lunedì 27 febbraio 2017

L’apertura al peccato di ‘Amoris Laetitia’ anticipata dalla ‘Pastorale di Cambrai’ del 2003 (di Paolo Pasqualucci)

Perché l’Esortazione Amoris Laetitia di Papa Francesco “sull’amore nella famiglia” ha destato tanta agitazione e scandalo, spingendo ben quattro cardinali ad avanzare cinque mesi fa cinque (finora inevase) richieste di chiarimenti (Dubia), coinvolgenti pesantemente l’ortodossia dottrinale del documento pontificio?
Perché, nel suo cap. VIII, ai parr. 300-305, si concede (secondo l’interpretazione dei vescovi argentini, approvata dal Papa stesso in una lettera con l’ormai famoso no hay otras interpretaciones) la “possibilità di accostarsi alla Santa Comunione fuori delle condizioni di Familiaris Consortio n. 84”, come recita il Dubbio n. 1. 
‘Mbè, tutto qui?  si chiedono i media, in genere pieni di lodi sperticate per la “misericordia” a 360° di Papa Francesco.  Che vogliono questi quattro cardinali, persone anziane e a riposo, che niente capiscono, sempre secondo i media, delle esigenze di vita della coppia moderna?  Che c’importa di quello che ha detto in un vecchio documento pastorale un Papa ormai defunto da dodici anni?  Il fatto è che i media che contano non sembrano aver mai spiegato chiaramente i termini della questione, che è di una gravità eccezionale, per la Chiesa cattolica.

1. L’Esortazione Familiaris Consortio di Giovanni Paolo II.  Andiamo a leggere il n. 84 di FC, Esortazione del 22 novembre 1981 dedicata ai compiti della famiglia cristiana nel mondo odierno.  Dopo aver lamentato la piaga del divorzio e affermato che la Chiesa “non può abbandonare a se stessi coloro che, già congiunti col vincolo matrimoniale sacramentale, hanno cercato di passare a nuove nozze”, ragion per cui erano caldamente esortati i pastori e l’intera comunità dei fedeli affinché aiutassero i divorziati “procurando con sollecita carità che non si considerino separati dalla Chiesa”; dopo questa caritatevole premessa il Papa ribadiva, come suo dovere, la dottrina perenne della Chiesa: 
“La Chiesa preghi per loro, li incoraggi, si dimostri madre misericordiosa e così li sostenga nella fede e nella speranza.  La Chiesa, tuttavia, ribadisce la sua prassi, fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati.  Sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall’Eucaristia”. Infatti, postillo, la prassi della Chiesa, fondata sulla Scrittura, risale a san Paolo, il quale, per divina rivelazione, ci ha ammonito che chi si comunica in peccato mortale compie sacrilegio nei confronti del Corpo di Cristo, aggiungendo quindi peccato a peccato.
“Perciò chiunque mangia questo pane o beve il calice del Signore indegnamente sarà reo del corpo e del sangue del Signore.  Ognuno dunque esamini prima se stesso e così mangi di quel pane e beva del calice; perché chi mangia e beve senza discernere il Corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna”(1 Cr 11, 27-29).
L’ esortazione di Giovanni Paolo II così continuava:  “C’è inoltre un altro peculiare motivo pastorale:  se si ammettessero queste persone all’Eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull’indissolubilità del matrimonio”.  Questo il secondo motivo, sussidiario al primo, per il quale non si poteva assolutamente concedere l’Eucaristia ai divorziati risposati conviventi more uxorio. 
Cosa dovevano fare allora costoro per esser in regola con l’insegnamento della Chiesa?  E quindi, per potersi accostare all’Eucaristia? Dovevano ricevere l’assoluzione penitenziale che poteva esser data “solo a quelli che, pentiti di aver violato [divorziando e risposandosi] il segno dell’Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l’indissolubilità del matrimonio.  Ciò comporta, in concreto, che quando l’uomo e la donna per seri motivi – quali, ad esempio, l’educazione dei figli – non possono soddisfare l’obbligo della separazione assumono l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi”.  In aggiunta, il Papa proibiva coerentemente “per qualsiasi motivo o pretesto anche pastorale, di porre in atto, a favore dei divorziati che si risposano, cerimonie di qualsiasi genere.  Queste, infatti, darebbero l’impressione della celebrazione di nuove nozze sacramentali valide e indurrebbero conseguetemente in errore circa l’indissolubilità del matrimonio validamente contratto”[1].
Ma non è crudele imporre alla coppia di vivere come “fratello e sorella”, accusano i nemici della nostra religione?  No, perché l’ardua prova si può sostenere validamente con l’affidarsi interamente a Nostro Signore, con le preghiere quotidiane ma soprattutto con una fede generosa e totale nell’aiuto indispendabile e deciviso che ci viene dalla sua Grazia rigeneratrice.  E il premio per chi vince queste ardue battaglie contro se stesso è incommensurabile, è la vita eterna.

