Sommario: 1. La considerazione ora “più attenta” delle religioni
non-cristiane: una nozione ambigua. 2.
La supposta “unificazione del genere umano”, artificiosa giustificazione della
nuova considerazione per le religioni non-cristiane. 3. Un nuovo “dovere” della Chiesa: promuovere l’unità tra i popoli ed
“esaminare” ciò che essi hanno in comune e li spinge a “vivere insieme il loro
comune destino”. 4. Il genere umano
inteso arbitrariamente come “una sola comunità”, gratificato di un’unità vista
nella prospettiva di una salvezza che non distingue più tra Eletti e
Reprobi. 5. Non chiara la posizione del
Cattolicesimo rispetto alle “varie religioni”.
L’art. 1 di questa Dichiarazione, etichettato Introduzione,
sembra riproporre l’insegnamento tradizionale della Chiesa, consistente nella
conversione dei popoli e quindi del genere umano a Cristo, nell’opera
missionaria per la salvezza delle anime.
Ma lo ripropone, sin dal primo capoverso, con una sfumatura nuova,
che, ad un’attenta analisi, appare ambigua e gravida di possibili errori
dottrinali.
1. La considerazione ora “più attenta” delle religioni non-cristiane:
una nozione ambigua.
Secondo la tradizione e l’insegnamento millenario della Chiesa, l’opera
di conversione muove dal presupposto che il mondo da convertire sia, come ha
detto Nostro Signore, “il regno del principe di questo mondo” (Gv 12, 31). Il mondo vive sotto il segno del peccato originale.
Il mondo, il genere umano deve esser salvato poiché tende sempre a prevalervi
il male, anche se la possibilità del bene e quindi della salvezza non viene mai
meno, per Grazia di Dio, poiché la corruzione della natura umana è stata
parziale. L’idea di un mondo tendente
sempre a far prevalere il male diventò parte integrante della nostra tradizione
culturale.
“Gesù Cristo fu il primo che distintamente additò agli uomini quel
lodatore e precettore di tutte le virtù finte, detrattore e persecutore di
tutte le vere; quell’avversario di ogni grandezza intrinseca e veramente
propria dell’uomo; derisore d’ogni sentimento alto, se non lo crede falso,
d’ogni affetto dolce, se lo crede intimo; quello schiavo dei forti, tiranno dei
deboli, odiatore degl’infelici; il quale esso Gesù Cristo dinotò col nome di m o n d o , che gli dura in tutte le lingue
colte insino al presente”[1].
A questo Regno, il cui Signore è il Demonio, sono sempre state
considerate appartenere t u t t e le altre religioni, in quanto non rivelate
dal vero Dio (o, come nel caso dell’ebraismo post-cristiano, apostate rispetto
alla loro missione autentica, per via del loro rifiuto del vero Messia). Ciò non significa, come sappiamo, che i loro
seguaci siano a priori tutti dannati, potendo essi salvarsi individualmente nonostante
la loro appartenenza a una di queste false religioni (Dottrina del
battesimo di desiderio, esplicito ed implicito, che non esaminiamo qui, dandola
per conosciuta).
Ora, il testo conciliare afferma che, a causa del processo di
unificazione del genere umano, “la Chiesa esamina con maggiore attenzione la
natura delle sue relazioni con le religioni non-cristiane”: attentius
considerat quae sit sua habitudo ad religiones non-christianas (N Aet 1.1).
Bisogna chiedersi: con “maggiore
attenzione”, rispetto a che cosa o a chi?
Evidentemente rispetto al passato della Chiesa stessa, al modo nel quale
la Chiesa ha sempre giudicato le altre religioni, tutte non rivelate dal vero
Dio, Uno e Trino, e quindi per la Chiesa
f a l s e , in quanto pretendano di esser a loro volta rivelate o
comunque di professare una verità assoluta valida per tutti gli uomini.
In questo attentius del testo conciliare appare implicitamente
una critica al magistero del passato.
Come se, per duemila anni, la Chiesa, missionaria per vocazione, dato
che la missione di conversione di individui e popoli le appartiene per
istituzione divina, non avesse considerato le “religioni non-cristiane” con la
dovuta attenzione!
Questa è dunque, a mio avviso, la prima nota discordante, già nell’incipit
di questo testo conciliare: con
quell’avverbio esso, senza dirlo apertamente, sottopone a critica il modo nel
quale la Chiesa stessa, per ben due millenni, ha preso in considerazione e
giudicato le religioni non-cristiane. Secondo la logica che qui fa capolino, si
dovrebbe allora dire che mons. Marcel Lefebvre, per più di vent’anni
missionario nell’Africa equatoriale francese, protagonista di un’opera di
conversione che, alla vigilia del Concilio, appariva assai fiorente, fonte di
salvezza per tanti africani strappati alle tenebre dei loro culti pagani, non
avesse in realtà avuto una considerazione veramente “attenta” della natura
delle false religioni alle quali sottraeva le anime, convertendole a Cristo?
Si vede subito come le implicazioni logiche di certe affermazioni conciliari,
apparentemente innocue o solo descrittive, conducano a conseguenze assurde, se
applicate, come di dovere, a ciò che la Chiesa ha sempre fatto e a ciò che essa
è sempre stata. Questo mi sembra un punto importante da tener presente.
Ma esaminiamo ora la ragione che indurrebbe a questo modo più attento
e quindi nuovo di considerare le
religioni non-cristiane.
2. La supposta “unificazione del genere umano”, artificiosa
giustificazione della nuova considerazione per le religioni non-cristiane
La frase citata, contenente l’attentius, ha dunque, agli occhi
del Concilio, una giustificazione nel fatto del (presunto) processo di unificazione
del genere. umano. Il testo
si inizia, infatti, in questo modo:
“Nel nostro tempo in cui il genere umano si unifica di giorno in giorno
più strettamente e cresce l’interdipendenza tra i vari popoli, la Chiesa
esamina con maggior attenzione la natura delle sue relazioni con le religioni
non-cristiane”(N Aet 1.1). Dunque, la “maggior attenzione” nel valutare le religioni
non-cristiane dipenderebbe dal processo di “unificazione del genere umano”, cioè
da un fatto esterno alle religioni non-cristiane, rimaste come tali immutate
(tutte ostili, si noti bene, alla nostra, unica vera). Poiché tra i popoli “cresce
l’interdipendenza”, la Chiesa deve cambiare il modo di considerare le loro
religioni. Il testo non dice
espressamente così ma questo è quello che si può legittimamente dedurre da
questo art. 1, introduttivo.
Domanda del semplice credente: prescindendo dal carattere estrinseco dell’accostamento tra
“unificazione del genere umano” e maggiore attenzione alle religioni
non-cristiane, era poi vero che nel 1965, anno in cui fu approvata questa
fatale Dichiarazione, quasi alla fine del Concilio, il genere umano si era già
messo sulla via dell’unificazione? E
poi, unificazione c o m e ? Sembra un concetto chiaro, quello
dell’unificazione. Ma come applicarlo
addirittura al genere umano? Unificazione che avrebbe portato ad un’unica
lingua comune, ad un’unica religione comune, ad un governo comune (democratico)
per tutta l’umanità, un governo mondiale, decidente non per questa o quella
nazione ma ad un tempo per l’intero genere umano? Come si vede, l’idea di una “unificazione del
genere umano” non riesce a darsi un contenuto concreto: sfocia di per se stessa
nell’utopia più astratta. Non c’è bisogno
di tanti ragionamenti per capire che l’unificazione del genere umano in un
unico sistema di pensiero, credenze, vita, istituzioni (altrimenti, che “unificazione”
sarebbe?) è compito superiore alle limitate forze dell’uomo. Già le differenze di lingua e di religione
rendono a priori impossibile “l’unificazione del genere umano”. Per tacere di quelle di mentalità, usi e costumi.
