“Kierkegaard è uno di quegli scrittori che stimolano alla
meditazione, aprono l’anima a problemi abissali, ma poi non danno alcun aiuto
nel ripensamento che il lettore ne fa, come se dicessero: lasciamo l’anima con
se stessa, perché la disperazione della solitudine la elevi alle vertigini
dell’infinito” Michele Federico
Sciacca
Cornelio Fabro, che fu traduttore,
commentatore e per alcuni aspetti interprete e ammiratore della filosofia di
Soeren Kierkegaard (1813-1855) dichiarò: "io non sono kierkegaardiano e
sento di dover fare molte sostanziali riserve alle sue posizioni così in
filosofia come in teologia. ... in filosofia gli è mancato il sostegno di una
ben definita dottrina dell'essere, così alla sua Teologia della Fede manca il
sostegno vitale della Chiesa" [1].
Prese
le dovute distanze, Fabro confessa tuttavia: "devo dire però che
l'apprezzamento che ora s'impone sull'importanza storica e sul significato del
suo pensiero come anche della sua vita si sono in me profondamente cambiati da
alcuni anni a questa parte, da quando cioè presi un contatto diretto con la sua
anima e col suo pensiero".
L'importanza del
pensiero di Kierkegaard nella scena della crisi europea in atto, è ora
confermata dalla pubblicazione di un magistrale saggio critico di Pier Paolo
Ottonello, Il nichilismo europeo, volume secondo, Lutero e Kierkegaard,
edito in questi giorni in Venezia da Marsilio.
L'interesse
di Ottonello per il filosofo danese ha origine dalla puntuale diagnosi di un
vizio strutturale del mondo moderno, la pretesa (hegeliana) di conciliare
(confondere) Dio e mondo, una chimera "che si evolverà storicamente
nella sempre più radicale sostituzione di Dio e della chiesa con un mondanismo
ateo-statalista, come avverte nel modo più tempestivo e intempestivo
Kierkegaard la cui incondizionata accettazione del principio luterano
dell'interiorità assoluta - in lui impennata drammatica del soggettivismo
assoluto contemporaneo - gli spalanca gli occhi anziché socchiuderglieli, ai
rovesciamenti in un assoluto mondanismo politicante di cui riconosce primo
responsabile Lutero stesso".
Ottonello
attribuisce a Lutero la responsabilità dello sviluppo catastrofico del nominalismo
occamistico ossia la colpa di aver dissolto "il principio della
costituzione metafisica del finito e dunque il principio della creazione come
posizione della positività degli enti, onde non gli resta se non la pesantezza
schiacciante della negatività metafisica degli enti stessi".
Lutero
ha elevato il suo edificio teologico sopra un bizzarro fondamento: tutto ciò
che non è Dio è antidio. Fedele alla dottrina occamista, l'eresiarca aveva
ripudiato la teoria dell’analogia entis e s'era risolto ad inventare il
bizzarro concetto di contraria species.
Posto
che l’essere di Dio non è analogo all’essere delle creature, è necessario
affermare un’antitesi radicale: Dio è
avversione all’essere creato, Dio è totalmente altro da essere.
La
conseguenza di un tale pensiero, come osserva acutamente Ennio Innocenti, è
devastante: “Se l’Ineffabile Nulla infinito si esprime, si esprime nel suo
contrario. Siamo in piena gnosi” [2].
Ora il
luogo in cui la suggestione neognostica si rovescia nell'incolore
supponenza è la borghesia post-hegeliana, il mondo in via di dissoluzione, nel
quale Kierkegaard nasce: "l'arco della sua esistenza, sostiene
Ottonello, "è segnato dalle tensioni di liberazione dai condizionamenti
familiari, malgrado le quali, e, infine, mediante le quali Kierkegaard porterà
su di sé, con levità dialettica più o meno elegantemente attenta a drammatiche
cadute, il retaggio dei propri limiti esistenziali".