2. Gli articoli 300-305 di Amoris Laetitia concedono la possibilità di aggirare la dottrina perenne. Ora, negli articoli citati di AL, in particolare nella famigerata nota n. 351 dell’art. 305, sembra che effettivamente le “condizioni”richieste da FC 84, sulla base dell’insegnamento perenne della Chiesa, vengano aggirate.  Recita, infatti, il testo, subito dopo aver ridotto la portata assoluta della legge naturale, cosa di per sé molto grave e del tutto inaccettabile in un documento pontificio: “A causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa”.  Tale aiuto, proseguiva la citata nota n. 351 “In certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei Sacramenti [inclusa quindi l’Eucaristia].  Per questo, ‘ai sacerdoti ricordo che il confessionale non dev’essere una sala di tortura etc.”[2].
Riesce difficile al senso comune concepire una situazione “oggettiva” di peccato (p.e. la convivenza more uxorio di un divorziato risposatosi civilmente) che consenta a chi l’ha provocata e la mantiene di vivere ugualmente “in Grazia di Dio” a causa del suo modo di “amare”, di vivere in generale la sua situazione; o comprendere come essa non sia situazione di peccato anche “soggettivamente”, come se il responsabile di tale situazione, un cattolico, non sapesse il significato di quello che ha fatto e sta facendo.  E nemmeno appare chiaro che cosa voglia dire ipotizzare l’esistenza di una colpevolezza soggettiva però “non piena” e quindi (si suppone) parziale.  Si tratta di nozioni vaghe, indeterminate, adattabili ad ogni caso concreto che si presenti.  Che sarebbe poi quello menzionato dalla nota, dal suo incipit: “In certi casi…”.   Ovvero:  data una situazione di colpevolezza oggettiva ma non soggettiva o non piena dal punto di vista soggettivo, si può ammettere che “in certi casi” chi si trovi in tale situazione potrebbe essere “accompagnato” nel suo “cammino” di inserimento nella Chiesa “anche con l’aiuto dei Sacramenti”.  E quindi anche con la partecipazione all’Eucaristia. Potrebbe, dice Papa Francesco.  Ma l’uso del condizionale non occulta il fatto che qui si stabilisce un principio applicabile ogni volta che si verifichino “certi casi”, principio che ha dunque portata generale:  d’ora in poi è possibile ai divorziati risposati conviventi more uxorio e quindi peccatori in stato costante e consapevole di peccato mortale (costituito da adulterio, concubinato, fornicazione, per chiamare le cose con il loro impietoso nome cristiano), accostarsi “al Corpo del Signore” pur restando in tutti questi loro peccati, da nessuno dei quali intendono emendarsi.
Che un Romano Pontefice conceda una tale apertura al peccato, è il caso di dire, contravvenendo in modo clamoroso al suo dovere, stabilito da Nostro Signore in persona, di “confermare nella fede i suoi fratelli” mediante la custodia attiva del Deposito della Fede, è cosa talmente grave ed incredibile, che i quattro cardinali, sorretti sicuramente dall’appoggio silenzioso di altri cardinali e di vescovi, si sono ritenuti giustamente in dovere di chiedere al Papa, nella forma tradizionale e rispettosa ma ufficiale del Dubium, se è proprio vero che l’art. 305 e la correlata nota n. 351 permettono di violare di fatto la dottrina di sempre della Chiesa, ribadita in ultimo da FC 84.
 La violazione consiste nel permettere caso per caso ciò che è espressamente proibito, da san Paolo in poi, cioè dalla fondazione stessa della Chiesa, sotto pena di condanna alla dannazione eterna.  L’eccezione alla norma vigente ammessa da Amoris Laetitia costituisce dunque una vera e propria apertura al peccato e da parte di un Papa!
Gli altri quattro Dubia ricavano, con stringente logica, le conseguenze che si devono trarre dal principio anomalo ed eversore introdotto dal documento bergogliano.  E cioè se esistono ancora, per l’etica cattolica, norme morali assolute, che non si possono in alcun modo violare, come per l’appunto la proibizione di comunicarsi in peccato mortale;  se ancora esiste una condizione oggettiva di peccato mortale, dopo le confuse distinzioni di AL fra l’oggettivo, il soggettivo e il meno pieno;  se le disposizioni interne, della coscienza del soggetto, possono render irrilevante la sua situazione oggettiva di peccato grave, visto che esse potrebbero consentire al penitente di comunicarsi pur restando in peccato grave; se, tutto ciò considerato, si deve adesso ammettere che la coscienza individuale possa svolgere una funzione creativa nell’ambito della morale, cosa contraria al fondamento stesso dell’etica cristiana, che riposa sulla divina Rivelazione mantenuta e insegnata dalla Chiesa, non sul sentire, individuale ed erratico, della nostra coscienza.
Non approfondirò qui il discorso sui quattro Dubia.  Cercherò invece dimostrare quanto sia falsa quella che sembra esser un’opinione diffusasi nei media, aver cioè l’intervento irrituale del Pontefice permesso la sanatoria di tante situazioni di coniugi “cosiddetti irregolari” che soffrivano in silenzio, di fronte all’incomprensione del loro caso umano da parte dell’autorità ecclesiastica, che sbarrava loro l’accesso alla Comunione.  Falsa, quest’opinione perché la prassi perversa della Comunione ai divorziati risposati conviventi more uxorio è nella Chiesa post-conciliare in vigore da più di trent’anni:  le concessioni di Papa Francesco sono solo servite a legittimarla, in spregio alla dottrina cattolica di sempre, in aperta offesa alla Verità  Rivelata.