Era all’opera l’ONU, è vero, e con compiti più limitati degli attuali,
e, se mi ricordo bene, non così distruttivi per la famiglia e la morale, ma
sempre in sostanza cassa di risonanza della lotta in corso tra gli schieramenti
predominanti: al tempo, l’Occidente a guida americana, capitalista e democratico
di contro all’Oriente a guida comunista, con i Paesi del c.d. “socialismo
reale”. Il mondo era diviso in due blocchi. A parte se ne stavano i Paesi così detti “non
allineati” (Yugoslavia, India, Indonesia e altri) che cercavano di trarre vantaggio
da entrambi. Allora è stato profetico il Concilio nel prevedere e persino
promuovere un processo di superamento dei “blocchi” grazie all’unificazione
del genere umano che, settant’anni fa già in fieri, secondo molti oggi avrebbe
raggiunto uno stadio irreversibile?
Secondo me, è più corretto dire che il mondo cominciava a far vedere una
maggior “interdipendenza tra i popoli”, grazie anche alla loro comunanza forzata
nei due blocchi politico-militari contrapposti, ma in nessun modo un processo
di “unificazione del genere umano”.
Questo processo, dov’è ancor oggi? Assistiamo ad una grande mescolanza
di popoli e attività economiche, grazie all’abolizione di molte frontiere
doganali e non. Ma forse che questo è un
segno del realizzarsi dell’unità del genere umano? La mescolanza e la
promiscuità non sono certo segni di unificazione, sono segni e agenti del caos.
Nell’ambito di questo movimento spicca da tempo il trapiantarsi sempre più
aggressivo e compatto di comunità islamiche in Europa. C’è un’invasione continua e di massa dalle
zone più povere a quelle più ricche (Europa, Stati Uniti, Australia, Canada). Ma tutto ciò non ha nulla a che vedere con
una “unificazione del genere umano”.
Mostra solo una migrazione di popoli da una parte ad un’altra del mondo,
dalla parte prolifica a quella che non lo è più. Tale migrazione non unifica il genere umano più di quanto lo
unificassero le migrazioni ed invasioni barbariche del tardo impero romano, che
provocarono una graduale “sostituzione etnica” di razze e popoli, all’origine
delle successive nazioni europee. Ma non certo l’unificazione del genere umano
allora conosciuto.
Ma nuove realtà politiche quali l’Unione Europea non mostrano forse in
atto l’unificazione del genere umano, per ciò che riguarda l’Europa? L’Unione
Europea è una costruzione artificiosa, nata da un’utopia laica che ha preso
corpo dopo le carneficine della Grande Guerra, traducendosi però nella pratica
secondo i dettami di precisi interessi statali ed economici (in particolari
tedeschi). Sul piano dei valori, essa poggia sui contro-valori
dell’ugualitarismo incondizionato e livellatore e della Rivoluzione Sessuale,
distruttrice del matrimonio, della famiglia, della possibilità stessa di una
vita etica, sia privata che pubblica. L’Unione difende i c.d. “orientamenti sessuali”,
pseudo-categoria che include ogni sorta di deviazione, favorendo così il
diffuso libertinaggio, il libero aborto, l’omosessualismo; impedendo con leggi inique di difendere la
morale tradizionale e la famiglia secondo natura. Spiritualmente, si è rivelata
una vera figlia del Principe di questo Mondo. Economicamente, lascia prevalere
il capitalismo finanziario del c.d. “mercato globale”, funzionale al potere dei
suoi Stati più forti. Costituzionalmente, è un’unione di Stati, in teoria
rimasti sovrani, nella quale stanno prevalendo gli Stati economicamente e
politicamente più forti (in particolare la Germania, con i suoi satelliti). Attualmente,
dopo l’uscita della Gran Bretagna, è entrata in una fase critica, i cui
sviluppi sono imprevedibili.
L’Unione Europea non mostra altro che l’omologazione di quella che era
una volta l’Europa al medesimo spirito mercantile e alla medesima corruzione
dei costumi. Sarebbe questa un’attuazione
significativa dell’“unificazione del genere umano”? Si assiste all’unificarsi del nostro modo di
vivere a costumi (di origine statunitense) che sono diventati gli stessi, in
senso peggiorativo, in tutta Europa; in coincidenza con il diventar dell’Europa
una società multirazziale e multiculturale, come si suol dire oggi. Ma ogni società di questo tipo è solo una
Babele via via sempre più ingovernabile, come dimostrano ampiamente i
fatti. Ciò è la dimostrazione che
l’attuazione pratica di una società che mostrerebbe l’auspicata unificazione
del genere umano, grazie al mescolarsi delle etnie e delle culture, non può
condurre altro che alla negazione stessa di ogni vera unità e alla
decadenza dei disgraziati popoli che si trovano ad esserne vittime.
La mia impressione è che quest’idea completamente assurda dell’unità
del genere umano quale compito da realizzare, ricorrente nei testi del
Concilio, e posta addirittura tra i compiti della Chiesa, presa a prestito
(quanto alla sua origine) dalle filosofie della storia illuministiche, dal
taglio cosmopolita e visionario, trapassate nelle utopie rivoluzionarie dei
Giacobini, del socialismo umanitario di un Mazzini, di quello marxista,
apocalittico e sterminatore dei Bolscevichi, tutte miranti alla palingenesi del
genere umano per realizzarne l’unità secondo ideali ugualitari, democratici, comunistici; sia tornata in auge,
tale idea, soprattutto come aspirazione della Gerarchia cattolica, a partire appunto
dal Concilio. In tal modo quest’idea è diventata una sorta di nozione comune accettata
soprattutto grazie al Concilio e all’ecumenismo propagandato a gran voce dalla
Chiesa in nome del Concilio. Si tratta di un’idea cui non corrisponde né
potrebbe corrispondere alcuna effettiva realtà storica concreta. È solo
un’insana utopia.
Bisogna pertanto ribadire che quest’idea non è stata adottata dalla
Chiesa perché espressione di un processo storico irresistibile già in
movimento; al contrario, in quanto elaborata
dalla Chiesa (nei filamenti neomodernisti penetrati nei testi del Concilio e
nella praxis del Postconcilio) ha influito sulla mentalità delle moltitudini, a
cominciare da quelle cattoliche, convincendole (a torto) della realtà di quello che è solo un rigurgito di antiche eresie millenaristiche,
sottoposte a maquillage con il rancido belletto acquistato nel retrobottega del
pensiero moderno e contemporaneo.
