Riprendo un passo da Il
concetto del Politico, del 1932, un’opera fondamentale della filosofia
politica contemporanea. Ciò va detto
anche se, allo stesso modo del sottoscritto, non si condivide il concetto
(solo) decisionista della
sovranità elaborato dallo Schmitt (“Sovrano è chi decide dello stato
d’eccezione”), delucidando questo concetto solo un aspetto del potere
sovrano. Ma Schmitt ha indubbiamente
colto un elemento essenziale della realtà politica nel rapporto di
“amico-nemico”, ricco di complesse articolazioni nonostante la sua struttura
dualistica, e comunque concetto che libera il campo da molte ambiguità.
“I concetti di amico e nemico
devono essere presi nel loro significato concreto, esistenziale, non come
metafore o simboli; essi non devono essere mescolati e affievoliti da concezioni
economiche, morali e di altro tipo, e meno che mai vanno intesi in senso
individualistico-privato, come espressione psicologica di sentimenti e tendenze
private. Non sono contrapposizioni
normative o “puramente spirituali”. Il
liberalismo ha cercato di risolvere, in un dilemma per esso tipico […] di
spirito ed economia, il nemico in concorrente, dal punto di vista commerciale,
e in un avversario di discussione, dal punto di vista spirituale. In campo economico non vi sono nemici, ma
solo concorrenti; in un mondo completamente moralizzato ed eticizzato solo
avversari di discussione.
Qui non viene assolutamente in
questione il problema se si ritenga riprovevole oppure no o se si consideri un
retaggio atavico di tempi barbarici il fatto che i popoli continuano a
raggrupparsi in base al criterio di amico e nemico, né rileva che si speri che
tale distinzione possa un giorno essere abolita dalla terra, oppure che si
pensi che sia buono e giusto fingere, per scopi pedagogici, che non vi sono più
nemici. Qui non si tratta di finzioni e
di normatività ma solo della plausibilità e della possibilità reale della
nostra distinzione. Si può condividere o
meno quelle speranze e quelle tendenze pedagogiche; non si può comunque
ragionevolmente negare che i popoli si raggruppano in base alla
contrapposizione di amico e nemico e che quest’ultima ancor oggi sussiste
realmente come possibilità concreta per ogni popolo dotato di esistenza
politica”[1].
Va messa in rilievo la critica a
quest’aspetto del liberalismo. Forte
della sua concezione ottimistica dell’uomo, il liberalismo non vuol vedere
nemici nell’ambito commerciale ma solo concorrenti, anche se talvolta “i
concorrenti” si comportano come nemici spietati tra di loro. E crede il liberalismo classico nella
possibilità di limitare l’ostilità derivante dallo scontro delle idee e degli
interessi mediante il rispetto dell’avversario e la discussione razionale dalla
quale la verità dovrebbe sempre emergere (come se fossimo in un dialogo
platonico, con Socrate sempre maieuta del vero metafisico).
Osservo che non si deve accusare
tale concezione di ipocrisia quanto piuttosto di utopismo, derivante
dall’errata convinzione che nell’essere umano non vi siano tendenze al male,
passioni e istinti indomabili, che troppo spesso prevaricano sulle pur
esistenti sue tendenze al bene (il dogma del peccato originale postula un
indebolimento grave della natura umana non una sua totale corruzione). La convinzione che i “nemici” si debba
tentare di trasformarli in “concorrenti” sul piano economico o in “controparte
di una più ampia discussione” su quello spirituale (e quindi sia politico che
religioso), corrisponde indubbiamente ad una nobile esigenza, quella di
civilizzare al massimo i rapporti tra gli uomini, cercando di disciplinarne gli
istinti in primo luogo mediante una elaborazione razionale e condivisa dei
principi che devono regolare i loro contrasti, sì da sottrarli per quanto
possibile all’uso della forza.
Tuttavia, se l’eliminazione della
categoria del “nemico” è entro ristretti limiti possibile in campo economico e
culturale, non lo è più quando si viene alla politica e alla stessa economia in
senso stretto e, vorrei dire, forte. E tantomeno lo è quando si viene alla
religione.
L’astrattezza dell’impostazione
liberale in relazione all’effettiva realtà politica, Schmitt la coglie
utilizzando una penetrante affermazione di Donoso Cortés sui limiti della
classe borghese.
Lodando la capacità di intuizione
di Donoso “nelle materie spirituali”, Schmitt ricorda “la sua [di Donoso]
definizione della borghesia come “clasa discutidora” e la consapevolezza che la
sua religione consiste nella libertà di parola e di stampa. Non voglio prendere ciò come l’ultima parola
sull’intera questione, ma solo l’aperçu piú incisivo sul liberalismo
occidentale. Davanti al sistema di un
Condorcet, ad esempio […] si può ancora realmente credere che l’ideale della
vita politica consista nel fatto che non solo la corporazione legislativa ma
l’intera popolazione discuta, che la società umana si trasforma in un immenso
club e che in tal modo la verità sorga da sé sola, attraverso la
votazione. Per Donoso ciò rappresenta
solo un metodo per sottrarsi alla responsabilità e attribuire alla libertà di
parola e di stampa un’importanza gonfiata al di là di ogni misura, per modo
che, alla fine, non vi sia più bisogno di decidere. Come il liberalismo, in ogni occasione
politica, discute e transige, così esso potrebbe risolvere in una discussione
anche la verità metafisica. La sua
essenza consiste nel trattare, cioè in una irresolutezza fondata sull’attesa,
con la speranza che la contrapposizione definitiva, la sanguinosa battaglia
decisiva possa essere trasformata in un dibattito parlamentare e possa cosí
venir sospesa per mezzo di una discussione eterna”[2].
