venerdì 17 aprile 2015

IL FUTURO DELL’ ITALIA (di Costantino Marco)

La politica italiana è fatta anche di piccole storie, quelle che rappresentano più concretamente la situazione reale di un Paese alla deriva, dove si può scherzare dei santi ma la critica del sistema non è ammessa, dove un omosessuale può vantarsi di aver lasciato moglie e figli per un giovane dell’età del figlio ma non si può dichiarare senza scalpore che la famiglia è un valore sociale e che la sua consacrazione religiosa è un impegno di coscienza, prima che legale. Naturalmente, ciò che il filtro della propaganda di regime fa trasparire non è l’Italia concreta, ma l’immagine ideale della sua rappresentazione ideologica. Ma l’incidenza mass-mediale di tale martellante informazione, accompagnata a quella dei films, della letteratura, degli spettacoli di intrattenimento e della vulgata in uso nei testi scolastici, crea una atmosfera culturale contagiosa, che funge da calco retorico nelle discussioni pubbliche e istituzionali, la cui risonanza ingenera negli ascoltatori distratti il convincimento che in quei luoghi topici risieda ogni cifra di verità e di buon senso.
Che ci sia una varietà di opinioni, e persino di inconsapevoli pregiudizi, è la pre-condizione di ogni possibile dialogo, ma costituisce un problema dialogico allorquando ingenera l’idea che la varietà debba inevitabilmente condurre al relativismo delle istanze etiche. Ossia condurre al dominio della ipotesi sofistica, per la quale non vi è alcuna possibilità di derimere quella varietà non esistendo una verità comune.
D’altro canto, se non si credesse nelle verità di parte non si fonderebbero neppure i partiti che la propugnerebbero, sicché la verità è unica per chi ci crede, ed è un sofisma per gli altri, che hanno la loro. Su questa inconcludente dialettica si basa il confronto parlamentare, in cui ogni partito diventa portavoce di una opinione affermata come verità di parte, che si scontra con altre omologhe di altre parti concorrenti. E non esistendo una verità comune, non resta che mettersi d’accordo, addivenendo a un pacifico compromesso. Questo esito pacifico scongiura scontri sociali cruenti tra fazioni politiche, ma non assicura la giustezza delle risoluzioni compromissorie. E questo è il punctum dolens del relativismo etico-politico, che finisce per scontentare tutti i rappresentati, che alla fine rigettano il compromesso dei contraenti, giungendo a credere che i politici siano dei parolai inconcludenti e che la democrazia parlamentare sia un regime di affarismo fraudolento. Come dire il contrario?
Certo, esistono politici seri e preparati, onesti e disinteressati. Ma ciò non toglie che il regime politico in cui operano sia un sistema basato essenzialmente sul sofisma che la credenza condivisa sia la verità. su questo sofisma vengono promulgate le leggi dello statuali, varati governi e prese delicate e gravose decisioni interne e di carattere internazionale, come l’organizzazione amministrativa dello Stato e, rispettivamente, le alleanze diplomatiche e militari. In teoria, ogni cambio di maggioranza potrebbe provocare un cambio di indirizzo generale della vita politica dello Stato, esercitando un potere costituente.
La debolezza strutturale dei regimi parlamentari viene corretta, legislativamente o di fatto, per mezzo della incidenza decisionale di un Governo forte, che sedi le dispute parlamentari logorroiche e riporti ordine nella società civile, chiamata a parteggiare incessantemente per o contro le fazioni politiche in competizione. La stessa necessità di prevedere tale mistura istituzionale, conferma che il parlamentarismo non sia il miglior regime politico concepibile, e anzi sia uno dei più esposti alle lusinghe demagogiche, ossia alle opinioni ballerine della massa.
Se, dunque, le opinioni emotive della massa hanno bisogno di una forma politica che razionalmente le traduca in istanze pubbliche, vuol dire che la loro bontà è dovuta alla rappresentazione che di esse ne danno i partiti. Ed è in questa insuperabile mediazione formale che si va a costituire il potere delle burocrazie parlamentari e quello ancora più anonimo e arbitrario delle oligarchie partitiche.
