Sommario:
1. Le “ragioni morali”della nostra guerra: il compimento dell’unità
della Patria spinti dagli ideali di “redenzione”, “riscatto”, “sacrificio”,
“palingenesi” di un intero popolo. 1.1
Gli interventi di Del Vecchio, Gentile, Croce. 2. La
falsificazione del Ricordo. 3. “Vittoria mutilata”? No: “sconfitta travestita
da vittoria”, grida la menzogna! 4. La calunnia degli italiani che “si
nascondevano” dietro gli inglesi e i francesi, portati da loro per mano a
vincere i già vinti. 5. Un altro esempio
di come si occulta il contributo italiano alla lotta comune. 6. La Grande Guerra l’abbiamo vinta e con
pieno merito, scusateci se ci siamo permessi.
6.1 Il Regio Esercito, pur dimezzato, vinse da solo la “Battaglia
d’Arresto” sul Grappa e sul Piave, subito dopo Caporetto. 6.2 Il giusto giudizio sulla sconfitta di Caporetto.
1. Le “ragioni morali” della nostra
guerra: il compimento dell’unità della
Patria spinti dagli ideali di “redenzione”, “riscatto”, “sacrificio”,
“palingenesi” di un intero popolo.
Il centenario della Grande Guerra,
che fu per noi il compimento del Risorgimento, la nostra IV Guerra
d’Indipendenza, grazie alla quale riuscimmo, con il doloroso ed eroico
sacrificio di un’intera generazione, a completare l’unità territoriale della
Nazione contro il nostro plurisecolare ed implacabile nemico asburgico,
raggiungendo finalmente i confini naturali, è stato finora ricordato in modo a
dir poco inadeguato per non dire deformato se non addirittura vergognoso. Nell’atmosfera da fine di una civiltà oggi sempre più diffusa - fine nelle corruttele più
sfrenate e nella vacuità spirituale più completa - il pacifismo gaglioffo dominante
(quello amico di tutti i vizi) non poteva che ricordare il centenario della nostra
partecipazione a quella guerra con la pappa del cuore delle litanie sui “morti
invano”, sull’“inutile massacro”, sull’ “orrore”, sul “dolore”, sulla
“compassione” per il gran numero di feriti e mutilati - insomma con dolciastre
e “politicamente corrette” lacrime sulle grandi sofferenze prodotte da quella
tremenda guerra; lacrime ipocrite poiché l’individuo che professa il
“politicamente corretto” è in genere di un egocentrismo assoluto: pensa innanzitutto a se stesso, ai suoi
diritti, ai suoi desideri, ai suoi vizi, che amorosamente coccola e coltiva.
Aveva allora torto Benedetto XV a
chiedere, il 1° Agosto 1917, che cessasse finalmente
“l’inutile strage” con una onorevole pace di compromesso? No, ovviamente. Al punto in cui era la situazione nell’estate
del 1917, la richiesta del Papa era più che legittima.
Dopo
tre anni di gigantesche e sanguinose battaglie, in Francia, Italia e nei Balcani
la linea del fronte era praticamente quasi allo stesso punto: nessuno riusciva a prevalere. Lo stallo appariva assoluto mentre il colosso
russo, l’unico ad aver subito sensibili perdite territoriali (nell’Europa
orientale), era già in preda alla Rivoluzione e mostrava i segni sempre più accentuati
di un collasso imminente. Le nazioni europee stavano consumando nella fornace
un’intera generazione oltre a ricchezze materiali incalcolabili. C’erano poi i
gravi contraccolpi sul piano morale e dei costumi.
Due giorni prima dell’intervento del Papa,
il 30 luglio, l’eroe di guerra e poeta inglese Sigfried Sassoon, mentre
era in ospedale in patria per curarsi le ferite riportate al fronte, scrisse un
appello per por fine al conflitto, pubblicato dal Times e letto appunto il 30 luglio alla Camera dei
Comuni da un deputato pacifista. La cosa suscitò enormi e passionali reazioni
in Inghilterra e addirittura accuse di tradimento al poeta e soldato. Nel suo appello Sassoon scrisse: “la guerra, da difensiva era diventata di
aggressione”. Perché combattevano gli inglesi? Per difendere il diritto del Belgio neutrale
calpestato dal militarismo prussiano?
Questa era la causa formale della dichiarazione di guerra alla Germania. La difesa del piccolo Belgio costituiva
inizialmente un nobile ideale per cui battersi, per i giovani inglesi che si
arruolavano. Per difendere l’impero
dalla pluridecennale aggressività commerciale e navale dei tedeschi? Ma le
campagne in Mesopotamia e in Medio Oriente rientravano in questa difesa o nella
lotta per impadronirsi delle fonti (irakene) di petrolio, diventato da poco tempo
materia prima essenziale per l’egemonia mondiale?
I sondaggi di pace semisegreti che pur
furono ad intervalli effettuati tra i due opposti schieramenti dalla metà del
1916 alla primavera del 1918, fallirono tutti soprattutto per la testarda chiusura
mentale dello Stato maggiore tedesco, che non voleva mollare niente in
Occidente, nemmeno il Belgio occupato.
In sottordine, per l’ottusità austriaca, che non volle mai concedere
nulla all’Italia, nemmeno il contentino del Trentino, provincia italiana,
indispensabile a noi per non avere più il confine con lo straniero solo a
qualche decina di km a nord di Verona, ossia ben dentro casa. È noto che Benedetto XV non si limitò agli
appelli, esercitò anche un’intensa quanto inutile azione diplomatica sulla
dirigenza austriaca perchè facesse qualche concessione all’Italia, per esempio
il citato Trentino, in vista di una preziosissima pace, che avrebbe molto
probabilmente salvato la Duplice Monarchia, sia pure al prezzo di alcune
concessioni. La posizione negoziale
dell’Italia, che dipendeva dall’Intesa per prestiti, materie prime,
alcuni importanti armamenti, importazioni alimentari, era debole anche prima del
rovescio di Caporetto: una chiara
offerta austriaca del Trentino, per quanto del tutto insoddisfacente per le
nostre legittime aspirazioni nazionali, i nostri potenti alleati ci avrebbero
sicuramente costretto ad accettarla, se inserita in un piano di pace di compromesso
che a loro fosse andato bene. Saremmo usciti dalla guerra con l’acquisizione
del solo Trentino (e forse di Gorizia, che avevamo conquistato) ma la
carneficina generale si sarebbe arrestata un anno prima, per il bene e il vantaggio
di tutti. Forse non ci sarebbe stata la
conquista del potere da parte dei bolscevichi, nel novembre del 1917, evento
epocale, che fu il risultato più nefasto della Grande Guerra e i cui effetti si
fanno sentire negativamente ancor oggi.
Tornando alla storia accaduta, bisogna dire che non fu certo colpa
dell’Italia se i tentativi angloamericani di staccare mediante una pace
separata l’Austria-Ungheria dalla Germania gugliemina, perseguiti sino alla
primavera del 1918, fallirono
tutti. Un fallimento che dimostrava,
ancora una volta, come solo continuando in quella guerra e vincendola noi
potessimo sperare di ottenere le legittime “frontiere naturali” e il compimento
dell’unità nazionale.
Una nazione italiana costituitasi come
Stato unitario, ha diritto di esistere, nelle sue frontiere naturali? Ce l’ha, questo diritto, come ce l’hanno
tutte le altre nazioni della terra? E
dov’era il torto nell’impugnare le armi contro un dominio straniero che questo
diritto non ce l’aveva mai voluto riconoscere, trattandoci sempre da provincia
occupata e sfruttata, umiliandoci in ogni modo e negandoci ogni legittimità
alla vita storica, in quanto popolo libero e indipendente?
Per la Confederazione Germanica,
Trento e Trieste erano e dovevano rimanere “città tedesche”, il confine del
mondo germanico con l’Italia doveva essere addirittura al Mincio, che unisce il
Lago di Garda al Po. Per gli Slavi
del Sud la futura Jugoslavia doveva giungere sino al fiume Natisone, ben
al di qua dell’Isonzo e non troppo lontano da Udine; inglobare anche Trieste,
Gorizia, Gradisca, Monfalcone … Quindi: Trieste città tedesca per gli
austro-tedeschi, slovena per gli sloveni. Il movimento pangermanista,
piuttosto forte in Austria prima della guerra, considerava il Trentino una
regione tedesca, dalla quale gli italiani dovevano esser cacciati, se non si
germanizzavano. Non meno avverso al nome
italiano il nazionalismo croato, sia della Croazia che della Dalmazia,
ispirato in particolare dal clero cattolico locale; nazionalismo che addirittura
negava l’esistenza di una minoranza italiana in Dalmazia (ivi radicata da
secoli nelle città), affermando che l’alternativa per gli italiani doveva
essere unicamente la seguente: o
diventare croati o andarsene; o l’assimilazione o l’espulsione[1].
Dopo la guerra del 1866, che comportò la
perdita del Veneto, imposta dalla Prussia per onorare il patto con l’Italia pur
battuta sul campo, la dirigenza austriaca promosse una politica favorevole in
tutti i modi agli slavi in Dalmazia, Istria, nel goriziano, mentre aumentava la
pressione contro l’elemento italiano nella Valle dell’Adige. Il discorso sulle “terre irredente”, al di là
dei toni retorici che fatalmente assumeva e della violenza del linguaggio, aveva
un suo fondamento, dato che la politica austriaca comportava l’estinzione
progressiva dell’elemento italiano nei suoi domini. Come è stato notato, la Monarchia Danubiana
si reggeva, in un certo senso, sui conflitti delle sue varie nazionalità,
attuando a volte un vero e proprio divide et impera, in modo da riuscire
a dominarle con l’apparato centrale costituito dall’esercito e dalla
burocrazia, a guida austriaca e ungherese, dopo il Compromesso (Ausgleich) del 1867, che diede vita alla Duplice Monarchia[2].
Non si trattava solo di eliminare il pessimo
e indifendibile nostro confine nord-orientale, con lo straniero che occupava quasi
tutta la Valle dell’Adige e tutto l’arco alpino per scendere alla fine di
alcuni km al di qua dell’Isonzo.
Si trattava anche di impedire la scomparsa, per assimilazione o
graduale, indotto esodo, delle minoranze italiane in Istria e in
Dalmazia e della maggioranza italiana del Trentino.
C’erano quindi valide ragioni morali alla nostra guerra, nelle quali l‘esigenza
primordiale di confini sicuri e la salvaguardia dell’italianità si coniugavano
alle non meno importanti motivazioni strategiche.
Al falso ricordo “politicamente
corretto”della Grande Guerra che si vuole imporre oggi, bisogna contrapporre
quello che è stato il vero significato della guerra italiana nell’ambito della
Grande Guerra. Significato, certo,
vissuto e persino imposto da una minoranza, che ha trascinato il resto della
Nazione alla lotta, contro il rimanente, pur numeroso, che inizialmente non voleva saperne. Coscritti nelle armate di Cadorna e Diaz, i
contadini italiani, che ne costituivano il nerbo, fecero tuttavia interamente
il loro dovere, con grande spirito di sacrificio, entrando da protagonisti nel
compimento di quell’Italia unita dalla quale erano stati per forza di cose
assenti durante il Risorgimento.
Andarono a combattere soprattutto borghesia e contadini, gli operai servivano
nell’industria degli armamenti. Il soldato “considerava la guerra come una fatalità
alla quale non ci si può sottrarre”; ma, in ogni caso, “il sentimento del
dovere e lo spirito di sacrificio erano elevati e saldi; non si ammirerà mai
abbastanza il soldato della guerra 1915-18.
Noi, allora giovani ufficiali, che vivemmo la sua vita, ci domandiamo,
con un senso di colpa: abbiamo
abbastanza apprezzato la sua abnegazione, misurato la gravità dei sacrifici
serenamente sopportati?”[3].
1.1 Gli
interventi di Del Vecchio, Gentile, Croce
Le ragioni morali della nostra guerra
furono lucidamente e appassionatamente esposte in un popolare opuscolo del 1915
da Giorgio Del Vecchio, israelita patriota e nazionalista, all’epoca
“professore ordinario di filosofia del diritto nella Regia Università di
Bologna”, che a 36 anni si arruolò e fu pure decorato, venendo congedato nel
1917 per aver contratto la tubercolosi al fronte.
La nostra guerra non era contro la
Germania, alla quale fummo in pratica costretti a dichiararla dalla pressione
dei nostri alleati nell’agosto del 1916.
Il nostro nemico era l’Austria-Ungheria.
“La ragione di Stato austro-ungarica ha
presunto di foggiare a sua posta, come l’anima
dei popoli, così anche la natura delle contrade. Che l’Italia abbia termine nelle Alpi e nel
mare, è verità d’ordine fisico, consacrata da una tradizione storica millenaria
e non interrotta: poiché, anche nei
tempi delle maggiori dominazioni straniere, il passaggio dell’Alpi significò
ognora, per gli stessi conquistatori, l’invasione d’Italia”. Invece, “l’Italia finisce ad Ala [all’inizio
del Trentino], disse, in un nefando processo, il Procuratore di Stato
[austriaco] a Trento. Noi rispondiamo
evocando le parole di Petrarca e Dante, e la sovrana definizione d’Augusto…”[4].
Certamente, combattevamo anche per
restaurare il diritto delle genti, violato dalla Germania col brutale attacco
al Belgio neutrale, e per una “Umanità” nuova, governata dal diritto. Ma queste ulteriori ragioni dal taglio
utopistico, invocate dall’Autore, restavano sullo sfondo[5]. La questione essenziale era quella del
compimento dell’unità della Patria italiana.
L’Italia costituiva un’unità geografica, storica, culturale,
spirituale: perché non doveva essere
“reintegrata ossia costituita ad unità nei suoi limiti naturali”, in un’unità
politica, statale?[6]
La fiamma della passione patriottica e
guerresca arde veramente solo quando si nomina la questione nazionale italiana
e l’Austriaco, il nemico secolare che ci conculcava nei nostri diritti. “La schietta giustizia della causa nazionale
italiana, e l’impossibilità di difenderla altrimenti che colle armi, rendono
sacra la nostra guerra”, nella quale l’Italia “era entrata deliberatamente,
conoscendo, meglio di tutte le altre nazioni che prima scesero in campo, la
terribilità del cimento e la grandezza del sacrificio”[7].
Parole terribili, degne però di un animo
forte, che sa perché scende in campo, mettendo in gioco la vita. Del Vecchio toccava qui un punto vitale: “l’impossibilità di difendere la causa
italiana altrimenti che colle armi”.
Impossibilità, pertanto, di ottenere pacificamente, per gradi, l’unità
nazionale e confini sicuri o comunque più sicuri[8]. Infatti, gli altri e più forti di noi non la
volevano così come non l’avevano voluta per tanti secoli gli stessi italiani,
chiusi nel loro nefasto “particulare”, divisi e sempre in lotta tra loro,
incapaci, impotenti e servili di fronte agli stranieri. Non solo gli Asburgo, ma anche l’intero mondo
tedesco e gli ungheresi, tutti gli slavi del Sud: tutti concordi nel non concederci nulla, m a
i . Che i Welschen se le venissero
a prendere le “terre irredente”, i “confini naturali”, metro per metro, con le
armi, se ne erano capaci, se ne avevano il fegato, “nazione militarmente debole
e codarda” che non erano altro…
Le “ragioni morali”della nostra guerra di
allora, mettendo da parte la cornice dei motivi contingenti della politica
internazionale e della Ragion di Stato, sono le stesse che giustificano
l’esistenza e il mantenimento della nostra “unità nazionale” o g g i , in crisi
per i noti motivi: il “regionalismo”
interno, stoltamente promosso dalla Costituzione repubblicana, unito alla
pressione disgregatrice dell’infausta,
mortifera Unione Europea, cui la nostra classe dirigente porta l’acqua con le
orecchie, incapace com’è di un atto di coraggio che sia uno, come quello
richiesto dalla necessità sempre più impellente di bloccare la presente,
gravissima invasione afro-asiatica, camuffata (e neanche tanto) da emergenza
umanitaria; il collasso di tutti i valori fondamentali dell’intero Occidente,
compresi quelli religiosi.
L’Italia unita in un solo Stato, dalle Alpi
ai mari, a prescindere dalla sua forma di governo, è essa una realtà e un valore fondamentali ed
imprescindibili per noi italiani, da difendere e mantenere ad ogni costo,
oppure no? Se lo è, e non si vede come
possa non esserlo, allora è giustificato anche l’uso della forza per
realizzarla o mantenerla quest’unità, contro i nemici interni ed esterni, una
volta falliti tutti i tentativi di perseguire l’obiettivo per via
pacifica.
