La immigrazione dall’Africa di migliaia di
profughi di fame e di guerra occupa le cronache quotidiane politiche e dei
giornali per il suo carattere eccezionale in senso quantitativo e per le
modalità rocambolesche della sua effettuazione. I più solerti chiacchieroni
ripetono che si tratti di una nemesi del colonialismo europeo che avrebbe
devastato il Continente nero in illo
tempore, sfruttando da allora le risorse locali a vantaggio dei popoli
occidentali.
A parte che la logica dello sfruttamento
sistematico delle risorse umane e naturali da parte della metodica
capitalistica non si applica in esclusiva o preferenzialmente a nessun
territorio e popolo della terra, ma agli stessi territori e popoli che l’hanno
adottato come cultura dominante e stile di vita, vi è da dire, a proposito
dell’Africa, che è stato il suo abbandono a se stessa la colpa storica maggiore
dell’Occidente, e non già il suo controllo ragionevole.
Per “controllo ragionevole” si intende quella
influenza politico-culturale che l’Occidente sin dai suoi albori filosofici ha
inteso costituire come cifra del suo proprio télos originario, consistente “nella volontà di essere un’umanità
fondata sulla ragione filosofica”, intesa come una condizione non “casuale in
mezzo ad altre umanità e ad altre storicità completamente diverse”, ma in
quanto il processo stesso di quella “entelechia
che è propria dell’umanità come tale” e che per prima si rivelò nell’umanità
greca. Sulla base di questo presupposto metafisico universalistico che fonda
l’antropologia razionalistica occidentale, “se l’uomo è un essere razionale, lo
è soltanto se tutta la sua umanità è un’umanità razionale”, per cui la
filosofia e la scienza occidentali sarebbero in tal senso “il movimento storico
della rivelazione della ragione universale, innata come tale nell’umanità”.
Queste radicali parole dell’ebreo tedesco
Husserl, maestro di Heidegger e una delle menti più brillanti del Novecento,
mettono a fuoco già intorno agli anni Venti del secolo una questione che rimane
decisiva per le sorti non soltanto dell’Europa ma di quelle regioni del mondo
che ancora vedono nel Vecchio continente il luogo di approdo delle loro
precarie condizioni di esistenza in quanto forma di civiltà superiore. Un po’
come accadde durate la Guerra
fredda, quando la tendenza a espatriare era sempre nel senso da Est verso
Ovest, riconoscendo all’Occidente uno stile di vita superiore a quello
comunistico.
Ma di questa sua supposta superiorità storica, i
popoli occidentali hanno ancora consapevolezza, oppure appartengono ormai a
quella umanità non più “radicata in un
terreno” culturale e al contrario già “franata in se stessa”? La questione è
ben più rilevate di ogni questione geo-politica incentrata sulla premessa
puramente ideologica che il senso presente della realtà sia anche l’unico senso
storico possibilmente immaginabile e perseguibile, e investe i destini stessi
dei popoli cosiddetti “in via di sviluppo”.
Infatti, se la colonizzazione europea era
moralmente giustificata dall’identità metafisica dell’Occidente razionalista,
la de-colonizzazione è stata il risultato contraddittorio dello spostamento del
baricentro politico occidentale dall’Europa agli Stati Uniti che ha
semplicemente sostituito questi agli Stati europei nel controllo mondiale. Ma
con una differenza fondamentale: che quella americana è una forma di civiltà
che nel complesso è tecnologicamente più avanzata rispetto a quella europea tra
le due Guerre, ma culturalmente più arretrata, e cioè meno evoluta storicamente
e non in grado di elaborare valori originali e in grado di soppiantare o
comprendere quelli di maggiore stratificazione spirituale, in quanto la sua Weltanschauung è basata su fondamenti
illuministici che hanno potuto far presa in Europa dopo la seconda Guerra
mondiale perché rivolti alle coscienze europee intellettualmente più elementari
e meno raffinate, quali quelle delle masse, già portate in auge dalla
nazionalizzazione fascista ma di prima o molto recente alfabetizzazione e
dunque pressoché del tutto ignare della complessità problematica della
questione culturalmente cruciale “se l’umanità europea rechi in sé un’idea
assoluta o se non sia un mero tipo antropologico empirico come la Cina o l’India; e inoltre, se
lo spettacolo dell’europeizzazione di tutte le umanità straniere annunci la
manifestazione di un senso assoluto rientrante nel senso del mondo o se non
rappresenti invece un non-senso storico”.