Il
tentativo di uscire dalla gabbia del fatuo mondanismo, "che riduce
l'uomo singolo ad una astrazione evanescente", incubo che imprigiona
la borghesia festaiola, è peraltro dichiarato apertamente in una sdegnosa
pagina del Diario, uno scritto coinvolgente, nel quale tuttavia si intravede
l'annuncio del naufragio della protesta kierkegaardiana nelle acque della
non-filosofia: "La disgrazia sta nella borghesia. ... La classe agiata
e colta, se non proprio i grandi signori, in ogni modo l'alta borghesia: ecco
il bersaglio da prendere di mira. E' là che il prezzo deve essere alzato, nei
salotti. ... Il popolo rappresenta
sempre quella sanità da cui può nascere qualcosa di buono. .. Per predicare la
parola di Dio occorrono alcuni uomini, essi sono il medio a traverso il quale
la parola di Dio suona al popolo: questo medio è il Clero. Ora è facile vedere
che se questo medio fosse completamente esente da egoismo la cosa sarebbe
perfetta. ... Il cattolicesimo vide giustamente che conveniva che il clero
appartenesse il meno possibile a questo mondo. Per questo favorì il celibato,
la povertà, l’ascesi” [3].
L'avversione
di Kierkegaard alla borghesia si legge chiaramente in una sferzante pagina del Diario, scritta nel 1854, nella quale è
dichiarato il disprezzo dei giornalisti, banditori della cultura al potere
nella società liberale: “Questa gente ha
il nome del giorno (giornalisti). A
me sembra che si potrebbero chiamare meglio della notte. Per questo propongo,
dal momento che giornalista è anche una parola straniera, di chiamarli
notturni, il sindacato dei notturni. A me non sembra per niente che codesto
termine di notturni convenga a quelli cui ora è applicato, agli addetti alla
pulizia dei pozzi neri. Sono veramente i giornalisti i notturni, essi non
portano via le immondezze di notte, ciò che è cosa onesta e una buona azione,
essi immettono le immondezze di giorno, o, per essere ancor più precisi,
riversano sugli uomini la notte, le tenebre, la confusione: in breve sono i
notturni” [4].
E' innegabile tuttavia la prossimità della
critica kierkegaardiana all'istante estetico, una dipendenza dalla quale
discende l'ombra non filosofica che si stende perfino sulle pagine del Diario.
Il
giudizio quantunque severo di Ottonello non è perciò contestabile seriamente:
"La dialettica turbata di Kierkegaard, non dialettica di concetti, è
dialettica di sentimenti - fondata sul sentimento dell'impotenza - è una
dialettica della malinconia, perché l'eccezione, il paradosso è sempre
irrimediabilmente solitario. La solitudine è il suo regno di Mida, prigione in
cui si muore di ricchezza sterile. Kierkegaard porta la propria esistenza come
la ricchezza sterile propria del mondo contemporaneo, lampeggiante della
malinconia del suo essere legata all'istante, consumazione impotente alla
continuità, alla possibilità di fruttificare, di generare, di fare
storia".
L'opera di Kierkegaard,
grazie alla lettura puntuale e ultima di Ottonello, svela la sua natura
di controcanto e grido, alto grido di
dolore della modernità, ferita dalle proprie insanabili, estetiche
contraddizioni.
Simile
all'erede kafkiano, che l'inganno arresta davanti al regno di cui è erede,
Kierkegaard è il testimone di una verità proibita da un custode invincibile,
l'integrismo luterano.
Piero Vassallo
[1] Cfr. l'introduzione al Diario, vol I, pag. 81 e
pag. 87, Morcelliana, Brescia 1962. Al fine di proporre una attendibile traduzione
delle opere di Kierkegaard, finalizzata a sottrarre il pensiero del danese alla
mano morta del sinistrismo europeo, padre Fabro soggiornò a Copenhagen dove si
impadronì della lingua danese.
[2] Cfr. “La gnosi spuria”, Sacra Fraternitas
Aurigarum in Urbe, Roma, 1993, pag. 150.
[3] Cfr. Diario, op.
cit., vol. II, pag. 597.
[4] Cfr. Diario, op.
cit., II vol., pag. 553.
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