La politica italiana è fatta anche di piccole
storie, quelle che rappresentano più concretamente la situazione reale di un
Paese alla deriva, dove si può scherzare dei santi ma la critica del sistema
non è ammessa, dove un omosessuale può vantarsi di aver lasciato moglie e figli
per un giovane dell’età del figlio ma non si può dichiarare senza scalpore che
la famiglia è un valore sociale e che la sua consacrazione religiosa è un
impegno di coscienza, prima che legale. Naturalmente, ciò che il filtro della
propaganda di regime fa trasparire non è l’Italia concreta, ma l’immagine
ideale della sua rappresentazione ideologica. Ma l’incidenza mass-mediale di
tale martellante informazione, accompagnata a quella dei films, della
letteratura, degli spettacoli di intrattenimento e della vulgata in uso nei
testi scolastici, crea una atmosfera culturale contagiosa, che funge da calco
retorico nelle discussioni pubbliche e istituzionali, la cui risonanza ingenera
negli ascoltatori distratti il convincimento che in quei luoghi topici risieda
ogni cifra di verità e di buon senso.
Che ci sia una varietà di opinioni, e persino di
inconsapevoli pregiudizi, è la pre-condizione di ogni possibile dialogo, ma
costituisce un problema dialogico allorquando ingenera l’idea che la varietà
debba inevitabilmente condurre al relativismo delle istanze etiche. Ossia
condurre al dominio della ipotesi sofistica, per la quale non vi è alcuna
possibilità di derimere quella varietà non esistendo una verità comune.
D’altro canto, se non si credesse nelle verità
di parte non si fonderebbero neppure i partiti che la propugnerebbero, sicché
la verità è unica per chi ci crede, ed è un sofisma per gli altri, che hanno la
loro. Su questa inconcludente dialettica si basa il confronto parlamentare, in
cui ogni partito diventa portavoce di una opinione affermata come verità di
parte, che si scontra con altre omologhe di altre parti concorrenti. E non
esistendo una verità comune, non resta che mettersi d’accordo, addivenendo a un
pacifico compromesso. Questo esito pacifico scongiura scontri sociali cruenti
tra fazioni politiche, ma non assicura la giustezza delle risoluzioni
compromissorie. E questo è il punctum
dolens del relativismo etico-politico, che finisce per scontentare tutti i
rappresentati, che alla fine rigettano il compromesso dei contraenti, giungendo
a credere che i politici siano dei parolai inconcludenti e che la democrazia
parlamentare sia un regime di affarismo fraudolento. Come dire il contrario?
Certo, esistono politici seri e preparati,
onesti e disinteressati. Ma ciò non toglie che il regime politico in cui
operano sia un sistema basato essenzialmente sul sofisma che la credenza
condivisa sia la verità. su questo sofisma vengono promulgate le leggi dello
statuali, varati governi e prese delicate e gravose decisioni interne e di
carattere internazionale, come l’organizzazione amministrativa dello Stato e,
rispettivamente, le alleanze diplomatiche e militari. In teoria, ogni cambio di
maggioranza potrebbe provocare un cambio di indirizzo generale della vita
politica dello Stato, esercitando un potere costituente.
La debolezza strutturale dei regimi parlamentari
viene corretta, legislativamente o di fatto, per mezzo della incidenza
decisionale di un Governo forte, che sedi le dispute parlamentari logorroiche e
riporti ordine nella società civile, chiamata a parteggiare incessantemente per
o contro le fazioni politiche in competizione. La stessa necessità di prevedere
tale mistura istituzionale, conferma che il parlamentarismo non sia il miglior
regime politico concepibile, e anzi sia uno dei più esposti alle lusinghe
demagogiche, ossia alle opinioni ballerine della massa.
Se, dunque, le opinioni emotive della massa
hanno bisogno di una forma politica che razionalmente le traduca in istanze
pubbliche, vuol dire che la loro bontà è dovuta alla rappresentazione che di
esse ne danno i partiti. Ed è in questa insuperabile mediazione formale che si
va a costituire il potere delle burocrazie parlamentari e quello ancora più
anonimo e arbitrario delle oligarchie partitiche.