Le masse maomettane che si stanno riversando da noi, e da parecchi anni,
aspirano al dominio delle nostre società e in generale del mondo, secondo i
dettami della loro religione. Non
abbiamo qui il genere umano che cerca di unirsi per realizzare la pace tra i
popoli: abbiamo, invece, una parte considerevole
di esso che si sta espandendo per conquistare e sottomettere tutto il
resto. Un processo di conquista e
sottomissione, con tutti i mezzi, alla faccia della supposta unificazione.
L’interpretazione della realtà storica del tempo del Concilio, offertaci
dal Concilio stesso quale realtà in atto di un processo di unificazione del
genere umano, non va perciò accettata come se essa esprimesse una valida intuizione
del futuro autentico sviluppo
storico. Essa va invece respinta in
quanto falsa in sé e in quanto attestato di una falsa coscienza che si
voleva dare al Concilio ossia alla Chiesa cattolica. Falsa, questa coscienza, perché
coscienza che era in realtà espressione di un’ideologia di tipo
neoilluministico, marxisteggiante ed esistenzialistico; coscienza di un desiderio
del tutto profano, quello dei neomodernisti di rappresentare la Chiesa come
autocoscienza di un mondo che stava andando (a dir loro) verso l’unità,
in modo che fosse la Chiesa stessa (in quanto “Chiesa aperta” - Karl Rahner) a porsi a capo di questo affermato
movimento, in sostanza anticipandolo.
La Chiesa, allora, come coscienza del mondo, con un fine
solamente terreno, per di più utopico, e non più come Corpo Mistico di Cristo,
con il suo fine sovrannaturale unico, la salvezza eterna dell’anima di ciascuno
di noi. Secondo questa falsa coscienza
di sé che il Concilio ha insufflato nella Chiesa, hanno operato e operano i
Papi da Giovanni XXIII in poi: l’ecumenismo
da essi proposto è l’attuazione di questa falsa coscienza.
3. Un nuovo “dovere” della
Chiesa: promuovere l’unità tra i popoli
ed “esaminare” ciò che essi hanno in comune e li spinge a “vivere insieme il
loro comune destino”.
Prosegue il testo di N Aet 1, sempre nel primo capoverso, che va letto aggiungendovi
la prima frase del secondo, per averne il senso completo:
“Nel suo dovere di promuovere l’unità e la carità tra gli uomini, ed
anzi tra i popoli, essa [la Chiesa] in primo luogo esamina qui tutto ciò che
gli uomini hanno in comune e che li spinge a vivere insieme il loro comune destino.
I vari popoli costituiscono infatti una sola comunità [etc]”.
Abbiamo qui una nozione di dovere della Chiesa che dovrebbe
essere conforme a quanto sempre insegnato sulla base della Scrittura, della
Tradizione, del Magistero ecclesiastico.
Il Concilio ci dice che la Chiesa ha “il dovere di promuovere l’unità e
la carità tra i popoli” oltre che tra gli uomini. Per adempiere a questo “dovere” la Chiesa
esamina ora tutto ciò che gli uomini hanno in comune e che li spingerebbe “a
vivere insieme il loro comune destino”.
Ma questo dovere corrisponde effettivamente a quanto ordinato da
Cristo alla Chiesa da Lui fondata? Non
ha Egli ordinato ai Discepoli di “andare e insegnare” sì da rendere suoi
discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello
Spirito Santo? (Mt 28, 16 ss.). E
ribadendo che chi non avrebbe creduto non si sarebbe salvato? “Andate per tutto
il mondo, predicate il Vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato, sarà salvo,
chi non crederà, sarà condannato”(Mc 16, 15-16).
La missione della Chiesa, stabilita dal Signore in persona, è quella di convertire
individui e popoli a Cristo, facendo di ogni uomo peccatore un “uomo nuovo” in
Cristo (Gv 3, 3 ss). Una missione
soprannaturale, assolutamente unica. Ma
il testo conciliare, anziché ribadirla, questa missione, la sostituisce con l’unità
del genere umano e la carità tra i popoli quale vero scopo della missione della
Chiesa. Un’unità che prescinde dalla
conversione, dunque, mai nominata. E di quale carità si parla qui? Dovrebbe essere la carità cristiana, l’amore
del prossimo per amor di Dio. Ma come
può esserci “carità tra i popoli” senza la loro conversione a Cristo? La carità, ci ricorda san Paolo, non può
esser separata dalla verità: “La carità
si compiace della verità”(1 Cr 13, 6). E la verità, per noi cattolici, è solo
quella che ha insegnato Nostro Signore.
Egli ha ordinato alla sua Chiesa di convertire i popoli, con la predicazione
e l’esempio di una santa vita, non di ricercare l’unità del genere umano,
prescindendo dalla loro conversione.
Con ogni evidenza, si introduce qui, preliminarmente al discorso sul rapporto
con le religioni non-cristiane, il concetto del tutto nuovo che l’unità tra
i popoli, l’unità del genere umano sia ora la missione specifica della Chiesa,
il suo fine. Tale straordinario
concetto, non conforme a quanto sempre insegnato e creduto, viene affermato in
modo tortuoso anche nell’art. 1 della costituzione Lumen Gentium sulla
Chiesa (21 novembre 1964), che si occupa della Chiesa come sacramento in
Cristo, espressione tutt’altro che chiara.
Va pertanto osservato:
1. Non risulta che tale fine sia
stato mai indicato da Nostro Signore né dagli Apostoli. Egli pone sempre l’accento sul significato e
sul valore dell’unità di coloro che credono e crederanno in Lui, l’unità dei
suoi fedeli, dei cristiani, non quella del genere umano. Nella grande Preghiera
al Padre subito prima della Passione, riportata da san Giovanni, Egli afferma di pregare per i
discepoli non per il mondo in generale; di pregare affinché il Padre li custodisca
dopo la sua morte, ormai imminente: “Io
prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che mi hai donati, perché
sono tuoi” (Gv 17, 9). E specifica di
pregare anche “per quelli che crederanno in Me, per la loro parola” cioè per
merito della predicazione dei Discepoli,
che li avrà per l’appunto convertiti a Cristo; di pregare, “affinché siano
tutti una cosa sola, come tu sei in me, o Padre, ed io in te; che siano anch’essi una cosa sola in noi,
affinché il mondo creda che tu mi hai mandato”(Gv 17, 20-21). Alla vigilia della Croce, Nostro Signore
pregò dunque il Padre affinché proteggesse, mantenendoli uniti, i Discepoli e i
fedeli da loro convertiti con la predicazione, cioè con la loro opera missionaria,
e tutti quelli che avrebbero in futuro creduto in lui per opera loro, dei Discepoli. Non c’è né ci potrebbe essere qui spazio per
l’unità del genere umano, non meglio specificata ed indipendente dalla conversione.
Ma proprio questi versetti di Gv 20-21 vengono impropriamente citati a
giustificazione del sincretistico ecumenismo attuale, quello appunto che
ha sostituito l’unità del genere umano alla conversione; un fine intramondano e
per di più utopistico al fine sovrannaturale della Chiesa. E lo ut unum sint del versetto 20 ha dato il titolo ad una
celebre Enciclica di Giovanni Paolo II, dedicata allo “impegno ecumenico”,
ovviamente nel senso auspicato dal Vaticano II.