Che
quella tremenda guerra dovesse avere anche un significato di palingenesi
per il popolo italiano, lo si intuisce dalle pagine di Del Vecchio citate
ed appare in modo più netto in quelle di Giovanni Gentile, anch’egli
interventista. Dopo Caporetto, in un
articolo del 15 dicembre 1917, Gentile fece un esame di coscienza. Avevano forse ragione coloro che “dubitavano
delle attitudini di un popolo, come il nostro, non ricco di gloriose tradizioni
militari, né dotato d’una forte compagine politica, ad affrontare le dure prove
d’una guerra, che già appariva lunga e difficile?”. Gentile era convinto di non aver nulla da
rimproverarsi. Il popolo italiano,
scriveva, “un gran popolo, qual è nella storia moderna l’italiano, non poteva
starsene in disparte semplicemente spettatore della mischia in cui si
combatteva per l’avvenire dell’umanità, poiché le armi non avrebbero deciso soltanto
degl’interessi economici delle nazioni, ma, con essi e per essi, di tutto
l’indirizzo futuro del mondo civile.
Anch’io quindi, per la mia parte, sentivo di dovermi assumere la
responsabilità, almeno di fronte a me stesso, della via scelta dal nostro
paese. Ma fin da quei giorni a me non è
sembrato di avere nulla da rimproverarmi, né che nulla avessero da
rimproverarsi quanti avevano concepito per l’Italia la guerra non come
tornaconto, sì come un dovere”.
La guerra come dovere morale,
dunque, non per “il tornaconto”, il bottino, la preda, la conquista di
territori o l’avvento del Nuovo, della Rivoluzione, grazie al crollo del
vecchio mondo, come si attendevano spiriti esaltati o rivoluzionari di
professione come Lenin. C’era il motivo
fondamentale dell’unità d’Italia e dei confini sicuri, ovviamente, anche se non
richiamato espressamente in quell’articolo.
Ma Gentile vedeva le cose da un punto di vista più elevato. Non si poteva star fuori da una guerra che
avrebbe deciso “per l’avvenire dell’umanità”.
Gli italiani, dal tempo delle infauste Guerre d’Italia, che nel
Cinquecento ci avevano portato sotto il dominio straniero (quello delle grandi
monarchie nazionali europee e della militaristica Lega dei Cantoni svizzeri,
che si era presa il Ticinese) si erano fatti (a torto o a ragione) la fama di
un popolo che non si batte, vile e
traditore. Se esistevano, ora, un popolo
italiano e uno Stato italiano, o r
a dovevano entrambi dimostrare di che
stoffa erano fatti, in q u e s t a guerra era il momento della verità. E tanto più nel momento di una grave ma non
irreparabile sconfitta militare.
Il rovescio di Caporetto, si era dimostrato
meno grave del previsto. Gentile
scriveva subito dopo che le nostre divisioni superstiti erano riuscite a fermare
da sole, in durissimi combattimenti, gli austro-tedeschi sull’Altopiano, sul
Grappa, sul Piave. L’esercito ancora
c’era.
“Né fu piegato il popolo, proseguiva
Gentile, che dal pungentissimo dolore dell’invasione venne sferzato, nelle sue
intime fibre, a sentire in modo più profondo e più austero la propria dignità
nazionale e il sacro dovere di raccogliere le sue forze per affrontare ogni
sacrificio che fosse necessario alla difesa della propria esistenza e
all’affermazione di sé nel mondo.
L’Italia ha molto sofferto: ma è
diventata anche più grande agli occhi propri e a quelli dello straniero,
dimostrandosi capace di mostrare la fronte alla sventura”[9].
Mostrare la fronte alla sventura: di
questo gli italiani non erano stati finora mai capaci, si diceva. Ma ora invece, in modo del tutto inaspettato,
ci stavano riuscendo e la guerra diventava il crogiolo nel quale il popolo
italiano si forgiava un carattere, una volontà, un’unità d’intenti, una
coscienza nazionale mai posseduta prima.
Come scrisse Giuseppe Prezzolini, che combattè in quella
guerra da volontario, “dopo Caporetto, l’Italia fu unita come mai era stata per
secoli, di fatto, di diritto e di coscienza”[10]. Anche Benedetto Croce, contrario
all’intervento, pubblicò nei giorni susseguenti a Caporetto un breve e bell’appello
sulla stampa.
“La guerra, che finora, agevolata da talune
condizioni internazionali, solo in parte era nostra, ora si fa veramente
nostra. Questo tutti gli Italiani
sentono con cuore tumultuante. Ma io
vorrei che un pensiero austero ci riempisse tutti: il pensiero che il nostro fine prossimo ed
urgente non deve essere già quello, generico, di vincere, ma l’altro,
specifico, di resistere, e combattere.
Perché vi sono momenti nei quali vittoria o sconfitta diventa, dinanzi all’onore
nazionale e alla dignità di uomini, cosa secondaria”[11].
Questo dunque il carattere “sacro” di
quella guerra: portava a compimento il nostro Risorgimento, realizzando l’unità
sino alle legittime frontiere naturali della nazione, forgiando (cosa anche più
importante) quel carattere nazionale che finora era mancato. Concezione religiosa della guerra, in quanto educatrice di un
popolo nel sacrificio di sé, che lo fa diventare adulto, mondandolo da
storture ereditarie, redimendolo nella lotta per una nobile causa,
coincidente con l’esigenza della sua stessa sopravvivenza. Da non confondersi, ovviamente, con la delirante esaltazione della guerra
come “igiene del mondo” di un Marinetti o come esaltazione del
militarismo brutale fondatore di imperi presso i nazionalisti del tipo di Enrico
Corradini. Le “ragioni morali”
suesposte, nelle quali riviveva l’antico ideale del cittadino-soldato, non
erano quelle (errate) di una guerra di conquista o dell’esaltazione della
guerra quale momento necessario dell’attuarsi della “volontà di potenza”
imperialistica o rivoluzionaria[12].
Questi ideali di rinnovamento e di
riscatto, che erano poi quelli del Risorgimento, nella decadente Italia di oggi
appaiono del tutto utopici e vengono
sviliti a “miti”, sorta di categoria antropologico-sociologica diventata un
topos tra i più logori dell’attuale “politicamente corretto”, espressione della
forma mentis di un’epoca che non crede in nulla, priva com’è di veri valori e
ideali. “Miti” ai quali si guarda con freddo e critico distacco sociologico o
cui si irride, quando addirittura non si inveisce. Quest’atteggiamento negativo verso il passato,
ai suoi valori, si riscontra oggi in tutta Europa. Nel mondo anglosassone si è diffusa da tempo,
anche per reazione alla retorica che fu, una saggistica e storiografia sulla I
guerra mondiale sempre più dominata da uno spirito critico che tende ad andare
oltre il lecito, a dissolversi cioè nei ben noti stereotipi umanitari,
femministi, psicoanalitici, sociologici e via cantando.
Dire:
“mal comune mezzo gaudio” è comunque di poco conforto.
Resta il fatto che si vuol occultare o
comunque dimenticare il significato profondo, positivo, di quella guerra per
noi.
Infatti, non si spende oggi una sola parola
per ricordare che con quella guerra vittoriosa avevamo finalmente portato a
compimento l’unità e quindi la liberazione e il riscatto dell’Italia da tre
secoli e mezzo di dominio straniero, diretto e indiretto - dominio iniziatosi
con la grande tragedia delle Guerre d’Italia, nella prima metà del Cinquecento,
le ripetute invasioni straniere (con gli Asburgo e i francesi Valois in prima
fila, in lotta tra loro) che distrussero la fragile, instabile libertà
dell’Italia divisa in deboli Stati l’un l’altro nemici; sul fatto che,
sottopostici ad una prova così ardua, noi, Stato giovane, senza tradizioni, economicamente
e militarmente debole, disprezzato da tutti (malignamente ci ricordavano la
sconfitta di Adua e l’aver fondato lo Stato nazionale “con le vittorie degli
altri”, come dicevano) ---- noi, dunque, avevamo pur dimostrato notevoli
capacità organizzative e tempra di combattenti e proprio dopo la grave
sconfitta di Caporetto, grazie anche all’emergere di un sentimento collettivo
del dovere e di Patria per l’innanzi rinvenibile solo nelle minoranze più
consapevoli. Appariva definitivamente superato, sul piano morale, il “difetto
d’origine” (come disse l’illustre storico Gioacchino Volpe) insito nella
nostra pur indispensabile unificazione, l’ esser cioè avvenuta in modo troppo
brusco e traumatico per il Meridione d’Italia.
Chi avrebbe il coraggio di ricordare, nel
mefitico clima odierno, queste parole di Gentile, che pur esprimevano il
modo di sentire positivo della Nazione, subito dopo la vittoria?
“La nostra vittoria non è stata soltanto il
compimento dell’unità e della realtà politica e territoriale italiana. Essa ha fatto molto di più, rivendicando il
nostro onore militare e levando a gloriosa altezza il concetto del nostro
carattere nazionale; onde il popolo d’Italia è uscito finalmente dal limbo
delle nazioni agitate dalla velleità impotente di esistere e affermarsi nella
loro piena autonomia politica, ed entrato, si può dire, per la prima volta
nella grande storia del mondo”[13].
2. La falsificazione del Ricordo
Oggi,
dopo settantadue anni di un regime politico-culturale nato dalla disfatta nella
II Guerra Mondiale, dalla connessa guerra civile e dalle umilianti e crudeli occupazioni straniere; il quale
regime ha fatto della demolizione dell’idea stessa di Patria, bene
comune e valori correlati, sia civili che religiosi, un imperativo categorico e
un vero e proprio modo di vivere; o g g i , non si vuol più credere allo Stato né alla
nazione e nemmeno al popolo, come valori esprimenti realtà spirituali, sociali,
storiche, territoriali per le quali occorre anche combattere e morire. Al loro posto si esalta l’individuo senza
storia e senza patria, senza morale e senza religione del “villaggio globale”, un
individuo a ben vedere del tutto astratto, storicamente inesistente, parto delle
insane utopie di una democrazia in decomposizione; individuo cui si vogliono assurdamente
attribuire tutti i diritti e nessun dovere, a cominciare dal chimerico “diritto
alla felicità” – felicità, ovviamente, materiale, da conseguirsi nel miglior
modo possibile in questo mondo, alla svelta e ad libitum, possibilmente con il
contributo dello Stato. Come si poteva
celebrare degnamente una guerra condotta, da tanti giovani che vi dovettero
partecipare, all’insegna della “religione della Patria” e dei conseguenti
ideali di riscatto morale, sacrificio, disciplina, dovere, onore, virtù
militari? Tutte cose perfettamente
sconosciute oggi, nell’epoca della nefanda Rivoluzione Sessuale imposta
dall’Unione Europea alle masse inevitabilmente plaudenti e gaudenti, un’epoca
nella quale si è arrivati, auspice l’ONU, a voler corrompere la gioventù sin
dall’infanzia, con l’insegnamento imposto per legge del libertinaggio e
dell’omosessualismo sin dai primi anni di scuola!
Bisognava concentrarsi solo sugli
aspetti negativi di quella guerra, molti dei quali già ampiamente noti: l’ottusità di certi generali e ufficiali; la loro
colpevole insensibilità per le sofferenze dei soldati, a cominciare da Luigi
Cadorna, comandante supremo sino a Caporetto, il quale, pur non privo di
qualità, mai tentò di comprendere il lato umano del combattente o di elaborare
una tattica diversa dal sanguinoso attacco frontale alla baionetta, che si riteneva
imposto dalla linea continua del lunghissimo fronte – in questo, per la verità,
simile per mentalità alla gran maggioranza dei generali dell’epoca, di tutti
gli eserciti; l’inaccettabile abbandono dei nostri soldati prigionieri,
considerati assurdamente come dei traditori o dei vili; la durezza, a volte
disumana, della vita nelle trincee, soprattutto nel primo anno di guerra; le
numerose morti per malattia o in prigionia; le sofferenze dei civili; lo
squallore delle retrovie; le deficienze, anche serie, della nostra
organizzazione militare; le episodiche
ribellioni e le conseguenti decimazioni
e fucilazioni, che comunque, in totale, non sembrano esser state più di un
migliaio; gli imboscati… Come se questi
fenomeni negativi ci fossero stati soltanto da noi; come se nel Regio Esercito
non ci fossero stati anche eccellenti generali e ufficiali e, nell’ultimo anno
di guerra, emendati diversi errori e magagne, finalmente ben nutrito, ben
armato, meglio comandato, quell’esercito non si fosse trasformato in un più che
valido strumento bellico, animato da forte spirito di corpo e volontà di vittoria;
come se dopo la batosta di Caporetto, le cui cause furono soprattutto militari,
tutto il Paese non fosse stato animato da una grande e compatta volontà di
resistere all’invasione straniera, gravida di tutti i sinistri ricordi di un
passato che non si voleva veder più ritornare.
Si scrivono oggi volumi sul dramma, sul
dolore, sull’angoscia dei feriti, dei mutilati, degli invalidi della Grande
Guerra, andando a spulciare negli archivi più riposti, al fine di presentarli
come uno spettrale esercito di silenziose e silenziate vittime innocenti del “grande
massacro”; in modo da rinfocolare la condanna apodittica della guerra, di ogni
guerra e in particolare di quella guerra, che ci ha definitivamente riscattato
dalla servitù allo Straniero e consolidati – ma bisognerebbe dire rifondati –
come Patria unitaria. Ebbene, il quadro
così ben documentato che emerge da
questi studi finisce tuttavia col darci un’immagine distorta di quel momento storico. I feriti e i mutilati ed invalidi furono
sempre oggetto di grande e patriottico rispetto, durante la guerra e nel
dopoguerra. In ogni caso, non passavano il tempo a piangersi addosso. Subito dopo Caporetto, le loro associazioni si
mobilitarono spontaneamente ed infaticabilmente in tutto il Paese per spronarlo
alla riscossa morale, alla lotta contro l’invasione straniera, alla resurrezione.
Nelle giornate del tracollo sull’Alto
Isonzo, Cadorna aveva dato ai soldati la colpa della disfatta, in un demenziale
bollettino, subito conosciuto all’estero (cosa che ci rovinò la reputazione), prima
che il governo italiano lo ritirasse dopo poche ore, sostituendolo con uno pur
assurdamente critico dei soldati ma non in quei termini. Cadorna:
“la mancata resistenza di reparti della 2a Armata, vilmente
ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico, ha permesso
alle forze austro-germaniche di rompere la nostra ala sinistra sulla fronte
giulia. Gli sforzi valorosi delle altre
truppe non sono riusciti ad impedire all’avversario di penetrare nel sacro
suolo della Patria…”.
L’accusa era falsa. L’esercito era logoro e stanco, dissanguato
da quel modo di combattere, con i continui assalti frontali (e sempre in
salita), allo scoperto contro reticolati
irrorati dal tiro delle mitragliatrici, che decimavano senza pietà,
oppresso da un’applicazione troppo spesso ottusa e insensibile del regolamento. C’era anche la propaganda disfattista e nel
marzo era cominciata la Rivoluzione Russa, guidata dai soldati in rivolta
contro la guerra ormai persa contro gli Imperi Centrali. Tutti gli eserciti
erano stanchi della carneficina: dopo l’ennesima inutile e sanguinosa offensiva
frontale, nell’esercito francese erano scoppiati vasti ammutinamenti, puniti
con un certo numero di incarcerazioni e fucilazioni. E fu una crisi che praticamente ne annullò
ogni possibilità d’impiego dall’estate all’autunno del 1917[14]. Ma i comandi francesi
non commisero l’errore e la slealtà di scagliarsi pubblicamente contro i loro
propri soldati, peraltro spesso vittime (come i nostri) degli errori dei comandi.
Né avevano dato, i francesi, troppa pubblicità ai collassi e alle fughe delle
loro truppe in seguito alla prima travolgente offensiva tedesca attraverso il
Belgio, nell’agosto del 1914, risultanti nella perdita di circa 300.000 uomini
tra morti, feriti, dispersi, prigionieri:
una batosta non dissimile da quella di Caporetto, ma su di un terreno
molto più facile ad organizzarsi a difesa.
E difatti l’offensiva fu arrestata e respinta con la Prima Battaglia
della Marna, il 6-9 settembre 1914 [15].
Per tutta la nazione lo shock di Caporetto
fu terribile. Ma ci fu una salutare
reazione morale, che non fu solo di grandi intellettuali, come Croce e Gentile. Fu anche collettiva, popolare.
Scrisse Prezzolini: “Occorreva che qualcuno sorgesse, con anima
invitta, a fronteggiare gli eventi, a rincuorare i dubitanti, a sferzare i
vili, a richiamare ciascuno al suo posto di combattimento e di dolore. E sorsero coloro che avevano offerto alla
guerra il più e il meglio delle loro forze, delle loro energie, della loro
carne e del loro sangue, dei loro ideali e della loro virtù: sorsero i mutilati, gli invalidi di
guerra. Bastò un laconico invito di
convocazione pubblicato dai giornali cittadini per farli uscire dagli ospedali
colle piaghe aperte, coi moncherini fasciati e accorrere a quell’assemblea di
via San Paolo, 10, dove ognuno dichiarò di porre a disposizione della Patria,
nell’ora del pericolo, nuovamente, quel che gli era rimasto e che poteva ancora
utilmente esser sacrificato per la causa santa della redenzione italiana. E nacque la Sezione Mutilati che accorse
lassù tra l’esercito disperso e centuplicò ogni sua forza per riordinare le
file dei combattenti e ridare ai cuori la fiducia sublime nella necessità dello
strazio e nella certezza del successo; e nacque il Comitato di Azione che si
gettò, come si disse, tra l’esercito e la Nazione, mirabile collegamento
ideale, invocando per l’uno e per l’altra sereno compimento del più arduo
dovere”[16].
