giovedì 9 aprile 2015

INTEGRAZIONE O RIVOLUZIONE (di Costantino Marco)

La distanza ideologica che le nuove generazioni di italiani dimostrano di avere dalla classe politica contemporanea è comprovata non solo dalla scarsa affluenza alle urne nelle tornate elettorali, ma soprattutto dalla scarsa considerazione che nutrono verso i loro formali rappresentanti, considerati generalmente dediti agli affari proprii anziché al bene comune.
In realtà i giovani, cresciuti nelle aspettative di un benessere anche maggiore di quello dei loro genitori, nutrono verso il potere politico attuale la delusone di chi si senta tradito dalla mancanza di esaudizione del patto elettorale, che chiedeva consenso in cambio di vantaggi personali. Oggi il potere politico non è più in grado di soddisfare il sinallagma, per cui con la mancanza di controprestazione politica viene mano la prestazione elettorale. Insomma, tu non mi puoi più dare niente in cambio, e io non ti voto più. Questo “Tu” del rapporto politico non era necessariamente la parte a cui si era tradizionalmente legati per vincoli ideologici, ma un generico soggetto politico, in grado appunto di garantire al suo elettore un qualche vantaggio personale.
L’idea che la società civile sia altra e migliore dalla classe politica, è soltanto una rappresentazione di maniera, che ignora, per insipienza o scientemente, le reali condizioni morali del paese. La realtà è che la consapevolezza generale della inconsistenza, culturale prima che politica, della nostrana classe dirigente ha provocato una sorta di scettico disincanto sulla possibilità di una correzione di rotta, per cui l’unico rimedio al disastro collettivo poteva essere solo il salvataggio individuale, secondando così la vulgata utilitaristica. Ma l’egoismo come risorsa esistenziale, correttiva della generale crisi di valori, a fronte della situazione italiana, dimostra, anzitutto, quanto sia inconsistente la teoria sociologica che prevede un vantaggio generale dall’esercizio degli appetiti individuali, e inoltre manifesta come la mentalità familistica e individualistica nasca proprio sul terreno incolto di una morale pubblica assente.
La morale “pubblica”, diversamente da quella “privata”, deve rispondere non tanto della efficacia delle azioni politiche che la realizzano, ossia di una congruità razionale tra mezzi e scopi, quanto deve considerare dell’azione politica la sua significatività alla luce del valore che essa testimonia concretamente. In questo senso i comportamenti politici dell’uomo pubblico sono sempre altamente simbolici, in quanto la sua funzione appunto pubblica li destina a una significatività che oltrepassa la mera immediata efficacia utilitaristica. Tale oltrepassa mento non è altro che il loro duraturo valore educativo.
La politica virtuosa è un esercizio pedagogico dei valori di socialità che vincolano moralmente i membri del gruppo, da quello locale a quello nazionale, tale che il loro valore simbolico sia istruttivo tanto per coloro che si propongano di servire le istituzioni, quanto per i comuni cittadini elettori. E’ noto infatti il valore che riveste l’esempio in materia morale.
Ora, se noi pensiamo alla portata pedagogica che l’esempio della classe politica italiana ha offerto ai cittadini, ci rendiamo conto della qualità del loro possibile rapporto pratico.
Naturalmente, non si tratta di un generico stigma antropologico di determinati ceti sociali, ma di una storica cultura politica, la quale ha creato un sistema autoreferenziale di legittimazione ideologica che è servita a preservare il loro potere dagli attacchi di ogni istanza politicamente contraria o idealmente concorrente. L’inevitabile sbocco immorale di una prassi politica tendente a identificare il bene comune con i temporanei interessi maggioritari è dovuto proprio al monopolio della loro rappresentanza da parte di una oligarchia accreditatasi come detentrice unica del bene comune, e quindi inamovibile senza la conseguente destrutturazione del sistema. La conseguenza più rilevante di questo presuntivo monopolio del presunto bene comune è la irreformabilità dei relativi sistemi politici, che sono indicati come “democratici” da parte dei suoi fautori, e “oligarchici”, da parte dei loro detrattori.
La cultura politica di cui si tratta è, per l’Italia, quella realizzata dal sistema partitocratico legittimato dalla Costituzione repubblicana, alla cui ombra ideologica si sono formate intere generazioni di farisaici esegeti, adusi a un culto profano della Legge tutt’altro che laico e in verità intellettualmente molto superstizioso, che alzano alti anatemi a quanti osano a mettere in discussione una struttura istituzionale che, contro ogni evidente disfunzione, viene ritenuta sacra perché migliore di ogni altra possibile per il popolo italiano.
E’ ovvio che per quanti abbiano fatto le proprie fortune al riparo dei pregiudizi di tali dogmi dottrinarii, non possa provenire alcun serio contributo in senso riformatore, per cui è scontata la loro interessata avversione alla semplice considerazione etico-politica che senza una rimozione ideale dei fondamenti ideologici costituzionali dello Stato non sarà possibile alcuna riforma politica e morale dell’Italia. Infatti, è in quei fondamenti ideologici lo humus della mala pianta partitocratica, e la fonte di legittimazione etica del relativo sistema istituzionale, tanto vituperato per le conseguenze pratiche quanto difeso nei suoi princìpi ispiratori. 