2. Che la missione della Chiesa dovesse essere quella di convertire il
genere umano sino a realizzarne l’unità in Cristo, nemmeno si può dire. Infatti, secondo quanto ci è stato rivelato,
il mondo e la sua storia finiranno all’improvviso, così come si troveranno, dal
momento che il Ritorno o Parousia del Signore come Cristo Giudice, alla fine
dei tempi, sarà istantaneo come il lampo (Mt 24, 27). E molti non si salveranno, ci ha detto più
volte il Signore (“di due che si troveranno in un campo, l’uno sarà preso e
l’altro lasciato”, Mt 24, 40). E se non
si salveranno, ciò vuol dire che non ci sarà m a i l’unità
del genere umano, nemmeno nella conversione. Anzi, il Cristo Giudice, separando alla fine
dei tempi per sempre gli Eletti dai Reprobi (Mt 25, 31 ss.), dimostrerà che
l’unità del genere umano non c’era mai stata, mentre il loglio cresceva assieme
al buon grano (le agostiniane Due Città, celeste e terrena, intrecciate
in questo mondo ma intimamente separate).
Né mai ci sarà, dato che la divisione incolmabile in Eletti e Reprobi durerà
in eterno (Lc 16, 26, parabola del Ricco Epulone).
4. Il genere umano inteso come
“una sola comunità”, gratificato di un’unità vista nella prospettiva di una
salvezza che non distingue più tra Eletti e Reprobi
Il Concilio attribuisce dunque alla Chiesa il compito di esaminare ciò
che i popoli hanno in comune e che li spingerebbe verso “il loro comune
destino”.
“I vari popoli costituiscono infatti una sola comunità [Una enim
communitas sunt omnes gentes]. Essi
hanno una sola origine, poiché Dio ha fatto abitare l’intero genere umano su
tutta la faccia della terra [At 17, 26]; hanno anche un solo fine ultimo, Dio,
la cui provvidenza, le cui testimonianze di bontà e il disegno di salvezza si
estendono a tutti [Sap 8, 1; At 14, 27; Rm 2, 6-7; 1 Tm 2, 4], finché gli
eletti saranno riuniti nella Città santa, che la gloria di Dio illuminerà e
dove le genti cammineranno nella sua luce [Ap 21, 23 ss.]” (N Aet 1.2).
Il fatto che i popoli, secondo il Concilio, “siano una sola comunità”
sembra posto come un dato oggettivo giustificante il dovere della Chiesa
di promuovere l’unità del genere umano.
Tale unità costituisce allora il fine dell’azione missionaria della
Chiesa, che tuttavia già deve presupporla, se i popoli, in quanto tali,
costituirebbero già “una sola comunità”.
L’unità del genere umano, posta o
r a come fine alla Chiesa, sarebbe la
logica conseguenza, per il Concilio, del fatto che in se stessi i popoli
sarebbero di già “una sola comunità”.
Il dovere della sua azione missionaria alla Chiesa l’ha imposto il suo
divino Fondatore, non il mondo. Ora,
invece, il fondamento di tale dovere diventa terreno, mondano: la Chiesa avrebbe il dovere di promuovere
quell’unità dei popoli ossia del genere umano che il genere umano già
possederebbe in quanto di per sè costituente una sola comunità.
Viene qui applicato il concetto
di comunità, come se si trattasse di nozione ovvia e scontata. In ogni caso, nell’uso comune, la nozione di comunità
implica sempre, in prima
approssimazione, quella di un aggregato umano coeso sulla base di princìpi e
interessi appunto comuni, condivisi, e ispirato da essi nel suo
comportamento giornaliero. Che tale
nozione si possa applicare sic et simplicter al genere umano in quanto tale,
sembra come minimo temerario. Ad ogni modo, il testo conciliare giustifica tale
applicazione con una serie di passi scritturali riportati in nota, e da me indicati
nel testo, che dovrebbero conferirle anche un fondamento teologico. I vari popoli costituirebbero una comunità in
senso oggettivo, perché dipendente dal modo nel quale Dio li ha concepiti,
in relazione al suo disegno di salvezza: uniti per la comune origine e
per il fine, ugualmente comune, entrambi voluti da Dio.
4.a I
passi scritturali citati in nota dovrebbero rappresentare le fonti grazie alle
quali si dimostra la continuità degli assunti del Vaticano II con la dottrina
di sempre della Chiesa. Andiamo a vedere che cosa dicono questi passi. Il primo
è tratto dagli Atti degli Apostoli, 17.26:
“Egli da un solo uomo ha fatto uscire tutto il genere umano, per
popolare tutta la faccia della terra, avendo determinata la durata dei tempi e
i confini della loro dimora”.
Il brano proviene dal discorso di san Paolo all’Areopago. Qui san Paolo ci ricorda che siamo tutti
figli dello stesso Padre, Dio Onnipotente, che ha voluto crearci e popolare la
terra, determinando anche i “confini” delle nostre “dimore”. Ma questa comunanza di natura, fisica e
psicofisica, non implica affatto che tutti gli uomini, tutti i popoli costituiscano
“una sola comunità” per il sol fatto di esser tali. L’esser gli uomini “progenie divina” è
concetto utilizzato da san Paolo non per affermare che il genere umano costituisca
un’unità, “una sola comunità”, ma per dichiarare, invece, che ognuno di noi
deve ricercare il vero Dio, che ora egli sta annunziando a un limitato e
occasionale pubblico di Ateniesi incuriositi anche se scettici, tra i quali
tuttavia alcuni credettero.
Infatti, come continua quel celebre discorso? Dio “ha voluto che gli
uomini cercassero Dio e si sforzassero di trovarlo, come a tastoni; quantunque
Egli non sia lontano da ciascuno di noi”.
Non è “lontano” perché non possiamo mai esser separati da Dio: “In Lui, infatti, noi viviamo, ci muoviamo e
siamo, come hanno detto alcuni dei vostri poeti: - Di lui, infatti, progenie siamo”
(At 17, 27-28). Dio non ha imposto
nessuna uniformità al genere umano ma ha lasciato che i popoli seguissero le
loro vie nel “cercare Iddio”. Ed essi
l’hanno fatto inevitabilmente “a tastoni”, ossia alla cieca, fabbricandosi
tante religioni diverse, non rivelate. Dunque, la ricerca di Dio secondo
la religiosità naturale non ha comportato alcuna unità del genere umano, nonostante
l’origine divina comune a tutti gli uomini: individui e popoli si sono fatti le
loro particolari credenze religiose, procedendo come chi cammina nell’oscurità.
Ma dal verso del poeta – Arato, modificato dallo stoico Cleante nel suo
famoso Inno a Giove, ci informano gli esegeti – san Paolo trae ulteriori conseguenze,
quelle più importanti.
Essendo “progenie” di Dio non possiamo considerarci “lontani” da Lui.
Per scoprire la vera presenza di Dio in noi e nel mondo, dobbiamo però liberarci
delle false rappresentazioni di Dio, che sono quelle offerteci dal politeismo e
dal culto degli idoli, impestato dal Demonio .
Le dispute di san Paolo con gli Ateniesi vertevano proprio sul loro
culto sbagliato a Dio, compreso l’altare “Al Dio Ignoto”, che l’Apostolo prese
a spunto del suo intervento, peraltro sollecitato dagli stessi ateniesi,
desiderosi di capire quale fosse veramente la sua dottrina (At 17, 16 ss).