3.  La pastorale di Cambrai, distruttrice del matrimonio cattolico. Ciò risulta dall’episodio sconcertante della “Pastorale di Cambrai” che riporto da un articolo dell’Abbé Claude Barthe, apparso sull’autorevole trimestrale cattolico francese Catholica, dell’autunno del 2003[3]. Quasi quattordici anni fa, ma sembra oggi;  anzi, è il nostro sinistro oggi, già pervicacemente presente ieri.
L’ala “liberale” del cattolicesimo francese era da tempo impegnata, esordisce esordisce l’Abbé Barthe, a modificare la prassi della Chiesa “au sujet du ‘remariage’ des divorcés”.  Si trattava appunto di stabilire per loro un processo di “accompagnamento”, ai fini di un loro graduale inserimento nella Chiesa, attuato con il giusto “discernimento”.  L’ala “liberale” aveva comunque messo da tempo in cantiere una vera e propria offensiva contro il matrimonio, in particolare con un libro, mai condannato sottolinea il P. Barthe, di un vescovo a riposo, mons. Armand Le Bourgeois, intitolato Chrétiens divorcés remariés, DDB, 1990.  Vi si contestava che i divorziati “risposati”si trovassero in uno “stato di peccato”. Questo vescovo fedifrago enumerava alcune condizioni per l’ammissione alla Comunione (una certa durata nella vita della coppia, la cura dei figli avuti nel precedente matrimonio etc.).  Dava, inoltre, dei consigli, “risultanti da una prassi già stabilita”, per organizzare una cerimonia riservata nell’occasione del “risposamento” civile dei divorziati: lettura della Bibbia, intenzione di preghiera, animazione da parte di un prete amico.  Non si trattava di una cerimonia nel senso abituale del termine.  Mons. Le Bourgeois rivelava che questa “pastorale” era già praticata in una ventina di diocesi in Francia, Belgio, Canada, Stati Uniti.
Come si è visto, Giovanni Paolo II, già nel 1981, proibiva espressamente cerimonie del genere (vedi supra).  Dovevano essere nell’aria già alla fine degli anni Settanta del secolo scorso.  Comunque sia, il P. Barthe ci informa che la Commissione per la famiglia dell’episcopato francese, in un documento del 1992 concernente Les Divorcés remariés, insinuava in modo “sapientemente velato” la possibilità di queste cerimonie, con le dovute precauzioni.  Circa “l’accesso dei divorziati risposati all’Eucaristia”, esso continuava a praticarsi in modo discreto e spesso veniva inserito come desideratum da parte di certi gruppi di fedeli in molteplici sinodi diocesani francesi negli anni Ottanta e Novanta, tra rivendicazioni concernenti il diaconato, il sacerdozio femminile e l’ordinazione di uomini sposati.  Al sinodo di Nancy del 1990 si ebbe l’audace dichiarazione secondo la quale: “il concubinato è tappa nell’amore, l’ultima essendo il matrimonio”, mentre a livello internazionale questo tipo di rivendicazione era notoriamente sostenuto dai “teologi constestatari”.
Con questi precedenti, si è giunti al documento pubblicato dall’arcivescovo di Cambrai, mons. Garnier, un atto “particolarmente grave”, sottolinea l’Autore, perché documento ufficiale di un vescovo e perché in completa (e aperta) controtendenza rispetto all’indirizzo impresso in questo campo da Giovanni Paolo II, ancora regnante, la cui “restaurazione” dei valori del matrimonio e della famiglia era vista con favore dal clero giovane (sempre secondo il P. Barthe).   Il documento di mons. Garnier “intaccava la dottrina della Chiesa sui Sacramenti”.  Esso era l’espressione del mutamento di strategia del movimento progressista nella Chiesa:  abbandonata ogni pretesa “sociale”, ci si concentrava sul promuovere, a livello dei costumi, una sorta di “democrazia nella Chiesa”, democrazia “delle mentalità”, tutte improntate agli pseudovalori dell’ultramodernità, da far trionfare ovviamente nella Chiesa. Artefici di questa strategia i numerosi organi oggi esistenti nella Chiesa-istituzione, dai consigli diocesani a quelli delle conferenze episcopali, ai media cattolici etc.