Questa deriva oligarchica delle formazioni partitiche è ben nota da tempo agli studiosi, e non è certamente propria del regime italiano. Ma proprio per questo è grave che i costituenti repubblicani, smaniosi solo a cancellare le tracce formali del fascismo e a liquidare la Corona risorgimentale, non ne abbiano tenuto conto, provocando le premesse della nostrana disastrosa partitocrazia. Era infatti del tutto prevedibile che, senza più la presenza istituzionale della Corona e con un Presidente della Repubblica eletto dal Parlamento, che ha in mano a ogni votazione legislativa le sorti del Governo, il potere dei partiti sarebbe stato viepiù dilagante e straripante rispetto a ogni allotrio contenimento morale e culturale da parte della società civile italiana. Se davvero questi presunti soloni fossero stati davvero all’altezza del compito, non saremmo arrivati alla crescente privatizzazione del potere politico in Italia da parte di ristrette oligarchie partitiche che decidono le sorti dei gruppi parlamentari e dei governi nazionali. Un Paese, senza più istituzioni nazionali unitarie, e nelle mani di una cricca di politici mestieranti, che decidono su ogni ambito della vita civile, dall’industria all’università, che futuro poteva avere? Nessuno.L’Italia, infatti, è diventata un mosaico di tante piccole realtà locali, ognuna con un suo particolare futuro nello scenario dissoluto e dissolutorio di una realtà nazionale che si è pervicacemente voluta essenzialmente ed esclusivamente politica, che stentano a sopravvivere, in perenne difesa dalle incongruenze, violenze e stupidità di uno Stato ostile, che anziché difendere i cittadini da se stessi, ne esalta i vizi e ne mortifica le virtù.  
Che l’Italia repubblicana non abbia mai avuto un vero Governo, cioè il luogo delle etiche decisioni per i bene comune, lo prova ogni piccolo e grande incidente nazionale, da un’alluvione alla politica estera. L’Italia non c’è più. Ci sono le piccole patrie, con le loro tradizioni, i loro costumi, i loro dialetti, il loro folklore e le loro amministrazioni locali, dalle quali provengono ormai i politici nazionali, anche quelli che ci governano. Era inevitabile che l’unitario processo risorgimentale, costato tante lotte e tanta abnegazione, tornasse, nelle mani degli ideologi politicanti, alle origini da cui era partito, ossia alle piccole patrie locali, e quindi per sviluppare quello spirito campanilistico e a volte settario così tradizionale, e che i partiti hanno esacerbato con le loro faziose contese elettorali, trasformando la vita sociale italiana in una perenne lotta civile tra bande politicizzate.
Ma è davvero la politica la più alta risposta esistenziale dell’uomo? O non piuttosto la più primitiva e cruenta? Forse bisogna partire da questo elementare ma essenziale interrogativo per formulare risposte non scontate e ripetute per l’inerzia di una ragione sempre più intessuta di luoghi comuni e di chiacchiere da salotti televisivi, sempre più ripetitivi, evanescenti e patetici.
La globalizzazione economica è, per altri versi, l’universalizzazione della logica politica del conflitto sociale organizzato, in cui i partiti prendono il posto delle classi sociali nel primo capitalismo, ovvero dei clan e delle tribù di un tempo. Ma sono queste le uniche risposte disponibili all’uomo? Quelle neo-pagane di un’antropologia de-spiritualizzata di esseri produttori e consumatori, di beni come di ideologie? O esistono altre forme di convivenza che non siano ascrivibili al pòlemos, cioè alla logica del conflitto, in grado di assegnare all’uomo un primato non solo tecnologico sulle altre specie animali, ma morale e ontologico? L’evento cristico ha già dato all’umanità la sua eterna risposta, che la coscienza storica non può eludere, perché su quell’evento essa stessa si fonda, pur avendolo rimosso.