“Perciò Iddio, non tollerando più i tempi di questa ignoranza [del vero
Dio], annunzia agli uomini, che tutti e in ogni luogo, devono pentirsi, perché
ha fissato un giorno in cui a rigor di giustizia, giudicherà il mondo per mezzo
di un uomo, che Egli ha designato, dandone sicura prova a tutti col risuscitarlo
dai morti”(At 17, 30-31).
Il tempo dell’ignoranza è finito.
Come lo sappiamo? Per divina
rivelazione, che ammonisce “tutti e in ogni luogo” a pentirsi, rinunciando alle
loro religioni (e al loro modo di vivere pagano) se vogliono salvarsi. Tutti, infatti, il Giorno del Giudizio
saranno giudicati dal Risorto.
L’unica “unità” possibile per il genere umano, qual’è essa allora, da un
punto di vista cristiano? Quella del
pentimento di ciascuno, della conversione, della scoperta della fede nel vero
Dio. Così deve agire chi è veramente “progenie di Dio”.
Ma il testo di Nostra Aetate lascia completamente fuori la
teologia del pentimento e della conversione a Cristo, che san Paolo espone già
sulla semplice constatazione dell’origine divina del genere umano, cosa che ci
rende tutti figli di uno stesso Padre
celeste, con il conseguente obbligo di riconoscerne la vera natura e adorarlo
in conseguenza, ora che tale natura è stata rivelata per tutti
dall’Incarnazione del Verbo, Nostro Signore Gesù Cristo.
L’”una sola comunità” che tra i popoli verrebbe ad esser costituita dal
fine della loro salvezza, voluto da Dio in modo da ricomprendere tutti, come verrebbe
allora a giustificarsi nell’ottica del testo conciliare? Con l’intenzione di Dio che tutti siano salvi. Ciò desidera la bontà divina, che provvede
materialmente per tutti gli abitanti della terra. Il “fine ultimo”di tutti gli uomini è dunque
rappresentato dalla salvezza, è di natura escatologica. Ciò risulterebbe dai seguenti testi, citati a
sostegno in nota.
4.b Il
passo del libro della Sapienza, si limita a richiamare come Dio governi
con bontà il mondo.
“Essa si estende, con potenza, [la Sapienza di Dio] da un capo all’altro
del mondo, e con bontà governa l’universo intero”(Sap 8, 1-3).
La bontà di Dio ricomprende anche i Gentili, essa provvede per tutti,
giusti o ingiusti che siano. Provvede
per l’esistenza materiale, ordinando la natura in modo che l’uomo ne possa
trarre il legittimo vantaggio e godimento.
Ma provvede anche per lo spirito
e l’anima, estendendo la Rivelazione e quindi la possibilità della salvezza
anche ai Gentili, ossia all’intero genere umano, oltre che ai soli ebrei: “Appena giunti, convocarono la Chiesa e
riferirono tutto quello che Dio aveva fatto per mezzo di loro e come avesse
aperto ai Gentili la porta della fede”(At 14, 27).
Questo è il secondo passo degli Atti degli Apostoli citato in
nota dal Concilio, per dimostrare l’estendersi della bontà di Dio a tutti i
popoli, tramite l’opera missionaria degli Apostoli. Paolo e Barnaba, rientrati ad Antiochia di
Siria dal loro viaggio missionario nella anatolica Liconia, informano la comunità
cristiana ivi presente, formata probabilmente in gran parte da giudei
convertiti, delle conversioni ottenute presso i pagani, nonostante il tumulto
suscitato contro di loro da “alcuni Giudei”, che aizzarono la folla e lapidarono
Paolo, lasciandolo come morto fuori della città, “credendo d’averlo ucciso”. San Paolo, invece, si salvò e testimoniò ai
convertiti “tutto quello che Dio aveva fatto per mezzo di loro” (At 14,
passim).
Da ricordare che san Paolo, avendo guarito miracolosamente uno storpio
nella città di Listri, in Liconia, era stato acclamato come divinità dalla
folla (gridavano che Paolo era Mercurio e Barnaba Giove). Ma egli, assieme a Barnaba, si precipitò in
mezzo alla stessa folla per farle capire il suo grave errore, riproponendo la
medesima verità del Discorso dell’Areopago: noi siamo solo uomini come voi,
esclamò, “venuti ad annunziarvi che voi dovete abbandonare codeste vanità [il
culto pagano], per rivolgervi al Dio vivente, che ha creato il cielo e la
terra. Questo Dio, nelle generazioni
passate, ha permesso che tutte le nazioni seguissero le loro vie, quantunque
Egli non abbia mai cessato di render testimonianza di se stesso, facendo del
bene, mandando dal cielo le piogge e le fertili stagioni, dandovi cibo in
abbondanza e ricolmando di gioia i vostri cuori”(At 14, 15-17).
Dal punto di vista religioso, non c’era né ci poteva essere, unità del
genere umano: Dio aveva permesso che
“ogni nazione seguisse le sue vie” anche se non per questo aveva smesso di
governare il mondo con bontà, non facendo mancare il necessario, anche dal
punto di vista delle semplici gioie della vita di tutti i giorni, quella che
appunto trae diletto dalle cose semplici, quotidiane. Dunque, dai Testi citati risulta che il
Disegno di Salvezza viene esteso da Dio a tutti gli uomini, che questa salvezza
passa per il pentimento e la conversione al cristianesimo, che tutti gli uomini
devono diventar cristiani. Insomma, che
la salvezza si può ottenere solo ad opera di Cristo e della Chiesa da Lui
fondata. Ma questo fondamentale concetto
non si ricava dal capoverso conciliare in esame: sembra anzi che la salvezza sia ora la
naturale conseguenza, voluta da Dio, dell’unità del genere umano da Lui
stesso stabilita, con il crearlo, unità che la Chiesa deve mantenere,
arricchire, portare a compimento!
4.c Che
a tutti gli uomini sia offerta la possibilità della vita eterna, viene ribadito
anche da due altri testi, gli ultimi due tra i quattro riportati.
Il versetto della Lettera ai Romani, costituente la terza citazione
riportata in nota dalla Nostra Aetate, ci insegna che ciascuno sarà giudicato secondo
le sue opere, “nel Giorno dell’Ira e della manifestazione del Giudizio di
Dio”. In quel giorno, ci rivela
l’Apostolo, “Egli darà a ciascuno secondo le sue opere: a coloro che, con la
perseveranza nel bene, cercarono l’onore, la gloria e l’immortalità – la vita
eterna”(Rm 2, 6-7). Qui si ferma la
citazione, come indicata in nota dal testo conciliare, che non ha voluto
riferirsi anche alla continuazione: “ma
per coloro che sono ostinati, che si ribellano alla verità e credono invece
all’iniquità – è riservata ira ed indignazione”(Rm 2, 7-8). Perché questa troncatura? Perché il Concilio non ha voluto ricordare
che la divina Giustizia inevitabilmente separerà per l’eternità gli Eletti dai
Reprobi?