Questo si dovrebbe soprattutto ricordare dei mutilati ed
invalidi di guerra di allora, se si volesse far opera intenta a cogliere il
vero spirito dei tempi e non di ideologia, inondandoci con le categorie di una
pseudoscienza tratta dal femminismo, dalla psicoanalisi, dal sociologismo e
dallo psicologismo più vieti, e chi più ne ha più ne metta. I mutilati ed
invalidi andavano a parlare anche nelle fabbriche, alle operaie e agli operai,
in un ambiente ostile alla guerra, con parole semplici, spontanee, piene di
fede nei destini della Patria; testimoni viventi del dovere di reagire tutti
alla sventura, che tutti avrebbe travolto.
Incutevano rispetto, commuovevano, trascinavano[17].
La
falsificazione del significato si fonda anche sull’ignoranza. Ignoranza dei fatti storici, essendo
notoriamente la storia una delle discipline più bistrattate dall’odierna “cultura
di massa”. Et pour cause, dato
che l’ edonismo dominante, nel suo radicale nichilismo, deve far piazza
pulita anche della vera cultura e in primo luogo dell’esatta conoscenza della
storia: conoscenza troppo spesso
scomoda, che ci impedisce di adagiarci in un presente senza tempo, come se
fossimo figli di nessuno e capaci di vivere come tanti Robinson Crusoe[18]. È vero che nemmeno bisogna vivere
costantemente rivolti al passato, magari per nutrire sentimenti di vendetta o
ingiustificati complessi di inferiorità.
Ciò che non si può accettare è l’ignoranza di principio, per poi
adagiarsi negli stereotipi del politicamente corretto, che ha fabbricato
un’immagine del passato settaria, antiitaliana e antieuropea, anti tutto quello
che rappresenta la nostra più autentica eredità spirituale.
3. Vittoria
“mutilata”? No: “Sconfitta travestita da
vittoria”! grida la menzogna
Un filosofo tedesco contemporaneo, il
discusso prof. Peter Sloterdijk, noto per una sua Critica della ragion
cinica (1983), alcuni anni fa, in un suo intervento polemico sulla “riconciliazione
franco-tedesca”, ha sentenziato in modo del tutto estemporaneo che l’Italia era
un caso classico di cattiva coscienza nei confronti del proprio passato perché aveva
voluto tramutare una guerra persa in una falsa vittoria: se ne arguisce che per noi la I g.m. sarebbe
finita con la spettacolare sconfitta di Caporetto. “Vincere o perdere una guerra e soprattutto
saperlo riconoscere, diventa decisivo per l’evoluzione di un popolo.” Ma gli italiani nel 1918 avrebbero “falsificato
i risultati della guerra”. Infatti, “si è parlato all’epoca di vittoria
mutilata, ma la prova dell’Italia è stata una sconfitta travestita da
vittoria”. A causa di questa falsa coscienza, di questa
menzogna, il nostro Paese “non ha potuto percorrere il travaglio della metànoia
[pentimento ed espiazione] e la menzogna
è sfociata nella tragedia del fascismo”[19]. Vedi un po’:
avremmo dovuto perdere sul serio, per meritarci le lodi di intellettuali
come il prof. Sloterdijk! E, se avessimo
perso, non sarebbe nato il fascismo, Male assoluto! Ma si
rendono conto, certi intellettuali e professori, delle castronerie che dicono?
Il prof. Sloterdijk sembra riproporre lo
stereotipo di una certa storiografia di sinistra a sfondo moralistico,
particolarmente amata tra i “liberals” anglosassoni, secondo la quale la
vittoria (o la creduta vittoria) nella prima guerra mondiale sarebbe
stata la causa principale della nascita e dell’avvento del fascismo, che
avrebbe saputo sfruttare abilmente il mito della “vittoria mutilata”. Come sappiamo, gli ex-combattenti furono
numerosi tra i seguaci di Mussolini della prima ora (ma ce ne furono anche tra
gli antifascisti: pensiamo agli Arditi del Popolo o a personalità come
Pacciardi e Lussu, tipici esponenti dell’interventismo democratico,
antifascisti duri e intransigenti). In
ogni caso, lo stereotipo non regge. Il
fascismo ad un certo punto si impose non per quello che voleva essere all’origine
(un movimento nazionalista tendenzialmente di sinistra sul piano sociale, che
si proponeva di rinnovare l’Italia anche nella mentalità) ma per quello che
riuscì ad essere nel moto di reazione nazionale al Biennio Rosso: conquistando il dominio della piazza
strappata alla sinistra, esso catalizzò la reazione di ampi strati della
popolazione contro il tentativo social-comunista di trasformare con leggi
distruttive della proprietà privata, scioperi rivoluzionari e la violenza di
piazza l’Italia in una Repubblica sovietica – reazione più che legittima, che
non aveva nulla a che fare con lo slogan della “vittoria mutilata”.
Credo che il “mito della vittoria mutilata”
evochi oggi, presso i più, l’idea di una menzogna dai contorni nebulosi che
avrebbe costituito un cavallo di battaglia del fascismo trionfante. Fu, invece, un’impressione che cominciò a
diffondersi nella stampa e nell’opinione pubblica, anche presso l’interventismo
democratico, di sinistra, di fronte all’atteggiamento dei tre altri vincitori
nei nostri confronti, durante i negoziati di pace a Versailles, nel 1919. Secondo gli accordi presi in segreto con Gran
Bretagna, Francia e Russia zarista (Patto di Londra del 26 aprile 1915) noi, in
caso di vittoria, avremmo dovuto avere tutto il territorio ex-austriaco in
Italia, dal Trentino e dall’Alto Adige sino al Brennero (etnicamente tedesco ma
geograficamente italiano, confine strategico naturale indispensabile) per
finire a Trieste e all’Istria con Pola.
In più, fuori d’Italia, un terzo della Dalmazia con Zara (città a larga
maggioranza italiana), qualche altro centro e diverse isole. Fiume, oggi
Rijeka, porto appartenente alla Corona d’Ungheria come Corpus
Separatum ma con netta maggioranza italiana, non rientrava negli accordi:
sarebbe dovuta andare ad una Croazia regione semiautonoma nell’ambito
dell’impero austroungarico (che nel Patto di Londra non si voleva distruggere
ma ridimensionare). Ma verso la fine
della guerra, il 30 settembre 1918, ci fu un plebiscito locale che richiese
l’annessione di Fiume all’Italia. Al
tavolo della pace, i nostri rappresentanti aggiunsero allora Fiume alla
lista. Woodrow Wilson, il presidente
americano, che nel 1914 non aveva esitato ad esercitarsi nella “politica delle
cannoniere” nei confronti del Messico, per tutelarvi gli interessi americani, dichiarò che era finita l’epoca della diplomazia
segreta: adesso dovevano prevalere i principi e metodi democratici resi noti
l’8 gennaio 1918 nei suoi 14 Punti per la pace nel mondo. Wilson accettò alla fine le nostre richieste
su tutto l’arco alpino sino a Trieste e all’Istria ma si oppose decisamente sia
all’acquisto di Fiume che della Dalmazia, anche per quella parte che Francesi e
Inglesi si erano impegnati a riconoscerci, con il Patto di Londra.
Gli inglesi e soprattutto i francesi,
sfruttando l’opposizione di Wilson, che sosteneva sistematicamente le richieste
jugoslave contro di noi, si rimangiarono quanto promessoci a Londra sulla
Dalmazia, e ovviamente si opposero a Fiume italiana. Da qui nacque l’immagine
piena di pathos, coniata da D’Annunzio, della vittoria “mutilata”: gli Alleati ci negavano ingiustamente una
parte pur sempre essenziale (si riteneva) di quanto pattuito. Ci si replicava: avevamo pur ottenuto, noi italiani, tutto
l’arco alpino dal Brennero a Trieste, con in aggiunta l’Istria, più l’isola di
Saseno e Valona in Albania, campo trincerato strategicamente essenziale, che
avevamo occupato e tenuto per tutta la guerra.
Si diffondeva, in modo più o meno discreto, la menzogna secondo la quale
il nostro contributo alla Vittoria era stato del tutto marginale e quasi nullo;
che, dopo Caporetto, ci eravamo ripresi e avevamo vinto s o l o
grazie all’aiuto franco-britannico; che la battaglia risolutiva di
Vittorio Veneto era arrivata troppo tardi per decidere le sorti della guerra,
sul decorso della quale non aveva comunque avuto alcun effetto (era la tesi del
Maresciallo Foch). Che volevamo, ancora?[20]
Ci eravamo dimenticati di tutti gli aiuti
materiali e finanziari ricevuti, alla fine
soprattutto dagli americani? Inglesi e francesi recitavano la parte
virtuosa di chi, spinto dalla necessità, turandosi il naso, aveva dovuto, col
Patto di Londra, accettare le nostre “esose” richieste, per averci come
alleati. Si erano dimenticati,
evidentemente, di quando, non appena dichiarata la nostra neutralità il 3 agosto
del ’14, i loro uomini politici, appena dichiarata il 4 agosto la guerra alla
Germania che il giorno prima aveva invaso il Belgio neutrale, si erano subito
posti il problema di tirarci dalla loro parte.
Discutendo il Gabinetto di Sua Maestà il 5 agosto su come ampliare la
guerra, il Primo Segretario alle Colonie, Sir Lewis Harcourt aveva detto: “Can
we buy Italy? Possiamo comprarci l’Italia?”. Proposta: “Diciamo loro che,
se vengono dalla nostra parte, possono avere il nostro aiuto sulla costa
Adriatica contro l’Austria”[21]. Certo, le nostre richieste di territorio e
basi sulla costa dalmata saranno parse e state anche eccessive, ma, entrando in
una guerra di quel calibro, decisiva per il nostro futuro e che metteva in
gioco la nostra stessa esistenza nazionale, cosa dovevamo chiedere? Il minimo? Non conveniva chiedere il massimo per ottenere
poi (sicuramente) di meno, se si fosse vinto?
L’errore nostro, caso mai, fu quello, a Versailles, di incagliarsi sulla
questione di Fiume (che non rientrava nel Patto di Londra) e di non cercare
subito un accordo con il nuovo e turbolento Stato jugoslavo, con il quale,
volenti o nolenti, bisognava fare i conti.
Era poi vero che la battaglia di Vittorio
Veneto avremmo dovuto iniziarla almeno un mese prima, quando il fronte
balcanico degli Imperi Centrali aveva cominciato a cedere. Prima, per non trovarci con gli
Austriaci ancora sul Piave alla fine della guerra e per non trovarci in posizione di grave inferiorità al tavolo
della pace. Ma la “mutilazione”, se vogliamo, ci fu, non si trattò di un mito,
nel senso di fatto inventato, anche se a questo fatto, rientrante
nel gioco dei rapporti di potenza, si reagì in modo esorbitante. Di esso si
appropriò il nazionalismo visionario e imaginifico del Vate,
il quale contribuì con l’impresa fiumana ad instaurare il clima rivoluzionario
di quell’incandescente Primo Dopoguerra. Fiume, eretta alla fine a
Versailles come Stato libero, l’ottenemmo successivamente, nel 1924, dopo le note
vicende; della parte di Dalmazia promessa a Londra avemmo solo Zara, l’isola di
Làgosta e l’arcipelago di Pelagosa, ma solo grazie ad un successivo accordo di
Nitti, presidente del consiglio, con gli jugoslavi, cui furono fatte diverse concessioni
(Trattato di Rapallo del 12 novembre 1920 con il Regno dei Serbi, Croati
e Sloveni)[22].
L’indignazione che investì la stragrande maggioranza
dell’opinione pubblica italiana del tempo, convinta che il nostro contributo
alla vittoria non fosse stato adeguatamente riconosciuto dagli Alleati, va
compresa nel suo contesto storico. Era
giusto che gli jugoslavi avessero il loro Stato e saggezza avrebbe voluto che
si cercasse di stabilire con loro rapporti di buon vicinato sin dall’inizio, come
già preconizzava ai suoi tempi Mazzini. Ma
la cosa non era affatto facile, poiché il loro nazionalismo, come si è visto,
era anche più aggressivo del nostro[23].
E non era vero che sloveni e croati
sin al giorno prima avevano combattuto
dall’altra parte e che noi avevamo pur dato un contributo notevolissimo alla
vittoria, sicuramente più importante di
quello dei pur tenaci serbi, con le nostre centinaia di migliaia di caduti e soprattutto con l’aver tenuto per tre anni
e mezzo e con grandi sacrifici un fronte che, alla fine, aveva logorato in
maniera irreparabile l’Austria-Ungheria?
Non avevamo, allora, maggior diritto dei nemici di ieri a veder
riconosciute le nostre pretese? Tanto più che in Istria e Dalmazia, concentrate
nelle città, c’erano per l’appunto da secoli consistenti, laboriose minoranze
italiane contro le quali il governo asburgico aveva sempre favorito l’avanzata
degli slavi (fatte poi fuggire in massa, queste minoranze, con gli
“infoibamenti” e le intimidazioni dal
sanguinario capo comunista, il Maresciallo Tito, il croato Josip Broz, negli
anni del secondo dopoguerra). E le numerose
truppe slavomeridionali (jugo-slave) della Duplice Monarchia non erano certo
state tra le più tenere nei confronti dei civili rimasti, durante la durissima
occupazione austroungarica del Friuli e del Veneto, dopo Caporetto, durata un
anno.
Simili pensieri e sentimenti agitavano
allora le folle in Italia. C’erano poi
le ragioni strategiche. Avere basi in
Dalmazia e in Albania serviva a proteggere efficacemente la nostra costa
adriatica, lunga, piatta, indifendibile per quasi settecento km, da Ancona al
tacco dello stivale. Ma tant’è: né le
grandi potenze né tantomeno gli slavi volevano un’Italia forte, che dominasse l’Adriatico,
utilizzando tale dominio non solo per la propria sicurezza (come al tempo della
Repubblica di Venezia) ma anche per promuovere la sua influenza nei Balcani, a
danno di quella francese e inglese. Sembrava
poi eccessivo pretendere anche Fiume, dopo che eravamo entrati in possesso di
Trieste e Pola. Noi eravamo ovviamente la potenza più debole tra i Quattro
Grandi (che erano poi cinque col Giappone, che si incamerò zitto zitto diverse
colonie tedesche del Pacifico e vide di fatto tollerata la sua aspirazione ad
espandersi in Cina, in futuro fonte di grandi guai). Bisognava esser realisti e comunque non
eccedere. I Grandi volevano bilanciare
la nostra neoacquisita forza con uno Stato unitario degli slavi meridionali. In particolare la Francia aveva ampi piani per
i Balcani, mirando a sostituirsi
all’Austria-Ungheria e alla Russia come potenza egemone nel settore.
L’aver insistito su Fiume alla Conferenza della Pace a Parigi ci isolò e
fu un errore: avevano ragione quelli che
ritenevano doversi puntare subito sulla formula dello Stato libero, che
poi si affermò poiché era evidente che gli italiani di Fiume (e non solo) in
ogni caso non volevano esser governati dagli slavi, animati com’erano quest’ultimi
nei loro confronti da un’ostilità tale, da negare l’esistenza stessa di
una minoranza italiana.
Se
il “mito della vittoria mutilata”, oltre ad un certo fondamento nei fatti, si
spiega anche come reazione all’atteggiamento ostile (e anche sprezzante) degli
Alleati, e in particolare di Wilson, nei nostri confronti, come se noi non
avessimo dato un valido contributo alla vittoria comune, che spiegazione
possiamo trovare alla vera e propria falsa
rappresentazione della nostra guerra, che oggi, dopo un secolo, sembra
assurdamente diffondersi; rappresentazione che ho chiamato della “vittoria negata”? La nostra vittoria non ci sarebbe mai stata! I nostri alleati di allora, nel clima
infuocato e interessato del 1919 e 1920, insinuavano, con evidente malafede,
che il nostro contributo alla Vittoria era stato minimo e quasi nullo, ma non
arrivavano al punto di dire che avevamo addirittura perso la guerra a
Caporetto: evidente falsità, che oggi invece sembra aver trovato cittadinanza
anche tra gli italiani!
Secondo questa truffaldina vulgata, l’armistizio
(4 novembre 1918) ci avrebbe trovati sul Piave e sul Grappa, ancora a leccarci
le ferite di Caporetto ben nascosti dietro le divisioni francesi e britanniche
inviate a soccorrerci, che avrebbero esse sole travolto l’ormai logoro nemico,
che comunque ci aveva già sconfitto definitivamente a Caporetto! Abbiamo visto
che il citato prof. Sloterdijk ha parlato come persona che ignora completamente
i fatti della nostra guerra. Ma non è stato il solo, visto che anche a livello
di istruzione superiore, c’è chi ritiene oggi, in Italia, che la Grande Guerra noi
l’abbiamo persa a Caporetto! Lì
sarebbe malamente finita per noi la brutta avventura, incautamente intrapresa!