Questo problema sollevato da Husserl è stato
rimosso in Europa dopo la seconda Guerra mondiale per una sorta di complesso di
colpa, e risolto in senso sommariamente positivo da coloro che, custodi
simbolici dei suoi valori umanitari in nome dei quali hanno sconfitto la
minaccia fascista al loro modello nazionale di vita, si sono sentiti eredi
della civiltà universale europea, e anzi i nuovi colonizzatori imperiali del
mondo.
Le masse europee, devastate dalle guerre
mondiali e quindi sedotte dal benessere economico americano che era stato da
sempre il miraggio plebeo dell’emigrazione trans-oceanica, hanno adottato
repentinamente istituti giuridico-politici democratici e modelli culturali
individualistico-capitalistici nella intuitiva consapevolezza che sarebbero
stati gli unici storicamente alla portata della loro ascesa socio-economica,
escludendo sistematicamente l’influenza socio-politica delle antiche classi
dirigenti europee di origine medievale e che erano state ancora il modello
spirituale dei popoli europei fino alla prima metà del ‘900.
La strategia americana di aggirare l’ostacolo
delle culture locali tradizionalmente dominanti, evitando di confrontarsi con
la coscienza elitaria europea per rivolgersi direttamente al popolo elettore e
consumatore, è tanto apparentemente politicamente efficace quanto storicamente
ingenua, perché fondata sul presupposto antropologico di cui parlava Husserl,
che cioè nel destino razionalistico sia inscritto il destino dell’umanità, ma
interpretandolo in una chiave di lettura tecnocratica che filosoficamente è
disastrosamente sbagliata e che costituisce il peccato originale della civiltà
europea di origine greca. Nel senso che la ragione filosofica che sostiene i
destini dell’umanità non è necessariamente la ragione tecnica partorita dalla
logica dialettica platonica, la quale, procedendo per esclusione degli opposti,
fornisce il modello teoretico della ragione politica, che concepisce i rapporti
umani in termini di lotta e neutralizzazione delle opposizioni intese come l’altro e il diverso non razionalmente assimilabili.
Questa logica di assimilazione o eliminazione
del diverso dialettico, universalizzata come criterio proprio della scienza
politica e adottata come principio direttivo della ragion di Stato americana,
pretende il controllo globale della storia umana, sul presupposto che a
detenerne il modello metafisico sia la civiltà tecnologica occidentale, la quale, in realtà, possiede
soltanto una astratta immagine ideologica dell’homo faber intento a plasmare, con capitali e armamenti, il mondo
caotico secondo le sue forme razionali, credute superstiziosamente le uniche
“vere” e rispetto alle quali ogni altra è ritenuta sbagliata. E’ chiaro che
tale pregiudizio fideistico neo-illuministico, per la sua astrattezza
ideologica e pericolosità politica, ingeneri da parte dei popoli minacciati una
reazione opposta di carattere religioso non meno fideistico, in grado di fronteggiare con il suo dogmatismo fanatico
l’opposto fanatismo e dogmatismo razionalistico.
In questo drammatico scenario epocale, il ruolo
attualmente eclissato dell’Europa può riavere una sua centralità proprio
attraverso un profondo ripensamento della tradizione culturale che ha
ingenerato la superstizione americana, a opera di una filosofia non
socializzata a strumento ideologico del Potere, e quindi potenzialmente
liberatoria dal mito contemporaneo del capitalismo provvidenziale.