Se vi è per i cristiani oggi un luogo privilegiato di discussione pubblica, è proprio questo. Dopo la stagione dell’impegno politico e delle dubbie commistioni ideologiche con gli eventi a tratti nefasti del passato, una nuova deve aprirsi su un tema cruciale come questo. Forse l’unico che raccolga, con l’esperienza bimillenaria della testimonianza cristiana, anche le speranze antropologiche di una civiltà in crisi in un futuro che non sia la semplice riedizione aggiornata delle culture del passato.
Soprattutto a seguito della diffusione di temi intellettuali legati alla rappresentazione pragmatistica e scientistica dell’homo faber, la cultura d’ispirazione cristiana ha preferito conservare posizioni di retroguardia, correndo il rischio di assestarsi su posizioni critiche della civiltà moderna ma non in grado di proporre, dopo quella della tradizione teologica, una nuova sintesi di fide set ratio che fornisse un nuovo quadro di riferimento teoretico, non soltanto alternativo a quello delle varie offerte filosofiche ed epistemologiche d’impianto razionalistico, ma anche ontologicamente diverso, inerendo a una dimensione spiritualistica dell’uomo.
Soprattutto dopo il Concilio Vaticano II, allorquando la visione del mondo moderna nel suo insieme stava consumando la sua crisi anche religiosamente evidente, la cultura cristiana ha cercato un contatto con essa retrospettivamente anacronistico, accreditandone, sia pure nolentemente, le sue estreme versioni edonistiche e politi cistiche, perseguendo un allineamento maldestro che come effetto ha sortito la sua perdita di credibilità, a partire dal clero minuto, negli ambienti sociali di prima scolarizzazione, culturalmente più esposti alle sue insidie demagogiche, così che intere generazioni di insegnanti di ogni livello, laici e religiosi, divennero la fonte divulgativa dei motivi più frusti di una cultura agonizzante, che attraverso la massificazione dell’informazione penetravano in ambiti prima risparmiati alla sua pervasività.
Temi come la libertà, la democrazia, la povertà, la sessualità, la società, la famiglia, la cultura etc., furono riletti in una chiave razionalistica funzionale alla loro credibilità ideologica rispetto alle correnti più in voga, politicamente alternative ma comunque interne a una visione economicistica dell’uomo e della società, come quella capitalistica e quella comunistica, che si contendevano la propria versione della democrazia politica a livello planetario.  
Ancora oggi si assiste al cosiddetto “impegno civile” di preti moderni che concepiscono il loro ruolo religioso  come ausiliario a quello delle confraternite della carità, spaziando dal ricupero delle prostitute a quello dei drogati, in una realtà competitiva che alimenta l’emarginazione dei poveri e dei deboli, senza però mettere in questione i suoi fondamenti ideologici, ma anzi dichiarandoli proprii.
Oppure assistiamo all’ “impegno culturale” di teologi che scoprendo Kant dopo S. Tommaso, e senza mai aver letto e meditato Kierkegaard, si ritengono d’avanguardia, giocando a dialogare con gli ambienti ateistici in misura crescente in relazione alla loro vantata disinibizione dottrinaria, la quale tutt’al più rivela un vuoto di coscienza spirituale a dir poco imbarazzante, che procurerebbe gran pena morale se non provenisse appunto da loro.Sono, tutti loro, figli del Concilio, usciti dai seminari semi-deserti della Chiesa offuscata dalle ideologie ateistiche ed edonistiche, guidata, soprattutto in periferia, da pastori di umili origini, senza sincera vocazione e senza accurata selezione, che assistevano alla dissoluzione morale della società e per insipienza e lassismo lasciavano correre, preoccupandosi più delle loro relazioni col potere politico che di esercitare con autorevolezza su di esso il loro residuo potere spirituale in senso correttivo.
Il lassismo morale di questi falsi pastori, non soltanto non ha scongiurato la deriva dissolutoria della società civile, ma ha inciso negativamente sulla stessa comunità religiosa, spesso ricettacolo di inconfessate perversioni. Alcune assurte all’eco della cronaca giudiziaria, altre ancora criptate dall’omertà ecclesiastica. Ancora oggi non è raro il caso di parroci milionari, che tra oboli e stipendi, intestando tutti i beni a famigliari o pupilli personali, non destinando alla Chiesa almeno parte di ciò che pure da essa hanno preteso per una vita. Caso esecrabile, ma che non fa quasi più scalpore, essendo acquisito alla coscienza comune dei fedeli che quello del sacerdote è un mestiere come altri, la cui vocazione riguarderebbe la coscienza di chi l’esercita.