Ed è sulla difesa di tali principi, ovvero sulla volontà di riformarli, che andrebbe considerata la posizione delle forze politiche nazionali, e non sulla base di astratti e anacronistici motivi ideologici di tempi passati, bene per chi se ne è avvantaggiato, e passati male per chi ne è stato la vittima. Questo parametro consentirebbe di valutare l’autentica portata riformatrice della rappresentanza politica delle forze in competizione, smascherando sia  l’ipoteca ideologica accesa dalla Sinistra italiana sullo status quo, che la sua difesa corporativa di quei settori della società nazionale garantiti dal regime nel loro benessere.
Inoltre, consentirebbe di comprendere la sudditanza ideologica di una fantomatica Destra parlamentare alla cultura repubblicana, che nella Sinistra trova i suoi più accesi corifei e i suoi più motivati conservatori politici.
Alla luce di questo parametro filo- o anti-costituzionale, ci renderemmo conto anche del significato reale della politica “interclassista” portata avanti dai maggiori partiti repubblicani, oggi emulati nei metodi dalle nuove istanze maggioritarie di destra e di sinistra, la cui politica, dietro le formali divisioni retoriche, cela una omogeneità di interessi politici concorrenti, tesi comunemente a garantire i ceti assistiti attraverso usuali pratiche elettoralmente clientelari, che oggi trovano risorse e possibilità soprattutto in ambito locale, a seguito della sconsiderata autonomia finanziaria regionale, la cui scriteriata gestione delle risorse pubbliche da parte di fameliche schiere di bucanieri politicanti costituisce il vero fomite di ogni corruzione.
La trasversalità degli interessi politici comuni dei partiti solo elettoralmente concorrenti, se per un verso ha radicato quelle pratiche clientelari trasformandole da costume oligarchico a logica sistemica, per altro verso ha omologato a questo comportamento politicante il costume etico nazionale, sicché la stessa alternanza di potere (anche quando è stata possibile a livello di governo nazionale) non ha alterato sostanzialmente il suo comune stile di esercizio. Da qui la irreformabilità del sistema politico italiano che, dal Comune al Governo, persegue con gli stessi metodi di gestione gli stessi scopi di potere, ossia salvaguardare la parte socio-politica di riferimento elettorale, a scapito di ogni comune interesse generale.
La questione morale, dunque, proprio in quanto originata dallo stesso fondamento della legittimità istituzionale dello Stato, e cioè dalla Costituzione, va ben oltre i termini della weberiana “etica della responsabilità”. Nel caso italiano, infatti, non si tratta di considerare l’esistenza o meno di un criterio di contemperamento tra i diversi interessi particolari concorrenti nella funzione pubblica, ma bensì di ripristinare la più fondamentale distinzione di valore tra l’azione “pubblica”, avente un significato politicamente ultra-rappresentativo rispetto ai particolari interessi clientelari, e l’azione meramente rappresentativa degli interessi elettoralistici dei partiti, la cui funzione conserva un valore “privato” anche quando esercitata nella funzione di governo, e perciò derimibile solo attraverso l’azione di un Governo legittimato secondo criteri diversi dai mutevoli equilibri parlamentari dei partiti d’interesse.
Ma proprio questa distinzione fondamentale manca nella Costituzione italiana, strutturata per conservare alla sola rappresentanza parlamentare delle forze particolari l’esercizio sia del potere legislativo che quello di governo, confuso quest’ultimo con un accordo maggioritario, anziché distinto come funzione essenzialmente “pubblica”, in nessun modo coincidente con quella della rappresentanza politica dei particolari interessi sociali, sia pure diffusi e trasversali.
Senza una distinta funzione di governo, non potrà cambiare il sistema parlamentare che ha consolidato con i risultati che sappiamo la sua logica sistemica, in cui consiste appunto la partitocrazia, ossia l’esercizio del potere pubblico da parte di soggetti di interesse privato, e cioè quei partiti politici che oggi sono diretti da personaggi che non sono stati neppure eletti dai cittadini.
Di fronte a questa aberrante situazione, l’unico sensato confronto è tra chi, pur proponendo aggiustamenti tecnici e correttivi istituzionali, aderisce alla sua logica sistemica, e chi invece la critica per superarla. Ma dev’essere chiaro che, all’interno della logica del sistema partitocratico, la mera concorrenza elettorale dei distinti partiti non ha alcun significato politico sostanziale. E’ questa la ragione della progressiva integrazione di ogni opposizione politica alla logica del sistema una volta coinvolta alla guida del governo e delle istituzioni repubblicane. Ed è per la stessa ragione che il regime partitocratico non possa auto-emendarsi, ma solo essere superato con una nuova forma di Stato, attraverso un radicale revisione dei suoi fondamenti  costituzionali.
In questo senso, l’Italia ha bisogno di politiche “rivoluzionarie” se vuole avere un decoroso futuro, che vadano oltre le miopi politiche integrazionistiche care all’immorale sistema clientelare, i cui disastri civili sono sotto gli occhi ormai di tutti, anche dei ceti tradizionalmente assistiti, e oggi non più garantiti.

Ma per dar seguito a un progetto realmente riformatore, l’Italia necessita non certo di nuove insegne a custodia delle antiche ditte affaristiche, ma bensì di un nuovo corso culturale che sancisca la loro non solo pratica obsolescenza politica, ossia occorrono nuove ispirazioni spirituali in grado di formare e selezionare una nuova classe dirigente, non solo anagraficamente giovane.

Costantino Marco

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