Non ci sarebbe da cercare molto per trovare una
tradizione di pensiero europea universalmente inclusiva e carismatica, opposta
a quella esclusiva e formalistica oggi dominante in Occidente, ma basterebbe
rivolgersi a quella cristiana, che sin dalle origini ha rappresentato la
“follia” di una fede “assurda” per la ragione dialettica, ossia che l’uomo non
sia solo ciò che mangia, cioè un “animale razionale”, ma è una “singolarità
spirituale” in grado di pensare la verità dell’Essere. Nondimeno, per una
critica radicale alla cultura razionalistica, occorrerebbe partire dalla
considerazione che la stessa tradizione cristiana, per i suoi sincretismi
filosofici greci, sia all’origine di tutti i fenomeni culturali della
cristianità che, dalla forma imperiale romanistica a quella umanistica e infine
alla attuale liberal-capitalistica, hanno segnato i processi ideali della
civiltà occidentale, di cui il cristianesimo storico è l’antitesi morale ma non
intellettuale.
Per questa fondamentale ragione, il pensiero
cristiano non può inseguire il miraggio globale dell’ideologia razionalistica,
che a suo tempo ha pure ispirato, concependo la propria cattolicità come un controllo religioso delle masse democratiche
concorrente a quello capitalistico, diventando il mero correttivo etico al
fatale corso storico del capitalismo globale, che così verrebbe confermato come
provvidenziale. Sarebbe errore strategico e teologico ben più tragico della
politica concordataria verso i regimi totalitari novecenteschi e della
connivenza rassegnata al comunismo, poiché, se nel caso della politica delle
democrazie totalitarie europee il mondo non ancora ideologicamente e
tecnologicamente globalizzato poteva ancora contare su forti resistenze
politico-culturali, nel caso delle odierne democrazie capitalistiche non ci
sarebbero più alternative storiche alla totale socializzazione delle coscienze
in senso tecnocratico. La forza liberatoria del cristianesimo deve invece
manifestarsi nel perseguire un obiettivo di fede squisitamente impolitico, che
è quello di riaffermare la centralità del kairòs
evangelico quale modello assiologico essenziale della storia umana alternativo
a quello empirico capitalistico; una Storia intesa come processo spirituale dell’Uomo universale, e non
etico-politico dei popoli particolari. L’unità del genere umano, infatti, potrà
conseguirsi solo in senso spirituale e trascendente le storiche particolarità
empiriche, e giammai in senso etico-politico, esclusivo di quelle particolarità
culturali e storiche caratteristiche dell’esperienza esistenziale dell’umanità.
Per giungere a questo obiettivo essenziale, il
cristianesimo spiritualistico deve ritrovare la sua unità carismatica, e quindi
superare in nome della fede comune unica e unitaria in Cristo Redentore le
differenze storiche tra le diverse sue confessioni religiose. Ed è dunque
imprescindibile stabilire all’uopo un rapporto coraggiosamente fraterno con la
tradizione cristiana orientale, non meno martirizzata di quella occidentale
dalle conseguenze storico-politiche degli errori di cultura
teologico-religiosi. Solo assumendo su di sé la croce della espiazione
culturale, il Cristianesimo potrà ritrovare quella centralità spirituale
universale che nessuna delle ideologie storiche potrà mai avere, ma che nel
tentativo di raggiungerlo esse potrebbero ancora fare tanto male all’umanità.
Nella nuova prospettiva cristocratica, le
antiche diatribe teologiche tra le diverse confessioni storiche cadrebbero per
auto-consunzione congiuntamente alle ideologie politiche di cui sono state il
riflesso religioso temporale, la coscienza morale dell’errore culturale. Alla
luce del nuovo corso spirituale, la politica europea del “controllo
ragionevole” del mondo cambierebbe radicalmente di prospettiva, assumendo il
compito non già di controllare le
sorti politiche dei popoli locali in direzione della funzionalità del loro
apporto economico al sistema di mercato globalizzato, ma bensì di includere l’esperienza delle culture
particolari nella Storia eterna dell’Uomo, quali sue possibili espressioni
culturali entro la sua dissimile ma unitaria vicenda universale.