4.d L’incompleta
rappresentazione della vera escatologia cristiana si conclude con la citazione
del famoso passo della Lettera a Timoteo, nel quale, lodando la pratica
della preghiera dei fedeli “per tutti gli uomini” anche “per i re e per tutti
quelli che sono costituiti in dignità”, l’Apostolo spiega: “È cosa buona questa e gradita al cospetto di
Dio, nostro Salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvi e
giungano alla conoscenza della verità.
Non vi è, infatti che un Dio solo, e uno solo è il mediatore fra Dio e
gli uomini, Gesù Cristo, uomo anche lui, che ha dato se stesso in riscatto per
tutti. Questa è la testimonianza resa a
suo tempo da Dio, per la quale io sono stato costituito banditore e
apostolo…”(1 Tm 2, 4 ma in realtà: 1-5).
4.e Perché incompleta, questa
rappresentazione, dietro l’apparente riproposizione della dottrina di sempre? Perché,
come già detto, essa insinua l’idea che Dio, creando tutti gli uomini e ponendo
per tutti loro il fine della salvezza, avrebbe realizzato in tal modo l’unità
del genere umano, avrebbe cioè fatto di tutti gli uomini “una sola comunità”, che
sarebbe durata fino al giorno in cui “gli eletti” si sarebbero “riuniti nella
Città santa”; come a dire: sino al giorno in cui sarebbero andati tutti in
Paradiso (Ap 21, 23-24, ultima citazione riportata nel testo conciliare: “La città non ha bisogno di sole né di luna
che la illumini; perché la illumina la gloria di Dio e il suo luminare è
l’Agnello. Le nazioni cammineranno alla
sua luce, e i re della terra portano in lei la loro gloria”).
E allora, dov’è lo scandalo, potrebbe dire qualcuno? Se il testo dice che “il disegno di salvezza
di estende a tutti, finché gli eletti saranno riuniti nella Città santa”[consilia
salutis ad omnes se extendunt, donec uniantur electi in Civitate Sancta],
usando il termine “eletti” non si implica la verità di fede del Giudizio finale
e la divisione finale del genere umano in Eletti e Reprobi, come risulta dal
Vangelo (Mt 25, 31 ss) e dalla stessa Apocalisse? Certamente, si può leggere il testo in questo
modo, conforme alla dottrina di sempre della Chiesa, inequivocabilmente dichiarata
nei Testi sacri.
Ma il fatto di stabilire una inesistente “unità” di tutti gli uomini,
per il solo fatto di esser stati creati da Dio; unità ricompresa come tale
nel disegno di salvezza, senza poi precisare che alla fine dei tempi il loglio
sarà separato dal grano, può indurre a leggere il testo nel senso che gli
“eletti” siano qui tutti gli uomini, che cioè l’unità del genere umano
attuata dal disegno di salvezza manterrà uniti tutti gli uomini anche nel Regno
di Dio o Città Santa; in definitiva, ingenerare l’impressione che tutti gli
uomini sono gli eletti. E sono gli
eletti perché sono già stati eletti in quanto uomini, ricompresi da
Dio nel suo disegno (unitario) di salvezza, in quanto da Lui creati. Il testo non avrebbe dovuto dire, ad evitare
equivoci: “i cui eletti” o “gli eletti dopo il Giudizio finale”?
4.f L’impressione
discordante con il dogma della fede deriva da una combinazione di affermazioni non
vere (l’esser i vari popoli “una sola comunità”) e di omissioni, di silenzi
(sulla verità di fede che gli Eletti siano tali solo dopo il
Giudizio finale, che divide per sempre il genere umano in Beati e Dannati,
dimostrando così che l’unità del genere umano, oltre a non esser mai esistita
in sé non ha mai costituito un elemento essenziale del disegno di salvezza del
Padre).
E che, dal punto di vista di Dio, l’unità del genere umano non abbia mai
rappresentato un valore, e quindi un fine in sé, lo capiamo già dal fatto che
Egli ha inizialmente scelto un solo popolo, l’ebraico, per iniziare da
esso il disegno di salvezza. Con l’Incarnazione del Verbo e la sua missione,
tale disegno si sarebbe poi esteso a tutti i popoli, diventando, in tal modo,
progressivamente universale. Ai culti pagani dei vari popoli, peraltro tra loro
piuttosto differenziati, si contrapponeva il rigido e chiuso monoteismo degli
ebrei. Se presso il paganesimo, anche
presso popoli primitivi, troviamo diffusa l’intuizione di un Essere Supremo
onnisciente, ossia un’intuizione in senso monoteistico, la salvezza per loro
dipendeva pur sempre dal giudizio della coscienza individuale, dalla sua
capacità di ascoltare e seguire i dettami della legge di natura posta da Dio
nei loro cuori, capacità sicuramente sorretta in modo misterioso dallo Spirito
Santo (Rm 2, 12 ss)[2]. La percezione diffusa dell’esistenza di un
Essere Supremo non dimostrava, comunque, l’esistenza dell’unità del genere
umano. Le differenze tra le varie
religioni e società persistevano immutabili.
Il disegno di salvezza del Padre operava dunque in modo differenziato,
non unitario, muovendo in modo
esplicito da un solo popolo, contrapposto a tutti gli altri. Questo popolo ha poi rinnegato il Messia
atteso, anche se pro tempore (Rm 11, 25), rinchiudendosi in se stesso e
frapponendo ostacolo al disegno di salvezza del Padre, attuatosi pertanto in contrapposizione all’Israele
post-cristiano oltre che in antitesi al mondo, che non amava e non ama esser
convertito : “les hommes ont mépris pour
la religion; ils en ont haine, et peur qu’elle soit vraie”[3].
In realtà, il disegno di salvezza del Padre si attua nella contrapposizione e
nella lotta (“Credete che io sia venuto a mettere la pace sulla terra? No, io
vi dico, ma la divisione”, Mt 12, 51); esso mira all’unità in questo mondo dei
convertiti, dei cristiani (Gv 17, 6 ss), non all’unità del genere umano in
quanto tale, la cui realtà resta invece, anche e soprattutto dal punto di vista
religioso, quella della scissione e della divisione, della lotta perenne; lotta
che per noi lo è contro noi stessi (in interiore homine) in quanto parte
del mondo e contro il mondo regno del Principe di questo mondo (Lc 11, 23),
sino al giorno della Parousia.
Il nesso tra unità del genere umano e
salvezza voluta dalla Provvidenza in modo per l’appunto unitario agli “eletti”,
nesso che il testo (per come è formulato) autorizza a scorgere, appare pertanto
frutto dell’intrusione di una concezione della salvezza non conforme a quanto
sempre insegnato dalla Chiesa, dal momento che vi viene del tutto obliata la
verità di fede del Giudizio universale. Il testo, infatti, fa apparire il
finale esser “riuniti nella Città Santa” quale risultato lineare della bontà di
Dio che si attua nel suo “disegno di salvezza”.
Questo disegno “si estende a tutti finché gli eletti non saranno
riuniti” in Paradiso, senza evidentemente esser passati al vaglio di alcun
Giudizio, visto che esso non viene nominato quale indispensabile cerniera
tra l’essersi esteso del Disegno Salvifico del Padre e l’esser entrati
quali Eletti nella Città Santa (tra “l’estendersi” e “l’entrare” interviene la
Parousia di Nostro Signore, che perfeziona “l’estendersi” con la dovuta, sovrannaturale
cernita finale e defintiva del genere umano). Del resto, quest’omissione è perfettamente
comprensibile: il Giudizio assolve e condanna e quindi divide, facendo venir
meno la pensabilità stessa di una qualsiasi unità intrinseca al genere
umano, tale, per di più, da mantenerlo tutto unito sino alla salvezza.
