mercoledì 28 ottobre 2015

Una curiosa leggenda: Mameli autore dell'inno nazionale

 Un'ostinata, patriottica leggenda attribuisce al garibaldino Goffredo Mameli (1827-1849), genovese di origine sarda  l'onore e il merito di aver scritto (a vent'anni) le parole dell'inno nazionale.
 In realtà il testo dell'inno nazionale fu scritto dal padre scolopio Atanasio Canata,  elegante scrittore e dotto insegnante nelle scuole pie di Carcare (Savona) frequentate dal mediocre studente Mameli.
 I versi dell'inno nazionale, lo dimostra don Ennio Innocenti, “non soltanto risultano sproporzionati per cultura, per una certa quale complessità e per tecnica prosodica, da un diciannovenne Goffredo, per di più ignorantello e alquanto rozzo”.
 La mediocrità e la rozzezza del poeta Mameli, risulta, peraltro dai goffi componimenti anticlericali, composti per essere cantati nelle osterie frequentate da mazziniani s garibaldini.
 L'attribuzione dell'inno nazionale a Mameli si deve a un banale equivoco e a una debolezza del giovanissimo Goffredo, che non seppe rifiutare la fama ottenuta quale autore (presunto) dell'inno patriottico.
 Il padre calasanziano Canata non denunciò il plagio compiuto dal giovane allievo, caduto a Villa Spada, dopo essere stato ferito dalla baionetta di un maldestro commilitone. Ma nel 1889 pubblicò  un componimento poetico, in cui accennava, in forma non troppo enigmatica, alla imbarazzante vicenda dell'appropriazione dell'inno da parte di Mameli:

A destar quell'alme imbelli
meditò robusto un canto
ma venali menestrelli
si rapian dell'arpe il vanto:
sulla sorte dei fratelli
non profuse allor che pianto
e, aspettando nel suo cuore
si rinchiuse il pio cantore,

 L'erronea attribuzione dell'inno nazionale a Mameli è opportunamente rammentato da don Ennio Innocenti, in un puntuale capitolo della nuova edizione di Inimica vis, uscito dai torchi in questi giorni e distribuita dalla Sacra Fraternitas Aurigarum in Urbe, un testo sul quale torneremo a ragionare prossimamente.
 Scrive don Innocenti: “Nel settembre del 1847 il canto fu presentato da Ulisse Bronzino al compositore genovese Michele Novaro in una riunione di patrioti tenuta a Torino nella casa di Lorenzo Valerio  con le precise parole Questo te lo manda Mameli e non è di Mameli”.
 Ora la questione del testo dell'inno nazionale non può essere ridotto a questione puramente letteraria in quanto la dimostrata attribuzione a Don Canata conferma la perenne esistenza di un forte e diffuso sentimento unitario dei cattolici.
 L'amor di Patria e l'aspirazione all'unità infiammò il cuore dei grandi protagonisti della storia cattolica, da San Gregorio VII (primo autore della sconfessione dell'impero di nazione germanica), a Dante Alighieri, a Francesco Petrarca, a Giambattista Vico, al Beato Pio IX, ad Antonio Rosmini, ad Alessandro Manzoni a Pio XII. Memorabili sono altresì le eroiche insorgenze popolari dei Viva Maria!i contro gli invasori giacobini e napoleonici.
 L'unità d'Italia deve essere amata e difesa dai credenti malgrado l'infiltrazione in essa della sciagura massonica e del veleno liberale, perché l'unità nazionale non sarebbe stata ottenuta senza la decisiva partecipazione dei cattolici. Il nodo, il cappio che i cattolici italiani devono scogliere la è la truffaldina storiografia massonica, nella quale si specchiano degnamente figure dello stampo del boia Enrico Cialdini, dell'ammiraglio Carlo Persano, del generale  Fiorenzo Bava Beccaris e del maresciallo Pietro Badoglio.
 In ultima analisi si tratta di separare l'acerba passione garibaldina di Goffredo Mameli dal patriottismo dell'inno di Anastasio Canata, le ragioni cattoliche dell'unità d'Italia dalla surrettizia eversione liberale, la tradizione italiana dalla canaglia liberale, che si mise al traino del patriottismo. 

 L'amor di patria deve essere separato dal disprezzo meritato dagli eversori liberali, che cavalcarono l'aspirazione all'unità in vista di un paese umiliato dalla canaglia (ladrona) laicista e massonica. I padri delle festanti pantegane, che in questi giorni escono squittendo dalle fogne pederaastiche, scavate dalla trivella radical chic.

Piero Vassallo

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