“Aneddoto di poche settimane fa. Un dottorando di laurea magistrale (quinto
anno di scienze politiche) menzionò in sede di esame la sconfitta dell’Italia
nella I g.m. ‘Lei si riferisce alla vittoria mutilata’?, gli chiese il
professore che lo interrogava. ‘Ma no, a
Caporetto, che ci ha messo fuori combattimento!’, rispose lo studente, il quale
ignorava che Caporetto fu una grave sconfitta, ma non l’unica né la più grave
subíta dagli eserciti alleati nella Grande Guerra e che non determinò lo
sbandamento e l’uscita dal conflitto dell’Italia”[24].
4. La calunnia degli italiani che “si
nascondevano” dietro inglesi e francesi, portati da loro per mano a
vincere i già vinti!
Ma anche storici rispettati non hanno
esitato ad avallare le interpretazioni più false. Un noto storico inglese, Alan J. P. Taylor,
in un suo libro, La monarchia asburgica, scritto nel 1948 e ristampato
da Mondadori negli Oscar, 1985, ha avuto il coraggio di affermare: “Il 3 novembre l’alto comando
austro-ungarico, negoziando in nome di un impero che non esisteva più, si
arrese agli italiani. Dopo la firma
dell’armistizio, ma prima della sua entrata in vigore, gli italiani sbucarono
da dietro le truppe inglesi e francesi, dove s’erano tentuti nascosti, e nella
grande “vittoria”di Vittorio Veneto – raro trionfo delle armi italiane – catturarono
centinaia di migliaia di soldati austro-ungarici disarmati e che non opponevano
nessuna resistenza. Il grosso dell’esercito austro-ungarico si sfasciò
completamente e ognuno cercò come meglio poteva, in mezzo alla confusione e al
caos, di trovare la via del ritorno nella propria patria nazionale”[25]. Questo
Autore mostra anche di non conoscere i fatti poiché situa la (per lui finta)
battaglia di Vittorio Veneto dopo la firma dell’Armistizio, apposta il
pomeriggio del 3 novembre, quando invece l’Armistizio (la resa incondizionata
dell’Austria-Ungheria) fu la conseguenza inevitabile di quella battaglia,
iniziatasi dieci giorni prima e giunta al suo esito fatale dopo cinque giorni
effettivi (il 28 ottobre, inizio dello sfondamento). Né mostra di conoscere come andarono
effettivamente le cose, a proposito della corretta entrata in vigore
dell’Armistizio.
Si tratta di affermazioni addirittura
ignobili, quelle del Taylor, tanto sono false, e dettate da evidente malanimo.
Gli italiani iniziarono la battaglia di
Vittorio Veneto il 24 ottobre, con violenti combattimenti sul Grappa, durati cinque
giorni, dove, in cambio di pochi guadagni territoriali , ebbero gravi perdite e
non passarono, anche se provocarono lo spostamento di parte delle riserve
austriache verso il Grappa, assottigliando così lo schieramento in pianura; sul Piave il 26 a causa della pioggia e della
piena, che portò subito via tutti i
ponti che alimentavano le tre teste di ponte costituite, tranne quelli
nel settore inglese, alle Grave di Papadopoli, dove il fiume era piuttosto
largo (circa 3 km) e meno violenta la piena, con grandi isolotti ghiaiosi nel
mezzo. Allora il generale Caviglia, comandante della poderosa 8a
armata, attuò il giorno 28 ottobre una variante operativa già prevista dal
piano d’attacco, facendo passare sui ponti del settore inglese, unici al
momento intatti, due divisioni italiane (cioè un “corpo d’armata”) che poi,
dispiegatesi sulla loro sinistra, ricacciata indietro una divisione ungherese
che le separava dalla testa di ponte centrale, congiuntesi con quest’ultima, sfondarono
al centro la seconda linea austriaca, agendo sempre in sinergia con la 10a
armata, che era appunto quella mista, anglo-italiana, come previsto dal piano
d’attacco. Lo sfondamento riuscì perché i generali austroungarici si erano
accorti tardi della mossa di Caviglia, che materializzava l’attacco principale,
previsto appunto al centro, ma anche perché non riuscirono ad organizzare
l’indispensabile contrattacco a causa del dissolvimento ormai in atto nelle
loro formazioni di riserva, sia per gli
ammutinamenti che per lo sfinimento delle
truppe; caos che cominciò ad estendersi alla linea del fronte, ormai rotta e
sottoposta ad aggiramento.
“La armate sostengono già da cinque giorni
accaniti combattimenti e non sembra che lo sforzo offensivo del nemico stia per
esaurirsi. La capacità di resistenza
delle nostre truppe è ormai seriamente compromessa...”: lo affermava il 28 ottobre un drammatico
messaggio del Gruppo di Armate Boroević al Comando supremo austriaco[26].
Scrive la Relazione Ufficiale Austriaca:
“E il 28 mattina i reparti avanzati del
XVIII corpo [le due divisioni italiane di Caviglia] passano sull’altra riva
[usando i ponti del settore inglese]. La
34a divisione di fanteria [a.u.] arriva a Farra, ma il contrattacco
che avrebbe dovuto svolgere verso mezzogiorno su Sernaglia il generale Luxardo
(34a divisione di fanteria, resti della 11a di cavalleria
Honvéd [ungherese], 12a Schützen [fucilieri] a cavallo, 128° fanteria) non può essere neppure
iniziato. Tre battaglioni della 34a
divisione [tre su dodici, se era a ranghi completi] si sono ammutinati durante
la marcia e le altre truppe sono ridotte in condizioni tali, che si pensa di
poterle impiegare soltanto per difendere le posizioni di Farra di Soligo. Nel pomeriggio, dopo prolungati interventi
dell’artiglieria, il XXVII e il XXII corpo d’armata italiano attaccano l’ala
est del II corpo [a.u.]. I reparti si
muovono da Mosnigo e Sernaglia con una certa esitazione per saggiare la
capacità reattiva delle forze contrapposte.
Alle 15 la 25a divisione di fanteria [a.u.] schierata fra
Colbertaldo e Farra di Soligo, riceve la notizia che il nemico è penetrato in
profondità nel settore della contigua 31a divisione occupando
Valdobbiadene. Le punte avversarie si
stanno già avvicinando al tergo della grande unità nella zona di S. Pietro e le
truppe del XXVII e XXII corpo italiano,
avanzando a raggera in tutta la conca di Soligo, sono quasi arrivate sul dosso
montano a nord di Farra”[27].
Dallo scarno ma preciso resoconto, si vede
delinarsi lo sfondamento, ad opera delle divisioni italiane, nel quinto giorno
della battaglia. La Relazione prosegue
narrando l’ulteriore avanzata coordinata, in quello stesso giorno, di italiani
e anglo-italiani, affermando ad un certo punto:
“Ormai, dopo la comparsa del XVIII corpo italiano a sud del XXIV [a.u.]
e il ripiegamento delle forze del generale Berndt oltre il torrente Monticano
[incalzato dall’armata mista di Lord Cavan], la situazione dell’ala sinistra
della 6a armata [a.u.] è diventua insostenibile…”[28].
Prezzolini,
che a volte eccedeva nella polemica, fu tra coloro che sostennero non esserci
mai stata una vera battaglia di Vittorio
Veneto, essendosi più che altro trattato di un’avanzata alle calcagna di un
nemico che si ritirava già di per sé, dissolvendosi. Che significato dobbiamo dare, allora, al
drammatico messaggio appena citato fatto inviare dal Feldmaresciallo Boroević al Comando Supremo austriaco? Che il Feldmaresciallo si stava inventando
una accanita battaglia che in realtà non c’era mai stata? Prezzolini se la prendeva giustamente con l’esaltazione
nazionalista che, subito dopo la guerra, sragionava di Vittorio Veneto come
di una grande battaglia di annientamento tutta italiana contro un nemico
ancora fortissimo, battaglia che avrebbe deciso da sola le sorti dell’intera
guerra. Il nemico era sì logoro e male
in arnese, ma ancora rispettabile, soprattutto quando combatteva contro di noi,
in particolare nei suoi numerosi reparti slavo-meridionali, che stavano a quel
punto combattendo una guerra nella guerra, mirando cioè ad ottenere
contro di noi confini il più possibile vantaggiosi per gli Stati sloveno e
croato, che già stavano nascendo dalla ormai inarrestabile dissoluzione
dell’impero. Anche cèchi e slovacchi si
stavano separando dall’impero, unitamente agli ungheresi, la cui patria, dopo
il crollo della Bulgaria il 29 settembre, era aperta all’invasione dell’Armata
d’Oriente: si ammutinavano perché volevano tornare a difenderla. Divisioni ungheresi, da sempre tra le migliori
truppe dell’Imperial Regio, combatterono comunque sul Grappa sino all’ultimo[29].
Ma
la battaglia ci fu, non si trattò di una semplice passeggiata militare. Negarla, sarebbe anche mancare di rispetto
all’esercito della Duplice Monarchia,
che si batté valorosamente sino all’ultimo. La guerra era già decisa,
ormai gli Imperi Centrali avevano perso, per progressivo logoramento e
cedimento interno. I loro capi stavano cercando
di riportare in ordine i loro rispettivi eserciti entro i confini nazionali, su
una linea di difesa che andava grosso modo dal Reno ai confini nazionali
austriaci verso Sud, in sostanza alle Alpi, per poter così negoziare un decente armistizio, sulla base dei 14 punti
di Wilson. Tuttavia, il collasso dell’esercito
asburgico in Italia, aprendo di colpo all’Intesa la via dell’invasione della
Germania da Sud, contro la quale i tedeschi non avevano più truppe da
schierare, costrinse la Germania ad accettare rapidamente l’armistizio, cioè la
resa incondizionata, firmata l’11
novembre 1917, solo sette giorni dopo quella austriaca. In
questo senso, la battaglia di Vittorio Veneto accelerò la fine della
guerra: così almeno scrisse il
famoso generale tedesco Erich Ludendorff in una lettera del 7 novembre 1919,
che non viene in genere mai citata, forse per non dare soddisfazione agli
italiani, dato che si vuol lasciar scorrettamente intendere ancor oggi che il
contributo del nostro fronte alla vittoria alleata è stato nullo o quasi[30].
“[Nel giugno del 1918] l’Austria-Ungheria
aveva riportato una sconfitta che poteva essere decisiva [vedendo fallire la
sua ultima, grande offensiva su tutto il fronte italiano]…se l’Austria, come avevamo
ragione di temere, cadeva, la guerra era perduta. Per la prima volta avemmo la sensazione della
nostra sconfitta…Nell’ottobre del 1918 ancora una volta sulla fronte italiana
rintronò il colpo mortale. A Vittorio
Veneto l’Austria non aveva perduto una battaglia, ma aveva perduto la guerra e
se stessa, trascinando la Germania nella propria rovina. Senza la battaglia distruttrice di Vittorio
Veneto noi avremmo potuto, in unione
d’armi con la Monarchia austro-ungarica, continuare la resistenza disperata per
tutto l’inverno, avere in tal modo il tempo e la possibilità di conseguire una
pace meno dura, perché gli Alleati erano molto stanchi”[31].
L’episodio dei ponti alle Grave di Papadopoli, provocato dalla
piena che aveva distrutto tutti gli altri ponti, viene utilizzato da storici ed
intellettuali prevenuti per diffamare la nostra partecipazione alla
battaglia. Poiché i ponti erano quelli
del settore britannico, si cerca di accreditare l’immagine del tutto falsa
degli italiani che sbucano vilmente da dietro le prime linee tenute dalle
divisioni di Sua Maestà e avanzano unicamente grazie ai loro apprestamenti,
alle loro capacità, per catturare nemici che avevano già deposto le armi,
sconfitti nel frattempo dai britannici, è ovvio.
La menzognera rappresentazione del citato
Taylor riappare in un libro dello storico americano Ronald W. Hanks,
dedicato all’esercito austro-ungarico:
“Era chiaro che Diaz intendeva basarsi sulle divisioni inglesi della sua
10a armata per portare l’attacco al di là del fiume poiché gli
italiani, su tutti e due i fianchi della 10a armata, avrebbero attraversato più tardi degli
inglesi [?]. Gli italiani avrebbero
lasciato agli inglesi il compito più difficile e pericoloso
dell’attraversamento del fiume. È
interessante il fatto che una volta completato lo sfondamento, gli italiani si
aspettavano che gli inglesi si facessero da parte e fungessero da loro
guardaspalle [sic], potendo così vittoriosamente cacciare gli austriaci
sconfitti [!]”[32].
Sono affermazioni a dir poco singolari. Questo Autore sembra ignorare, non solo i
tanti ponti gettati simultaneamente dal nostro genio (compresi quelli nel
settore inglese) e distrutti dal fiume in piena e dall’artiglieria nemica, ma
anche il fatto che l’occupazione delle Grave di Papadopoli, che divaricavano il
fiume ed erano in mano austriaca, avvenuta qualche giorno in anticipo
sull’inizio effettivo dell’attacco, fu un’idea felice di un generale inglese,
che voleva stabilire una testa di ponte in mezzo al fiume, in quel punto
piuttosto largo, dalla quale muovere poi più agevolmente alla sponda opposta.
L’idea fu naturalmente approvata da Diaz, dal momento che collimava
perfettamente con il piano di
operazioni, ovviamente concordato con i comandanti inglesi e francesi. L’occupazione fu fatta al tramonto del 23
ottobre: il primo reparto britannico ad esser trasportato, da “vogatori costituiti
da gondolieri veneziani”, fu un battaglione dei Gordon Highlanders[33].
Ma Mr. Hanks come l’ha letta la Relazione Ufficiale
Austriaca, che pur cita nella sua bibliografia? Essa espone in modo chiaro e semplice il
piano d’attacco italiano, concordato con gli alleati. “Come risulta dagli ordini diramati il 18 e
il 21 ottobre, il gruppo di armate del Brenta [4a e 12a, quest’ultima italo-francese]
aveva il compito di attaccare il nemico sul massiccio del Grappa per incunearsi
fra le posizioni nemiche del Tirolo e dell’alta pianura. Lo sforzo principale
sarebbe stato invece svolto dalla 8a armata nella zona del Montello
e dalla 10a [anglo-italiana] oltre il corso mediano del Piave. Con la penetrazione della 8a
armata verso Vittorio [Veneto] si voleva separare la 6a armata a.u.
da quella dell’Isonzo [Isonzoarmee, tra le Grave di Papadopoli e la
foce] e interrompere le vie di
comunicazione della prima per impedire l’afflusso di viveri e munizioni. La 10a armata doveva proteggere la
progressione della 8a su Vittorio e attirare su di sé le riserve
avversarie dislocate lungo la Livenza [fiume parallelo al Piave]. Raggiunta
Vittorio, Diaz pensava di continuare l’attacco con la 12a armata su
Feltre, per cadere a tergo delle forze nemiche ancora schierate sul Grappa…[…] Su suggerimento di Lord Cavan, fu deciso di
compiere il 23 sera un’azione preventiva lungo il medio corso del Piave per
impadronirsi dell’isola di Papadopoli e facilitare il successivo superamento
dell’ostacolo fluviale”. L’attacco
doveva iniziare il 24 a partire dal Grappa mentre “la 12a armata,
l’8a e la 10a dovevano forzare il Piave la sera dello
stesso giorno”[34].
E così fu.
Le tre armate costituirono le loro brave teste di ponte, gli inglesi
muovendo dalle Grave di Papadopoli. Ma
la piena, che si esaurì solo il 29 successivo, isolò le altre due, che restarono
quindi prive di rifornimenti e soldati. Pertanto, nei primi due giorni della
battaglia, ad avanzare maggiormente (però senza sfondare) fu l’armata di Lord
Cavan, finché Caviglia non ebbe l’idea di far transitare le sue due divisioni
nel settore del comandante inglese (che poi era un irlandese del Nord) per far
riprendere alla sua armata l’iniziativa, secondo i piani.
Questi i fatti. Certo, se uno è prevenuto, può inventarsi che
il piano italiano dava agli inglesi il compito dello sfondamento principale e
su ciò innestare la calunnia degli italiani che “sbucano alle spalle degli
inglesi” per andare a far prigioniero un esercito che questi ultimi avevano già
sconfitto [sic].