La società civile che si rassegna o finge di non accorgersi del sistematico ladrocinio politico, è omologa alla comunità religiosa che finge di non accorgersi del degrado morale del clero, o si rassegna ad esso come di un danno collaterale inevitabile, visti i tempi. In realtà sono aspetti distinti di una stessa realtà moralmente degradata, che dietro le forme convenzionali nasconde contenuti sostanziali osceni.
Certo, la Chiesa universale ha quasi infinite risorse morali, che le società civili degli Stati nazionali non hanno. E non per soli motivi quantitativi, ma perché la sua destinazione storica non è scollegabili dal fine trascendente che la anima, e che segna la differenza rispetto alla considerazione puramente naturalistica dell’uomo e della convivenza sociale. Ma son pur sempre risorse legate alla libera responsabilità della coscienza singolare, per cui il loro dispiegamento storico deve trovare un suo percorso formale che ne manifesti il suo intrinseco carattere morale. In questo consiste la testimonianza.
Orbene, quando sentiamo, anche da fonte cristiana, per così dire, “adulta”, che la cultura cristiana sarebbe una delle tante espressioni intellettuali del nostro tempo, contando fra esse ideologie e indirizzi di pensiero secolari, a noi pare che tale notazione sociologica nasconda implicitamente un’ammissione di irrilevanza culturale fuori del suo particolare contesto di riferimento, quasi che l’incidenza del Cristianesimo fosse consegnata ormai a un orizzonte religioso auto-referenziale interno ai confini del mondo controllato dagli ambienti ecclesiastici. Ma la trasformazione del Cristianesimo in una ideologia tra le tante del nostro tempo, è esattamente il prodotto della crisi spirituale dell’età moderna, che ha investito le coscienze, generalmente incapaci di trovare alla loro fede quel carattere di fondamento ontologico, la cui perdita è all’origine del diffuso disorientamento morale della attuale società, reso più pervasivo dalla diffusione in massa di schemi intellettuali e luoghi comuni della pubblicistica corrente, privi di ogni valore orientativo ma dai contenuti destabilizzanti.
La stessa scolarizzazione massificata, diffondendo superficiali pregiudizi anti-religiosi e ateistici, ha distrutto il tessuto morale delle società tradizionali, senza sostituirlo con altri valori etici, e semplicemente investendola di un processo esogeno di sistematica destrutturazione nichilistica, perpetrata dal combinato disposto teorico delle ideologie economicistiche e democraticistiche, che sono le residue “religioni secolari” sopravvissute a quelle totalitarie del sec. XX.

In questo contesto di anomia morale, la cultura spiritualistica cristiana non può limitarsi a celebrare i fasti passati, o a riproporre stancamente formule teoretiche canonizzate, ma dovrebbe invece sforzarsi di penetrare sino al fondo della sua genesi storico-ideale lo stesso percorso della crisi moderna, la quale, proprio perché crisi essenzialmente spirituale, non può arrestarsi ai confini della storia della Cristianità, di cui invece è organica espressione culturale, identificata erroneamente con la sola storia della Chiesa istituzionale, e cioè ecclesiastica. Proprio perché la Chiesa è la casa comune della cultura cristiana, la crisi della civiltà cristiana non può prescindere dalla stessa rappresentazione che la Chiesa ha offerto di sé al mondo storico. In tal senso, distinguendo la sua storica rappresentazione culturale e umana, dalla sua funzione soteriologica, anche la crisi moderna può e deve a nostro avviso essere letta come interna alla spiritualità cristiana, sicché la sua rinascenza possa coincidere o promuovere con quella della stessa civiltà da essa espressa e di cui è fondamento.  

Costantino Marco

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