Questa deriva oligarchica delle formazioni
partitiche è ben nota da tempo agli studiosi, e non è certamente propria del
regime italiano. Ma proprio per questo è grave che i costituenti repubblicani,
smaniosi solo a cancellare le tracce formali del fascismo e a liquidare la Corona risorgimentale, non
ne abbiano tenuto conto, provocando le premesse della nostrana disastrosa
partitocrazia. Era infatti del tutto prevedibile che, senza più la presenza
istituzionale della Corona e con un Presidente della Repubblica eletto dal
Parlamento, che ha in mano a ogni votazione legislativa le sorti del Governo, il
potere dei partiti sarebbe stato viepiù dilagante e straripante rispetto a ogni
allotrio contenimento morale e culturale da parte della società civile
italiana. Se davvero questi presunti soloni fossero stati davvero all’altezza
del compito, non saremmo arrivati alla crescente privatizzazione del potere
politico in Italia da parte di ristrette oligarchie partitiche che decidono le
sorti dei gruppi parlamentari e dei governi nazionali. Un Paese, senza più
istituzioni nazionali unitarie, e nelle mani di una cricca di politici
mestieranti, che decidono su ogni ambito della vita civile, dall’industria
all’università, che futuro poteva avere? Nessuno.L’Italia, infatti, è diventata
un mosaico di tante piccole realtà locali, ognuna con un suo particolare futuro
nello scenario dissoluto e dissolutorio di una realtà nazionale che si è
pervicacemente voluta essenzialmente ed esclusivamente politica, che stentano a
sopravvivere, in perenne difesa dalle incongruenze, violenze e stupidità di uno
Stato ostile, che anziché difendere i cittadini da se stessi, ne esalta i vizi
e ne mortifica le virtù.
Che l’Italia repubblicana non abbia mai avuto un
vero Governo, cioè il luogo delle etiche decisioni per i bene comune, lo prova
ogni piccolo e grande incidente nazionale, da un’alluvione alla politica
estera. L’Italia non c’è più. Ci sono le piccole patrie, con le loro
tradizioni, i loro costumi, i loro dialetti, il loro folklore e le loro
amministrazioni locali, dalle quali provengono ormai i politici nazionali,
anche quelli che ci governano. Era inevitabile che l’unitario processo
risorgimentale, costato tante lotte e tanta abnegazione, tornasse, nelle mani
degli ideologi politicanti, alle origini da cui era partito, ossia alle piccole
patrie locali, e quindi per sviluppare quello spirito campanilistico e a volte
settario così tradizionale, e che i partiti hanno esacerbato con le loro
faziose contese elettorali, trasformando la vita sociale italiana in una
perenne lotta civile tra bande politicizzate.
Ma è davvero la politica la più alta risposta
esistenziale dell’uomo? O non piuttosto la più primitiva e cruenta? Forse
bisogna partire da questo elementare ma essenziale interrogativo per formulare
risposte non scontate e ripetute per l’inerzia di una ragione sempre più
intessuta di luoghi comuni e di chiacchiere da salotti televisivi, sempre più
ripetitivi, evanescenti e patetici.
La globalizzazione economica è, per altri versi,
l’universalizzazione della logica politica del conflitto sociale organizzato,
in cui i partiti prendono il posto delle classi sociali nel primo capitalismo,
ovvero dei clan e delle tribù di un tempo. Ma sono queste le uniche risposte
disponibili all’uomo? Quelle neo-pagane di un’antropologia de-spiritualizzata
di esseri produttori e consumatori, di beni come di ideologie? O esistono altre
forme di convivenza che non siano ascrivibili al pòlemos, cioè alla logica del conflitto, in grado di assegnare all’uomo
un primato non solo tecnologico sulle altre specie animali, ma morale e
ontologico? L’evento cristico ha già dato all’umanità la sua eterna risposta,
che la coscienza storica non può eludere, perché su quell’evento essa stessa si
fonda, pur avendolo rimosso.