Già
all’epoca, certa pubblicistica alleata sfruttò contro di noi il fatto che Diaz
aveva conferito a generali francesi e inglesi il comando di divisioni italiane. La 12a armata era agli ordini del generale
francese Jean-César Graziani e composta di ben tre divisioni italiane,
di una francese e di due reggimenti francesi;
la 10a armata, agli ordini del generale Lord Cavan, aveva due
divisioni e un reggimento britannico e due divisioni e un reggimento d’assalto italiani. La citata 8a armata, formidabile
unità che svolse un ruolo essenziale nella battaglia, contava ben 16 divisioni
tutte italiane e vari corpi minori. Ma
c’erano anche divisioni alleate sotto comando italiano: accanto a sei divisioni
italiane con i relativi corpi minori, c’erano una divisione britannica e una
francese nella 6a armata, comandata dal generale Luca Montuori,
schierata sull’Altopiano dei Sette Comuni.
Riferendo le azioni vittoriose sotto il comando
dei due generali stranieri, la stampa tendeva all’estero e in particolare in
Francia, a rappresentarle come successi di francesi ed inglesi solamente: i Francesi avrebbero da soli liberato Feltre,
quando invece gli alpini (appartenenti alla
4a armata, del generale Giardino) vi erano già entrati due
giorni prima[35];
sul Piave le divisioni inglesi di Lord Cavan avrebbero fatto tutto, e gli
italiani si sarebbero limitati a sfruttarne il successo. La musica non sembra in sostanza cambiata
con gli storici attuali: nel raccontare
sinteticamente la battaglia di Vittorio Veneto, il citato autore britannico Marc
Thompson e l’americano prof. John R. Schindler la rappresentano
esclusivamente dal punto di vista dell’azione delle truppe britanniche, come se
quella degli italiani ne fosse stata un’appendice o un agire da comparse. Il non si sa perché tanto incensato Schindler
scrive addirittura che in generale “le unità italiane avevano dimostrato
ovunque indolenza, a volte persino inettitudine”. Forse si tratta della traduzione, che non
appare in effetti eccelsa, ma queste valutazioni negative non trovano
giustificazione alcuna nell’andamento della battaglia[36].
5. Un
altro esempio di come si occulta il contributo italiano alla lotta comune.
Abbiamo visto due casi di deformazione
patente dei fatti della nostra guerra, strumentali alla denigrazione del nostro apporto
alla Vittoria. Vediamo ora l’uso invalso
di nascondere sic et simpliciter
il nostro contributo, come non ci fosse stato, attribuendo tutto il merito ai
nostri alleati.
In un
lavoro peraltro serio e documentato, che approfondisce diversi importanti
aspetti (soprattutto politici ed economici) della Grande Guerra, si legge un
inciso di questo tipo, evidente riflesso di un topos accettato senza verifiche:
durante la battaglia del Solstizio, “l’attacco di Conrad nei settori di Asiago
e del Grappa fu arrestato da francesi ed inglesi e ributtato da un attacco
alleato”[37]. Attacco alleato: credo l’aggettivo voglia indicare che al
contrattacco parteciparono anche gli italiani.
Un modo di passare sotto silenzio il nostro contributo, tuttora
ampiamente diffuso anche in relazione agli eventi della II guerra mondiale. Per
esempio, quando si menziona la campagna in NordAfrica, si parla quasi sempre
dei soli tedeschi; quando si dovrebbero menzionare anche gli italiani, magari
in qualche riuscita azione, si dice in genere “forze dell’Asse”.
La ricostruzione del prof. Stevenson, presentata
come ovvia, che cita una storia inglese del 1998 sulla Grande Guerra, lascia sbalorditi:
da essa sembra che siano stati francesi
ed inglesi da soli ad arrestare il nemico, sugli Altipiani e sul Grappa,
ributtato poi da un attacco “alleato”.
La grande battaglia detta del Montello o
del Solstizio o seconda del Piave si svolse dal 15 giugno al 5 luglio 1918: l’imperial-regio esercito
attaccò in modo massiccio, su tutta la linea dagli Altopiani al Grappa al Piave. Sul Grappa e sul Piave si svolsero le azioni
principali. Gli austroungarici
riuscirono ad occupare parte del Grappa e metà del Montello, un gruppo di
colline subito al di là del Piave. Stabilirono due teste di ponte, una delle
quali assai pericolosa, larga 8 km e profonda 5. Ma la tenace resistenza italiana li contenne
validamente, costringendoli a retrocedere sul Grappa e a ripassare il fiume, il
che avvenne ordinatamente e di notte, con grande abilità. La controffensiva italiana riconquistò completamente
il tratto di qua del fiume, verso la foce, che il nemico si era preso durante
la “battaglia d’arresto”dell’autunno-inverno precedente, dopo Caporetto. Il fallimento di quest’offensiva rappresentò
una sconfitta decisiva per l’Austria-Ungheria: fu allora che perse la guerra perché
da quel momento il suo esercito non ebbe più capacità offensiva mentre la crisi
interna si dilatava sempre più. La
battaglia di Vittorio Veneto gli diede “il colpo di grazia”, come disse il
generale Caviglia.
Vediamo cosa dice la Relazione Ufficiale
Austriaca sullo svolgimento di quella battaglia nel settore di Asiago,
fonte sicuramente non sospetta di partigianeria per l’Italia, alla quale va comunque riconosciuto un
lodevole spirito di imparzialità.
Sull’Altopiano dei Sette Comuni (settore di
Asiago) c’erano al tempo due
divisioni inglesi in prima linea e una di riserva, con due divisioni francesi
sulla loro destra. Erano inquadrate
nella 6a armata italiana summenzionata, composta da sei divisioni
italiane. Queste forti unità francesi e
inglesi si trovavano in quel settore perché il maresciallo francese Foch, nominato
coordinatore della strategia dell’Intesa, in difficoltà per le poderose offensive
tedesche in Francia, dopo ripetute
insistenze aveva ottenuto l’assenso di Diaz a lanciare un’offensiva sugli
Altipiani per il 18 giugno 1918. Ma le
informazioni sull’imminente attacco austriaco indussero Diaz a far mettere
tutto il settore sulla difensiva, evitando così l’errore di Caporetto e l’anno
prima della Battaglia degli Altipiani (la c.d. Strafexpedition del 1916,
che riuscimmo sia pur a fatica a contenere), quando le prime linee troppo affollate perché
predisposte ancora per l’offensiva erano state colte di sorpresa e travolte. Queste divisioni franco-britanniche prima
contennero poi respinsero agevolmente l’attacco austriaco nei loro settori, il
15 giugno. I francesi, ci informa sempre la Relazione, accorsero anche
ad un certo punto in aiuto degli italiani, schierati alla loro destra, con tre
battaglioni. Anche gli italiani,
duramente impegnati, consentirono al nemico progressi modesti, contenendolo a dovere
sulle linee di difesa più arretrate e più forti (avevamo finalmente imparato ad
attuare una difesa elastica). L’attacco
austriaco fallì (per la terza volta) il suo obiettivo strategico in quel
settore, difficile e boscoso, una vera fissazione del Feldmaresciallo Conrad: la rottura del fronte italiano sugli
Altopiani e l’irruzione in pianura, alle spalle dello schieramento principale
italiano. Decisivo, in più occasioni, fu il concentramento di fuoco della
numerosa artiglieria italiana, che inflisse gravi perdite agli attaccanti,
scompaginandone più volte i reparti[38].
Sul Grappa, non c’erano né francesi né
inglesi ma solo la 4a armata del generale Giardino, con 8 divisioni
italiane, che resistette, sia pure a fatica, sostenendo feroci combattimenti
ravvicinati con le truppe d’assalto nemiche, ungheresi, bosniaci e carinziani valorosi e
molto determinati[39]. L’imperial-regio stava per sfondare la nostra
linea sui monti ma cime vitali come il Col Moschin ed altre furono
subito riconquistate dagli Arditi, le nostre truppe d’assalto[40]. La battaglia più grossa
fu combattuta in pianura e l’unico contributo straniero fu quello della
divisione cecoslovacca, costituita con ex-prigionieri di guerra austroungarici
(15.000 uomini). Circa il contrattacco
che franco-inglesi e italiani svilupparono successivamente nel settore di
Asiago, la Relazione scrive che il 16 giugno, contenuto e respinto
l’attacco austriaco del giorno prima, gli inglesi si limitarono a rastrellare
la loro zona (si combatteva tra boschi e radure) e a rioccupare la loro prima
linea. Idem per i francesi. Cominciavano, invece, intensi contrattacchi
italiani, all’inizio privi di successo[41]. I nostri contrattacchi raggiunsero buoni
risultati nella zona di Asiago dal 24 giugno al 15 luglio, quando riconquistammo
i cosiddetti “Tre Monti” con il XIII
corpo d’armata della 6a armata.
“Gli inglesi e i francesi, che dal 16
giugno erano stati tranquillamente testimoni degli avvenimenti nel settore del
XIII corpo d’armata italiano ed avevano agito negli ultimi giorni soltanto col
poderoso fuoco delle loro artiglierie, svolsero dal 27 giugno alcune piccole puntate
che diedero origine a isolati combattimenti nella “terra di nessuno”. Il corpo
d’armata francese, avendo ritirato dal fronte la 23a divisione di
fanteria, continuò ad appoggiare le azioni nel settore più a est con le sue
batterie di grosso calibro”[42]. Ai ripetuti attacchi del XIII corpo d’armata
italiano, il contributo alleato fu quello di due compagnie di cèchi ex prigionieri
di guerra e del fuoco di batterie francesi in aggiunta a quello delle nostre[43].
“Con la riconquista delle linee occupate
prima del 15 giugno, il XIII corpo d’armata italiano aveva raggiunto il suo
scopo. Nei giorni seguenti soltanto il
corpo d’armata inglese si dimostrò piuttosto attivo e svolse diverse puntate
con reparti d’assalto nella zona di Canove.
Ma il 17°,
27° e 74° fanteria [austroungarici] seppero
resistere e catturarono anche alcuni prigionieri della 7a divisione
inglese”[44].
Questi, dunque, i fatti. Essi dimostrano quanto sia inattendibile e
distorta la vulgata sinteticamente ripetuta nell’occasione dal prof.
Stevenson.
6. la
Grande Guerra l’abbiamo vinta e con pieno merito, scusateci se ci siamo
permessi
La nostra guerra finì dunque
ignominiosamente con la “disfatta di Caporetto”, provocata da uno “sciopero
militare”, come volle dire Leonida Bissolati, deputato socialista ma patriota,
e da quei giorni infausti il Regio Esercito cessò di esistere come forza
combattente degna di questo nome? I
nostri alleati franco-britannici avrebbero fatto tutto, a loro soli il merito
della difesa del Piave e sul Grappa, sugli Altipiani? Per tacere della vittoria finale a Vittorio Veneto?
Chiunque conosca anche
sommariamente i fatti non può che denunciare la falsità di tutti questi
stereotipi, come credo di aver dimostrato.
A Caporetto, di cui quest’anno ricorre il centenario, non
ci fu nessuno “sciopero militare”.
Furono la totale sorpresa
e la nuova, intelligente tattica del nemico, unitamente a fattori eccezionali
quali la particolare conformazione del fronte, la nebbia bassa, che favorì l’attaccante, e lo sconvolgimento totale dei
nostri collegamenti provocato ad arte dal suo breve ma intensissimo e preciso
bombardamento iniziale, che impiegò anche i gas; cosa che lasciò al buio i
comandi italiani per almeno un giorno intero, facendoli precipitare nel caos e
favorendo le voci più allarmanti sulla tenuta delle truppe. In luogo dei consueti assalti frontali a
ondate, il nemico si affidò all’infiltrazione e all’aggiramento con l’impiego
di gruppi d’assalto molto mobili e potentemente armati con mitragliatrici
leggere di nuova concezione e mortai.
Travolta d’un balzo la debole anche se affollata prima linea, queste
truppe colsero di sorpresa anche la seconda, che se le trovò subito addosso, infiltrantesi
da tutti i lati e spesso da tergo. La
nuova tattica era stata sperimentata dai tedeschi nella battaglia per la
conquista di Riga (1-3 settembre 1917) e prima di loro, in modo meno
perfezionato ma ugualmente fruttuoso, dal generale russo Brussilov e dal suo
Stato Maggiore, nell’estate del 1916 contro gli austro-ungarici[45].
La II armata, che subì l’attacco, era mal
schierata, perché non disposta per tempo sulla difensiva ma rimasta sulle
posizioni conquistate nella precedente durissima 11a Battaglia
dell’Isonzo, quella che aveva portato alla conquista di gran parte
dell’altopiano della Bainsizza e messo in grave crisi l’esercito
austro-ungarico, tanto da indurre l’imperatore Carlo a richiedere l’aiuto
tedesco per una “spallata di alleggerimento”.
Ottenne 7 tra le migliori divisioni germaniche (incluse poi nella famosa
14a armata austro-tedesca, comandata dal generale tedesco Otto von
Below) e la grande vittoria di Caporetto, che tuttavia non fu decisiva perché
l’Italia restò saldamente in guerra. La
II armata fu nell’occasione anche senza effettiva direzione, dato che il suo
comandante, il generale Capello, si trovava in ospedale, seriamente malato di
nefrite. Questa armata era stata
lasciata crescere sino a contare addirittura
25 divisioni, più svariati altri corpi, per un totale di quasi 700.000 uomini,
solo una parte dei quali truppa combattente.
I collassi ci furono ma dopo lo sfondamento: reparti, spesso lasciati a se stessi, che,
nel silenzio della nostra pur numerosa artiglieria, si trovarono
improvvisamente i silenziosi e rapidi gruppi d’assalto tedeschi e austriaci ai fianchi o alle
spalle, a volte si arresero senza combattere mentre si diffondeva un pànico che
contagiava rapidamente la massa dei non combattenti del vasto apparato logistico
dell’armata, inducendola ad iniziare la fuga verso l’interno, tra voci
incontrollate di cedimenti e tradimenti.
In effetti, lasciò tutti stupiti il silenzio dei settecento cannoni che
avevamo nella zona dello sfondamento: avrebbero potuto fare a pezzi, dalle montagne
circostanti, gli attaccanti mentre
occupavano la conca di Caporetto con manovra a tenaglia da Nord e da Sud. Si seppe dopo che l’artiglieria italiana era
rimasta senza ordini a causa della distruzione di tutte le comunicazioni e in
gran parte messa comunque subito a tacere dal tiro di controbatteria micidiale
e molto preciso effettuato in apertura dal nemico.
Ma vi furono reparti,
come la brigata Roma, che resistettero sino all’annientamento. Lo si scoprì solo in un secondo tempo, poiché
nel caos iniziale si credette che questa valorosa brigata si fosse arresa senza
combattere.
L’offensiva era stata
preannunciata per tempo dai servizi di informazione ma a Cadorna sembrava
impossibile che il nemico volesse attaccare nell’Alto Isonzo in pieno autunno,
con un tempo già cattivo. Quando, a
ridosso del 24 ottobre, cominciò a mandare rinforzi alla spicciolata all’ala
sinistra della II armata, che presidiava in modo inadeguato l’Alto Isonzo, era
troppo tardi: furono poi anch’essi travolti.
L’offensiva e lo sfondamento furono entrambi fulminei e si giovarono
proprio del cattivo tempo, anch’esso parte essenziale della sorpresa
strategica realizzata. Dopo tre
giorni il nemico, lanciandosi audacemente per le vallate, stava già uscendo
dalle montagne.
Nei
combattimenti, dal 24 ottobre al 10 novembre, avemmo diecimila caduti, cifra stabilita
dalla Commissione d’Inchiesta del dopoguerra e che si considera inferiore al
vero, e circa 30.000 feriti: ciò significa che una parte consistente combatté,
nel settore dove si verificò lo sfondamento. L’enorme quantità di materiali perduti e il
grandissimo numero di sbandati nelle retrovie, poi recuperati quasi tutti e
reinquadrati in vari modi, dettero sul momento l’impressione di una disfatta
irreparabile e definitiva, grazie anche all’infausto bollettino di Cadorna. Ma non fu così.
La III armata (10
divisioni) schierata da Plezzo al mare, non coinvolta nell’attacco, si ritirò
ordinatamente, dopo aver respinto senza difficoltà i modesti tentativi offensivi
del nemico nel suo settore. Così pure la IV, schierata in Cadore e Carnia, le
cui perdite furono limitate, scese in ordine con 7 divisioni. La III armata dovette ritirarsi perché il
nemico cercava di scendere alle sue spalle da Nord per avvilupparla. Il nostro fronte aveva una linea convessa e
pochi spazi di manovra al suo interno, solcato in verticale da molti corsi
d’acqua paralleli: bucato a Nord-Est obbligava tutte le truppe schierate sul
resto dell’Isonzo e sulle montagne, dal Friuli agli Altopiani, a ritirarsi
sulla linea di naturale difesa, non aggirabile, del Piave e del Grappa, per non
esser accerchiate. Il nemico fu
temporaneamente trattenuto da reparti della II armata in ritirata e da alcuni
altri di rinforzo, che si immolarono il 30 e 31 ottobre davanti al Tagliamento
quanto bastò alla III per passare quel fiume più a Sud e portarsi poi al di là
del Piave e alla IV per scendere dalle montagne. La I armata che presidiava gli Altipiani,
sino al Garda, e il III Corpo d’ Armata, dal Garda allo Stelvio, rimasero
dov’erano. Successivamente ci fu
un’ampia riorganizzazione.