I diplomatici sogliono dire,
empiricamente: “finché si negozia, non ci si spara addosso”. Giusto.
La guerra dovrebbe essere sempre l’ultima ratio. Ma quando ti sparano addosso e non vogliono
discutere con te, che fai? Continui a
“discutere”, a “dialogare”, come se i proiettili fossero confetti? I terroristi musulmani ci minacciano di
continuo e ci ammazzano appena possono, vogliono piegarci con il terrore e noi
gli rispondiamo invitandoli a discutere, negoziare, a praticare il (supposto)
“vero islam”, che sarebbe una “religione di pace”? E quando popoli interi ti invadono in modo
sempre più massiccio, sbattendoti in faccia che è un loro diritto [?] venir qui
a stabilirsi, e a spese nostre [!], anche qui ci mettiamo a discutere e a
negoziare? Veramente, le nostre autorità
non discutono affatto, senza fiatare se li prendono in carico e li traghettano
a migliaia la settimana nel nostro disgraziato Paese. Qui siamo oltre l’utopia liberale del
“dialogo”, siamo alla pura e semplice resa senza condizioni.
Tornando a Schmitt e alla critica
della borghesia “classe che discute” e altro non fa, apparentemente. Non si limitava certamente a discutere, la
borghesia di un tempo, picchiava pure e duramente. Però è vero che in quell’ideologia di origine
borghese che è il liberalismo c’è indubbiamente l’idealizzazione della
discussione razionale, la convinzione utopica di riuscire ad addomesticare
i rapporti di forza e le passioni mediante una “discussione”, un continuo e
aperto dibattito che impedisca alla fine l’esplodere di conflitti sanguinosi. Anche
in politica, come se una decisione parlamentare possedesse come tale
questa capacità. Sullo sfondo di questa
convinzione alita una fede eccessiva nella ragione umana, l’idea che “la verità
sorga da sé sola, attraverso la votazione” ovvero grazie al parere di una
maggioranza (in teoria) colta e preparata, che ha sviscerato tutti i problemi
in lunghe analisi e discussioni.
Non si tratta di abolire i
parlamenti ma di ricondurli ad una dimensione più realistica, tenendo conto dei
limiti effettivi della natura umana, dell’esistenza di nemici reali,
individui e popoli che vogliono distruggerci o comunque sottometterci. Nel liberalismo, c’era e c’è questo difetto
di impostazione, ben individuato da Donoso e poi da Schmitt, difetto che
favorisce un’errata nozione del v e r
o. Come se per l’appunto la verità si
potesse sempre ricavare dalla pubblica discussione su di essa, magari anche per
ciò che riguarda le verità metafisiche. Alla
fine la verità verrebbe in tal modo consegnata alla decisione della
maggioranza, il che è manifestamente assurdo, anche se non si può escludere a
priori che la maggioranza possa arrivarci (per esempio nella politica o nei
tribunali, decidendo in modo giusto od equo in relazione al caso concreto).
La cosa grave è che tale
concezione della v e r i t à, accettabile solo per ciò che riguarda le verità
parziali e limitate dell’azione politica
immediata o di una sentenza; tale concezione è stata in sostanza adottata dalla
Gerarchia della Chiesa cattolica, con il Concilio Vaticano II, cosa impensabile
al tempo nel quale Schmitt scriveva, per non parlare di Donoso, vissuto
all’epoca di Pio IX.
Infatti, in certi testi del
Concilio la verità morale (il cui fondamento è sempre religioso) è presentata
come ricerca della coscienza da effettuarsi in comune con tutti gli
uomini di buona volontà, quale che sia la loro religione. Come se, per il cattolico, non esistessero
verità rivelate da Dio e insegnate per duemila anni dalla Chiesa, costituenti
il fondamento assoluto della religione e della morale, le quali in
nessun modo possono risultare da una ricerca “in comune” con tutti gli altri
uomini, per quanto di buona volontà, tra l’altro come se i cattolici ancora non
le possedessero! Esse costituiscono
l’immutabile Deposito della Fede, vanno messe in pratica nella propria vita e
difese dalle credenze professate da tutti gli altri uomini, dai non cristiani,
anzi dai non cattolici.
In tal modo l’utopia liberale,
anzi l’errore liberale è penetrato (con la mediazione dell’Esistenzialismo e del
suo relativismo etico) nella pastorale della Chiesa, all’interno di un elogio
della “coscienza morale” apparentemente ortodosso. Questo il passo incriminato: “Nella fedeltà alla coscienza i cristiani
si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo
verità numerosi problemi morali, che sorgono tanto nella vita privata quanto in
quella sociale” (costituzione pastorale Gaudium et Spes sulla Chiesa
nel mondo contemporaneo, art. 16). Qui la verità è intesa come “ricerca della
verità in comune con tutti gli altri uomini”, ovviamente nel “dialogo”,
edizione ammodernata della “discussione” di cui all’ideale liberale criticato
da Donoso e da Schmitt.