Se vi è per i cristiani oggi un luogo
privilegiato di discussione pubblica, è proprio questo. Dopo la stagione
dell’impegno politico e delle dubbie commistioni ideologiche con gli eventi a
tratti nefasti del passato, una nuova deve aprirsi su un tema cruciale come
questo. Forse l’unico che raccolga, con l’esperienza bimillenaria della
testimonianza cristiana, anche le speranze antropologiche di una civiltà in
crisi in un futuro che non sia la semplice riedizione aggiornata delle culture
del passato.
Soprattutto a seguito della diffusione di temi intellettuali
legati alla rappresentazione pragmatistica e scientistica dell’homo faber, la cultura d’ispirazione
cristiana ha preferito conservare posizioni di retroguardia, correndo il
rischio di assestarsi su posizioni critiche della civiltà moderna ma non in
grado di proporre, dopo quella della tradizione teologica, una nuova sintesi di
fide set ratio che fornisse un nuovo
quadro di riferimento teoretico, non soltanto alternativo a quello delle varie offerte filosofiche ed
epistemologiche d’impianto razionalistico, ma anche ontologicamente diverso, inerendo a una dimensione
spiritualistica dell’uomo.
Soprattutto dopo il Concilio Vaticano II,
allorquando la visione del mondo moderna nel suo insieme stava consumando la
sua crisi anche religiosamente evidente, la cultura cristiana ha cercato un
contatto con essa retrospettivamente anacronistico, accreditandone, sia pure
nolentemente, le sue estreme versioni edonistiche e politi cistiche,
perseguendo un allineamento maldestro che come effetto ha sortito la sua
perdita di credibilità, a partire dal clero minuto, negli ambienti sociali di
prima scolarizzazione, culturalmente più esposti alle sue insidie demagogiche,
così che intere generazioni di insegnanti di ogni livello, laici e religiosi,
divennero la fonte divulgativa dei motivi più frusti di una cultura
agonizzante, che attraverso la massificazione dell’informazione penetravano in
ambiti prima risparmiati alla sua pervasività.
Temi come la libertà, la democrazia, la povertà,
la sessualità, la società, la famiglia, la cultura etc., furono riletti in una
chiave razionalistica funzionale alla loro credibilità ideologica rispetto alle
correnti più in voga, politicamente alternative ma comunque interne a una visione
economicistica dell’uomo e della società, come quella capitalistica e quella
comunistica, che si contendevano la propria versione della democrazia politica
a livello planetario.
Ancora oggi si assiste al cosiddetto “impegno
civile” di preti moderni che
concepiscono il loro ruolo religioso
come ausiliario a quello delle confraternite della carità, spaziando dal
ricupero delle prostitute a quello dei drogati, in una realtà competitiva che
alimenta l’emarginazione dei poveri e dei deboli, senza però mettere in
questione i suoi fondamenti ideologici, ma anzi dichiarandoli proprii.
Oppure assistiamo all’ “impegno culturale” di
teologi che scoprendo Kant dopo S. Tommaso, e senza mai aver letto e meditato
Kierkegaard, si ritengono d’avanguardia,
giocando a dialogare con gli ambienti ateistici in misura crescente in
relazione alla loro vantata disinibizione dottrinaria, la quale tutt’al più
rivela un vuoto di coscienza spirituale a dir poco imbarazzante, che
procurerebbe gran pena morale se non provenisse appunto da loro.Sono, tutti
loro, figli del Concilio, usciti dai seminari semi-deserti della Chiesa
offuscata dalle ideologie ateistiche ed edonistiche, guidata, soprattutto in
periferia, da pastori di umili origini, senza sincera vocazione e senza
accurata selezione, che assistevano alla dissoluzione morale della società e
per insipienza e lassismo lasciavano correre, preoccupandosi più delle loro
relazioni col potere politico che di esercitare con autorevolezza su di esso il
loro residuo potere spirituale in senso correttivo.
Il lassismo morale di questi falsi pastori, non
soltanto non ha scongiurato la deriva dissolutoria della società civile, ma ha
inciso negativamente sulla stessa comunità religiosa, spesso ricettacolo di
inconfessate perversioni. Alcune assurte all’eco della cronaca giudiziaria,
altre ancora criptate dall’omertà ecclesiastica. Ancora oggi non è raro il caso
di parroci milionari, che tra oboli e stipendi, intestando tutti i beni a
famigliari o pupilli personali, non destinando alla Chiesa almeno parte di ciò
che pure da essa hanno preteso per una vita. Caso esecrabile, ma che non fa
quasi più scalpore, essendo acquisito alla coscienza comune dei fedeli che
quello del sacerdote è un mestiere come altri, la cui vocazione riguarderebbe
la coscienza di chi l’esercita.
