circondato dai nove cori angelici:  “un punto vidi che raggiava lume/acuto sì, che ‘l viso ch’elli affoca/chiuder conviensi per lo forte lume” (vv. 16-18, La Divina Commedia, ediz. commentata da G. L. Passerini, Sansoni, 1922, rist. anast. Sansoni, Firenze, 1988).
[40] Savarese, op. cit., p. 84.  Corsivi nel testo.
[41] Op. cit., p. 85.
[42] Op. cit., ivi.
[43] Op. cit., p. 86.
[44] Op. cit., p. 87.
[45] Op. cit., p. 89.  Savarese cita S. Th. I, q. 73, a. 1, ad 2.
[46] Op.cit., ivi.
[47] Par., XXX, vv. 19-21.
[48] Savarese, op. cit., pp. 89-90.  La citazione nella citazione è di E. De Bruyne, eminente studioso novecentesco dell’estetica medievale, più volte richiamato da Savarese.  Pancalía:  la bellezza del tutto, nel senso che tutto ciò che Dio ha creato è bello.  
[49] Op. cit., pp. 93-99
[50] Op. cit., p. 102.
[51] Op. cit., pp. 102-103.  Corsivi nel testo.
[52] Op. cit., pp. 103-104.  Corsivi nel testo.
[53] Op. cit., p. 106.
[54] Op. cit., pp. 110-122.
[55] Op. cit., p. 140.  Corsivi nel testo.
[56] Op. cit., p. 141.
[57] Op. cit., p. 142.
[58] Op. cit., p. 144.
[59] Op. cit., ivi.
[60] Op. cit., pp. 144-145.
[61] Op. cit., p. 146.
[62] Op. cit., p. 149 ss.; p. 228.
[63] Op. cit., p. 150. È la traduzione di Gentile e Lombardo-Radice, sez. VII dell’Introduzione.  In nota  Savarese riporta anche l’ottima  spiegazione del triplice significato del termine data a suo tempo da Sofia Vanni Rovighi (op. cit., pp. 151-152).
[64] I. Kant, Critica della ragion pura, a cura di Pietro Chiodi, UTET, Torino, 1967, p. 50.  Si noti:  non dell’esistenza delle cose in sé ma “in quanto fenomeni”cioè come appaiono a noi che le inquadriamo nelle nostre categorie mentali.  Uno dei passi che sembrava negare la realtà dello spazio era il seguente: “lo spazio è semplicemente la forma dell’intuizione esterna, non quindi un oggetto reale, suscettibile di esser intuito esternamente; come non è un termine correlativo ai fenomeni, bensì la forma dei fenomeni stessi” (Kant, op. cit., p. 371).  Per una recente critica del concetto kantiano dello spazio e dell’impianto trascendentale della sua teoria della conoscenza, mi sia consentito rinviare a:  Paolo Pasqualucci, Metafisica del Soggetto II - “Il concetto dello spazio”, Giuffré, Milano, 2015, capp. 2-4, pp. 103-193.
[65] I. Kant, Prolegomena zu einer künftigen Metaphysik die als Wissenschaft wird auftreten können, hrsg. von K. Vorländer, 1905, rist. Meiner, Hamburg, 1970, p. 47.
[66] Savarese, op. cit., p. 150 nota n. 2, per la critica kantiana alla concezione della Scolastica.
[67] Op. cit., p. 151.
[68] Op. cit., ivi.  Anche qui, ci ricorda l’Autrice, Kant ha scavato il solco della sua concezione dualistica del conoscere e del vero, concependo il trascendente, e in sostanza Dio, in quanto realtà sottratta all’esperienza, in modo tale da non consentire alla ragione di poter dir nulla su di Lui (op. cit., ivi). Nel parlar corrente si usa l’espressione “difficoltà trascendentale” ossia del più alto grado e Franz Liszt compose i suoi famosi dodici Studi trascendentali o di esecuzione trascendentale, per indicare le difficoltà vertiginose che attendevano il pianista.
[69] Aristotele, Categorie, in ID., Organon, a cura di Giorgio Colli, Einaudi 1955, rist. Adelphi, Milano, 2001, pp. 5-53; p. 7.  Corsivi miei.  Per l’originale:  Aristotelis categoriae et liber de interpretatione, rec. L. Minio-Paluello, Oxford, 1949, rist. 1989, 1b, 4.
[70] Op. cit., ivi.
[71] Savarese, op. cit., p. 152, per il tomistico modus essendi.
[72] Op. cit., p. 152.  Il testo citato è:  De Ver., q. 1, a. 1, co.
[73] Op. cit., pp. 152-153.  Il testo dell’Angelico citato è sempre il medesimo.
[74] Op. cit., p. 154 e pp. 155-161.
[75] Op. cit., ppp. 160-161.
[76] Op. cit., p. 165.
[77] Op. cit., p. 166.
[78] Avicenna, Metafisica, con testo arabo e latino, a cura di Olga Lizzini e Pasquale Porro, Bompiani, Il pensiero occidentale, 2002, p. 37 (Trattato Primo, sezione seconda, [13]).
[79] Sul punto, e sul complesso concetto tomista dell’essere come essere in atto, atto di essere, sempre valido mi semba: Étienne Gilson, Le thomisme. Introduction à la philosophie de Saint Thomas d’Aquin, Paris, Vrin, 1944, pp. 50-52.
[80] Op. cit., p. 166.
[81] Op. cit., ivi.
[82] Op. cit., p. 167.
[83] Savarese, op. cit., rispettivamente pp. 177-184 e pp. 186-211.
[84] Op. cit., p. 186.
[85] Op. cit., pp. 186-187.
[86] Op. cit., p. 209.
[87] Op. cit., p. 188.
[88] Op. cit., pp. 188-189.

[89] Op. cit., p. 197.
[90] Op. cit., pp. 199-200.  Si cita S. Th., I, q. 5, a. 5, co.
[91] Op. cit., p. 203.
[92] Op. cit., pp. 93-97 sul concetto di forma in san Tommaso.
[93] Op. cit., p. 204.  

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