4.g Il
testo di Nostra Aetate 1 permette dunque, a mio avviso, una lettura nel
senso dell’esistenza di una volontà incondizionata di salvezza da parte
di Dio. Non lo dice apertamente, è ovvio, ma lo suggerisce. Ora, anche solo
suggerire una prospettiva del genere significa andare contro la dottrina sempre
insegnata dalla Chiesa. Infatti, la teologia
ortodossa, sempre approvata dal Magistero, ha efficacemente dimostrato, sulla
base inequivocabile dei testi, che la volontà di salvezza del Padre non è
incondizionata. Il che significa, in altre parole: che Dio voglia che tutti
gli uomini siano salvi non significa affatto che tutti per ciò stesso lo
saranno; che insomma tutti in
ogni caso si salvino, come in effetti si crede ormai oggi, in modo del tutto
scorretto, non cattolico. Si tratta di
un terribile errore nella fede.
La Grazia e la volontà divine nei nostri confronti si attuano
coinvolgendo sempre la libera volontà di ciascuno di noi, la nostra
individuale responsabilità.
Consideriamo la nozione della grazia
attuale, che è la grazia in atto, che ci spinge ad un comportamento valido
per la salvezza, ma agendo in modo non continuativo (come invece quella abituale,
santificante, segno di predestinazione alla Gloria). Essa è “un’azione di Dio sovrannaturale e
temporanea sulle forze dell’anima umana, con l’intento di spingere l’uomo a
compiere un’azione salvifica”[4].
Ora, è sentenza certa (contro Lutero ed
accoliti) che “la grazia attuale illumina l’intelligenza e fortifica la volontà
interiormente e direttamente”. È invece dottrina della Chiesa, e quindi verità
di fede dogmaticamente definita, che “è assolutamente necessaria la grazia
interiore sovrannaturale divina (gratia elevans) ad ogni atto salvifico”
prodotto dall’uomo. Quest’atto, ossia
ogni atto conforme ai Dieci Comandamenti, ogni atto moralmente valido, insomma ogni
atto gradito a Dio non può aver luogo con le sole forze umane, che pur devono
concorrervi. Contro l’errore pelagiano e
razionalista, la Chiesa ha sempre ribadito che senza l’aiuto, il concorso
indispensabile della Grazia noi non possiamo né avere la fede né fare il bene[5].
Questo stimolo e concorso dall’alto opera dunque in noi “elevando” le nostre
facoltà. Questo stimolo e concorso
sovrannaturale è dato a tutti gli uomini per metterli in grado di esercitare
ciò che è gradito a Dio per la loro salvezza. Esso opera in due modi tra loro
coordinati: l’azione della grazia
preveniente e della grazia conseguente.
È verità di fede che “esiste un’azione sovrannaturale di Dio
sulle forze dell’anima, precedente la libera decisione della volontà”. Nella circostanza, Dio agisce da solo (in
nobis sine nobis), producendo un atto spontaneo nostro di conoscenza e
volontà. Questo è l’agire della grazia
preveniente (gratia praeveniens, antecedens, excitans, vocans, operans).
Forse, aggiungo, l’azione della grazia preveniente la riscontriamo in certe
improvvise illuminazioni interiori sul vero significato delle nostre o altrui
azioni, nel sopravvenire di certi improvvisi rimorsi, nell’ispirazione
subitanea a compiere una buona azione, a fuggirne una cattiva…Immagine classica
di questo operare della Grazia si ha in Ap 3, 20: “Ecco, io sto alla porta e busso: se uno
sente la mia voce e mi apre, io entrerò da lui e cenerò con lui, e lui con me”[6].
Possiamo dire che, in quest’azione della grazia preveniente, si riveli
nello stesso tempo la volontà di salvezza di Dio nella sua universalità
ossia in tutti gli uomini, ma come volontà condizionata. Condizionata, nel senso che ad essa deve
corrispondere l’azione della nostra libera volontà, cooperante con la Grazia (bisogna
aprire la porta al Signore), per non cadere in peccato e per uscire da questa vita in stato di grazia. Ancora Ott: “la volontà di salvezza generale
(universale) di Dio, senza tener conto della situazione morale definitiva di
ciascuno di noi, vuole la salvezza di tutti a condizione che essi abbandonino
questa vita in stato di grazia: voluntas
antecedens et condicionata”[7].
Tornando alla grazia attuale: qual è il ruolo svolto dalla grazia
susseguente? È articolo di fede
che: “esiste un’azione divina
sovrannaturale sulle forze dell’anima, temporaneamente coincidente con l’azione
della volontà libera dell’uomo”. Questa
grazia “sostiene ed accompagna la libera attività della volontà umana e viene
chiamata gratia subsequens perché in rapporto all’effetto della grazia
preveniente, o gratia adiuvans, concomitans, cooperans”. Un testo classico per determinare
quest’azione concomitante della Grazia si ha in san Paolo, 1 Cr 15,
10: “Ma per la grazia di Dio sono quello
che sono, e la grazia, che Egli mi ha data, non fu vana, ma ho lavorato più di
tutti loro; non io, ma la grazia di Dio insieme a me [gratia Dei mecum]”[8].
In altre parole: non possiamo fare il bene e obbedire ai comandamenti
del Signore senza l’aiuto della Grazia, che viene prima offerta a ciascuno di
noi e poi si accompagna, però sostenendola in maniera determinante, alla nostra
esplicita quanto libera volontà individuale di seguire l’impulso scaturito da
quell’offerta. Ma che la volontà di Dio
di salvare tutti gli uomini sia condizionata dalla loro risposta all’azione della
Grazia attuale, dal loro cooperare con essa nella lotta per la loro
santificazione quotidiana; di questa fondamentale verità di fede in Nostra
Aetate non sembra esservi traccia.
6. Non chiara la posizione del Cattolicesimo rispetto alle “varie religioni”
Nell’ultimo capoverso di questo articolo 1, Nostra Aetate ci
presenta il significato delle “varie religioni” dal punto di vista delle attese
spirituali degli uomini, che nella religione notoriamente trovano da sempre
conforto ai loro problemi più gravi, alle loro ansie, ai loro drammi, alle loro
disperazioni, alle loro speranze.
“[Homines a variis religionibus responsum expectant…] Gli uomini attendono dalle varie religioni la
risposta ai reconditi enigmi della condizione umana, che ieri come oggi turbano
profondamente il cuore dell’uomo: la
natura dell’uomo, il senso e il fine della nostra vita, il bene e il peccato,
l’origine e lo scopo del dolore, la via per raggiungere la vera felicità, la
morte, il giudizio e la sanzione dopo la morte, infine l’ultimo e ineffabile
mistero che circonda la nostra esistenza, donde noi traiamo la nostra origine e
verso cui tendiamo” (N Aet 1.3).