La pastorale di Cambrai si basava ampiamente sul ”vissuto” emergente dai “gruppi di riflessione” presenti in discreto numero nella vita ordinaria della Chiesa, dopo il Concilio.  Dava istruzioni dettagliate su come organizzare senza dar nell’occhio la cerimonia per il “risposamento”dei divorziati risposatisi, escludendovi (in teoria) quelle forme che potevano richiamare la vera cerimonia nuziale in chiesa, a cominciare dallo scambio degli anelli.
Si occupava poi della Comunione ai divorziati risposati, lasciando capire, alla fine, che accostarvisi dipendeva dalla loro coscienza.  Una proposizione, ricordo, del tutto contraria all’etica e alla fede cattolica, la quale, secondo i Dubia, sembra potersi ricavare anche da Amoris Laetitia (vedi supra).  Ecco il passo significativo del documento di Cambrai:
“Nonostante la fondata pretesa della Chiesa [in contrario], persone divorziate risposate vengono a fare la Comunione. È un fatto.  Nella maggioranza dei casi il celebrante non li conosce.  Se li conosce, gli sembra odioso respingerli pubblicamente.  In questo caso, il migliore atteggiamento pastorale consiste nello spiegar loro fraternamente, in quanto possibile, il significato e la posta in gioco da parte della Chiesa e nell’invitarli modestamente a porsi in coscienza un certo numero di questioni:  ‘Odio forse il mio primo coniuge?  Come ho vissuto la procedura [di separazione] della giustizia civile?  In tutta verità o no?  Rispetto con fedeltà la corresponsione degli alimenti e la custodia dei bambini?  Ho smesso di servirmi di loro per ottenere informazioni su cosa succede presso colui o colei da cui mi sono separata/o?...’  Sarà sempre opportuno metterli in contatto con qualche membro della commissione diocesana sulla Pastorale familiare.  È sempre “in Chiesa”che si discerne meglio, in tutta carità e verità”.
Testi come questo, rileva giustamente il P. Barthe, “sovvertono in modo indiretto il sacramento del matrimonio”.  Si spiegano solo tenendo presente il grande “rilassamento disciplinare” che pervade l’ambiente ecclesiale.  Ci sono sacerdoti che affidano l’incarico di “animatore pastorale” a persone che si trovano in situazione matrimoniale irregolare, e costoro, in questo loro incarico, non solo ricevono la Comunione ma anche la distribuiscono.  Tra le signore che insegnano il catechismo ve ne sono diverse  di questo tipo, ed è noto che, in certe parrocchie, esse sono in maggioranza non praticanti.   Il lassismo si nota anche dall’impunità con la quale si possono diffondere pastorali come quella di Cambrai.  In effetti, osservo, Giovanni Paolo II ha difeso sì con energia la dottrina del matrimonio e della famiglia, ma quanto a punire i lassismi e le gravi deviazioni dottrinali presenti in queste “pastorali”, che cosa ha fatto?
L’Abbé Barthe conclude il suo breve ma incisivo articolo con acute riflessioni sull’infragilirsi (fragilisation) del matrimonio attuale già nella mentalità dei futuri sposi, che spesso si dimostrano “oggettivamente incapaci di assumere le responsabilità del matrimonio, incapacità accresciuta anche dal fenomeno della coabitazione senza responsabilità che spesso lo precede”.  Candidati al divorzio assai più che al matrimonio.  In effetti, concludo, sono le conseguenze dei pessimi costumi ormai universai, provocati soprattutto dalla c.d. liberazione della donna grazie alla pillola e dalla conseguente  Rivoluzione Sessuale.

  Paolo  Pasqualucci, venerdì 17 febbrario 2017






[1] Giovanni Paolo II, Esortazione Familiaris Consortio sui compiti della famiglia cristiana nel mondo di oggi, www.vatican.va, pp. 71-72 di 76. 
[2] Papa Francesco, Amoris Laetitia , esortazione apostolica sull’amore nella famiglia, introd. di Chiara Giaccardi e Mauro Magatti, San Paolo, 2016, pp. 264-5.   Il concetto espresso nella nota n. 351 era anticipato nella nota n. 336. 
[3] Claude Barthe, La pastorale de Cambrai, ‘Catholica’, Automne 2003, n. 81, pp. 100-106.

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