Quest’idea della “verità come ricerca”
appare anche nell’art. 8 della Dei Verbum, dove si afferma addirittura
che “la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza
della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio”,
come se la Rivelazione, secondo quanto sempre professato nei secoli, non si
fosse conclusa con la morte dell’ultimo Apostolo. Mi chiedo se una frase del genere non possa
ritenersi manifestamente eretica.
La Chiesa cattolica attuale, per
bocca della sua Gerarchia, “dialoga” con tutti perché è evidentemente immersa
nella ricerca della verità, la cui “pienezza” ancora non possederebbe [sic],
allo stesso modo dei fedeli tutti, “i cristiani, che si uniscono agli altri
uomini per cercare la verità al fine di risolvere secondo verità
i problemi morali che si presentano nella prassi”. Ma
come sarà possibile arrivare ad una verità “comune” ed anzi ad una verità che
sia veramente tale, servendosi di siffatta “ricerca”?
Tranquilli, spiega il Vaticano
II, la verità si impone sempre per la
sua forza interiore. E questo è
certamente esatto, osservo, dal momento che il v e r o si distingue per la sua
intrinseca evidenza. Però non si impone sempre,
a causa di questa stessa evidenza. L’autoevidenza
che la verità pur di per sé possiede non basta affinché essa si imponga
come tale a tutti: si imporrà a qualcuno
ma non a tutti ed anzi spesso non si impone affatto. Se così non fosse, non si capirebbe perché
molti fra gli ebrei che al tempo assistettero ai miracoli di Nostro Signore non
abbiano voluto credere in Lui.
Utopistico appare dunque il seguente
concetto, espresso dal Concilio a proposito della forza persuasiva della
verità: “E tutti gli esseri umani sono
tenuti a cercare la verità, specialmente in ciò che concerne Dio e la sua Chiesa,
e sono tenuti ad aderire alla verità man mano che la conoscono e a rimanerle
fedeli. Il sacro Concilio professa
pure che questi doveri attingono e vincolano la coscienza degli uomini, e che
la verità non si impone che per la forza della verità stessa, la quale si
diffonde nelle menti soavemente e insieme con vigore” (Dichiarazione Dignitatis
Humanae sulla libertà religiosa, art. 1).
Non dico che il concetto qui
affermato sia falso. Dico che è
parziale, insufficiente e con tendenza a sfociare nell’utopia. È vero che la verità si impone per la sua
intrinseca forza ma non solo per questo motivo. Le verità di fede, ad esempio, con i loro
profondi misteri, possiamo crederle senza l’aiuto determinante della
Grazia? No. E allora non possiamo dire che le verità
rivelate si impongano a noi solo per la loro intrinseca evidenza. Deve subentrare un elemento sovrannaturale,
la cui effettiva dinamica necessariamente ci sfugge e cui crediamo per fede , fede a sua volta basata
sulla Rivelazione.
E come sarà possibile far
scaturire una verità che si imponga “soavemente e con vigore” a tutti grazie
alla ricerca “in comune” di cui al citato articolo 16 GS?
L’applicazione stessa di questo
criterio di ricerca “in comune” del vero, dimostra la falsità del criterio
stesso (“Dai loro frutti li conoscerete”, Mt 7, 16). La verità sul matrimonio, tanto per
fare un esempio, “il cristiano” da quale ricerca in comune l’avrà ricavata: da
una ricerca con chi ammette le “unioni civili”, il matrimonio solo civile, il
divorzio, e adesso anche il “matrimonio” omosessuale; o il ripudio, la
poligamia, il matrimonio temporaneo? E a
cosa sono approdati, clero e fedeli, in questa “ricerca della verità” nel
“dialogo” con tutto il resto del mondo sui problemi morali (religiosi,
filosofici, politici) se non alla dissoluzione della loro stessa verità e
fede, come si evince dagli ultimi documenti episcopali e papali
sull’istituto del matrimonio, pieni di eresie ed errori nella fede?
Parafrasando Donoso possiamo dire
che la Chiesa attuale è afflitta da una “Jerarquía discutidora”, il cui
continuo, nefasto, sconnesso “dialogare” sta portando all’ autoannientamento
del Cattolicesimo.
Paolo Pasqualucci
[1] Carl Schmitt, Il concetto di ‘Politico’,
in ID., Le categorie del ‘Politico’,
tr. it. di saggi di teoria politica a cura di G. Miglio e P. Schiera, Il
Mulino, Bologna, 1972, pp. 87-183; pp. 110-111.
[2] Op. cit., pp. 82-3. Si tratta del
saggio: La filosofia dello Stato
della Controrivoluzione (De Maistre, Bonald, Donoso Cortés), in ID., Teologia
politica, in Le categorie del ‘Politico’, cit., pp. 75-86.
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