Che gli uomini, sin dai tempi più antichi cerchino nella religione anche
una risposta a problemi e situazioni di questo tipo, coinvolgenti questioni
essenziali sulle loro necessità, su ciò che sono, su quale sarà il loro destino
ultraterreno, sul perché la vita sia così spesso afflitta da gravi sofferenze
spirituali - tutto questo, non lo si può
certo negare.
Non è stato proprio Nostro Signore a dire: “Venire a me voi tutti che siete stanchi ed
affaticati ed Io vi darò riposo.
Prendete su di voi il mio giogo e imparate da me poiché sono dolce ed
umile di cuore; e troverete pace per le anime vostre poiché il mio giogo è
soave e il mio peso leggero “(Mt 11, 28-30)?
Come sono state sempre intese queste profonde e divinamente misericordiose
parole se non nel senso che solo in Cristo, accorrendo a Lui, dandosi a Lui,
pentendosi, cambiando vita, è possibile trovare un senso al mistero della
sofferenza, del dolore, delle sventure che sempre si abbattono su di noi,
connesse le nostre sofferenze da sempre al mistero del male, del peccato, della
redenzione?
Ma ora, ciò che gli uomini si attendono dalle “varie religioni” non trova
più risposta nell’unica e vera, ossia nella religione cattolica, l’unica
rimasta fedele nei secoli all’insegnamento del Divino Maestro? Di frone a questo testo conciliare bisogna
infatti chiedersi: tra le “varie
religioni”, che non hanno ancora dato all’uomo la risposta che il dramma
dell’esistenza richiede, bisogna includere anche la cattolica? In altre parole: tra le “varie religioni”, dalle quali gli
uomini si attenderebbero ancora le risposte vitali per la loro anima, c’è anche
quella cattolica oppure no? Se c’è anche
quella cattolica, essa allora si deve intendere (come usano dire oggi) “in
ricerca”, “in cammino”, “in ascolto”, come lo sarebbero le “varie religioni”;
come se essa non possedesse già, per divina rivelazione, mantenuta dalla
Tradizione e dall’insegnamento costante della Chiesa, una risposta più che
soddisfacente alle domande fondamentali sul perché della nostra esistenza,
sulla natura dell’uomo, sul problema del male, sul significato della nostra
vita, che è ultraterreno, essendo la vera felicità solo quella eterna della
Visione Beatifica, per gli Eletti che ne saranno trovati degni, alla fine dei
tempi.
C’è, dunque, a mio avviso, una nota ambigua anche nell’ultimo capoverso
di questo art. 1 della Nostra Aetate.
Il testo non dice “le altre religioni” ma “le varie religioni”, come se
si riferisse a tutte le religioni esistenti, in generale. La religione
cattolica sembra doversi allora includere tra le “varie religioni”, dalle quali
l’uomo si attende ancora risposte definitive, come se essa fosse per
l’appunto una religione come le altre, non rivelate. E come se essa non
fosse stata finora capace di dare risposte definitive.
Improprio appare poi rappresentare le “varie religioni” come se esse non
avessero dato risposte dal loro punto di vista definitivo alle domande essenziali
sulla condizione umana. Pensiamo
all’Islam, per esempio, al suo Dio concepito come un assoluto dominatore, che
tutto ha già predisposto nel migliore dei modi per i suoi seguaci, in senso sia
morale che materiale: un determinismo
assoluto, un predestinazionismo ancora più assoluto, se così posso dire, che
lascia assai poco spazio ai drammi esistenziali del singolo, alle risposte agli
“enigmi della condizione umana”, enigmi che per i musulmani non esistono.
Fonte: iterpaolopasqualucci.blogspot.ie
6 luglio 2017
[1]
Giacomo Leopardi, Pensieri, n. LXXXIV (84), da: Tutte le opere di
Giacomo Leopardi, a cura di Francesco Flora, Mondadori, 19493,
p. 52. (La Sacra Bibbia in italiano è citata qui secondo l’edizione
della CEI delle Edizioni Poline anteriore al Concilio e quella della Salani,
coordinata dall’abate Ricciotti; per i testi originali, secondo il Nestle-Aland. Per i
testi del Concilio Vaticano II in italiano, l’edizione curata dalle
Edizioni Paoline; per l’originale latino, quella curata da Desclée ac Socii,
Romae, 1967, curante Florentio Romita, perito conciliari).
[2]
Sulla presenza di una nozione dell’Essere Supremo onnisciente nella religiosità primitiva, vedi: Raffaele Pettazzoni, L’Essere Supremo
nelle religioni primitive, Einaudi, Torino, 1957, rist. 1965; da intendersi,
tale nozione, in modo più sfumato rispetto al “monoteismo primordiale”,
affermato invece dall’importante e rivoluzionario studio del P. Wilhelm Schmidt
nel 1912 e dalla sua scuola (vedi, op. cit., Introduzione, pp. 15-24).
[3]
Blaise Pascal, Pensées, in ID., Oeuvres complètes, a cura di J.
Chevalier, Pléiade, Paris, 1954, p. 1089.
[4]
Louis Ott, Précis de théologie dogmatique, tr. fr. dall’originale tedesco
del 1954 dell’Abbé Marcel Grandclaudon, Salvator, Mulhouse-Casterman, Paris,
1955, p. 320. Il termine “attuale” qui
applicato deriva dalla tarda Scolastica e divenne di uso comune dopo il
Concilio di Trento (op. cit., ivi).
[5]
Ott, op. cit., pp. 320-321; p. 324 ss.
[6]
Ott, op. cit., p. 322. L’Autore fornisce
naturalmente tutti i necessari rinvii alla Scrittura, nello spiegare i vari
significati della Grazia, e ai relativi canoni del Concilio di Trento in
materia.
[7]
Op. cit., p. 338. La volontà di salvezza
particolare di Dio, invece, tenendo conto della situazione morale
definitiva di ogni uomo, vuole senza condizione la salvezza di coloro che
lasciano questa vita in stato di grazia.
Questa è la voluntas consequens et absoluta, coincidente con la
predestinazione (op. cit., pp. 338-339). Della grazia santificante e della
predestinazione non ci occupiamo qui. Il Concilio, dato il suo taglio
pastorale, non si preccupò di trattare specificamente della Grazia. L’indice analitico del Concilio edito in italiano
per le Edizioni Paoline, sotto la voce grazia registra 26 entrate. In gran parte si tratta di riferimenti
generici alla necessità dell’aiuto della grazia. La grazia attuale è
comunque richiamata dalla costituzine Dei Verbum sulla divina rivelazione,
all’art. 5 (perché si possa avere la fede “sono necessari la grazia di Dio che
previene e soccorre e gli aiuti interiori dello Spirito Santo”). Spiccano
tuttavia in senso negativo: 1. Il significato che l’Indice crede di attribuire
all’art. 38 della costituzione Gaudium et Spes sulla Chiesa nel mondo
contemporaneo, intitolato in modo peraltro singolare: L’attività umana
elevata a perfezione nel mistero pasquale: “la grazia salva tutti”. 2.
L’attribuzione della “vita di grazia” anche alle comunità dei c.d.
“fratelli separati” in quanto tali, giusta l’art. 3 del decreto Unitatis
Redintegratio sull’Ecumenismo. 3.
L’assenza, salvo errore, di ogni riferimento alla grazia santificante e alla
predestinazione.
[8]
Op. cit., pp. 322-323.
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