La distanza ideologica che le nuove generazioni
di italiani dimostrano di avere dalla classe politica contemporanea è
comprovata non solo dalla scarsa affluenza alle urne nelle tornate elettorali,
ma soprattutto dalla scarsa considerazione che nutrono verso i loro formali
rappresentanti, considerati generalmente dediti agli affari proprii anziché al
bene comune.
In realtà i giovani, cresciuti nelle aspettative
di un benessere anche maggiore di quello dei loro genitori, nutrono verso il
potere politico attuale la delusone di chi si senta tradito dalla mancanza di
esaudizione del patto elettorale, che chiedeva consenso in cambio di vantaggi
personali. Oggi il potere politico non è più in grado di soddisfare il
sinallagma, per cui con la mancanza di controprestazione politica viene mano la
prestazione elettorale. Insomma, tu non mi puoi più dare niente in cambio, e io
non ti voto più. Questo “Tu” del rapporto politico non era necessariamente la
parte a cui si era tradizionalmente legati per vincoli ideologici, ma un
generico soggetto politico, in grado appunto di garantire al suo elettore un
qualche vantaggio personale.
L’idea che la società civile sia altra e
migliore dalla classe politica, è soltanto una rappresentazione di maniera, che
ignora, per insipienza o scientemente, le reali condizioni morali del paese. La
realtà è che la consapevolezza generale della inconsistenza, culturale prima
che politica, della nostrana classe dirigente ha provocato una sorta di
scettico disincanto sulla possibilità di una correzione di rotta, per cui
l’unico rimedio al disastro collettivo poteva essere solo il salvataggio
individuale, secondando così la vulgata utilitaristica. Ma l’egoismo come
risorsa esistenziale, correttiva della generale crisi di valori, a fronte della
situazione italiana, dimostra, anzitutto, quanto sia inconsistente la teoria
sociologica che prevede un vantaggio generale dall’esercizio degli appetiti
individuali, e inoltre manifesta come la mentalità familistica e
individualistica nasca proprio sul terreno incolto di una morale pubblica
assente.
La morale “pubblica”, diversamente da quella
“privata”, deve rispondere non tanto della efficacia delle azioni politiche che
la realizzano, ossia di una congruità razionale tra mezzi e scopi, quanto deve
considerare dell’azione politica la sua significatività alla luce del valore
che essa testimonia concretamente. In questo senso i comportamenti politici
dell’uomo pubblico sono sempre altamente simbolici, in quanto la sua funzione
appunto pubblica li destina a una significatività che oltrepassa la mera
immediata efficacia utilitaristica. Tale oltrepassa mento non è altro che il
loro duraturo valore educativo.
La politica virtuosa è un esercizio pedagogico
dei valori di socialità che vincolano moralmente i membri del gruppo, da quello
locale a quello nazionale, tale che il loro valore simbolico sia istruttivo
tanto per coloro che si propongano di servire le istituzioni, quanto per i
comuni cittadini elettori. E’ noto infatti il valore che riveste l’esempio in
materia morale.
Ora, se noi pensiamo alla portata pedagogica che
l’esempio della classe politica italiana ha offerto ai cittadini, ci rendiamo
conto della qualità del loro possibile rapporto pratico.
Naturalmente, non si tratta di un generico
stigma antropologico di determinati ceti sociali, ma di una storica cultura
politica, la quale ha creato un sistema autoreferenziale di legittimazione
ideologica che è servita a preservare il loro potere dagli attacchi di ogni
istanza politicamente contraria o idealmente concorrente. L’inevitabile sbocco
immorale di una prassi politica tendente a identificare il bene comune con i
temporanei interessi maggioritari è dovuto proprio al monopolio della loro
rappresentanza da parte di una oligarchia accreditatasi come detentrice unica
del bene comune, e quindi inamovibile senza la conseguente destrutturazione del
sistema. La conseguenza più rilevante di questo presuntivo monopolio del
presunto bene comune è la irreformabilità dei relativi sistemi politici, che
sono indicati come “democratici” da parte dei suoi fautori, e “oligarchici”, da
parte dei loro detrattori.
La cultura politica di cui si tratta è, per
l’Italia, quella realizzata dal sistema partitocratico legittimato dalla
Costituzione repubblicana, alla cui ombra ideologica si sono formate intere
generazioni di farisaici esegeti, adusi a un culto profano della Legge
tutt’altro che laico e in verità intellettualmente molto superstizioso, che
alzano alti anatemi a quanti osano a mettere in discussione una struttura
istituzionale che, contro ogni evidente disfunzione, viene ritenuta sacra
perché migliore di ogni altra possibile per il popolo italiano.
E’ ovvio che per quanti abbiano fatto le proprie
fortune al riparo dei pregiudizi di tali dogmi dottrinarii, non possa provenire
alcun serio contributo in senso riformatore, per cui è scontata la loro
interessata avversione alla semplice considerazione etico-politica che senza
una rimozione ideale dei fondamenti ideologici costituzionali dello Stato non
sarà possibile alcuna riforma politica e morale dell’Italia. Infatti, è in quei
fondamenti ideologici lo humus della
mala pianta partitocratica, e la fonte di legittimazione etica del relativo
sistema istituzionale, tanto vituperato per le conseguenze pratiche quanto
difeso nei suoi princìpi ispiratori.