Per sconfiggere ogni atteggiamento cinico
rassegnato al nichilismo storico, basta pensare a come le vicende della storia
etico-politica ripetano incessantemente gli stessi processi fallimentari per
l’uomo, e a come il maggiore benessere materiale conseguito dagli strumenti
tecnologici non restringa le aree di sofferenza, di pericolo e di
insoddisfazione morale, ma le allarghi esponenzialmente, differendone la
soluzione a un futuro che non arriva mai. E questo perché gli strumenti sempre
più affinati perseguono fini con essi inconseguibili, perché di natura
spirituale e non materiale. Debellare la fame, la povertà, le malattie equivale
a sconfiggere la stessa finitezza della condizione umana, che non può essere
negata come il negativo dialettico del bene della vita, ma solo trascesa da
considerazioni dell’esperienza umana non fondate su tecniche in grado di
allungare o estendere la vita biologica dell’uomo ideale, mondato di tutte le
imperfezioni da modello fisiologico, ma a rappresentarla per come essa si
chiarisce esistenzialmente. Il fine giustifica il mezzo a esso omogeneo,
altrimenti sono reciprocamente incongrui. La qualità della vita non si misura
con le cartelle merceologiche o cliniche, ma sulla base della sicurezza
ontologica nei fondamenti spirituali della vita. Siamo certi che lo
sradicamento culturale operato dai processi dell’ideologia capitalistica
aiutino i popoli a condurre un’esistenza migliore? Se così fosse, perché il
dramma stesso dell’Europa cristiana? Ma come poteva la fede cristiana
affermarsi con gli strumenti della politica senza trasformarsi in religione
ideologica? E come potrebbe liberare l’umanità dai limiti naturali una
ideologia come quella capitalistica se fa dell’uomo lo strumento della
produzione e del consumo che tengono in vita il sistema?
Si è creduto per tempo che fosse stato il
messianismo escatologico della religione il fomite della catastrofe
antropologica del moderno. Oggi siamo passati dal servizio alla Storia al
servizio al Mercato, ma l’uomo non è ancora mai al centro della esistenza
storica. L’Europa, a poche generazioni dal disastro mondiale, riprende ad avere
rigurgiti razzistici e xenofobi da cui pareva si fosse liberata avendo adottato
ideologie e sistemi democratici. Ciò è intollerabile a una coscienza moralmente
coltivata, ma anche comprensibile per chi sia stato allevato alle ideologie
edonistiche del materialismo economicistico, che vede nell’uomo il consumatore
o il concorrente potenziale, e dal politicismo della lotta partitica di massa,
che insegna a scorgere nell’uomo il nemico anziché il convivente. Sono criteri
perversi di concepire i rapporti umani, ma omologati dalle ideologie dominanti,
accreditate a sua volta dalla tradizione culturale occidentale.
Le loro motivazioni teoriche non sono di dominio
pubblico ma la logica che le sostiene si diffonde nelle masse e diventa
mentalità corrente, dilagante e pervasiva come lo è l’istinto della specie non
moralmente infrenato e corretto. Ma la scommessa della fede cristiana è di far
emergere dal naufragio spirituale, operato dalla pedagogia dell’assuefazione
all’innato gene egoista, la natura divina dell’uomo, la sua possibilità unica
di concepirsi come coscienza del mondo e testimone del tempo. Solo all’interno
di una siffatta antropologia è possibile vedere nell’esperienza esistenziale
del Cristo la vicenda eterna di ogni uomo di ogni tempo, e perciò nella Sua
storia quella stessa dell’umanità. Va da sé che l’umanità di ogni uomo non sia l’astratta umanità idoleggiata dal
razionalismo moderno, che sotto sembianze di Popolo, Classe, Razza, Nazione o
Religione ha immolato innumeri vittime umane.
Se la ragion di Stato sceglie Barabba, l’uomo di
fede sceglie coraggiosamente Gesù. Dopo aver visto crollare Imperi e Stati che
parevano eterni e preservarsi la sua fede, non ha neppure più bisogno di
nascondersi pavidamente come Pietro alle folle.
Costantino Marco
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