Nonostante la ritirata
avesse assunto gli aspetti di una vera e propria rotta per quanto riguarda la
II armata e parte delle retrovie, nel suo insieme il Regio Esercito non perse la coesione.
Quando si parla di Caporetto
si suol sempre dire “disfatta”, “catastrofe”, “crollo”, “rotta”, “disastro”, come
per suggerire l’immagine quasi compiaciuta di un esercito intero
precipitato al livello di un’orda in fuga, di un’armata brancaleone che si
dirige come un torrente in piena al di là del Piave mollando tutto e
saccheggiando i depositi, insultando gli ufficiali, in un caso persino applaudendo
(polemicamente) il nemico che li faceva prigionieri, gridando Viva il Papa!
e a volte cantando L’Internazionale: fine della guerra e dell’Italia, se non fosse
stato per gli Alleati giunti in tutta fretta a soccorrerci. Si prova un gusto acre nell’accentuare gli
aspetti peggiori di quel rovescio, che pur ci furono anche se non furono la norma,
per poter dire, contro i fatti, che a
Caporetto abbiamo perso non una battaglia ma la guerra, perché siamo un popolo
incapace di combattere…Per poter dar sfogo a tutti i nostri stolidi complessi
d’inferiorità, derivanti dalla nostra tragica storia di Paese diviso e succube
degli stranieri per tanti secoli. Ma sarebbe ora di smettere di dire “è stata
una Caporetto”, per indicare in generale una sconfitta totale, definitiva e
umiliante nelle forme, visto che poi ci siamo ripresi e abbiamo concorso validamente
alla sofferta vittoria alleata e nostra in quella terribile guerra[46].
6.1 Il Regio Esercito, pur dimezzato, vinse da
solo la “Battaglia d’Arresto” sugli Altipiani, sul Grappa e sul Piave, subito
dopo Caporetto
Scrisse dopo la guerra il
generale bavarese Konrad Kraff von Dellmensingen, l’ideatore del geniale piano
di battaglia realizzato a Caporetto: “In
definitiva l’attacco contro l’Italia rimase a mezza strada, non portando ad
alcun miglioramento della situazione generale, ma semmai ad un allargamento del
fronte vulnerabile”[47].
Infatti, al contrario di
quanto sembrano credere oggi in tanti, il Regio Esercito non fu distrutto
a Caporetto e non sparì affatto come valida forza combattente. Fu distrutta l’ala sinistra della II armata,
schierata sull’Alto Isonzo, tra le montagne, e la II armata cessò di esistere
come forza combattente perché parte consistente del suo centro (le 20 divisioni che occupavano l’Altopiano della
Bainsizza, al di là dell’Isonzo) fu poi presa prigioniera, imbottigliata tra
l’Isonzo e il Tagliamento, nella zona alta dei due fiumi, nel caos incredibile
di militari e friulani in fuga (sembra circa 400.000, i civili), sulle poche e
congestionate strade. La II armata constava
di ben 25 divisioni (forse troppe), più 12 in retrovia (diverse a ranghi
ridotti, in fase di riordinamento, non una vera riserva operativa) e altri
corpi minori, più un notevole apparato logistico, come in tutti gli eserciti
del tempo. In totale erano circa 670.000 uomini. Quest’armata, veterana del
fronte dell’Isonzo, costituiva quasi la metà dell’intero esercito, composto di
62 divisioni impiegabili. Il generale Enrico Caviglia, uno dei nostri migliori,
ne portò in salvo e in buon ordine 6 divisioni, un altro generale altre 5. Parte di esse furono poi stazionate tra
Padova e Vicenza, a riorganizzarsi. Tra
Brescia e Mantova venivano invece a schierarsi in quei giorni 5 divisioni
francesi e 6 britanniche, con 800 cannoni, come riserva strategica, per parare
eventuali sfondamenti sul Piave o dalla parte dell’Altopiano di Asiago (comprensibilmente,
non c’era neanche tanta fiducia nei nostri confronti, gli Alleati volevano
vedere come ce la saremmo cavata, sul Piave e sul Grappa). Schierammo sul nuovo fronte, di soli 300 km
circa contro i 640 di quello isontino, 33 divisioni, 19 delle quali logorate
dalla ritirata, ma ancora ben in grado di battersi, come dovettero constatare subito i nostri nemici,
che ci opponevano un totale complessivo di 53 divisioni, usurate dall’avanzata
e ancora scaglionate, con l’artiglieria
pesante rimasta temporaneamente indietro ma con il morale alle stelle e decise
a chiudere il conto con noi.
Il passaggio del Piave fu ultimato la notte
dell’8 novembre, la mattina del 9 furono
fatti saltare da noi tutti i ponti. Il giorno dopo, il 10, cominciò la battaglia
d’arresto, a partire dall’altopiano di Asiago, diciotto giorni dopo lo
sfondamento di Caporetto.
“Il 10 novembre il generale Conrad lanciò
sette divisioni all’attacco sull’Altopiano di Asiago; respinto nei primi due
giorni, ottenne qualche vantaggio il 12, ma nei quattro giorni successivi
nessuno”, scrive Faldella[48].
“Il 12 novembre tutte le divisioni
disponibili, meno di ventiquattro, passarono all’attacco sull’insieme del
fronte, con più spiccato carattere offensivo sull’Altipiano, dalla Val Franzela
alle Melette di Gallio, al Grappa, al Monte Tomba. Tra il 18 novembre ed il 22, la lotta divampa
sul Pertica, sul Fontanasecca, sul Tonderecar ed a Castelgomberto. Il Pertica viene perso e ripreso più volte,
esattamente come il Sabotino, il San Michele, il San Gabriele. Si combatte allo stesso modo sul Monfenera,
sul Col dell’Orso, sull’Asolone, sul Col della Berretta. I siciliani della
Brigata Aosta , i fanti della Messina, gli alpini del Val
Brenta, gli eroi della Calabria e della Basilicata
restituiscono alla divisione Edelweiss i colpi toccati sotto Tolmino ed al
Tagliamento, uno per uno: cedono terreno, contrattaccano, ma non mollano. Conrad li descrive come “naufraghi attaccati
ad una tavola, prima di cadere in pianura”,
ma i naufraghi hanno fegato da vendere e sembrano insensibili al ricordo delle
recentissime ferite.
Sul Piave, i tentativi di Boroević sono scuciti e inconsistenti. Il fiume viene forzato a Fagarè ma un nostro
contrattacco della Novara, della Lecce e dei bersaglieri della 3a
brigata, ributta il nemico e cattura qualche migliaio di prigionieri. Sono i primi che incolonniamo verso le
retrovie dopo il 24 ottobre, e segnano una inversione nella corrente delle cose
che i soldati valutano al punto giusto.
Il 4 dicembre la lotta riprende con nuove
truppe giunte dalla parte del nemico.
Conrad attacca nuovamente al Sisemol, allo Zomo, al Tonderecar. E l’11 la vecchia nostra conoscenza, la XIV
Armata di von Below, scaraventa il suo colpo di maglio dal Col Caprile
all’Asolone: le truppe piegano, perdono
tutte le posizioni avanzate, meno il Grappa, ma lì si incrostano con la forza
della disperazione. È l’ultimo pilastro
che controlla Bassano e la cara pianura veneta:
cedere qui vorrebbe dire la frana, una nuova disfatta. Cantando le loro canzoni piene di
malinconiche ali, gli alpini passano sul ponte di Bassano, salgono al Grappa,
vi muoiono con la stessa semplicità, con lo stesso coraggio umile ed alto con
cui venticinque anni più tardi moriranno a Ponte Perati, a Rossosch sul Don, in
Jugoslavia. Hanno in bocca una
fanfaretta allegra, che subito si spande in tutto l’Esercito: ‘Monte Grappa, tu
sei la mia Patria…’ L’anima popolana del soldato con le sue intuizioni felici
ed incredibili, ha compreso esattamente l’ora che volge, la linea essenziale
del proprio dovere.
A Natale del 1917, mentre le nuove leve del
1899 entrano in linea, fresche di un entusiasmo un poco deamicisiano, la prima
battaglia del Piave è sicuramente vinta, per merito quasi esclusivamente dei
nostri soldati”[49].
Quasi esclusivamente:
quale fu l’effettivo contributo degli Alleati in prima linea, nella quale
si erano schierati a partire dal 4 dicembre, i francesi nella zona del Monte
Tomba, gli inglesi sul Montello, di fronte al Piave?
Di nuovo Faldella, sulla seconda fase della
battaglia d’arresto: Conrad riuscì a occupare parte della Val Franzela; il
generale austriaco Krauss, operante nella XIV armata, sotto von Below, “attaccò
sul Grappa dall’11 al 18 dicembre con le migliori truppe tedesche e austriache
e riuscì a occupare l’Asolone [che permetteva di avvicinarsi al centro del
Grappa, rimasto tuttavia imprendibile].
Sul Piave Boroević attaccò dal 9 al 18 dicembre senza ottenere alcun
risultato. Conrad riprese il 23
l’attacco sugli Altipiani e conquistò Monte Valbella e Col del Rosso, ma negli
accaniti combattimenti del 24 e 25 dicembre fu impedito ogni ulteriore
progresso. Il 27 dicembre gli austriaci
sgomberarono volontariamente l’ansa di Zenson [sulla destra del Piave, occupata
pochi giorni prima] nella quale erano fortemente premuti dalle nostre truppe”[50].
E i nostri alleati? “Fino a quel momento le truppe alleate non
avevano combattuto, perché il nemico non aveva attaccato nei loro settori; fu
perciò attribuita nel bollettino di guerra e dalla propaganda grande importanza
all’attacco effettuato dai Francesi il 30 dicembre, col quale riconquistarono
un breve tratto della dorsale di Monte Tomba, che era rimasto in mano al
nemico. Si trattò di un colpo di mano
bene organizzato, effettuato dopo una violentissima preparazione di artiglieria”[51]. Un’azione brillante ma sicuramente di
importanza secondaria nell’ambito della battaglia, che di fatto si era ormai
conclusa, anche nella sua seconda fase, tra il 26 e il 27 dicembre, senza riuscire
a capovolgere i risultati deludenti della prima, per gli austro-tedeschi.
“Di ben maggiore sviluppo e importanza –
continua Faldella – fu l’azione con la quale, fra il 27 e il 29 gennaio, il 10° gruppo Alpini conquistò il Cornone, alla
testata di Val Frenzela, e la brigata Sassari rioccupò il Col del Rosso e il
Col d’Echele, mentre la IV brigata bersaglieri ricacciava il nemico da Cima
Valbella. Con un’avanzata di alcuni
chilometri risultava rafforzata la
difesa del settore orientale dell’Altipiano.
Duemilacinquecento prigionieri erano stati catturati nei travolgenti
assalti”[52].
In queste battaglie, la natura del fronte e
l’alta motivazione degli italiani, induriti e resi più esperti dalla recente batosta, impedivano
attacchi manovrati e di sorpresa, come quello di Caporetto. Si era tornati per forza di cose alla guerra
di posizione, agli assalti frontali, alle lotte feroci all’arma bianca sui
cocuzzoli, sui crinali e fra gli strapiombi, sulle rive paludose dei
fiumi: in questo tipo di guerra gli italiani
non demeritavano affatto di fronte ai loro più titolati avversari. Krafft von Dellmensingen, riconobbe che: “Gli italiani si battevano con grande
tenacia, in un modo completamente diverso dai primi giorni dell’offensiva [a
Caporetto]: alcuni piccoli reparti
tennero duro fino al loro completo annientamento”[53].
Ma vediamo che cosa è stato capace di
scrivere il citato Mark Thompson, nella sua lapidaria sintesi di queste
durissime e prolungate battaglie, il cui protagonista fu indubbiamente il Regio
Esercito, per quanto riguarda l’Intesa:
“Quando il Corpo di Krauss e la XIV armata
di von Below si slanciarono contro il massiccio del Grappa a metà novembre, al
modo degli ultimi colpi di un maglio, gli italiani furono quasi ricacciati in
pianura. Conrad motteggiò che essi si aggrappavano al bordo sud-occidentale del
Grappa come un uomo appeso al davanzale di una finestra. Il Comando Supremo [italiano] ammucchiò 50
battaglioni sul Grappa, circa 50.000 uomini, con dentro molte reclute
dell’ultima leva. La lotta che ne
seguì fu una battaglia a sé stante: la
situazione fu risolta solo alla fine di Dicembre, con l’aiuto tempestivo di una
divisione francese – l’unico attivo contributo degli Alleati alla battaglia
difensiva dopo Caporetto. Questo
successo fece nascere due miti, assolutamente necessari: la difesa del Monte Grappa fu acclamata come
una vittoria che salvò il regno [d’Italia] e “i ragazzi del ‘99”, tramutati da
inesperte reclute a facitori di miracoli, dimostrarono che la tempra dei
combattenti italiani era viva e in buona salute”[54].
La
battaglia tremenda sul Grappa sarebbe stata risolta unicamente (o n l y
) con l’aiuto finale della divisione francese, unico e limitato contributo
alleato a tutta quella intensissima fase di guerra? Il cavalleresco Krafft von
Dellmensingen elogiò il valore delle nostre truppe in quelle battaglie sul
Grappa, attribuendo loro (“ragazzi del ‘99” inclusi, evidentemente) il merito di aver fermato le migliori truppe
austro-tedesche (vedi infra): dell’apporto alleato, del resto minimo nel
frangente specifico, non parlò proprio nel suo elogio! Non si capisce il perché dell’immotivato disprezzo
dimostrato dal Thompson verso “i ragazzi del ‘99” e il comando italiano (che
non avrebbe fatto altro che ammucchiare sui monti
50.000 fra adulti e ragazzini alla spera in Dio, mentre Krafft von
Dellmensingen ne loda senza mezzi termini l’ottima organizzazione difensiva sul
Grappa e l’impiego dell’artiglieria, che fu micidiale contro gli attaccanti). Né si comprende come il Thompson possa
considerare “un mito” il fatto indubitabile che la tenuta nostra sul Grappa
abbia salvato il fronte dal crollo e l’Italia dalla capitolazione. Il Grappa era il pilastro di tutto il fronte,
basta guardare una carta geografica, pre capirlo[55].
Il Monte Tomba è sulla linea di cresta che
da un lato si congiunge attraverso il Monte Pallon alla cima del Grappa,
dall’altro si prolunga, con il Monfenera, discendendo verso il Piave.
Scavalcare quest’ultima linea montana investendola da nord significava scendere
in pianura e raggiungere con una conversione sulla propria sinistra il Piave prendendovi
la difesa italiana sul rovescio, in modo da costituire una testa di ponte per
le truppe austro-ungariche che stavano dall’altra parte del fiume. La lotta fu feroce, dal 18 al 22
novembre. La divisione Jäger tedesca e i bosniaci, impiegando anche i lanciafiamme
contro i nostri capisaldi, occuparono alla fine la vetta del Tomba e il suo
prolungamento verso il Piave, cioè il Monfenera. La parte ovest del Tomba restò però nelle
nostre mani, prolungandosi in una linea continua che scendeva da questa parte
Ovest al Monfenera e al Piave, immediatamente al di sotto della cresta,
bloccando ogni ulteriore avanzata nemica[56]. Il 30 dicembre successivo, la 47a
divisione francese Chasseurs des Alpes (gli Alpini francesi), dopo una
intensa e breve azione di fuoco di ben 450 cannoni, riconquista di sorpresa la
suddetta cresta. Tale cresta si era
rivelata troppo esposta per gli austro-tedeschi: essi stavano meditando di sgomberarla.
“Dopo la definitiva sospensione
dell’offensiva [austro-tedesca], emerse l’interrogativo riguardante la
convenienza di mantenere o meno l’occupazione di M. Tomba, perché molto spinta
in avanti e in posizione fortemente fiancheggiante rispetto all’andamento del
fronte. Il gen. von Below pensò di attendere finché fosse stata presa una
decisione in vista di un’eventuale ripresa offensiva a primavera. Ma prima che il Comando Supremo
austro-ungarico si pronunciasse in proposito, il 30 dicembre M. Tomba,
nonostante l’eroica difesa opposta dalla 50a divisione a.u., cadeva
per effetto d’un ben preparato attacco condotta a sorpresa dalla 47a
divisione francese Chasseurs des Alpes.
Poiché non v’era alcun motivo di riprendere una posizione così esposta,
il comando della 14a Armata scelse quale stabile posizione le alture
a nord della conca di Alano [circa 2 km indietro]. Del resto il nemico non andò oltre la
posizione riconquistata”[57].
La brillante azione isolata dei francesi fu
una tipica azione di rettifica e miglioramento di una posizione
di un fronte, quale si può avere e a volte si ha alla fine di un ciclo di combattimenti. La battaglia d’arresto era di fatto già
terminata da alcuni giorni, con la sospensione dell’offensiva
austro-tedesca. Com’è possibile
contrabbandarla, allora, l’azione dei francesi, per un fatto d’arme che, da solo,
avrebbe risolto a favore degli italiani un mese e mezzo di loro combattimenti,
fatti passare per inconcludenti e mal diretti?