Ed è sulla difesa di tali principi, ovvero sulla
volontà di riformarli, che andrebbe considerata la posizione delle forze
politiche nazionali, e non sulla base di astratti e anacronistici motivi
ideologici di tempi passati, bene per chi se ne è avvantaggiato, e passati male
per chi ne è stato la vittima. Questo parametro consentirebbe di valutare
l’autentica portata riformatrice della rappresentanza politica delle forze in
competizione, smascherando sia l’ipoteca
ideologica accesa dalla Sinistra italiana sullo status quo, che la sua difesa corporativa di quei settori della
società nazionale garantiti dal regime nel loro benessere.
Inoltre, consentirebbe di comprendere la
sudditanza ideologica di una fantomatica Destra parlamentare alla cultura
repubblicana, che nella Sinistra trova i suoi più accesi corifei e i suoi più
motivati conservatori politici.
Alla luce di questo parametro filo- o
anti-costituzionale, ci renderemmo conto anche del significato reale della
politica “interclassista” portata avanti dai maggiori partiti repubblicani,
oggi emulati nei metodi dalle nuove istanze maggioritarie di destra e di
sinistra, la cui politica, dietro le formali divisioni retoriche, cela una omogeneità
di interessi politici concorrenti, tesi comunemente a garantire i ceti
assistiti attraverso usuali pratiche elettoralmente clientelari, che oggi
trovano risorse e possibilità soprattutto in ambito locale, a seguito della
sconsiderata autonomia finanziaria regionale, la cui scriteriata gestione delle
risorse pubbliche da parte di fameliche schiere di bucanieri politicanti
costituisce il vero fomite di ogni corruzione.
La trasversalità degli interessi politici comuni
dei partiti solo elettoralmente concorrenti, se per un verso ha radicato quelle
pratiche clientelari trasformandole da costume oligarchico a logica sistemica,
per altro verso ha omologato a questo comportamento politicante il costume
etico nazionale, sicché la stessa alternanza di potere (anche quando è stata
possibile a livello di governo nazionale) non ha alterato sostanzialmente il
suo comune stile di esercizio. Da qui la irreformabilità del sistema politico
italiano che, dal Comune al Governo, persegue con gli stessi metodi di gestione
gli stessi scopi di potere, ossia salvaguardare la parte socio-politica di
riferimento elettorale, a scapito di ogni comune interesse generale.
La questione morale, dunque, proprio in quanto
originata dallo stesso fondamento della legittimità istituzionale dello Stato,
e cioè dalla Costituzione, va ben oltre i termini della weberiana “etica della
responsabilità”. Nel caso italiano, infatti, non si tratta di considerare
l’esistenza o meno di un criterio di contemperamento tra i diversi interessi
particolari concorrenti nella funzione pubblica, ma bensì di ripristinare la
più fondamentale distinzione di valore tra l’azione “pubblica”, avente un
significato politicamente ultra-rappresentativo rispetto ai particolari
interessi clientelari, e l’azione meramente rappresentativa degli interessi
elettoralistici dei partiti, la cui funzione conserva un valore “privato” anche
quando esercitata nella funzione di governo, e perciò derimibile solo
attraverso l’azione di un Governo legittimato secondo criteri diversi dai
mutevoli equilibri parlamentari dei partiti d’interesse.
Ma proprio questa distinzione fondamentale manca
nella Costituzione italiana, strutturata per conservare alla sola
rappresentanza parlamentare delle forze particolari l’esercizio sia del potere
legislativo che quello di governo, confuso quest’ultimo con un accordo
maggioritario, anziché distinto come funzione essenzialmente “pubblica”, in
nessun modo coincidente con quella della rappresentanza politica dei
particolari interessi sociali, sia pure diffusi e trasversali.
Senza una distinta funzione di governo, non
potrà cambiare il sistema parlamentare che ha consolidato con i risultati che
sappiamo la sua logica sistemica, in cui consiste appunto la partitocrazia,
ossia l’esercizio del potere pubblico da parte di soggetti di interesse
privato, e cioè quei partiti politici che oggi sono diretti da personaggi che
non sono stati neppure eletti dai cittadini.
Di fronte a questa aberrante situazione, l’unico
sensato confronto è tra chi, pur proponendo aggiustamenti tecnici e correttivi
istituzionali, aderisce alla sua logica sistemica, e chi invece la critica per
superarla. Ma dev’essere chiaro che, all’interno della logica del sistema
partitocratico, la mera concorrenza elettorale dei distinti partiti non ha
alcun significato politico sostanziale. E’ questa la ragione della progressiva
integrazione di ogni opposizione politica alla logica del sistema una volta
coinvolta alla guida del governo e delle istituzioni repubblicane. Ed è per la
stessa ragione che il regime partitocratico non possa auto-emendarsi, ma solo
essere superato con una nuova forma di Stato, attraverso un radicale revisione
dei suoi fondamenti costituzionali.
In questo senso, l’Italia ha bisogno di
politiche “rivoluzionarie” se vuole avere un decoroso futuro, che vadano oltre
le miopi politiche integrazionistiche care all’immorale sistema clientelare, i
cui disastri civili sono sotto gli occhi ormai di tutti, anche dei ceti
tradizionalmente assistiti, e oggi non più garantiti.
Ma per dar seguito a un progetto realmente
riformatore, l’Italia necessita non certo di nuove insegne a custodia delle
antiche ditte affaristiche, ma bensì di un nuovo corso culturale che sancisca
la loro non solo pratica obsolescenza politica, ossia occorrono nuove ispirazioni
spirituali in grado di formare e selezionare una nuova classe dirigente, non
solo anagraficamente giovane.
Costantino Marco
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