La società civile che si rassegna o finge di non
accorgersi del sistematico ladrocinio politico, è omologa alla comunità
religiosa che finge di non accorgersi del degrado morale del clero, o si
rassegna ad esso come di un danno collaterale inevitabile, visti i tempi. In
realtà sono aspetti distinti di una stessa realtà moralmente degradata, che
dietro le forme convenzionali nasconde contenuti sostanziali osceni.
Certo, la Chiesa universale ha quasi infinite risorse
morali, che le società civili degli Stati nazionali non hanno. E non per soli
motivi quantitativi, ma perché la sua destinazione storica non è scollegabili
dal fine trascendente che la anima, e che segna la differenza rispetto alla
considerazione puramente naturalistica dell’uomo e della convivenza sociale. Ma
son pur sempre risorse legate alla libera responsabilità della coscienza
singolare, per cui il loro dispiegamento storico deve trovare un suo percorso
formale che ne manifesti il suo intrinseco carattere morale. In questo consiste
la testimonianza.
Orbene, quando sentiamo, anche da fonte
cristiana, per così dire, “adulta”, che la cultura cristiana sarebbe una delle
tante espressioni intellettuali del nostro tempo, contando fra esse ideologie e
indirizzi di pensiero secolari, a noi pare che tale notazione sociologica
nasconda implicitamente un’ammissione di irrilevanza culturale fuori del suo
particolare contesto di riferimento, quasi che l’incidenza del Cristianesimo
fosse consegnata ormai a un orizzonte religioso auto-referenziale interno ai
confini del mondo controllato dagli ambienti ecclesiastici. Ma la
trasformazione del Cristianesimo in una ideologia tra le tante del nostro
tempo, è esattamente il prodotto della crisi spirituale dell’età moderna, che
ha investito le coscienze, generalmente incapaci di trovare alla loro fede quel
carattere di fondamento ontologico, la cui perdita è all’origine del diffuso
disorientamento morale della attuale società, reso più pervasivo dalla
diffusione in massa di schemi intellettuali e luoghi comuni della pubblicistica
corrente, privi di ogni valore orientativo ma dai contenuti destabilizzanti.
La stessa scolarizzazione massificata,
diffondendo superficiali pregiudizi anti-religiosi e ateistici, ha distrutto il
tessuto morale delle società tradizionali, senza sostituirlo con altri valori
etici, e semplicemente investendola di un processo esogeno di sistematica
destrutturazione nichilistica, perpetrata dal combinato disposto teorico delle
ideologie economicistiche e democraticistiche, che sono le residue “religioni
secolari” sopravvissute a quelle totalitarie del sec. XX.
In questo contesto di anomia morale, la cultura
spiritualistica cristiana non può limitarsi a celebrare i fasti passati, o a
riproporre stancamente formule teoretiche canonizzate, ma dovrebbe invece
sforzarsi di penetrare sino al fondo della sua genesi storico-ideale lo stesso
percorso della crisi moderna, la quale, proprio perché crisi essenzialmente
spirituale, non può arrestarsi ai confini della storia della Cristianità, di
cui invece è organica espressione culturale, identificata erroneamente con la
sola storia della Chiesa istituzionale, e cioè ecclesiastica. Proprio perché la Chiesa è la casa comune
della cultura cristiana, la crisi della civiltà cristiana non può prescindere
dalla stessa rappresentazione che la
Chiesa ha offerto di sé al mondo storico. In tal senso,
distinguendo la sua storica rappresentazione culturale e umana, dalla sua
funzione soteriologica, anche la crisi moderna può e deve a nostro avviso essere
letta come interna alla spiritualità cristiana, sicché la sua rinascenza possa
coincidere o promuovere con quella della stessa civiltà da essa espressa e di
cui è fondamento.
Costantino Marco
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