In altre parole: com’è possibile,
mi chiedo, continuare ad alterare a nostro danno, e in modo così
grossolano, l’effettivo svolgersi dei fatti d’arme su quel fronte?
6.2 Il
giusto giudizio sulla sconfitta di Caporetto
Il giudizio su Caporetto degli storici più
seri e preparati è oggi il seguente:
“Sul comportamento delle unità italiane il
24-25 ottobre [i giorni dello sfondamento] abbiamo notizie insufficienti,
perché nessuno si preoccupò di raccogliere le testimonianze dei reduci quando
ancora era possibile. I dati costanti
sono disorganizzazione e sorpresa, con una resistenza ora violenta ora
debole: le truppe nelle trincee furono
travolte prima di potersi disporre a difesa, quelle nelle retrovie aggredite
quando ancora non se lo aspettavano, costrette a combattere senza collegamenti
né artiglierie né un addestramento adeguato a situazioni impreviste. Va comunque precisato che non esiste alcuna
documentazione o testimonianza che uno o più reparti si arrendessero per
tradimento o perché si rifiutassero di combattere: crollarono perché sopraffatti dall’efficacia
degli attacchi o sorpresi su posizioni infelici, per la mancanza di ordini e il
collasso di tutta l’organizzazione difensiva.
Erano certamente reparti logorati dalla guerra, ma nulla autorizza a
ritenere che non fecero il possibile in condizioni quanto mai precarie. Le troppe facilitazioni offerte all’avanzata
nemica, come la mancata difesa del fondovalle dell’Isonzo, i ponti che non
saltarono, le posizioni abbandonate senza combattere come la stretta di Saga,
sono dovute a documentati errori dei comandi o di singoli generali che persero
la testa, come accade in tutte le rotte.
La sconfitta non fu dovuta alle truppe ma all’insufficienza dei comandi
prima, poi al collasso di tutta l’organizzazione dell’esercito”[58].
I prigionieri furono 280.000, gli sbandati
350.000. 40.000 le perdite, tra morti e
feriti. Furono abbandonati o persi nella
ritirata 3.150 cannoni (due terzi dei grossi calibri, metà dei medi, due quinti
dei pezzi leggeri), 1,700 bombarde, 3.000 mitragliatrici e quantità enormi di munizioni,
viveri, rifornimenti di ogni tipo. Ma i 300.000 uomini della III armata dal
Carso al Piave e i 230.000 dal Cadore al Grappa si ritirarono in buon
ordine.
“Avevano a disposizione strade sufficienti e
dovettero sostenere soltanto combattimenti di retroguardia; lasciarono indietro
i cannoni più pesanti e gran parte del materiale ma portarono con sé
artiglierie, mitragliatrici e munizioni.
Persero circa il 20% degli uomini, giunsero sulle nuove linee in buon
ordine e le difesero efficacemente nei due mesi successivi. Minor fortuna ebbe la ritirata dei 90.000
uomini della Carnia, condannati in gran parte alla prigionia dal ritardo con
cui gli alti comandi ordinarono la loro ritirata. Il disastro tra l’Isonzo e il Piave coinvolse
la II armata, forte di circa 670.000 uomini, e le unità delle retrovie, un
milione di uomini come ordine di grandezza.
In parte notevole si trattava di reparti non combattenti della grande
rete di magazzini e depositi di ogni tipo, ospedali, servizi logistici […] I
giorni più drammatici furono quelli tra l’Isonzo e il Tagliamento, in cui si
ebbero quasi tutte le perdite, poi le truppe che erano riuscite a passare i
ponti prima che fossero fatti saltare e la fiumana di sbandati poterono
raggiungere il Piave con minore affanno.
Una parte delle brigate della II armata era ancora in condizioni di
concorrere alla prima difesa del fiume”[59].
Il
Regio Esercito risorse già sul Piave e sul Grappa, quando vinse la “battaglia
d’arresto” sopra ricordata, battaglia difensiva durissima e decisiva che durò
un mese e mezzo, dagli Altipiani al Grappa al Piave sino alla foce: dal 10 al
26 novembre e dal 4 al 25 dicembre. Fu
vinta, in prima linea, con le sole sue forze, ivi compresi i “ragazzi del ’99”,
non con l’aiuto diretto delle divisioni alleate.
La sorprendente quanto
rapida rinascita del nostro esercito fu onestamente riconosciuta da
Krafft von Dellmensingen (vedi supra), e dalla Relazione Ufficiale
Austriaca.
Il primo scrisse: “Così si arrestò, a poca distanza ancora dal
suo obiettivo [la pianura, Vicenza, Venezia] l’offensiva ricca di speranza, e
il Grappa diventò il Monte Sacro degli italiani. D’averlo conservato contro gli
eroici sforzi delle migliori truppe dell’esercito austro-ungarico e dei loro
camerati tedeschi, essi, con ragione, possono andare superbi”. La Relazione Ufficiale scrisse che il
Regio Esercito, “se pur sostenuto moralmente dalla prospettiva di aiuti
alleati, trovò in se stesso la forza di imporre l’alt agli eserciti
avversari. E così potè verificarsi il
fatto che un esercito presunto in dissoluzione divenisse di nuovo, nel volgere
di poche settimane, un avversario da tenersi in conto, che si mostrò
determinato a non considerare assolutamente come perduta la partita”[60].
Non male per un esercito
che avrebbe visto finire ingloriosamente la sua guerra con “la disfatta di
Caporetto”. Troppe volte si è scritto e
si continua a scrivere che furono gli Alleati subito accorsi “a chiudere la
falla”(to stop the gap) da soli, perché noi ci eravamo volatilizzati. Si tratta solamente di ristabilire la verità. Nessuno vuole sminuire l’importanza del soccorso
alleato. Esso fu essenziale e non solo
dal punto di vista morale, come scrive la Relazione Austriaca: lo fu
anche dal punto di vista tattico.
Infatti, ci permise, ridotti al minimo com’eravamo con le truppe valide,
di non togliere divisioni dalla prima linea per schierarle nella necessaria,
forte riserva strategica, costituita appunto in quel momento dai nostri alleati
francesi e inglesi.
A Caporetto, a causa
dello schieramento offensivo colpevolmente mantenuto dal generale Capello
nonostante gli ordini in contrario di Cadorna, che tuttavia non insistette come
avrebbe dovuto, era mancata una riserva operativa, che avrebbe potuto chiudere
la falla inizialmente apertasi o comunque ridurre alquanto la portata dello sfondamento. Ma, se l’ala sinistra della II armata fosse
stata disposta per tempo in solide e ben studiate posizioni difensive, molto
probabilmente lo sfondamento non sarebbe riuscito agli austro-tedeschi, che
attaccarono audacemente tra Plezzo e Tolmino proprio perché in quella zona, che
si prestava geograficamente ad uno sfondamento strategico, avevano individuato
il punto debole, mal presidiato, del nostro schieramento. Essi riuscirono, con grande bravura e un
pizzico di fortuna, nel realizzare una “sorpresa strategica” da manuale,
portando di nascosto in loco numerosa e provetta artiglieria, rivelatasi poi
micidiale nell’azione di sfondamento, e attaccando di colpo con 15 divisioni
scelte contro le 6 italiane a presidio della zona.
Che la “sorpresa strategica” sia la
spiegazione più convincente, quella cioè di tipo “militare”, del rovescio di
Caporetto, la più convincente anche se non l’unica, poiché l’azione militare
fece brutalmente emergere tutti i difetti, le magagne, le incapacità
incrostatesi nel nostro esercito e in particolare nel suo sistema di comando,
ciò è stato sempre sostenuto dagli osservatori più acuti, a cominciare da
Konrad Krafft von Dellmensingen, da Gioacchino Volpe, dal colonnello Roberto Bencivenga, nel suo
poderoso studio della seconda metà degli anni Trenta del secolo scorso.
Paolo Pasqualucci
[Fonte :
iterpaolopasqualucci.blogspot.ie]
[1] In
una mappa mostrante il futuro Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (dal 3 ottobre
1929 Regno di Jugoslavia), diffusa dall’esercito serbo a Salonicco, base della Armata
d’Oriente, alla quale partecipava anche un corpo di spedizione italiano, il
confine con l’Italia era appunto posto al Natisone, non troppo lontano da
Udine. Vedi: Ten. Col. G. Galli, Fanti
d’Italia in Macedonia. 1916-1919,
Marangoni, Milano, 1934, p. 74. Per la
situazione sempre più difficile della comunità italiana in Dalmazia, sotto la
pluridecennale, ostile pressione degli slavi, vedi il fondamentale studio in
due volumi di Luciano Monzali, Italiani di Dalmazia. Dal Risorgimento alla
Grande Guerra, Le Lettere, Firenze, 2004 e ID., Italiani di
Dalmazia. 1914-1924, Le Lettere,
Firenze, 2007. L’autonomismo dalmata,
fedelissimo alla Duplice Monarchia, già verso la fine dell’Ottocento,“da
partito multietnico e multinazionale tendeva lentamente a divenire il partito
difensore dei dalmati che cominciavano a dichiararsi ‘italiani di Dalmazia’
anche sul piano politico. Sorgeva pian
piano un nazionalismo italiano di difesa contro la xenofobia del nazionalismo
croato”. A causa del carattere virulento
di quest’ultimo non si poteva più seguire la tesi del Tommaseo “dell’esistenza
di una nazione dalmatica, italiana e slava allo stesso tempo”. A titolo di esempio, l’Autore ricorda che
gli stenografi croati nei loro verbali delle sedute della Dieta locale, pur tenuti
per legge “a riprodurre in italiano i discorsi dei deputati autonomi,
croatizzavano la grafia dei cognomi dei deputati negli atti pubblicati, al fine
di dimostrare che non esistevano italiani nell’Assemblea dalmata”(Monzali, Italiani
di Dalmazia. Dal Risorgimento alla
Grande Guerra, cit., p. 143; ma vedi tutto il capitolo: La guerra del 1866, pp. 63-168).
[2]
Sua Maestà “imperiale e apostolica” Francesco Giuseppe, per l’appunto dopo la
perdita del Veneto, diede istruzione che si emanassero “misure contro
l’elemento italiano in alcune regioni della Corona”, volte a favorire la
penetrazione tedesca e slava nelle stesse.
Il verbale della seduta del Consiglio della Corona dedicato a questo
argomento, tenutasi a Vienna il 12 novembre 1866, fu riesumato da Mario
Toscano, nell’articolo: Il negoziato
di Londra del 1915, ‘Nuova Antologia’, nov. 1967, p. 318. “Nei territori italiani d’Austria anche dopo
la conclusione della Triplice continuò la politica del governo austriaco mirante
al ridimensionamento dell’influenza dell’elemento italiano e italofilo nel
Tirolo e nelle regioni adriatiche, attraverso il sostegno ai partiti
nazionalisti slavi, tirolesi tedeschi o cattolici lealisti: questo ridimensionamento era ritenuto lo
strumento ottimale per scongiurare future rivendicazioni territoriali
dell'Italia in Tirolo e nell’Adriatico”(Monzali, op. cit., p. 153). In effetti, sparendo via via l’etnia italiana
in quelle terre, cosa avremmo avuto da “rivendicare”, da “redimere”?
[3]
Emilio Faldella, La Grande Guerra. Vol. II:
Da Caporetto al Piave. 1917-1918, Longanesi, Milano, 1965, pp.
290-291.
[4]
Giorgio Del Vecchio, Le ragioni morali della nostra guerra, Bologna,
Stabilimento poligrafico emiliano, 19163, pp. 8-9. Ad Ala c’era il confine con il Regno
d’Italia. Come ho ricordato, per la
Confederazione Germanica zona di confine tra italiani e tedeschi doveva esser considerata l’area del Mincio,
molto più a Sud, nel pieno della pianura padana. L’opuscolo di Del Vecchio fu
tradotto in inglese e utilizzato dalla propaganda di guerra italiana.
[5]
Op. cit., pp. 16-23.
[6]
Op. cit., pp. 10-11.
[7]
Op. cit., p. 13.
[8]
Era anche l’opinione del nostro validissimo ministro degli esteri, il catanese
Antonino di San Giuliano, prematuramente scomparso il 16 ottobre 1914. Di
fronte all’ennesimo rifiuto austriaco a solo prendere in considerazione (per
compensare l’incameramento della Bosnia) una cessione del Trentino –
l’imperatore Francesco Giuseppe aveva fatto sapere che avrebbe abdicato
piuttosto che privarsene – il nostro ministro disse ad Arturo Labriola: “Quella gente non ci cede nemmeno una pietra
senza l’uso della forza. Se l’Italia
desidera compiere la propria unità non può illudersi che possano giovare le
trattative: o l’uso della forza o la rinuncia ad ogni rivendicazione”
(Gianpaolo Ferraioli, Politica e diplomazia in Italia tra XIX e XX
secolo. Vita di Antonino di San Giuliano
(1852-1914), Rubbettino, Soveria Mannelli, 2007, p. 877).
[9]
Giovanni Gentile, Esame di coscienza, in ID., Guerra e fede, in
G. Gentile, Opere complete, a cura di H. A. Cavallera, Le Lettere, Firenze, 19893, vol. XLIII,
pp. 45-48; pp. 45-46.
[10]
Giuseppe Prezzolini (a cura di), Tutta la guerra. Antologia del popolo italiano sul fronte e
nel paese, Longanesi, Milano, 1968, p. 10 (dalla Prefazione alla terza
edizione, appunto del 1968, essendo la prima del dicembre 1917, dopo
Caporetto).
[11]
Benedetto Croce, Parole di un italiano, in ID., L’Italia dal 1914 al
1918. Pagine sulla guerra, Laterza,
Bari, 1965, p. 231. L’appello all’onore
nazionale si spiega con il fatto dell’infelice Bollettino del Comando Supremo
italiano, delle ore 13 del 28 ottobre, che, nella frase iniziale, accusava i
propri soldati di viltà, come se il nemico avesse sfondato nell’Alto Isonzo
perché i nostri non avevano più voluto combattere ed erano fuggiti o si erano
arresi in massa. Ciò non era vero (vedi infra).
[12]
Sulle visioni belliciste della parte politicamente più importante del
nazionalismo italiano di allora, vedi:
Lorenzo Benadusi, Un esercito dotato di un paese: guerra e questione militare nel nazionalismo
italiano, in: Federico Mazzei (a cura di), Nazione e anti-nazione. 1. Il
movimento nazionalista da Adua alla guerra di Libia (1896-1911), Viella,
Roma, 2015, pp. 55-75. Per un’ampia e
approfondita analisi della letteratura interventista, condotta secondo
un’impostazione sociologico-marxista, vedi: Mario Isnenghi, Il mito della
Grande Guerra, il Mulino, Bologna, 20076, soprattutto le prime
due parti: Premessa. L’attesa e La letteratura dell’intervento,
pp. 11-178.
[13]
Giovanni Gentile, Natale di vittoria, articolo del 25 dicembre 1918, ora
in ID., Opere, XLIV: Dopo la
vittoria, Seconda edizione rivista e ampliata, a cura di Hervé Cavallera,
Firenze, Le Lettere, 1989, pp. 39-45; p. 43.
[14]
Sul punto, vedi: Mario Isnenghi e
Giorgio Rochat, La Grande Guerra. 1914-1918, il Mulino, Bologna, 20083,
pp. 367-372. Il governo francese
intervenne sui militari perché usassero clemenza, ci furono 1492 condanne leggere, 1381 gravi
(da 5 anni di galera all’ergastolo), 554
a morte, delle quali solo 49 eseguite
(in un totale di 600 per tutta la guerra).
Nell’opera di ricostruzione morale e riforma dei metodi di
combattimento, si distinse il generale poi maresciallo Pétain, il vincitore
della lunga battaglia difensiva di Verdun, nuovo comandante in capo
dell’esercito. Tutti questi gravi fatti
furono tenuti all’epoca segreti e conosciuti nei dettagli solo molto tempo
dopo.
[15]
Sui grandi sfondamenti subiti inizialmente dai francesi nel 1914, vedi la Premessa
di Gianni Pieropan a: Krafft von Dellmensingen, 1917. Lo sfondamento dell’Isonzo. Der Durchbruch am
Isonzo, a cura di Gianni Pieropan, Arcana Editrice, Milano, 1981, pp.
13-43; p. 21: “Relazione Ufficiale
Francese: “Le armate francesi hanno perdite gravi, sono molto provate,
ripiegano in un disordine straordinario…”; p. 22: “il 5 settembre 1914 l’Ordre Général n. 5 del
gen. Joffre [comandante in capo] avvertiva che il Comando Supremo avrebbe
disposto sezioni o compagnie dietro alla linea di combattimento ‘con il compito
di opporsi ad ogni movimento di ritirata non ordinato, facendo uso delle armi
se necessario’”, cioè fucilando sul posto i soldati fuggiaschi. Il libro del generale tedesco uscì in due
volumi nel 1926 e nel 1928.
[16]
Giuseppe Prezzolini (a cura di), Tutta la guerra. Antologia del popolo italiano sul fronte e
nel paese, cit., p. 209. Il brano è
tratto dalla presentazione prezzoliniana della figura del tenente forlivese
Fulcieri Paulucci de Calboli, volontario, medaglia d’oro per il suo grande
coraggio, che gli era costato gravi ferite e la carrozzella degli invalidi,
cosa che non gli impedì di attivarsi appassionatamente nella missione patriottica,
impegno che in pratica ne stroncò la vita poco tempo dopo, nel 1919, a ventisei
anni.
[17]
Op. cit., pp. 213-214. Memorabile un
discorso di Paulucci agli operai della Fiat, a Torino.
[18]
“La masa en rebeldía ha perdido toda capacidad de religión y de conocimiento
[…] Las gentes más “cultas” de hoy padecen una ignorancia histórica incréible.
Yo sostengo que hoy sabe el europeo dirigente mucha menos historia que el
hombre del siglo XVIII y aun del XVII”(J. Ortega y Gasset, La rebelion de
las masas, 1925, Revista de Occidente, Madrid, 196337, p. 31, p.
143). Ortega scriveva queste cose nel 1925, chissà cosa direbbe di fronte
all’incoltura odierna, ben più radicata e radicale, quasi una scienza!
[20]
La storiografia austro-tedesca più recente sostiene ora che se l’Italia fosse
rimasta neutrale gli Imperi Centrali non avrebbero perso la guerra, avrebbero
comunque “pareggiato”, se non vinto.
Secondo questi storici, però, la nostra entrata in guerra si sarebbe
risolta in una “catastrofe morale e fisica” per il nostro Paese, che non
avrebbe ricavato nessun vero vantaggio “materiale, politico e geostrategico” da
essa. In sostanza, si tratta sempre di
negare che la guerra l’abbiamo vinta, realizzando un obiettivo per noi di
portata storica: il compimento dell’unità e la liberazione definitiva dallo
straniero. Questi storici, annoto,
continuano a non riconoscere validità alle nostre “aspirazioni nazionali”, il
che significa negarci il diritto ad essere una nazione con uno Stato
indipendente (queste tesi sono sinteticamente riportate in: Gian Enrico Rusconi, L’azzardo del
1915. Come l’Italia decide la sua guerra,
il Mulino, Bologna, 20092, pp. 189-191, che le sottopone a critica,
sottolineando comunque che, per questa storiografia, “il fattore Italia”un peso
decisivo nell’andamento del conflitto l’ha pur avuto).
[21]
Douglas Newton, The Darkest Days. The
Truth Behind Britain’s Rush to War, 1914, Verso, London-New York, 2015, p.
279. Appunti dalle Harcourt Papers
sulla riunione di Gabinetto del 5 agosto 1914.
L’interesse del libro è costituito soprattutto dal fatto di far uso per
la prima volta di numerosi documenti inediti, tratti dai fondi privati dei
politici che portarono il Regno Unito in guerra. In quei giorni, entro l’8 agosto, i diplomatici
dell’Intesa si coordinarono in queste offerte esplicite a noi: Trento, Trieste,
Valona. Noi poi aggiungemmo l’Alto Adige col Brennero (frontiera già stabilita
da Napoleone I per il Regno d’Italia sotto tutela francese) e la Dalmazia, con
Zara e Sebenico, ridottasi poi a quella del Nord con Zara, a causa
dell’opposizione russa (vedi: Ferraioli, op. cit., pp. 904-905). I francesi, inizialmente, non volevano
concederci Trieste, perché il possesso di quel porto ci avrebbe rafforzato
troppo, dicevano agli inglesi (Ferraioli, op. cit., p. 904).
[22]
Per un’analisi minuta ed esemplare del Tratto di Rapallo, rimando al citato II
volume dell’ottimo studio di Monzali, Italiani di Dalmazia, 1914-1924,
cap. III: Il Trattato di Rapallo e il primo esodo italiano dalla Dalmazia,
pp. 191-337. L’esodo, parziale, avvenne
(in particolare dalle isole dalmate) in un clima di intimidazioni, minacce,
violenze, creato con l’apporto diffuso del clero locale, in grandissima parte
(come da tradizione) ferocemente antiitaliano, anche grazie all’alibi
dell’anticlericalismo del governo italiano del tempo.
[23]
Per la precisa documentazione del fanatico nazionalismo pan-croato in Dalmazia,
ben anteriore alla Grande Guerra, rimando ancora allo studio di Monzali e alle
fonti ivi citate. Anche i serbi ci erano
contro. Ciò che colpisce è la
pervicace negazione dell’esistenza di una minoranza italiana: “Il governo jugoslavo non negava che vi fosse
una minoranza italiana in Dalmazia, ma affermava che essa non era autoctona
[sic], in quanto composta da immigrati provenienti dall’Italia e da slavi
italianizzati […] Erano argomentazioni
che confermavano chiaramente la tradizionale ostilità di molti nazionalisti croati
e serbi verso l’esistenza della minoranza italiana in Dalmazia e la loro
riluttanza a riconoscerle l’autoctonia e adeguati diritti politici e
culturali”(Monzali, Italiani di Dalmazia. 1914-1924, cit., pp.
98-99). Questa negazione del diritto
all’esistenza della nostra minoranza era ben radicata nel nazionalismo degli
Slavi del Sud. Presso i Croati risaliva
certamente ai teorici ottocenteschi dell’illirismo e dello jugoslavismo,
correnti di pensiero che si tramutarono in efficace azione culturale e politica
nella forte personalità del famoso vescovo cattolico croato Josip Juraj
Strossmayer (1815-1905), per decenni l’autentico capo del partito nazionale
croato (vedi: Monzali, Italiani di Dalmazia.
Dal Risorgimento alla Grande Guerra, cit., p. 28, 56 et passim).
[24]
Maurizio Serra, L’idea sbagliata della nazione “sbagliata”, in ‘Nuova
Storia Contemporanea’, 2009, XIII, 3, pp. 5-10; p. 6.
[25]
Citato da: Pier Paolo Cervone, Vittorio
Veneto, l’ultima battaglia, Mursia, Milano, 1994, p. 9.
[26]
Giulio Primicerj, 1918. Cronaca di una disfatta. Testi e documenti austriaci sul crollo
militare dell’impero absburgico, Arcana Editrice, Milano, 1983, p.
157. Il libro contiene anche il
riassunto, con ampi estratti, della Relazione Ufficiale Austriaca,
scritta tra il 1928 e il 1938. “Grave”
era termine locale indicante isolotti o estensioni di ghiaie nel fiume.
[27]
Primicerj, op. cit., p. 152.
[28]
Op. cit., p. 153. Ricordo che un’armata
era composta di più divisioni, formanti ogni due un “corpo d’armata”, unità
tattica che poteva esser usata in modo indipendente. La divisione di fanteria italiana e austriaca
era composta da 4 reggimenti di fanteria (per un totale di 12 battaglioni) e
uno di artiglieria. Il reggimento
italiano nel 1915 contava 3000 fucili e 2 mitragliatrici, nel 1918 contava 2600
uomini e 81 ufficiali, ma un notevole numero di mitragliatrici, pistole
mitragliatrici, lanciabombe, lanciafiamme,
un reparto di cannoncini da 37 mm., un plotone d’assalto (Arditi). Il Regio Esercito, come altri, adottava anche
l’unità chiamata brigata: i
quattro reggimenti di una divisione venivano divisi in due brigate, ognuna di
due reggimenti, in genere con nomi di città e regioni, anche se il reclutamento
non era su base regionale, tranne che per la Brigata Sassari e gli Alpini
(p.e.: 8a armata, XVIII corpo d’armata, 1a divisione,
brg. Umbria e Emilia). Le brigate erano solo delle unità
tattiche, composte di due reggimenti, che potevano operare anche
indipendentemente dalla divisione di appartenenza. C’erano poi i gruppi o
raggruppamenti di battaglioni, per forze a parte, come gli Alpini, gli
Arditi (per i dati numerici di cui sopra: Isnenghi e Rochat, op. cit., p. 452).
[29]
Vedi la Relazione Ufficiale Austriaca su questi combattimenti, in
Primicerj, op. cit., tutte le sezioni intitolate: Gruppo di Armate Boroević – Raggruppamento
Belluno.
[30]
Per la polemica di Prezzolini, tra il 1919 e il 1920, vedi: Giuseppe Prezzolini, Il Meglio di Giuseppe
Prezzolini, con Prefazione di Giovanni Spadolini, Longanesi, Milano,
1971, pp.306-324.
[31]
La lettera di Ludendorff è riportata da Faldella, op. cit., II, p. 376. Un accenno al significato strategico
risolutivo del crollo austriaco, conseguente allo sfondamento sul Piave si ha
in Basil H. Liddell Hart, La prima guerra mondiale. 1914-1918, tr. it. di
Vittorio Ghinelli, 1968 e 1999, BUR Storia, 2013, p. 490. Quest’autore riporta l’opinione di un altro
qualificato generale tedesco, von Gallwitz, simile a quella di Ludendorff sopra
citata. Ricordo che l’11 novembre 1918
il Regio Esercito raggiunse il Brennero e il passo del Tonale (Toblak), il 23
successivo occupò Innsbruck, il 24 Landeck, in applicazione
dell’armistizio. C’erano anche un
battaglione inglese e uno francese.
L’ultimo contingente italiano se ne andò dalla Valle dell’Inn nel luglio
del 1920 (Cervone, op. cit., p. 258).
[32]
Ronald W. Hanks, Il tramonto di un’istituzione. L’armata austro-ungarica in Italia (1918),
Mursia, Milano, 1994, p. 239. Si tratta
di una tesi di dottorato, che (non vorrei sbagliarmi) sembra sia stata pubblicata
solo in traduzione italiana. In realtà,
truppe britanniche ed italiane procedevano affiancate, per quanto possibile,
comunque coordinandosi sempre. Relazione
Ufficiale Austriaca: “L
‘organizzazione del contrattacco da parte delle unità assegnate al generale
Majewsky dura sino al pomeriggio. Ma già
verso mezzogiorno [del 27 ottobre] inglesi ed italiani sono penetrati per circa
4 km e su una fronte ampia 12 nel sistema difensivo del XVI corpo d’armata
[a.u.] raggiungendo la rotabile Tezze-S. Polo e le truppe dell’XI corpo
d’armata italiano, che agiscono alla destra degli inglesi, respingono a poco a
poco la 64a divisione Honvéd
oltre Ormelle su Roncadelle e Negrisia” (Primicerj, op. cit., p. 135).
[33]
Mark Thompson, The White War. Life
and Death on the Italian Front 1915-1918, faber and faber, 2008, p.
358. L’accenno ai “gondolieri veneziani”
mostra il permanere, in certi autori anglossassoni, del cattivo gusto di
lasciarsi andare al pittoresco, quando trattano di cose italiane. L’attraversamento del Piave in piena e sotto
il fuoco nemico (che distrusse diversi ponti e passerelle) fu tutt’altro che
una gita in gondola: “Vengono costituite
nuove compagnie di pontieri che hanno a disposizione, grazie agli sforzi delle
officine militari e private, 4500 metri di passerelle tubolari su barche, oltre
venti equipaggi da ponte regolamentari e impalcature per altri 4500 metri di
ponte. In laguna, nei fiumi e nei
canali d’Italia vengono requisite e costruite centinaia di imbarcazioni. La dotazione
di ancore è per migliaia di galleggianti, tenuto conto delle forze della
corrente. Nelle settimane che precedono
l’attacco le truppe vengono addestrate sul Brenta al superamento dei corsi
d’acqua e si ricostruisce, per quanto possibile, l’infernale ambiente in cui
saranno costrette ad agire: tiri a salve
di artiglierie, fuoco di mitragliatrici e di bombarde”(Cervone, op. cit., p.
185). I nostri valorosi reparti del
genio pontieri subirono numerose perdite durante la battaglia.
[34]
Giulio Primicerj, 1918. Cronaca di
una disfatta, cit., pp. 96-97.
[35]
Sul punto, vedi la Relazione Ufficiale Austriaca: “Ma quando gli
squadroni francesi entrano la sera [del 31 ottobre] a Feltre, la città è stata
già occupata dai battagioni alpini del XXX corpo d’armata. Nel frattempo la 52a divisione
italiana (ala destra dell’armata Graziani), superati da M. Cesen i rilievi di
M. Garda e M. Artent, è scesa nella valle del Piave vicino a Lentiai…
”(Primicerj, op. cit., p. 206). Vedi
anche Cervone, op. cit., pp. 225-226.
[36]
John R. Schindler, Isonzo. Il
massacro dimenticato della Grande Guerra, 2001, tr. it. di Alessandra Di
Poi, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia, 2002, p. 444. L’autore non nomina la piena del Piave e la
relativa distruzione dei ponti che causò il ritardo nello schieramento della
nostra 8a armata. È da notare
che il titolo originale recita: Isonzo.
The Forgotten Sacrifice of the Great War.
Che la traduttrice abbia reso “sacrificio” con “massacro”, distorcendo
il senso del titolo, dato che il libro vuol anche essere un omaggio al valore e
quindi al “sacrificio” di tutti coloro (e in particolare gli asburgici) che
combatterono sul durissimo fronte dell’Isonzo, la dice lunga sulla mentalità
negativa e deformante con la quale si affronta oggi in Italia il discorso sulla
Grande Guerra.
[37]
David Stevenson, 1914-1918. The History of the First World War, 2004, p.
416.
[38]
Peter Fiala, 1918. Il Piave. L’ultima offensiva della Duplice
Monarchia. A cura di Giulio Primicerj
con annessa Relazione Ufficiale Austriaca, tr. it. di Giulio Primicerj,
Arcana Editrice, Milano, 1982, pp. 228-236.
All’inizio della guerra scarsa e poco effficace, la nostra artiglieria
era diventata numerosa e di tutto rispetto, qualitativamente parlando, non
inferiore a quella delle altre nazioni.
La nostra industria bellica lavorava a pieno ritmo, la materia prima
veniva dagli Stati Uniti, pagata con i prestiti fattici dagli stessi americani,
cioè con il pubblico indebitamento.
[39]
Op. cit., p. 236-248.
[40]
Andrea Augello, Arditi contro. I
primi anni di piombo a Roma. 1919-1923, Prefazione di Gianluca Di Feo,
Mursia, 2017, pp. 18-20.
[41]
Op. cit., p. 292.
[42]
Op. cit., p. 337.
[43]
Op. cit., p. 339.
[44]
Op. cit., p. 341.
[45]
Una efficace descrizione della nuova tattica impiegata dai russi si trova in
un’opera considerata classica nel suo àmbito:
Norman Stone, The Eastern Front. 1914-1917, Penguin, 1975,
1998, chap. 11: Summer, 1916,
pp. 232-263.
[46]
Sul “mito e contromito”di Caporetto, vedi:
Isnenghi e Rochat, op. cit., cap. VI, 3. Caporetto, l’immaginario e
le valutazioni storiche, pp. 394-408.
[47]
Krafft von Dellmensingen, op. cit., p. 341.
[48]
Faldella, op. cit., II vol., p. 284 e ss.
[49]
Franco Bandini, Il Piave mormorava.
Dopo cinquant’anni la verità sulla Grande Guerra, Longanesi, Milano,
1965, pp. 200-202.
[50]
Faldella, op. cit., II vol., p. 287.
[51]
Faldella, op. cit., pp. 287-288.
[52]
Op. cit., p. 288.
[53]
Krafft von Dellmensingen, op. cit., p. 317.
[54]
Mark Thompson, op. cit., pp. 322-323. Corsivi miei. Cito nell’originale il
passo incriminato: “The ensuing struggle
was a battle in itself; the situation was only saved at the end of December,
with timely help from a French division”. Sottolineatura mia.
[55] I
giudizi di Krafft von Dellmensingen si trovano nella parte del suo libro
dedicata a: L’assalto al massiccio del Grappa, op. cit., pp. 309-344;
pp. 324-328.
[56] Op.
cit., pp. 328-329.
[57] Op.
cit., p. 344. Konrad Krafft von Dellmensingen era il capo di stato maggiore
della XIV Armata. Gli Jäger, lett. cacciatori, erano unità
scelte di montagna, sia presso i tedeschi che gli austriaci. Il termine era usato in modo simile anche
nell’esercio francese: chasseurs.
[58]
Mario Isnenghi e Giorgio Rochat, La Grande Guerra. 1914-1918, cit., pp. 386-387. Vedi anche Faldella, op. cit.,
tutto il secondo volume, in particolare il cap. IX: La ritirata al Piave e la battaglia
d’arresto, pp. 247-288.
[59]
Op. cit., pp. 389-391.
[60]
Citati da Cervone, op. cit., pp.
77-78. Corsivi miei. Non bisogna dimenticare che “le migliori
truppe austro-ungariche e tedesche” erano, in quel momento, sicuramente tra le
migliori del mondo.
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